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Vecchio 06-04-2016, 13.03.20   #261
Taliesin
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L'INCONSAPEVOLE ICONA DI UN ETERNO SORRISO: LISA GHERARDINI.

“Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Monna Lisa sua moglie; et quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanbleo . . . Et in questo di Leonardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, Et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti".
(Vasari, “Le vite”, vol. III)

Lisa Gherardini, conosciuta anche come Lisa del Giocondo o Monna Lisa, è nata a Firenze il 14 giugno 1479 ed è morta nel capoluogo toscano il 15 luglio 1542, all'età di 63 anni. La donna apparteneva a una nobile e antica famiglia, sin dall'ano Mille si trovano tracce dei Gherardini, aristocratici fiorentini esiliati nel veronese nel periodo delle lotte tra guelfi bianchi e guelfi neri nei primi anni del XIV secolo. Nonostante l'allontanamento dei Gherardini dalla Toscana, un ramo della famiglia rimase sempre a Firenze e quando nacque Lisa, nel 1479, la casata aveva perso gran parte dell'importanza che l'aveva caratterizzata nei secoli precedenti, restando comunque facoltosa. Lo stemma nobiliare dei Gherardini è molto antico, e nella sua forma originaria è 'di rosso, a tre fasce di vaio', anche se numerose rappresentazioni dell'arma, su carta o pietra, presentano sottili varianti.

INFANZIA E GIOVINEZZA. Il padre di Lisa, Antonmaria Gherardini, era un ricco mercante che in terze nozze sposò Lucrezia del Caccia, la madre di Lisa. La famiglia possedeva molte proprietà nelle campagne toscane, oltre ad una casa in città, in via Sguazza, una traversa di via Maggio, dove sembra che avvenne il parto. Primogenita di sette bambini, Lisa aveva tre sorelle e tre fratelli; quando era ancora piccola la famiglia si trasferì nell'attuale via dei Pepi, nei pressi della Basilica di Santa Croce, a pochi passi dalla casa di Piero da Vinci, padre di Leonardo. Alla morte del padre Lisa andò a vivere dal nonno materno, Mariotto Rucellai, che aveva buoni rapporti con la potente famiglia Medici. Alcuni studiosi credono che Giuliano de' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, avesse avuto una relazione amorosa con Lisa Gherardini, ma non è provato.

IL MATRIMONIO. Il 5 marzo 1495 la quindicenne sposò, su decisione del nonno, il trentenne Francesco di Bartolomeo di Zanobi del Giocondo, un facoltoso mercante di seta, divenendo così la sua terza moglie. La dote della ragazza era composta da poco meno di duecento fiorini e da un'azienda agricola vicino alla casa di campagna di famiglia. Francesco e Lisa ebbero cinque figli, Piero, Camilla, Andrea, Giocondo e Marietta, delle due figlie femmine si sa che divennero suore cattoliche: Camilla prese il nome di suor Beatrice ed entrò nel convento di San Domenico di Cafaggio (oggi San Domenico del Maglio), e Marietta prese il nome di suor Ludovica presso il convento francescano di Sant'Orsola. Rimasta vedova ed essendo malata (il marito Francesco muore di peste nel 1538), Lisa trascorrerà l'ultima parte della propria vita nel convento, assistita dalla figlia suor Ludovica fino alla morte, che avverrà all'età di 63 anni, nel 1542.

LA MORTE IN SANT'ORSOLA. A riprova di ciò, vi è un documento di morte e sepoltura rinvenuto dallo storico Giuseppe Pallanti nel registro dei decessi della Basilica di San Lorenzo (che faceva capo al convento femminile di Sant'Orsola), in cui si legge: "Donna fu di Francesco del Giocondo morì addì 15 di luglio 1542 sotterrossi in Sant'Orsola tolse tutto il capitolo". Oltre a ciò sono sttai ritrovate diverse care dell'epoca riguardanti il padre Antonmaria e il marito Francesco. Il ramo toscano dei Gherardini si estinse nel 1743 con la morte di Fabio Gherardini, ultimo gentiluomo della famiglia in Toscana. Un anno prima di morire, nel 1537, il marito di Lisa aveva fatto testamento (siglato tra l'altro da Piero da Vinci, il papà di Leonardo) e aveva stabilito che, alla sua scomparsa, venisse restituita a Lisa la dote, il suo abbigliamento personale e i suoi gioielli. Riguardo alle cure riservate alla moglie, scrisse delle precise disposizioni alla figlia Ludovica e al figlio Bartolomeo: "Dato l'affetto e l'amore del testatore nei confronti di Mona Lisa, la sua amata moglie; in considerazione del fatto che Lisa ha sempre agito con uno spirito nobile e come una moglie fedele; sperando che a lei venga dato tutto ciò di cui ha bisogno."

IL VOLTO PIU' FAMOSO DEL MONDO. Attorno al 1501 o 1502 Francesco del Giocondo chiese a Leonardo da Vinci di ritrarre sua moglie Lisa, almeno secondo quanto riportato da Giorgio Vasari nelle 'Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri', una cinquantina d'anni più tardi: "Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di monna Lisa sua moglie, e quattro anni penatevi, lo lasciò imperfecto, la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanableo". In cinque secoli di storia, inutile sottolinearlo, sulla Gioconda è stato detto di tutto, intere schiere di studiosi hanno tentato di analizzarlo da un punto di vista artistico e non solo. A tutt'oggi è uno di quadri più 'copiati', discussi e amati del mondo. La cosa migliore è affidarsi alle 'lettere antiche' del Vasari, ancora una volta, e lasciarsi accompagnare tra le pieghe del dipinto dalle sue parole appassionate: "Avvenga che gli occhi avevano que' lustri e quelle acquitrine, che di continuo si veggono nel vivo; et intorno a essi erano tutti que' rossigni lividi et i peli, che non senza grandissima sottigliezza si possono fare. Le ciglia per avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne, dove più folti e dove più radi, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere più naturali. Il naso, con tutte quelle belle aperture rossette e tenere, si vedeva essere vivo. La bocca, con quella sua sfenditura con le sue fini unite dal rosso della bocca con l'incarnazione del viso, che non colori, ma carne pareva veramente. Nella fontanella della gola, chi intentissimamente la guardava, vedeva battere i polsi: e nel vero si può dire che questa fussi dipinta d'una maniera da far tremare e temere ogni gagliardo artefice e sia qual si vuole. Usovvi ancora questa arte, che essendo Monna Lisa bellissima, teneva mentre che la ritraeva, chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facessino stare allegra, per levar via quel malinconico, che suol dar spesso la pittura a' ritratti che si fanno. Et in questo di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti".
Taliesin, il Bardo
Liberamente tratto e riadattato da: www.nannimagazine.it
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Vecchio 06-04-2016, 13.13.13   #262
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LA DAMA CON L'ERMELLINO: CECILIA GALLERANI.

Cecilia Gallerani (Milano, 1473 – San Giovanni in Croce, 1536) era di nobile famiglia e fu una delle amanti di Ludovico Sforza “il Moro”; feudataria di Saronno e moglie del conte Ludovico Carminati de’ Brambilla, detto “il Bergamino”, feudatario del castello di San Giovanni in Croce. Figlia di Fazio Gallerani e Margherita de’ Busti, è celebre per aver posato per Leonardo da Vinci per il famoso dipinto “La dama con l’ermellino” (1488). Nacque a Milano nei primi mesi del 1473, molto probabilmente nella casa situata nella parrocchia di S. Simpliciano dove dal 1455 vivevano il padre Fazio e la madre Margherita Busti, figlia di Lorenzo, dottore in legge, e sorella di Bernardino, francescano degli osservanti. Di origini senesi la famiglia Gallerani approdò a Milano agli inizi del Quattrocento quando, il nonno di Cecilia, Sigerio Gallerani, giurista di partito ghibellino a Siena, si vide costretto a rifugiarsi nella capitale viscontea a causa della prevalsa guelfa. Qui iniziò la carriera di funzionario pubblico che il figlio Bartolomeo, zio di Cecilia, seguì a partire dal 1450 e che aprì le porte a Fazio, padre di Cecilia, come referendario della duchessa ormai vedova Bianca Maria nel 1467; I ruoli ricoperti dai Gallerani presso la corte ducale permisero alla famiglia di mantenere un tenore di vita elevato e crearsi un cospicuo patrimonio terriero in Brianza, essendo però forestieri non vengono annoverati fra le liste dei nobili milanesi dell’epoca. Dapprima dimorati sotto la parrocchia di Santa Maria Beltrade in pieno centro, il nonno trasferì l’intera famiglia nel 1437 in quella che sarebbe rimasta la casa di famiglia nei pressi di porta Comasina sotto la parrocchia di San Simpliciano, luogo in cui nacque Cecilia nel 1473 penultima di sette fratelli e una sorella. All’età di sessantasei anni il padre di Cecilia morì e per la famiglia si presentò un periodo economicamente difficoltoso quindi l’istruzione di Cecilia verrà probabilmente curata dalla madre che, figlia di studiosi, incoraggia quel talento che verrà poi lodato dai letterati dell’epoca; Nel 1482 quando presumibilmente Leonardo arriva a Milano Cecilia ha nove anni. Nel 1483 all’età di dieci anni la famiglia Gallerani stipula un accordo matrimoniale fra Cecilia e Stefano Visconti per evitarle la vita monastica, allora normale consuetudine per le figlie femmine che non si sposavano. L’accordo verrà poi annullato nel 1487 a causa dell’impossibilità delle famiglie di far fronte alle doti pattuite. Nel 1489 la firma di Cecilia appare in una petizione depositata a corte nella quale lei e i fratelli chiedono, vista la situazione economica poco stabile dei fratelli, di tornare proprietari delle terre del padre confiscate anni addietro e di cui sono ereditari. Questo documento è fondamentale per ricostruire l’evento principale che conduce il suo volto ai giorni nostri grazie al quadro di Leonardo: l’incontro con Ludovico il Moro; infatti oltre la firma di Cecilia e dei fratelli vi sono registrate le loro dimore e Cecilia non risulta domiciliata come i fratelli presso la casa di famiglia, bensì sotto la Parrocchia del Monastero Nuovo. Cecilia ha sedici anni è nubile e il fatto che viva indipendentemente nella città milanese senza vedersi costretta a rifugiarsi in un convento per proseguire gli studi denota già la presenza del Duca, ad avvalorare questa tesi vi è la datazione del dipinto di Leonardo, il quale riceve la commissione da parte del Moro nello stesso anno. È del 1490 l’ufficiale comparsa alla corte di Cecilia divulgata dall’ambasciatore estense Giacomo Trotti poco dopo il matrimonio di Gian Galeazzo Sforza con Isabella d’Aragona; in una lettera al duca Estense il Trotti dichiara: « si dice che il male del signor Ludovico è causato dal troppo coito di una sua puta che prese presso di sé, molto bella, parecchi di fa, la quale gli va dietro dappertutto, e le vuole tutto il suo ben e gliene fa ogni dimostrazione » (Giacomo Trotti, stralcio di lettera riportato da Daniela Pizzagalli in “La Dama con l’ermellino”) Il termine “puta” utilizzato per i bambini denota così l’età della Gallerani che ai tempi ha 16 anni. Mentre posava per il dipinto, Cecilia ebbe modo di apprezzare Leonardo e di comprenderne le straordinarie doti. Lo invitò a riunioni di studiosi e di intellettuali di Milano, in cui si discuteva di filosofia e di varia cultura. Cecilia stessa presiedeva alcune di queste riunioni. La contessa Gallerani era una donna ricca di cultura, che parlava correntemente latino e che fece del canto e della scrittura i suoi principali interessi. Cecilia ebbe un figlio da Ludovico il Moro, Cesare. Dopo essere rimasta presso gli Sforza anche dopo il matrimonio del Moro con Beatrice d’Este, alla nascita del figlioletto fu allontanata dalla corte degli Sforza dallo stesso Ludovico ricevendo in dono diversi immobili e beni. Tra questi, il Palazzo Carmagnola, dove grazie a lei verrà istituito uno dei primi circoli letterari e nasceranno la moda della conversazione e dei giochi di società. Rifugiatasi per due anni da Isabella d’Este a Mantova, tornò a Milano con gli Sforza. Al 27 luglio 1492 risalgono le sue nozze con il conte Ludovico Carminati “il Bergamino”. Presso la residenza del Bergamino, l’attuale Villa Medici del Vascello in San Giovanni in Croce (Cremona), Dal marito Cecilia ebbe almeno quattro figli e continuò a tenere in Palazzo Carmagnola eleganti salotti con gli intellettuali dell’epoca. Con l’arrivo dei francesi la Gallerani si rifugia a Mantova assieme a Leonardo. Le furono confiscate le terre donatele dal Moro a Saronno e a Pavia che, al ritorno degli Sforza, le vennero restituite. Dopo la morte del marito e del figlio Cesare nel 1514-15, divise il suo tempo tra Milano e le proprietà a S. Giovanni in Croce nel Cremonese. In quest’ultimo luogo ricevette la visita di Matteo Bandello che le dedicò la Novella XXII definendola, insieme all’erudita Camilla Scarampa, “le nostre due Muse”. Come la maggior parte delle donne intellettuali del suo tempo, destinava la sua cultura solo al piacere e alla soddisfazione personale e, a quel che risulta dalle ricerche finora condotte, non pubblicò mai le sue poesie o i suoi saggi. Cecilia tenne numerosi incontri con artisti, poeti e letterati, trasformando il castello del marito in un luogo comunemente aperto a personalità di alta levatura culturale, tra i quali lo stesso Leonardo, in compagnia di un altro grande, Donato Bramante. La data della sua morte non è nota; in proposito il Calvi ha scritto: “pare che Cecilia campasse […] fino verso l’anno 1536”. Cecilia morì probabilmente percio’ all’età di 63 anni e fu probabilmente sepolta nella cappella della famiglia Carminati nella chiesa di San Zavedro a San Giovanni in Croce.

LA DAMA CON L’ ERMELLINO

La Dama con l’ermellino è un dipinto a olio su tavola (54,4×40,3 cm) di Leonardo da Vinci, databile al 1488-1490 e conservato per anni nel Czartoryski Muzeum di Cracovia. Dal maggio 2012 il quadro è esposto al castello del Wawel, sempre a Cracovia. La donna ritratta è quasi sicuramente identificata con Cecilia Gallerani. L’opera è uno dei dipinti simbolo dello straordinario livello artistico raggiunto da Leonardo durante il suo primo soggiorno milanese, tra il 1482 e il 1499. L’opera, della quale si ignorano le circostanze della commissione, viene di solito datata a poco dopo il 1488, quando Ludovico il Moro ricevette il prestigioso titolo onorifico di cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino dal re di Napoli. L’identificazione con la giovane amante del Moro Cecilia Gallerani si basa sul sottile rimando che rappresenterebbe, ancora una volta, l’animale: l’ermellino infatti, oltre che simbolo di purezza e di incorruttibilità (annotava lo stesso Leonardo che “prima si lascia pigliare dai cacciatori che voler fuggire nell’infangata tana, per non maculare la sua gentilezza”, cioè il mantello bianco), si chiama in greco “galé” (γαλή), che alluderebbe al cognome della fanciulla. La scritta apocrifa (“LA BELE FERONIERE / LEONARD D’AWINCI”) ha anche fatto ipotizzare che l’opera raffiguri Madame Ferron, amante di Francesco I di Francia, ipotesi oggi superata. Esiste poi un’interpretazione, poco seguita ma interessante per capire la molteplicità di suggestioni che ha generato il ritratto, secondo cui l’opera sarebbe una memoria della congiura contro Galeazzo Maria Sforza: la donna effigiata sarebbe sua figlia Caterina Sforza, con la collana di perle nere al collo della dama che alludono al lutto, e l’ermellino un richiamo allo stemma araldico di Giovanni Andrea da Lampugnano, sicario e uccisore nel 1476 dello Sforza. Il dipinto, col Ritratto di musico e la cosiddetta Belle Ferronnière del Louvre, rinnovò profondamente l’ambiente artistico milanese, segnando nuovi vertici nella tradizione ritrattistica locale. Dell’opera si sa che ebbe subito un notevole successo. Immortalato da un sonetto di Bernardo Bellincioni (XLV), venne mostrata dalla stessa Cecilia alla marchesa di Mantova Isabella d’Este che cercò di farsi ritrarre a sua volta da Leonardo, pur senza successo (ne resta solo un cartone al Louvre). Le tracce del dipinto nei secoli successivi sono più confuse. Dimenticata l’attribuzione a Leonardo, l’opera venne riassegnata al maestro solo alla fine del XVIII secolo. In quest’opera lo schema del ritratto quattrocentesco, a mezzo busto e di tre quarti, venne superato da Leonardo, che concepì una duplice rotazione, con il busto rivolto a sinistra e la testa a destra. Vi è corrispondenza tra il punto di vista di Cecilia e dell’ermellino; l’animale infatti sembra identificarsi con la fanciulla, per una sottile comunanza di tratti, per gli sguardi dei due, che sono intensi e allo stesso tempo candidi. La figura slanciata di Cecilia trova riscontro armonico nell’animale. La dama sembra volgersi come se stesse osservando qualcuno sopraggiungente nella stanza, e al tempo stesso ha l’imperturbabilità solenne di un’antica statua. Un impercettibile sorriso aleggia sulle sue labbra: per esprimere un sentimento Leonardo preferiva accennare alle emozioni piuttosto che renderle esplicite. Grande risalto è dato alla mano, investita dalla luce, con le dita lunghe ed affusolate che accarezzano l’animale, testimoniando la sua delicatezza e la sua grazia. L’abbigliamento della donna è curatissimo, ma non eccessivamente sfarzoso, per l’assenza di gioielli, a parte la lunga collana di perle scure. Come tipico nei vestiti dell’epoca, le maniche sono la parte più elaborata, in questo caso di due colori diversi, adornate da nastri che, all’occorrenza, potevano essere sciolti per sostituirle. Un laccio nero sulla fronte tiene fermo un velo dello stesso colore dei capelli raccolti. Lo sfondo è scuro, ma dall’analisi ai raggi X emerge che dietro la spalla sinistra della dama era originariamente dipinta una finestra. L’ermellino è dipinto con precisione e vivacità. A un’analisi della morfologia dell’animale, esso appare però più simile a un furetto. Può darsi che Leonardo, sempre indagatore del dato naturale, si ispirasse a un animale catturato, allontanandosi dalla, tutto sommato più realistica, tradizione iconografica (ad esempio si può vedere un ermellino nel Ritratto di cavaliere di Vittore Carpaccio del 1510 circa). Del resto, l’ermellino è un animale selvatico mordace e difficilmente ammaestrabile, di conseguenza sarebbe stato molto difficile poterlo utilizzare come modello, al contrario del furetto che può essere addomesticato quasi alla stregua di un gatto, oltre che relativamente semplice da trovare nelle campagne lombarde dell’epoca. Si consideri inoltre che l’ermellino ha dimensioni molto più ridotte, superando raramente e comunque di poco i 30 cm, mentre il furetto, come nel dipinto, a occhio misura tra i 40 e i 60 cm. Acquistata dal principe Adam Jerzy Czartoryski nel 1800, «La dama con l’ermellino», arrivo’ cosi’ a Cracovia nel Palazzo Reale, oggi Czartoryski Museum, in Polonia.
Il dipinto fu sequestrato dai nazisti nel 1940 e recuperata dall’esercito americano nel 1945
La seconda guerra mondiale non fu soltanto un’ecatombe di vite umane, morte e distruzione sulla vecchia Europa, in buona parte dell’Asia e in Russia, oltre che in Africa. Fu anche una tragedia dal punto di vista della cultura, con la distruzione di importanti centri storici, monumenti, chiese e castelli, oppure di opere di millenaria storia e importanza, come la distruzione dell’Abbazia di Montecassino. Una delle caratteristiche specifiche della stessa guerra, in ambito culturale, fu la spoliazione di musei, case private, chiese e luoghi che presentavano opere d’arte importanti; il Fuhrer, pittore di discreto talento, aveva una personale ossessione per l’arte, voleva ad ogni costo costruire un museo che raccogliesse il meglio di quanto espresso dal talento e dalla genialità umana. Perciò, diede ordine ai suoi generali di spogliare e razziare le capitali europee conquistate, così come dette incarico ai capi delle SS di depredare tutti gli ebrei di ogni nazione dei propri patrimoni artistici. In questo venne coadiuvato con entusiasmo ed energia da Hermann Goering, il suo braccio destro, uomo rozzo e poco colto, che difatti venne truffato per esempio dal grande falsario Van Meegeren, che riuscì a vendergli dei Vermeer perfettamente contraffatti. Fu così che nei sei anni di guerra i paesi europei, principalmente la Francia e in seguito all’armistizio del 1943, anche l’Italia, vennero depredati di migliaia e migliaia di pezzi d’arte: quadri, sculture, arazzi, ma non solo.
Nelle rapaci mani dei tedeschi cadde anche il dipinto “La dama con l’ermellino”. La tela fu sequestrata dai nazisti e recuperata dall’esercito americano nel 1945, quando venne restituita alla famiglia Czartoryski per il suo museo di Cracovia. Durante la seconda guerra mondiale venne nascosto nei sotterranei del castello del Wawel, dove fu trovato dai nazisti che avevano invaso la Polonia; quando fu ritrovato recava nell’angolo inferiore a destra l’impronta di un tallone, a cui venne rimediato con un restauro. Il ritratto, restaurato nel 1956, è stato prestato per la prima volta a Mosca nel 1972 e successivamente a Washington e a Malmo-Stoccolma nel 1992, a Roma-Milano-Firenze nel 1998, a Kyoto-Nagoya-Yokohama nel 2001-02, a Milwaukee-Houston-San Francisco nel 2002-03, a Budapest nel 2009 e a Madrid nel 2011. Attualmente è la star della mostra «Volti del Rinascimento» in corso al Bode Museum di Berlino fino al 20 novembre.
Il sonetto di Bernardo Bellincioni
“Sopra il ritratto di Madonna Cecilia, qual fece Leonardo”. Di che ti adiri? A chi invidia hai Natura Al Vinci che ha ritratto una tua stella: Cecilia! sì bellissima oggi è quella Che a suoi begli occhi el sol par ombra oscura. L’onore è tuo, sebben con sua pittura La fa che par che ascolti e non favella: Pensa quanto sarà più viva e bella, Più a te fia gloria in ogni età futura. Ringraziar dunque Ludovico or puoi E l’ingegno e la man di Leonardo, Che a’ posteri di te voglia far parte. Chi lei vedrà cosi, benché sia tardo, – Vederla viva, dirà: Basti a noi Comprender or quel eh’ è natura et arte. (1493).

Taliesin, il Bardo

tratto da: www.ladamaconl'ermellino.it
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Ultima modifica di Taliesin : 06-04-2016 alle ore 13.18.46.
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Vecchio 06-04-2016, 16.59.04   #263
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Donne affascinanti...è un piacere rileggere le storie di molte donne e avete evidenziato due donne famose nella storia e dalla storia misteriosa, sul quale si sa sono state ricamate molte "leggende". Con la gioia della mia piccola artista..la quale già sapeva la storia di Lisa Gherardini ma l'ha riletta con piacere
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"La mia Anima selvaggia, buia e raminga vola tra Antico e Moderno..tra Buio e Luce...pregando sulla Sacra Tomba immolo la mia vita a questo Angelo freddo aspettando la tua Redenzione come Immortale Cavaliere." Altea

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Vecchio 06-04-2016, 17.49.56   #264
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Bello rileggere le storie di queste donne così importanti e significative, soprattutto per un'appassionata di arte come me grazie caro Bardo :)
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Vecchio 12-04-2016, 11.39.57   #265
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Buongiorno Signore...
Se il Mondo avesse "Riletto" la Storia dietro alla Storia conosciuta e sacralmente ufficializzata, forse l'Uomo non ricadrebbe sugli stessi immancabili errori, nell'orrore di questo tempo senza Storia...
Grazie per il vostro contributo. Anche la Vostra Storia, con le vostre opere e le vostre emozioni, è già scritta assieme alla loro...

Taliesin, il Bardo
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Vecchio 18-04-2016, 16.22.11   #266
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LA FAMOSA TROVATORE DI ALLEGREZZA E BELTADE: CASTELLOZA DI ALVERNIA.

Castelloza, una delle più note Trovatore, nacque intorno al 1200 e fu originaria dell’Alvernia. La vida dice: «La signora Castelloza fu dell’Alvernia, una nobile signora, moglie di Truc di Mairona. Amò Arman di Brion e compose le sue canzoni per lui. Era una signora molto allegra, assai istruita e bellissima. E qui sono riportate alcune delle sue canzoni» (Margarita Egan, Les vies des troubadours, Union Générale d’Editions, Paris, 1958, pp.64-65).

La personalità di Castelloza è molto diversa da quella della Contessa di Dia: nei suoi versi esuberanti e rigogliosi, nella scioltezza e abbondanza del suo canto Castelloza gioca a tutto campo la propria libertà e signoria. La canzone Amico, se vi trovassi cortese è una lunga e rabbiosa requisitoria poetica, non priva di insulti, contro l’uomo amato, nella quale si alternano suppliche a minacce, un monologo-dialogo conflittuale con l’uomo, in cui i moti interiori e l’interlocuzione sono strettamente intrecciati; il procedere dell’esplicitazione dei sentimenti contrastanti segue un moto apparente, un avanti e indietro che ha l’andamento delle onde del mare e, nelle sue ricorrenti contraddizioni, ha le caratteristiche dell’odi et amo.
Castelloza, col suo comportamento, sa d’essere controcorrente e lo afferma fieramente: non le importa di incorrere nella disapprovazione sociale, ma di affermare il proprio volere e piacere. Nel cantare di Castelloza c’è la profonda consapevolezza, propria di molte altre Trovatore, che l’amore è sempre impregnato di sofferenza e che il sollievo si trova solo nel sonno o nella morte.
Non dovrei più desiderar cantare è una canzone dolente, nella quale la poetessa, abbandonato l’accento aggressivo, si effonde nel lamento per la trascuratezza dell’amato, nel rammarico per la propria inferiorità, nel tormento della gelosia. Al termine vi sono due commiati: Castelloza, nel primo si rivolge a una donna, Madonna Migliore, nella quale ripone fiducia, per confessarle, forse domandando un giudizio, che lei ama sempre chi le procura dolore e un altro a Bel Nome, l’amato, per dirgli che non si pente affatto di amarlo, anche se è indegno, perché lei è comunque cosciente del proprio valore.
Anche Siete stato a lungo lontano è una canzone accorata, dove Castelloza, con toni dolci e appassionati, si duole della lontananza da lei del suo bene, nonostante la propria fedeltà e costanza; viceversa, anche se si è comportato male, il cavaliere, al suo ritorno, troverà sempre buona accoglienza. Sono le incongruenze dell’amore.
Per quante gioie Amor mi possa dare esala il respiro dell’anima; la poetessa dipinge alla perfezione gli stati d’animo contrastanti che caratterizzano l’amore, qualunque amore, di cui lei è conoscitrice indiscussa; qui la passione amorosa di Castelloza trascolora da un estremo all’altro: vuole lasciare l’amato, ma contemporaneamente vuole che le stia vicino, vuole morire, ma prega il cavaliere di tenerla in vita con il suo sguardo! Tanto immenso è il suo amore che accetta che il cavaliere ami anche un’altra, purché non faccia mancare a lei del tutto la sua presenza. Gli ultimi versi prorompono in un grido di passione e si sciolgono in accenti di rara intensità e bellezza.
«Oh Dio voglia che tra le mie braccia posiate,
che solo voi mi potete far ricca.

Ricca sarei, sol che ricordaste
di raggiungermi
laddove io possa baciarvi e stringervi,
e possa rinascere
il cuor mio..»
Taliesin, il Bardo
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Vecchio 18-04-2016, 16.45.32   #267
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Sir Taliesin,
sono rimasta straordinariamente ammaliata da questa donna.
Avete ragione...il suo era proprio una sorta di odi et amo ed oserei dire nel suo Amare profondamente per poi ripudiare l' Amato stesso e riamarlo...vi è come la rinascita continua di questo Amore. E' così che ho visto le sue canzoni.
Voi sapete se si possono trovare testi riguardanti questa Trovatore? Magari con qualche sua opera.
Grazie per questa bellissima nuova scoperta.
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"Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte". E.A.Poe

"Ci sono andata apposta nel bosco. Volevo incontrare il lupo per dirgli di stare attento agli esseri umani"...cit.

"I am mine" - Eddie Vedder (Pearl Jam)

"La mia Anima selvaggia, buia e raminga vola tra Antico e Moderno..tra Buio e Luce...pregando sulla Sacra Tomba immolo la mia vita a questo Angelo freddo aspettando la tua Redenzione come Immortale Cavaliere." Altea
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Vecchio 19-04-2016, 08.47.16   #268
Taliesin
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Milady Altea...
ritrovare la vostra Maraviglia nell'assaporare quest'ennesima scoperta di virtude e beltàde è come il dischiudersi delle rose al primo sole di primavera, e per questo, voglio donarvi quello che voi donate ogni qualvolta quel fiore si apre verso di me...

Taliesin, il Bardo

Per ioi que d’amor m’avegna
Per ioi que d’amor m’avegna
no·m calgra ogan esbaudir,
qu’eu non cre qu’en grat me tegna
cel c’anc non volc hobesir

mos bos motz ni mas chansos;
ni anc no fon la sazsons
qu’ie·m pogues de lui sofrir;
ans tem que·m n’er a morir,
. . . . . . c’ab tal autra regna

don per mi no·s vol partir.
Partir m’en er, mas no·m degna,
que morta m’an li conssir:
e pos no·ill platz que·m retegna,
vueilla·m d’aitant hobesir

c’ab sos avinenz respos
me tegna mon cor ioios;
e ia a sidonz non tir,
s’ie·l fas d’aitan enardir,
qu’ieu no·l prec per mi que·s tegna

de leis amar ni servir.
Leis serva, mas mi·n revegna,
que no·m lais del tot morir,
. . . . . que m’estegna

s’amors, don me fa languir.
Hai! amics valenz e bos,
car es lo meiller c’anc fos,
non vuillaz c’aillors me vir!

Mas no·m volez far ni dir
con eu ia iorn me captegna
de vos amar ni grasir.

Grasisc vos, con que m’en pregna,
tot lo maltrag e·l consir;
e ia cavaliers no·s fegna

de mi, c’u·ssol no·n desir,
bels amics, si faz fort vos,
on tenc los oilz ambedos;
e plaz me can vos remir,

c’anc tan bel non sai chausir.
Dieus, prec c’ab mos bratz vos segna,

c’autre no·m pot enriquir.
Rica soi, ab que·us suvegna
com pogues en luec venir
on eu vos bais e·us estregna,
c’ab aitan pot revenir
mos cor, ques es enveios
de vos mout e cobeitos.
Amics, no·m laissatz morir!

Pueis de vos no·m puesc gandir,
un bel semblan que·m revegna

·m faiz, que m’ausiza·l consir.

Testo: Gambino 2003 (V). – Rialto 3.ii.2005.
Edizioni critiche: Henri-Pascal Rochegude, Le Parnasse occitanien, ou choix de poésies originales des trobadours tirées des manuscrits nationaux, Toulouse 1819, rist. Geneve 1977, p. 387; Oskar Schultz[-Gora], Die provenzalischen Dichterinnen. Biographien und Texte nebst Anmerkungen und einer Einleitung, Leipzig 1888, p. 4; Duc De La Salle de Rochemaure, Les troubadours cantaliens. Texte des oeuvres des troubadours, revus, corrigés, traduits et annotés par René Lavaud, Aurillac 1910, II, pp. 516 e III, p. 89; William D. Paden et alii, «The Poems of the «trobairitz» Na Castelloza», in Romance Philology, XXXV (1981), pp. 158-182, a p. 179; Deborah Perkal-Balinsky, The Minor «Trobairitz»: an Edition with Translation and Commentary, Evanston Illinois 1986, p. 164; Ulrich Mölk, Romanische Frauenlieder, Munich 1989 (Klassische Texte des romanische Mittelalters in zweisprachigen Ausgaben, 28), pp. 58-61 e 197-99; Katharina Städtler, Altprovenzalische Frauendichtung (1150-1250). Historisch-soziologische Untersuchungen und Interpretationen, Heidelberg 1990, p. 214; Angelica Rieger, Trobairitz. Der Beitrag der Frau in der altokzitanischen höfischen Lyrik. Edition des Gesamtkorpus, Tübingen 1991, p. 549; Matilda Tomaryn Bruckner, Laurie Shepard, Sarah White, Songs of the Women Troubadours, New York - London 1995, pp. 26-29; Francesca Gambino, Canzoni anonime di trovatori e «trobairitz», Alessandria 2003 (Scritture e scrittori, 18), p. 67.

Altre edizioni: Carl August Friedrich Mahn, Die Werke der Troubadours in provenzalischer Sprache, Berlin 1846-86, III, p. 378; Pierre Bec, Chants d’amour des femmes-troubadours. Trobairitz et «chansons de femme», Paris 1995, p. 88.

Metrica: a7’ b7 a7’ b7 c7 c7 b7 b7 a7’ b7 (Frank 364:1, unicum). Cinque coblas unissonans capfinidas, senza tornada. Si noti la rima identica revegna 21 : 49.

Note: La canzone, anonima e dall’io lirico femminile, segue il compatto gruppo di Na Castelloza in N e con fondati motivi è stata da più interpreti a questaTrovatore attribuita: a ragioni di ordine metrico, stilistico e di contenuto, si aggiungono considerazioni sul tipo di tradizione testuale del corpus di liriche di Castelloza (tra tutti cfr. François Zufferey, Toward a Delimitation of the «trobairitz» Corpus, in The Voice of the «trobairitz»: Perspectives on the Women Troubadours, edited by William D. Paden, Philadelphia 1989, pp. 31-43, a p. 31 e Rieger pp. 66-67 e p. 555, con altra bibliografia). – Dal v. 5 mas chansos si evince che l’anonima autrice ha composto altre canzoni.
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Vecchio 19-04-2016, 11.00.25   #269
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LA CONTESSA DEI CANZONIERI: GERSENDA DI PROVENZA


Garsenda o Garsende II di Sabran o di Provenza (1180 circa – 1242 circa) è stata Contessa consorte di Provenza, in quanto moglie di Alfonso II dal 1193 al 1209, e Contessa di Forcalquier, titolare per qualche mese, nel 1209, poi governante per conto del figlio, Raimondo Berengario IV, sino al 1222.

Il suo matrimonio col conte di Provenza, appartenente alla Casa di Barcellona portò alla riunificazione della contea di Forcalquier con la contea di Provenza. Garsenda fu anche mecenate della letteratura occitana, specialmente dei trovatori; lei stessa scrisse alcune poesie liriche, annoverata fra le trobairitz come Garsenda de Proensa o Proença. Secondo i suoi più recenti curatori lei fu "nella storia occitana una delle donne più potenti.

Era figlia del Signore di Caylar e d'Ansouis, Raniero († dopo il 1209) appartenente alla famiglia de Sabran e di Garsenda di Forcalquier ( † prima del 1193), l'unca figlia del Conte di Forcalquier, Guglielmo IV d'Urgell e Adelaide di Bezieres, di cui non si conoscono gli ascendenti.
Raniero de Sabran era figlio di Rostaing II de Sabran (1105 - 1180 ) e della sua seconda moglie, Roscie di Caylar[3], figlia di Raniero, signore d'Uzès e di Caylar e della moglie, Beatrice, di cui non si conoscono gli ascendenti.
Il nome Garsenda gli deriva dalla madre, anche lei di nome Garsenda, l'unica figlia ed erede del Conte di Forcalquier, Guglielmo IV d'Urgell, a cui però premorì, quando la figlia è ancora molto giovane.

Aveva appena tredici anni quando, nel 1193, secondo la Histoire générale des Alpes Maritimes ou Cottiènes par Marcellin Fornier, Continuation, Tome I, suo nonno, Guglielmo IV, col trattato di Aix, concordò con il re d'Aragona e conte di Barcellona, Alfonso il Casto il matrimonio tra Garsenda ed il conte di Provenza, anche lui tredicenne, Alfonso Berengario, che secondo l'Ex Gestis Comitum Barcinonensium, era il figlio terzogenito (secondo maschio) dello stesso Alfonso il Casto e della sua seconda moglie Sancha di Castiglia, figlia del re di Castiglia, Alfonso VII e di Richenza di Polonia. Il trattato prevedeva che Garsenda avrebbe ereditato la Contea di Forcalquier mentre Alfonso Berengario sarebbe divenuto conte effettivo di Provenza Il matrimonio fu celebrato, ad Aix-en-Provence nel luglio di quello stesso anno (1193). Il matrimonio è confermato dall'arcivescovo di Toledo, che fu anche storico, Rodrigo di Toledo nel suo De rebus Hispaniæ dove Garsenda è citata come nipote del conte di Forcalquier (neptem comitis Folocalquerii) e dalla Historia Comitum Provinciae. La Chronica Albrici Monachi Trium Fontium, anno 1213, invece cita Garsenda (neptem…comitis de Forcalcarie) attribuendogli erroneamente come marito lo zio di Alfonso II, Sancho.

Nel 1995, suo marito Alfonso Berengario, con la maggior età divenne il conte effettivo di Provenza, Alfonso II.
Suo zio Bertrando II era morto il 13 maggio del 1207, mentre suo nonno, Guglielmo IV, rimasto unico conte, morì circa due anni dopo; secondo l'Obituaire du chapitre de Saint-Mary de Forcalquier, Guglielmo morì morì il 7 ottobre del 1209. Secondo la nota dello stesso Obituaire du chapitre de Saint-Mary de Forcalquier, il conte Guglielmo IV, nel febbraio di quello stesso anno, come risulta dagli archivi del Bouches-du-Rhône, aveva fatto testamento a favore della nipote Garsenda di Sabranl; sempre secondo la nota dello stesso Obituaire du chapitre de Saint-Mary de Forcalquier, a conferma che il conte Guglielmo era morto nel 1209, nel novembre di quello steso anno, come risulta dagli archivi del Bouches-du-Rhône, Garsenda aveva depositato l'atto di rinuncia alla Contea di Forcalquier a favore del figlio, Raimondo Berengario IV, già conte di Provenza.

A Garsenda si contrappose la sorella minore di Guglielmo IV e Bertrando II, la prozia, Alice d'Urgell[14], che pretendeva il titolo per sé e che, con l'aiuto del figlio, Guglielmo di Sabran, contrastò Garsenda per diversi anni.
Nel 1209 anche il marito di Garsenda, Alfonso II, era morto nel mese di febbraio e lei era divenuta tutrice naturale del loro figlio ed erede della contea di Provenza, Raimondo Berengario IV. Inizialmente suo cognato, Pietro II di Aragona, assegnò la reggenza di Provenza a suo zio Sancho, ma quando Pietro morì, nel 1213, Sancho divenne reggente di Aragona e nominò reggente di Provenza e Forcalquier suo figlio Nuño. Scoppiarono dissensi tra i catalani e i partigiani della contessa, la quale accusò Nuño di tentare di prendere il posto di suo nipote nella contea. Dapprincipio, l'aristocrazia provenzale, con le sue mire ambiziose, cercò di trarre vantaggio dalla situazione, ma alla fine si schierò dalla parte di Garsenda rimuovendo Nuño, che ritornò in Aragona. La reggenza passò a Garsenda e venne stabilito un consiglio di reggenza costituito da nobili locali.
Fu probabilmente durante il suo mandato come reggente in Provenza (1209/1213–1217/1220) che Garsenda divenne la figura centrale di un circolo letterario di poeti, sebbene la vida di Elias de Barjols faccia riferimento come suo mecenate ad Alfonso. C'è una tenso tra una bona dompna (gentildonna), identificata in un canzoniere come la contessa de Proessa, e un anonimo trovatore. Le due coblas dello scambio si trovano ordinate diversamente in due canzonieri in cui si trovano conservate, chiamati F e T. Non si riesce a capire chi parla per primo, ma la parte riferita alla donna inizia comunque con il verso Vos q'em semblatz dels corals amadors. Nella poesia la contessa dichiara il suo amore per l'interlocutore, il quale dunque risponde cortesemente, ma con cautela. In base ad alcune interpretazioni, il trovatore sarebbe Gui de Cavaillon, la cui vida riferisce i pettegolezzi del tempo (probabilmente infondati), in merito al fatto che egli fosse stato l'amante della contessa. Gui, tuttavia, si trovava nella corte provenzale tra il 1200 e il 1209, il che sposta un po' avanti la data dello scambio. Elias de Barjols, a quanto sembra, ha una "relazione amorosa" con Garsenda, da vedova, e scrive canzoni per lei "per tutto il resto della sua vita", finché non entra in un monastero. Anche Raimon Vidal ha elogiato il suo rinomato mecenatismo per i trovatori.
Dopo la morte della prozia, Alice, avvenuta tra il 1212 ed il 1219, il di lei figlio, Guglielmo di Sabran, continuò a rivendicare il titolo di Conte di Forcalquier e continuò a contrapporsi a Garsenda ed al figlio, Raimondo Berengario, che, nel 1216, era rientrato in Provenza dal regno d'Aragona, alla cui corte era stato educato.

Guglielmo di Sabran fomentava la rivolta nella regione di Sisteron, ma alla fine fu sconfitto anche per il fatto di essere stato scomunicato (secondo la Gallia Christiana Novissima, Metropole d'Aix, Aix, Arles, Embrun, parte 1 e anche secondo la Gallia Christiana Novissima, tomus I, Guglielmo, citato col titolo di conte di Forcalquier, venne scomunicato per aver sottratto ai monaci di Montmaior, l'abitato di Pertuis. Guglielmo, anche per l'intervento di papa Innocenzo III dovette restituire la proprietà all'abbazia e tra il 1220 ed il 1222 fu sconfitto e rinunciò ad ogni rivendicazione.

Garsenda, che, nel 1217 circa, aveva lasciato le redini del governo a Raimondo Berengario IV, che era già il conte titolare delle due contee e le aveva riunificate, verso il 1222 si ritirò nel monastero di La Celle, dove prese i voti.

Della morte di Garsenda non si hanno notizie precise: la data di morte è da ritenersi verso il 1242; una fonte la accredita verso il 1218, mentre un'altra sostiene che potrebbe essere vissuta fino al 1257, quando una certa donna con questo nome fece una donazione a una certa chiesa di St-Jean a condizione che tre preti fossero tenuti a pregare per la sua anima e per quella di suo marito.

Taliesin, il Bardo

tratto da: wikipedia, l'enciclopedia del sapere
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Vecchio 19-04-2016, 14.33.34   #270
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Lusingata dalle vostre troppo gentili parole Sir Taliesin....e grazie di questo assaggio di poesia di Castelloza, se non sbaglio in francese provenzale.
E lieta di leggere la vita di un' altra donna di quella Terra che fu fruttifera di Trovatori. La stessa Eleonora di Aquitania, infatti, fu nipote del famoso Guglielmo il Trovatore...e diventò pure regina di Francia, nonostante le critiche..ma questa è un' altra storia..sempre ammaliante ad ogni modo.
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