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Vecchio 11-05-2016, 09.21.01   #281
Taliesin
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LA MECENATE DEI TROVATORI: ERMENGARDA DI NARBONA.

Ermengarda di Narbona, in occitano Ainerma(r)da de Nerbona o Ermengarda de Narbona o Naimermada de Narbona, detta anche Ermeniarda o Nesmengarda o Na Esmeniartz (1127/1129 – Perpignano, 1196/1197[1]), è stata una viscontessa di Narbona dal 1134 al 1192/3 e un'importante figura politica dell'Occitania nella seconda metà del XII secolo.

Figlia di Almerico II di Narbona e della sua prima moglie, dalla quale prende il nome, Ermengarda è altrettanto nota per essere stata una trobairitz e mecenate di trovatori, tra i quali Peire Rogier, Giraut de Bornelh, Peire d'Alvergne, Pons d'Ortafas, Salh d'Escola e Azalais de Porcairagues.


Almerico II viene ucciso nella Battaglia di Fraga il 17 luglio del 1134, lottando contro gli almoravidi insieme ad Alfonso I d'Aragona, lasciando eredi le sue due figlie: l'infante Ermengarda e la sorellastra più piccola, Ermessinda (figlia avuta con la sua seconda moglie, anche costei con lo stesso nome della madre). Almerico, come risulta da numerosi documenti dell'epoca, aveva almeno un figlio, anche costui chiamato Almerico, morto prima di lui (ca. 1130)[2]. Ermengarda, dunque, a cinque anni o poco più eredita la viscontea di Narbona che, occupando un posto strategico nella politica della Linguadoca, farà gola a diversi pretendenti: i conti di Tolosa, i conti di Barcellona, i Trencavel visconti di Carcassona e i signori di Montpellier.


Alfonso I di Tolosa, rivendica per sé i diritti alla reggenza di Narbona durante la minorità di Ermengarda, invadendo la viscontea nel 1139, sostenuto in questo dall'arcivescovo Arnaud de Lévezou. Come attestato in un documento, nello stesso anno, Ermengarda si trova Vallespir nel territorio di suo cugino Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona, presso il quale deve aver trovato rifugio di fronte alla minaccia proveniente da Tolosa.


Un "frammento di una cronaca ebraica"[3] redatta verso l'anno 1160 attesta che nel 1142, Alfonso, la cui moglie Faydid di Uzes era morta di recente o forse era stata ripudiata, cerca di sposare l'allora adolescente Ermengarda. Di fronte a questa prospettiva, che avrebbe capovolto l'equilibrio di potere nella regione con l'aggiunta di Narbona sotto il diretto controllo di Tolosa, si viene a formare una coalizione di signori occitani condotta da Ruggero II di Béziers, visconte di Carcassona, Béziers, Albi e Razès. Nel 1143 Ermengarda sposa Bernardo di Anduze, vassallo di Ruggero II. Alfonso, sconfitto dalla coalizione e fatto prigioniero, è costretto prima di essere liberato a fare pace con Narbona restaurando Ermengarda e il suo nuovo marito nella viscontea.


Nel 1177 Ermengarda mise insieme una coalizione formata da Gui Guerrejat (l'amante di Azalais de Porcairagues), Bernardo Ato V di Nîmes e Agde (nipote di Gui), Guglielmo VIII di Montpellier e Gui Burgundion, onde opporsi a Raimondo VI di Tolosa, il cui potere improvvisamente s'era accresciuto allorché, rimasto vedovo di Ermessenda di Pelet, era diventato governatore di Melgueil.


L'associazione di Narbona con la poesia trobadorica sembra risalire ai primi tempi di questo innovativo movimento, in quanto è una delle sole corti esplicitamente menzionate, unitamente a Poitiers e a Ventadour, da Guglielmo IX di Poitiers (1086-1127), il primo trovatore di cui si sono conservate le canzoni[4][5].


All'epoca in cui Ermengarda governava Narbon, la poesia lirica del fin'amor era al suo apogeo in Occitania. Le numerose allusioni positive a Narbona contenute nelle opere dei trovatori contemporanei sembrano attestare il ruolo di mecenate della viscontessa che la storiografia tradizionale sovente le attribuisce[6][7]

Il trovatore, il cui nome viene più spesso associato alla corte della viscontessa di Narbona, è Peire Rogier il quale, secondo la sua vida redatta verso la fine del XIII secolo[8], dopo avere abbandonato il suo stato di canonico a Clairmont si fece menestrello, pervenendo così a Narbona...

(OCCITANO)
« E venc s’en a Narbona, en la cort de ma domna Ermengarda, qu’era adoncs de gran valor e de gran pretz. Et ella l’acuilli fort e ill fetz grans bens. E s’enamoret d’ella e fetz sos vers e sas cansos d’ella. Et ella los pres en grat. E la clamava « Tort-n’avez ». Lonc temps estet ab ela en cort e si fo crezut qu’el agues joi d’amor d’ella; don ella·n fo blasmada per la gen d’aqella encontrada. E per temor del dit de la gen si·l det comjat e·l parti de se »

(IT)
« ... alla corte di Ermengarda, all'epoca dama di grande valore e meriti, la quale lo accoglie cordialmente donandogli molti benefici. Lui se ne invaghisce e la canta nei suoi versi e canzoni. Ermengarda apprezza molto Peire Rogier il quale la chiama con il senhal Tort-n’avez (« Avete torto »). Soggiorna molto tempo alla corte narbonese, e si presume fosse corrisposto in amore dalla contessa, la quale, biasimata dalle genti di questa contrada e temendo le dicerie, lo congedò e gli permise di allontanarsi da lei »
(Peire Rogier, Vida anonima)

È ad Ermengarda che la trobairitz Azalaïs de Porcairagues si rivolge nella tornada della sua canso[9]:
(OCCITANO)
« ves Narbona portas lai / ma chanson [...] / lei cui iois e iovenz guida »
(IT)
« verso Narbona, portate la mia canzone [...] presso colei che gioia e giovinezza conduce »
(Azalaïs de Porcairagues, Ar em al freg temps vengut)
Bernard de Ventadour dedica un'altra canso alla sua
(OCCITANO)
« midons a Narbona / que tuih sei faih son enter / c'om no·n pot dire folatge »
(IT)
« dama di Narbona alla quale ogni gesto è sì perfetto che non le si può dir mai male »
(Bernard de Ventadour, canso 34, La dousa votz ai auzida, VIII, 58-60)
Secondo Linda Paterson[10], Raimon de Miraval sembra evocare la reputata generosità verso i trovatori, allorché manda un sirventès "valente", tramite il suo giullare, dove dice:
(OCCITANO)
« caval maucut / Ab sela de Carcassona / Et entressenh et escut / De la cort de Narbona »
(IT)
« un cavallo panciuto, con una sella di Carcassona, e un'insegna e uno scudo della corte di Narbona »
(Raimon de Miraval, sirventès XXIX, A Dieu me coman, Bajona, I, 5-8)

Secondo la sua vida, il trovatore perigordino Salh d'Escola soggiorna presso « N'Ainermada de Nerbona ». Alla morte della sua protettrice lui "abbandona l'arte « trobadorica » e il canto" per ritirarsi nella sua città natale di Bergerac[11]. I curatori della vida, Jean Boutière e Alexander Schutz, propongono d'identificare la dama in questione con Ermengarda, il cui nome potrebbe essere stato corrotto durante la copia del manoscritto[12].


Nella sua canzone La flors del verjan, il trovatore Giraut de Bornelh propone di consultare « Midons de Narbona » (traducibile sia come « mia signora » che « mio signore » di Narbona) a proposito di una questione di casisitca amorosa[7].

La viscontessa sarebbe stata relazionata anche con un altro dei trovatori, in particolare Peire d'Alvergne[13].

Probabilmente verso il 1190[14], un chierico francese di nome Andrea Cappellano (in latino, Andreas Capellanus) scrisse un "trattato sull'amor cortese" (in latino, De Arte honeste amandi o De Amore), che ebbe un'importante diffusione nel corso del medioevo. Nella seconda parte del trattato, su « come conservare l'amore », l'autore presenta 21 « giudizi d'amore » i quali sarebbero stati pronunciati dalle dame più grandi del regno di Francia; sette di questi giudizi sono attribuiti a Maria di Francia, contessa di Champagne, tre a sua madre, Eleonora d'Aquitania, altri tre a sua cognata, la regina di Francia Adele di Champagne, due a sua cugina, Elisabetta di Vermandois, contessa di Fiandra, uno all'"assemblea delle dame di Guascogna" e cinque a Ermengarda di Narbona (giudizi 8, 9, 10, 11 e 15), l'unica dama designata dall'autore non imparentata con le altre[15]. Nonostante il carattere probabilmente fantasioso di questi giudizi, essi attestano la fama di cui godeva Ermengarda nel campo dell'amor cortese, anche nella cultura e nelle regioni di lingua d'oïl.


Si pensa inoltre che Ermengarda avesse accolto nella sua corte Rognvald II di Orkney, un principe, poeta e musicista vichingo, durante il viaggio in terra Terra Santa[16], il quale compose per lei una poesia scaldica.[17]
Dopo il 1121 è arcivescovo di Narbona Arnaud de Lévézou, un vecchio amico del conte di Tolosa Alfonso Giordano. Alla sua morte, avvenuta nel 1149, per consolidare il suo dominio sulla viscontea, Ermengarda decide di far nominare arcivescovo suo cognato Pietro II, in modo che i poteri ecclesiastici e laici possano essere uniti nel Narbonese.[18]


Nel 1157, la viscontessa Ermengarda dona all'abbazia cistercense di Fontfroide un vasto possedimento di terre. Questa donazione segna l'inizio della potenza territoriale e religiosa del monastero che rapidamente attirerà altre donazioni, affermandosi come santuario della famiglia vicecomitale di Narbona[19].

Non avendo avuto figli, dopo due infelici matrimoni, Ermengarda designa come erede Pedro Manrique de Lara, il secondo e il primo dei figli sopravvissuti della sorellastra Ermessinda (morta nel 1177) avuti dal conte Manrique Pérez de Lara (ucciso in battaglia a Garcianarro il 9 luglio del 1164)[20]. Nel 1192 Ermengarda abdica in favore di Pietro, ritirandosi a Perpignano, dove morirà cinque anni più tardi.


Taliesin, il Bardo


tratto da wikipedia

1.^ (EN) Toulouse nobility, fmg.ac, agosto 2012. URL consultato il 19 marzo 2013.
2.^ I figli maschi, attestati in più documenti dell'epoca, erano morti prima di lui: il primogenito Almerico, in particolare, appare in tre documenti a fianco di suo padre tra il 1126 e il 1132; un atto del giugno del 1131, mediante il quale il visconte s’impegna con i « suoi figli », prova che essi fossero comunque almeno due a questa data
3.^


« I giorni di Rabbi Todros (Todros II, capo della comunità ebraica di Narbona verso il 1130-1150) furono tempi di grande calamità per la città, poiché il signore di Narbona, Don Aymeric, venne ucciso nel corso della battaglia di Fraga, senza lasciare eredi [che gli sopravvivessero], e il governo della città venne lasciato nelle mani di Donna Esmeineras [Ermengarda], ancora minorenne, terza [dei suoi tre figli]. E i grandi paesi ambivano alla sua eredità, in quanto [la viscontea] è grande e ricca, e la persuasero dunque con tutte le loro forze a sposare il signore di Tolosa, Don Alfonso. Ma il conte di Barcellona, Raimondo Berengario, nemico di questi e parente di Donna Esmeineras persuaderà costei a rifiutarne la mano, consigliandole di sposare Don Bernardo d’Anduze. Si scatena così una guerra che vede la città di visa in due fazioni: una metà appoggia la viscontessa e i suoi consiglieri, mentre l'altra si schiererà con il conte di Tolosa, Don Alfonso. Ora, prima [di questi avvenimenti], vi era a Narbona una grande comunità ebraica di circa duemila unità, tra cui grandi [personaggi] e studiosi di fama mondiale. A causa di queste lotte, essi si disperdettero nel territorio di Anjou, di Poitou e in Francia. Durante questa guerra un pesante tributo fu imposto alla comunità [ebraica] »



(Traduzione francese di Aryeh Graboïs dal testo ebraico originale, in Graboïs 1966, p. 24-25)


4.^ Anglade, op. cit., p.737-738
5.^ Ruth Harvey, « Courtly Culture in Medieval Occitania », in Simon Gaunt et Sarah Kay, éd. The Troubadours: An Introduction, Cambridge / New York, Cambridge University Press, 1999, p. 15.
6.^ (FR) Joseph Anglade, Les troubadours à Narbonne, vol. 23, nº 2, Romanische Forschungen, 1907, pp. 737-750, ISSN 0035-8126. URL consultato il 18 marzo 2013.
7.^ a b (EN) Derek E. T. Nicholson, The Poems of the Troubadour Peire Rogier, Manchester / New York, Manchester University Press / Barnes & Noble, 1976, pp. vii-171, ISBN 0-7190-0614-7.
8.^ (FR) Fredric L. Cheyette, Ermengarde de Narbonne et le monde des troubadours, Aude Carlier (traduttore), Paris, Perrin, 2006, p. 538, ISBN 978-2-262-02437-6. URL consultato il 19 marzo 2013.
9.^ (EN) Fredric L. Cheyette, Women, Poets, and Politics in Occitania, in Theodore Evergates (a cura di), Aristocratic Women in Medieval France, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1999, pp. 138-177, ISBN 978-0-8122-1700-1. URL consultato il 19 marzo 2013.
10.^ (EN) Linda Mary Paterson, The World of the Troubadours : Medieval Occitan Society, c. 1100-c. 1300, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p. 384, ISBN 0-521-55832-8.
11.^ Vida anonima di Salh d'Escola, testo originale occitano:


« Salh d'Escola si fo de Barjarac, d’un ric borc de Peiregorc, fils d’un mercadier. E fez se joglar e fez de bonas cansonetas. Et estet cum N’Ainermada de Nerbona; e quant ella mori, el se rendet a Bragairac e laisset lo trobar e’l cantar »


12.^ (FR) Jean Boutière et Alexander Herman Schutz, éditeurs, Biographies des troubadours : textes provençaux des XIIIe et XIVe siècles, Paris, A.-G. Nizet, 1973, lvii-641.
13.^ (FR) Jacqueline Caille, Ermengarde, vicomtesse de Narbonne (1127/29-1196/97), une grande figure féminine du Midi aristocratique - La Femme dans l'histoire et la société méridionales (IXe-XIXe siècles). (PDF), 66e congrès de la Fédération historique du Languedoc méditerranéen et du Roussillon (Narbonne, 15-16 octobre 1994), Montpellier, Arceaux 49, 1995, pp. 9-50, ISBN 978-2-900041-19-2.
14.^ Vedi anche verso il 1180, Elisabetta di Vermandois, contessa di Fiandra, e il suo matrimonio nel 1159 con Filippo d'Alsazia, conte di Fiandra quando lei era ancora una bambina, contessa di Vermandois succeduta a suo fratello Raoul II, morta il 28 marzo del 1183; i suoi beni devono passare alla sua sorella, Eleonora, e tramite testamento di costei al re Filippo Augusto, vi sarà la guerra, avendo il conte di Fiandra conservato il Vermandois ingiustamente.
15.^ (EN) John Jay Parry, « Introduction », dans John Jay Parry, traducteur, The Art of Courtly Love by Andreas Capellanus, Columbia University Press, New York, riedizione, 1990 (1941, 1959, 1969), p. 20.
16.^ (FR) Jean Renaud, LXXXVI « la Croisade », in La Saga des Orcadiens, Traduite et présentée par Aubier Paris (1990), Parigi, Aubier, 1990, pp. 195-197, ISBN 978-2-7007-1642-9.
17.^ (EN) Jacqueline Caille, « Une idylle entre la vicomtesse Ermengarde de Narbonne et le prince Rognvald Kali des Orcades au milieu du XIIe siècle ? », dans G. Romestan (dir.), Art et histoire dans le Midi languedocien et rhodanien Xe-XIXe siècle. Hommage à Robert Saint-Jean. Mémoires de la Société archéologique de Montpellier, 21, 1993, p. 229-233
18.^ (FR) Jean-Luc Déjean, Quand chevauchaient les comtes de Toulouse, 1050-1250, Fayard, 1979, pp. 148-149.
19.^ (FR) François Grèzes-Rueff, L'abbaye de Fontfroide et son domaine foncier aux XIIe et XIIIe siècles, in Annales du Midi, vol. 89, 1977, pp. 256-258, ISSN 0003-4398.
20.^ (EN) Spanish nobility, fmg.ac, agosto 2012. URL consultato il 19 marzo 2013.
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Vecchio 11-05-2016, 21.45.34   #282
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Queste lande sono così ricche di passioni, sentimenti, storia e grandi donne idolatrate come dee..Grazie per questa nuova donna che ha preso vita dalla vostra penna.
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"Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte". E.A.Poe

"Ci sono andata apposta nel bosco. Volevo incontrare il lupo per dirgli di stare attento agli esseri umani"...cit.

"I am mine" - Eddie Vedder (Pearl Jam)

"La mia Anima selvaggia, buia e raminga vola tra Antico e Moderno..tra Buio e Luce...pregando sulla Sacra Tomba immolo la mia vita a questo Angelo freddo aspettando la tua Redenzione come Immortale Cavaliere." Altea
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Vecchio 13-05-2016, 14.59.58   #283
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Perfino le Dee di perduta memoria omerica sarebbero impallidite difronte alla corposità ed alla carnalità di queste Donne che, nel loro tempo difficile, oltre lo spazio, il luogo e le dogmatiche tradizioni, seppero essere amate generando amore in ogni forma ed in ogni direzione. Quanta bellezza, quanto rispetto che aleggia dietro le loro storie, ma soprattutto quale valore antico e maestoso, schiacciante perfino sulla macabra Danza estrema della Signora Senza Pietà...

Come sempre grazie Lady Altea, vostro eterno debitore...

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Vecchio 20-05-2016, 08.30.10   #284
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LA COLOMBA DI RIETI: ANGIOLELLA GUADAGNOLI.

Nata a Rieti nel 1467, Angiolella Guadagnoli fu da subito chiamata Colomba, perché al fonte battesimale le si avvicinò proprio una colomba e ciò fu interpretato come segno di predilezione divina. Fin dall'infanzia, viste le severe penitenze che si infliggeva e la vita di preghiera che conduceva, fu considerata una piccola santa. Come il glorioso Padre Domenico, essa, fin dalla culla, rivolse il cuore a Dio, e iniziò, con passo deciso, l’ascesa verso la santità. Ancora in fasce si privava del latte materno. A tre, a sette, a dieci anni le sue penitenze uguagliarono quelle dei più rigidi anacoreti. Il cielo non solo la favori di altissima contemplazione, ma l’arricchì di doni straordinari, come la profezia, la scrutazione dei cuori e i miracoli. A dieci anni consacrò a Dio la sua verginità, e, per perseverare nel suo proposito e vincere le opposizioni dei genitori, si recise la bella chioma. Promessa in sposa a un nobile quando aveva appena 12 anni, rifiutò risolutamente il matrimonio d'alto lignaggio e sette anni dopo, nonostante l'opposizione della famiglia, vestì l'abito di terziaria domenicana. Si mise, poi, in cammino verso Siena, la patria del suo modello di vita, santa Caterina. Una serie di avversità la bloccò, però, a Perugia, dove rimase e fondò un monastero dedito all'educazione delle fanciulle nobili, chiamato delle "Colombe". Anche fuori del Chiostro svolse un fecondissimo apostolato. Soccorse tutte le miserie dell’anima e del corpo, pacificò gli animi dei cittadini divisi da partiti e da lotte fratricide, stornò con le sue preghiere e con le sue suppliche i divini castighi, pronti a scagliarsi sulla città colpevole. Essa fu per i perugini l’Angelo inviato da Dio, troppo presto, però, tolto a loro, perché volò al premio, il 20 maggio 1501, a soli 33 anni. Dal 1488 al 1501, data della morte, si adoperò per sanare le discordie della città (fu ascoltata consigliera dei potenti Baglioni, i signori di Perugia). E la salvò dalla peste nel 1494. Papa Urbano VIII il 25 febbraio 1627 ha riconosciuto il culto.

Taliesin, il Bardo

Tratto da www.santiebeati.it
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Vecchio 20-05-2016, 14.34.48   #285
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Che questa donna illuminata dal Signore possa essere in queste vostre parole come una Colomba..messaggera di Pace, in questo mondo ve ne è bisogno.
Una donna la cui via al Signore fu destinata già prima di nascere e chissà..forse davvero un "Angelo" sceso in Terra.
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Vecchio 01-06-2016, 15.58.44   #286
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LA MOGLIE DI FRA’ DOLCINO: MARGHERITA BONINSEGNA DA TRENTO.

Molto poche e controverse sono le notizie circa Margherita da Trento († 1307), al punto che persino la sua identità è in forte dubbio. Ci troviamo dunque di fronte ad un caso storiografico molto particolare: la dimensione mitica della sua figura prevale decisamente su quella effettivamente storica.

Di Margherita, indicata non da tutta la storiografia successiva come Margherita da Trento (diversi autori le conferiscono una cittadinanza diversa), si presume che fosse originaria di Arco, la qual cosa torna in alcuni verbali dei processi contro presunti seguaci dolciniani, celebrati nel 1332-33 a Trento. In questa zona Dolcino con alcuni fideles era giunto intorno al 1303, in fuga dall'inquisizione e proveniente dall'Emilia probabilmente attraverso l'altopiano di Asiago, e dunque trent'anni dopo l'inquisizione pensa esista ancora il problema di una severa ricognizione, a fini repressivi, su eventuali superstiti della secta Dulcini. Sempre in Trentino, una precedente tornata di processi contro presunti dolciniani si era avuta nel 1303-4, e proprio a questa lontana vicenda si riferisce Boninsegna di Odorico da Arco, interrogato ancora nel 1332, il quale ricorda che, in quanto fratello di Margherita, "punitus fuit graviter et condemnatus in ccc lib. et plus". Raniero Orioli annota che Boninsegna, il 31 dicembre 1332, riferendosi ai dolciniani, dichiara di fronte all'inquisitore: "Molti li seguivano, tanto che sua sorella Margherita, per altro senza che egli ne fosse al corrente, fuggì insieme con loro con quattro ragazzi ed uomini del posto", e "sentì dire più di vent'anni fa che sua sorella era stata catturata a Novara e con altri messa al rogo". Dunque Margherita, conosciuto Dolcino in quel frangente, quando questi si sposta ancora dal Trentino verso le montagne di Valsesia, lascia la sua terra e lo segue: questo almeno è certo.

La Historia fratris Dulcini heresiarche dell'anonimo cronista conosciuto come Anonimo Sincrono parla di Margherita in alcuni passi nella sua parte finale: "... l'eresiarca Dolcino fu preso vivo sui monti di Trivero insieme con Margherita di Trento sua compagna e Longino di Bergamo, della famiglia dei Cattanei da Fedo o da Sacco, che erano dopo Dolcino i personaggi di maggior spicco della setta"; e, riferendosi alla condanna e al rogo: "... Allora il Vescovo, convocati in gran numero prelati, religiosi, chierici e laici esperti in diritto, dopo aver deliberato, secondo la prassi e con avvedutezza, consegnò al braccio secolare Dolcino, Longino e Margherita di Trento e questa fu bruciata per prima su una colonna alta, posta sulla riva del Cervo e lì appositamente collocata perché fosse ben visibile a tutti. Fu arsa alla presenza e sotto gli occhi di Dolcino"; e infine: " ... Tuttavia nessuno di loro, neppure Margherita "la bella", volle mai convertirsi, né pregato o per denaro o in qualunque altro modo, al Signore Gesù Cristo e alla vera fede cattolica. Ma così miserabili e pertinaci nella loro ostinazione e durezza di cuore morirono".

Nel De secta illorum qui se dicunt esse de ordine apostolorum, allegato da Bernard Gui alla sua Practica inquisitionis haereticae pravitatis (fondamentale manuale ad uso degli inquisitori dell'"eretica pravità", Margherita viene definita "scellerata compagna di Dolcino ( di delitti e di follia), e l'aggettivo "malefica" utilizzato dall'inquisitore tolosano già fa presagire il nucleo di un'operante streghizzazione, che darà i suoi frutti avvelenati nella caccia alle streghe in particolare nei secoli XVI e XVII. Esponendo i contenuti della epistola ad fideles inviata da Dolcino nel dicembre 1303, Gui dice che Dolcino considerava Margherita "più di tutti a lui carissima (pre ceteris sibi dilectissimam)", e descrivendo la loro esecuzione dice che "le membra di entrambi, insieme con quelle di altri loro complici, furono messe al rogo, come giustamente esigevano i loro delitti". Accenna pure ad uno stato di gravidanza della donna al momento della cattura. Al proposito va però ricordato che le norme impedivano di porre al rogo donne incinte, è dunque presumibile che, se fosse davvero stata incinta al momento della cattura, nei circa tre mesi che intercorsero prima del rogo Margherita abortì, non sappiamo se spontaneamente o coattivamente: circostanza che aggiunge ulteriore drammaticità alla sua personale vicenda.

Nella Lettera diretta alle regioni di Spagna contro i seguaci dell'eretico Dolcino che falsamente si dicono e professano apostoli di Cristo, il Gui reitera il giudizio su Margherita "compagna (di Dolcino( nel delitto e nell'errore". Questo è in sostanza ciò che sappiamo dalle principali fonti coeve.

Dalle tradizioni successive

Benvenuto da Imola, nel suo Commento a Dante, Inferno XXVIII, afferma di Dolcino: "... Catturato insieme a sua moglie Margherita", descritta come dotata di una "pulchritudinem immensam". Ma Benvenuto scrive la sua opera una settantina d'anni dopo la morte di Dolcino e Margherita, è dunque già impossibile considerarlo come una fonte coeva. Qui Margherita è già diventata "moglie" di Dolcino. Con Benvenuto da Imola si inaugura così una tradizione più orientata al mito che alla storia, la quale avrà sviluppi fantasiosi i più mirabolanti, riferibili quasi in egual misura alle due storiografie fortemente ideologiche che per secoli si confronteranno, l'una tesa alla criminalizzazione e demonizzazione degli apostolici, l'altra all'opposto tesa all'idealizzazione positiva.

Sul primo versante, un esempio ottocentesco, può bastare a segnare questo mito negativo. Il sacerdote Gerolamo D. Moglia così descrive l'incontro di Dolcino con Margherita in terra trentina: "Non andò molto che il laido uomo seppe che l'orfana Margherita era stata per la sua educazione collocata dai suoi parenti nel Monastero di S. Caterina di quella città. Allo scaltro impostore non ci volle altro e colle maligne sue arti seppe sì bene raggirarsi, che di lì a poco fu ammesso in quello stesso monastero nella qualità di spenditore. Il nuovo suo impiego gli porse il destro di avvicinarsi all'adocchiata preda: confabulò con essa alcuna volta e l'affascinante sua parola non tardò a produrre il suo effetto. Margherita dotata d'animo fiero, penetrante, risoluto e tenace era già sua".

Sul secondo versante, può bastare la seguente descrizione operata da Nino Belli e Giuseppe Ubertini in un piccolo libro edito in occasione del VI centenario del martirio di Dolcino e Margherita, nel 1907: "Ma non è più solo. L'accompagna una giovane donna, bella di corpo e bella d'animo, la gagliarda Margherita, sublime creazione di donna, appassionata e fedele come la Eloisa di Abelardo, grande nella sventura e nel martirio...".

Il fascino di questi toni leggendari ha ispirato anche una vasta produzione poetica e romanzesca sino ai nostri giorni.
La tradizione ci consegna dunque Margherita bella, indomabile, incorruttibile, "munga" cioè monaca. Il termine monaca, passato nella tradizione popolare, può riferirsi non tanto ad un effettivo status monacale della donna prima dell'incontro con l'eretico, quanto alla non-distinzione tra i montanari valsesiani del trecento tra un'identità religiosa - dall'inquisizione definita "eretica" - ed il concreto appartenere ad un ordine ufficialmente costituito. Per i montanari valsesiani che incontrano gli apostolici, essi possono essere stati considerati monaci o addirittura santi proprio a ragione della credibilità del messaggio e dello stile di vita. "Monaca" come parola popolare si contrappone dunque alla definizione "scellerata compagna di delitti e di follia" che si trova in Bernard Gui. Possiamo dire che la memoria popolare conserva un ricordo e giudizio positivo di Margherita, e oppositivo rispetto a quello dell'inquisizione e della cultura interpretativa che ne derivò.

Dunque, per restare fedeli alla storia, la vicenda conosciuta di Margherita da Trento è racchiusa in un periodo di tempo di soli tre anni. Incontra Dolcino, abbandona tutto per seguirlo, muore sul rogo senza abiurare la propria scelta-airésis. Una scelta affettiva, religiosa, etica anche di fronte al rogo. Qui sta l'umanità di una donna dalla personalità completa, che emerge dalle cronache insieme a molte altre donne "apostoliche", circa un'ottantina, di estrazione sociale e culturale assai diversa tra loro, ricettatrici o fautrici interne o attigue al movimento sin dal suo sorgere con Gherardino Segalello intorno al 1260 nel parmense. Altre donne apostoliche prima di Margherita avevano conosciuto il rogo, sia a Parma che in Trentino. Altre donne apostoliche avevano incontrato i rigori dell'inquisizione, il carcere e la tortura. Però Margherita, forse proprio per la brevità drammatica del suo apparire e scomparire dal palcoscenico della storia, viene rivestita di quell'alone leggendario che solo a lei è riservato.

Perché?

Per essere stata amata da Dolcino, perfidus heresiarcha? Forse.

Perché affronta il rogo senza l'abiura che l'avrebbe salvata? Forse.

Perché in quanto "bella" avrebbe facilmente potuto scegliere altre strade da seguire, ben lontane dai dirupati sentieri della montagna in rivolta? Forse.

Ma, insieme a questi motivi, Margherita diviene leggenda proprio in ragione della completezza del suo essere donna: non mistica o scienziata o polemista o "perfetta" nella sua fede. Solo donna, con tutta la sua femminilità. Semplicemente donna, che sceglie e porta sino in fondo la propria scelta.
Proprio questa completezza, semplicità e disarmante linearità della sua persona è impensabile allo spiritus inquisitionis, incapace di catalogarla nelle sue categorie interpretative predefinite e autoreferenziali. Il femminile è impensabile per l'inquisizione, e piuttosto che la mulier opera già la malefica, cioè la strega.
Nel caso di Margherita e del triennio che la vede protagonista, se ci riflettiamo bene incontriamo la sua figura soltanto in luoghi impervi di montagna. Margherita e la montagna: una donna e la montagna. Il nemico, al contrario: uomini, solo uomini della città. Donna e montagna che resistono contro un universo maschile e cittadino. Margherita aiuta, da questo punto di vista, a spiegare anche, almeno in parte, l'accoglienza e l'ospitalità che i montanari valsesiani riservano ai pochi dolciniani che giungono: gli eretici hanno con sé anche alcune donne, e la figura femminile è prioritaria e carismatica nella società arcaica di montagna, con la sua cultura sciamanica e la sua sapienza antica.
Possiamo anche cercare d'immaginare la scena.

Pochi uomini e donne laceri, mendicanti volontari, in fuga dall'antico nemico della stessa autonomia e libertà per la quale la gente di montagna aveva spesso combattuto, giungono fra le casupole del piccolo borgo rustico trecentesco di Campertogno, condotti qui da due uomini del posto, dolciniani essi stessi: Milano Sola e Federico Grampa. Sulla piccola piazza malamente lastricata di pietre sconnesse accorrono gli uomini del villaggio, dietro sono le donne vestite di nero, i volti rugosi, scabri, come scavati dalle intemperie, dal sole, dal freddo. Tutti magrissimi, segnati dalla fatica quotidiana e dalla cronica scarsità alimentare. Gli eretici chiedono rifugio. Parlano con gli uomini del villaggio, si aspettano aiuto e salvezza. Le donne del paese ascoltano in silenzio, più defilate. La loro vita è sempre fatta più di silenzio che di parole. Parole ne sanno poche, e quelle che sanno rispondono ad un lessico ancestrale, glossolalico, dialettale, difficilmente comprensibile per chi viene da fuori. Alla fine gli uomini del villaggio si rivolgono alle loro donne: li accogliamo o no? Scelta non facile, anche perché sfamare bocche in più potrebbe essere un azzardo rischioso. Forse non c'è stata neppure una risposta detta, solo un cenno del capo o uno sguardo. La risposta è sì. Le donne del villaggio alla fine prendono la decisione. Qui inizia la storia di una resistenza montanara ed ereticale che assurgerà ad epopea dai tratti apocalittici, oggetto di studio e di scontro ideologico per sette secoli a venire. Le donne del villaggio, prima di annuire, hanno guardato i nuovi venuti e le loro donne. Hanno guardato Margherita e le altre. Hanno visto boni homines e bonae mulieres. E poi hanno annuito.

I nuovi venuti, allora, entrano esausti nelle casupole dai tronchi e dai muri a secco anneriti dal fumo, con il fuoco al centro della stanza, con pochi, scheletrici animali lì ad alimentare di calore la grama vita degli umani. Un pezzo di formaggio, un tozzo di pane raffermo che durava anche un anno, acqua e un po' di calore, di riposo. E' la salvezza, almeno momentanea, dal nemico. Una salvezza che in grande misura parla un linguaggio femminile.

Linguaggio e carisma femminile

Con Margherita, un cristianesimo che a sua volta parla un linguaggio anche femminile, che non riserva alla donna un ruolo subordinato, incontra una società ove la custodia della dimensione spirituale è riservata sostanzialmente alle donne. Questo incontro tra eresia e montagna è il vero pericolo avvertito dal sistema che nutre la sua cultura di spiritus inquisitionis, e dunque decide di utilizzare uno strumento già ampiamente sperimentato: la crociata contro il nemico interno, per troncare questo legame.

"Carisma": questa è la parola chiave per capire l'incontro tra dolcinianesimo, dolciniani e montagna, montanari. Non "eresia" o "ortodossia": concetti troppo dotti, parole sconosciute alla fierezza indomabile degli umani delle alte quote. Carisma, che significa credibilità, autorevolezza, rispettabilità offerte e recepite gratuitamente, non in ragione del do ut des che, con il mercato in espansione, il potere, la soggezione, sale dalle città "politiche" verso le terre incolte e selvagge popolate dai miti e riti dell'arcaico che non vuole morire. Le terre alte sono "impolitiche" in quanto storicamente in opposizione alla polis e a tutto il suo sistema. Apollo, il fondatore di città, trova qui l'irriducibile Dioniso, con le sue Baccanti, la sua Sibilla, i suoi Fauni custodi del sogno. Trova la resistenza strutturale di tutto quel variegato popolo che foris stat e rifiuta di entrare non solo all'interno delle mura della città, ma anche all'interno delle sue logiche espansive.

Margherita esprime il carisma femminile. E le donne del villaggio lo sanno, lo comprendono. "Com-prendere": e com-prendono gli eretici, li prendono con sé. Perché sentono assonanze tra loro: poveri gli uni e gli altri, visti con ostilità dalla città gli uni e gli altri, comunitari gli uni e gli altri, irriducibili gli uni e gli altri al linguaggio dell'uno. Ma liberi gli uni e gli altri, gli uni in ragione di un cristianesimo della libertà o liberazione immanente e imminente - secondo l'escatologica teologia della storia di Dolcino -, gli altri in ragione della montagna che difende la propria antica identità e autonomia.

Poco tempo passerà nella quiete, prima della battaglia. In questo frattempo Margherita segue le donne vestite di nero, nel bosco, al pascolo, alla cucina magica e alle cure sciamaniche per gli ammalati, fatte di sapienza e di erbe, di parole e invocazioni ad altri sconosciute. Impara, ascolta, racconta specie la sera intorno al fuoco. Come si può rescindere un legame umano e affettivo di questo genere, che si fonda sulla gratitudine per la salvezza raggiunta? Quando il nemico giungerà, uomini e donne della montagna prenderanno i loro arnesi da lavoro e da caccia e combatteranno, e con loro Dolcino, Margherita e gli altri "ereticati". Il legame tra loro s'è fatto indistruttibile: è la fraternitas di chi resiste per sé e per un'idea di libertà.

Il prezzo dell'accoglienza

Il prezzo che sarà fatto pagare ai montanari per l'accoglienza riservata gli eretici è dei più pesanti: molti moriranno combattendo, anche donne, molti altri saranno costretti, e tra questi i soggetti femminili più deboli evidentemente, ad abbandonare la propria terra e a raggiungere terre lontane mendicando quivi una nuova, derelitta esistenza: "... Itaque in illa contrata fere per decem miliaria pauci vel nulli habitabant et remansit contrata illa derelicta et gentes illius contrate discurrebant per alienas patrias mendicando". Non è difficile immaginare che proprio di donne si trattasse, in prevalenza, quelle più deboli, anziane o con figli piccoli per mano. Portano lontano dalla loro terra la propria disperazione, il cupo sentimento della distruzione, del lutto e della sconfitta, il ricordo del tempo perduto e dei luoghi natii dai quali mai prima si erano allontanate, e forse il sogno di una rivincita e di una vendetta.

Communitas

Dolciniani e montagna hanno un sistema di valori in comune che può essere sintetizzato nel concetto di "comunità carismatica": quella apostolica, a cui la teologia della storia di Dolcino ha affidato un compito storico universale vissuto nell'ansia dell'imminenza, quella rustica originaria che racchiude lo spirito ancestrale della natura animata. Qui risiede la condizione storica dell'incontro possibile tra un cristianesimo anti-cattolico e la società arcaica delle alte quote. Fenomeno non nuovo nella storia, se si riflette per esempio sulla vicenda valdese, sulla vicenda catara tragicamente conclusasi a Montségur, su quella dei giovannali di Corsica, successiva di mezzo secolo alla vicenda dolciniana. Forse, più di altre analisi, può bastare a dimostrazione dell'analogia tra epilogo della vicenda catara ed epilogo della vicenda dolciniana, accostare le immagini del Monte Sicuro (figura 7) e del Monte Rubello (figura 8), le cui somiglianze morfologiche appaiono veramente impressionanti, entrambi teatro di tragiche sconfitte eretiche e conseguenti massacri, in battaglia (al Monte Rubello) o in rogo collettivo (a Montségur). Gli eretici (o meglio: ereticati) vengono progressivamente cacciati dalle città e spinti sulle montagne, ultime terre di rifugio, ultime terre di libertà. E qui, infine, sconfitti e trucidati.

La comunità, dicevamo: ma può esistere una comunità concreta e "totale" nel suo spiritus libertatis senza o contro il femminile storico e spirituale? No, se per "totale" s'intende il rifiuto di qualsiasi dimensione legata al possesso. Può esistere un monastero, ma esso è già possesso, spazio conclusus, e in quanto tale elemento - secondo i dolciniani - non cristiano, cioè non fedele alla sequela Christi.
Coloro che effettivamente interpretano e attuano nella loro concreta esistenza l'esempio di Gesù, rinunciano a tutto per la libertà, e pertanto diventano vagabundi, o meglio vagamundi, per incontrare il dio della libertà, il dio di Gesù non al di fuori o contro il mondo, ma sporcandosi le mani nei mali del mondo. Dalla convinzione che tutti sono uguali di fronte a dio deriva pertanto l'affermazione di uguaglianza tra maschile e femminile.

Ecco il valore fondante del femminile nel dolcinianesimo, così distintivo rispetto ad altre forme di spiritualità cristiana medievale, valore fondante che la cultura e lo spiritus inquisitionis immediatamente ri-definisce come aberrazione morale, depravazione sessuale e persino reale presenza diabolica che trasforma questi cristiani in streghe e stregoni strumenti di Satana.

L'amore

Stando alle fonti coeve, si potrebbe addirittura dubitare che tra Dolcino e Margherita si fosse realizzato un incontro d'amore. Le fonti coeve non ce ne danno una prova sufficiente. Ma ammettendolo, questo sentimento e questo legame ci riporta, ancora una volta, alla dimensione pienamente umana di quella che è diventata un'epopea eroica ed apocalittica. L'amore tra un uomo e una donna è cosa normale, per gli apostolici, sin dall'epoca di Gherardino Segalello e della sua prova del nudus cum nuda. Un amore libero, sincero, che non rinnega la pienezza dell'eros e che tra uomo e donna instaura un vincolo spirituale, non contrattuale ove - sembra di capire nel pensiero "apostolico" - vi è un'aprioristica limitazione di libertà reciproca. Tra gli "errori" addebitati dal Gui a Dolcino vi sono i seguenti: "E' lecito ad un uomo giacere nudo insieme ad una donna nuda nello stesso letto ed essere stimolato carnalmente finché cessi la tentazione: questo non è peccato. Giacere con una donna e non unirsi carnalmente con lei è cosa più grande che risuscitare un morto".

Non così nell'elaborazione etica, giuridica e soprattutto politica che emana dalla chiesa di Roma, che viene progressivamente a concepire la liceità dell'amore unicamente all'interno del vincolo della "famiglia cattolica" e della finalità della procreazione, e perciò tende a ribaltare proprio sui movimenti ereticali più portati alla castità l'accusa opposta, di devianze sessuali di vario genere. Basterà al proposito ricordare che uno dei princìpi elaborati dal Malleus maleficarum di Sprenger e Institor al volgere del Quattrocento, su cui si baserà la sistematica caccia alle streghe in Europa, è la definizione e la condanna dell'"amore eretico", quello che si realizza fuori dal vincolo familiare e il cui scopo non è unicamente la procreazione. Opera diabolica, maleficium di streghe, l'amore liberamente inteso è un terribile pericolo sociale in quanto provoca disordine, e dunque agisce, in questo impulso o sentimento "disordinato", il nuovo padrone del mondo, Satana in persona mediante gli esseri che con lui hanno stretto un patto di morte contro gli uomini, le streghe.

La memoria

Una piazza a Biella è, da pochi anni, dedicata a Margherita da Trento. Tutta la bibliografia sugli apostolici, di qualunque orientamento, ovviamente la ricorda. Non così la toponomastica di varie città e paesi, ove molte vie sono dedicate a Dolcino, non a lei. Soprattutto, è ricordato il suo coraggio di fronte al rogo, quando un universo tutto maschile vorrebbe imporle l'abiura che Margherita rifiuta. Viene cioè ricordata più per la sua morte che per la sua vita.
Noi, non per sentimentalismo ma per un atto di rispetto che possa corrispondere a un tentativo possibilmente onesto di pur parziale ricostruzione storica, riteniamo più giusto immaginarla - solo immaginarla, purtroppo - sulle verdi montagne di Valsesia, libera tra le foreste e i luoghi impervi che furono provvisorio rifugio suo e dei suoi compagni. Forse in quel breve periodo ha avuto anche qualche momento felice, con Dolcino, con gli apostolici con cui condivideva, senza conoscerlo, il destino finale. Forse, per un momento, ha corso sorridente con i capelli sciolti al vento del Monte Rosa, la "montagna madre" dai ghiacciai scintillanti. Noi possiamo per un breve attimo immaginarla nel sole del mattino, come Euripide immagina le Baccanti:

“Andate, andate Baccanti
orgoglio del Tmolo dai fiumi dorati,
cantate Diòniso al suono profondo dei timpani,
celebrate con inni di gioia il dio della gioia,
tra voci e clamori di Frigia,
quando il flauto sacro diffonde sonoro
sacre melodie e i canti accompagnano
le donne furiose sul monte,
sul monte.
Felice, come una puledra al pascolo con la madre,
con balzi veloci corre la Baccante.”

E possiamo, immaginandola così, ricordare un antico proverbio di genti di montagna:

“Finché esisteranno le Alpi
da qui scenderà un soffio di libertà…”

Taliesin, il Bardo
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Vecchio 01-06-2016, 23.38.12   #287
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Una donna davvero carismatica e un mistero Margherita, che ha portato una sua verità nella morte, comunque ingiusta.

Sapete sir Taliesin, dalle mie parti nell' estremo nord est, è proprio dalle Alpi, dalla montagna che provengono le storie più note su stregoneria e altri riti...di cui ne ho parlato qui a Camelot, storie che mia mamma da bambina sentiva tramandate pure dalla sua famiglia.
Ricordiamoci uno scrittore contemporaneo che della "sua e nostra montagna e tradizioni" ha tratto ispirazione..Mauro Corona.
Permettetemi questa parentesi, magari fuori luogo, ma è per simboleggiare proprio i misteri delle Alpi, come ben menzionate alla fine.
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"Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte". E.A.Poe

"Ci sono andata apposta nel bosco. Volevo incontrare il lupo per dirgli di stare attento agli esseri umani"...cit.

"I am mine" - Eddie Vedder (Pearl Jam)

"La mia Anima selvaggia, buia e raminga vola tra Antico e Moderno..tra Buio e Luce...pregando sulla Sacra Tomba immolo la mia vita a questo Angelo freddo aspettando la tua Redenzione come Immortale Cavaliere." Altea
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Vecchio 03-06-2016, 08.18.26   #288
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Milady Altea...
Quando le "parentesi" pennellano i lineamenti e le sfumature di un Dipinto con arricchimenti ed emozioni crescenti, possono collocarsi in qualsiasi sorta di spazio e di tempo, intersecandosi come antichi pezzi di puzzle...Grazie per esserci sempre e per avere citato un Uomo di questo tempo, che, per una sorta di strana magia, un pò mi somiglia...

Taliesin, il Bardo


"Un pò l'ho assorbita.

L'amore-odio in realtà nasce dalla consapevolezza che la donna è molto più forte dell'uomo.

Tiene la prole nel suo ventre poi la cresce e la protegge: è una tigre la donna. E mantiene l'istinto primordiale anche quando non ha piccoli. L'uomo checché ne dicano i fighetti è svantaggiato. Osserviamo la natura: i camosci maschi si spaccano le ossa a forza di cornate e i galli cedroni si strappano le penne a vicenda mentre le femmine se ne stanno a lato ad assistere. Nelle mie sculture il sublime del femminile non lo trovo nella forma fine a se stessa ma piuttosto nel disegno di Dio di affidare il misterioso dono della maternità alla donna..."

Mauro Corona
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Vecchio 08-06-2016, 08.33.49   #289
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IL PRETESTO DEL PRIMO MEDIOEVO: GIUSTA GRATA ONORARIA.

Giusta Grata Onoria (latino: Iusta Grata Honoria; Ravenna, 417 o 418 – Roma, prima del 455) è stata augusta dell'Impero romano. Fu il pretesto dell'invasione di Attila del 451 e 452.
Figlia di Flavio Costanzo, futuro imperatore Costanzo III (421), e Galla Placidia, fu la sorella maggiore dell'imperatore Valentiniano III, che salì al trono nel 425. Fu obbligata dal fratello a non sposarsi, ma nel 449 ebbe una relazione con il custode delle sue proprietà, Eugenio, probabilmente volta a ottenere il potere per Onoria: scoperti, Eugenio fu mandato a morte e Onoria in esilio a Costantinopoli.

Obbligata a fidanzarsi con il senatore Flavio Basso Ercolano, Onoria nella primavera del 450 aveva inviato al re degli Unni una richiesta d'aiuto, insieme al proprio anello, per sottrarsi a questo matrimonio: la sua non era una proposta di matrimonio, ma Attila interpretò il messaggio in questo senso, ed accettò pretendendo in dote metà dell'Impero d'Occidente. Quando Valentiniano scoprì l'intrigo, fu solo l'intervento della madre Galla Placidia a convincerlo a mandare in esilio Onoria piuttosto che ucciderla e ad inviare un messaggio ad Attila, in cui disconosceva assolutamente la legittimità della presunta proposta matrimoniale. Attila, per nulla persuaso, inviò un'ambasciata a Ravenna per affermare che Onoria non aveva alcuna colpa, che la proposta era valida dal punto di vista legale e che sarebbe venuto per esigere ciò che era un suo diritto. Quando la sua richiesta fu rifiutata, invase l'impero nel 451 e 452.

Tratto da wikipedia, l’enciclopedia del sapere.

Taliesin, il Bardo
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Vecchio 09-06-2016, 16.22.08   #290
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Davvero interessante...possiamo dunque paragonare Onoria in una Elena?
Chissà...
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