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Vecchio 27-07-2009, 17.16.52   #1
Guisgard
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Guisgard di lui non si fa che parlare beneGuisgard di lui non si fa che parlare beneGuisgard di lui non si fa che parlare beneGuisgard di lui non si fa che parlare beneGuisgard di lui non si fa che parlare beneGuisgard di lui non si fa che parlare bene
Racconti afragolesi

Ricordo che da piccolo passavo molto tempo con il mio amato nonno.
Egli era signore incontrastato delle terre che da oriente ad occidente circondavano il feudo nel quale ero cresciuto.
Ad una certa ora del giorno, quando il crepuscolo avvolgeva il cielo e scendeva fin sopra la terra, rivelando i primi bagliori delle stelle nascenti, mio nonno era solito raggiungere la torre più alta del nostro palazzo, da dove si poteva ammirare, fino a perdersi, tutta la secolare e misteriosa foresta che dominava l'intero paesaggio.
Ed egli stava lì, immobile, ad aspettare che la Luna sorgesse per salutarla come si fa con una vecchia amica.
Io lo raggiungevo e amavo osservarlo per ore, scrutando le sue espressioni enigmatiche ed impenetrabili, i suoi misteriosi e profondi occhi blu, i suoi lineamenti che si increspavano come onde di un mare mosso davanti a chissà quali pensieri.
E restavo la, così immobile, cercando di capire e comprendere cosa provasse quell'animo fiero e inquieto.
Fino a quando egli, con un tono solo camuffato da vecchio burbero, mi chiamava a se.
E cominciavano le nostre lunghe ed indimenticabile chiacchierate, vera linfa vitale per il mio spirito ed il mio cuore...
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Vecchio 29-07-2009, 01.37.00   #2
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Guisgard di lui non si fa che parlare beneGuisgard di lui non si fa che parlare beneGuisgard di lui non si fa che parlare beneGuisgard di lui non si fa che parlare beneGuisgard di lui non si fa che parlare beneGuisgard di lui non si fa che parlare bene
E così mi raccontava di nobili cavalieri e di straordinarie imprese.
Di paesi lontani, custodi di straordinarie reliquie dagli immensi poteri.
Di caccia a furiosi draghi, di inseguimenti a veloci unicorni, a discese negli inferi ed a scalate di immani montagne le cui cime erano a due passi dal cielo più alto.
Mi narrava delle gesta dei più grandi eroi, di come si sconfiggessero gli eretici e in qual modo di scacciassero i demoni.
Ed anche di tesori sepolti, capaci con le loro ricchezze di oscurare i reami più ricchi e di intimorire i signori più potenti.
Ma non mi taceva, insieme a queste superbe narrazioni, delle imprese più grandi: quelle di messer Amore, mio signore.
Ed allora i suoi racconti ruotavano attorno alle meraviglie più grandi, quelle che solo il vero amore sa compiere.
Alle storie struggenti ed immortali che avevano come protagonisti appassionati amanti e di come vivessero delle quotidiane meraviglie che donava loro Amore.
E quando mio nonno iniziava a raccontare, anche la Luna si fermava ad ascoltare, splendendo di una luce argentea come non mai, che diffondeva ovunque un mistico alone, degna cornice di questi meravigliosi racconti.
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Vecchio 29-07-2009, 13.03.42   #3
llamrei
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llamrei è veramente ingamballamrei è veramente ingamballamrei è veramente ingamballamrei è veramente ingamba
Anche noi, Sir Guisgard, siamo capaci di fermarci per ascoltare i racconti di tante imprese. Avete voglia di metterci alla prova?
llamrei non è connesso   Rispondi citando
Vecchio 30-07-2009, 14.07.45   #4
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Mai dubitato che voi, come gli altri nobili abitanti di Camelot, siate degni ascoltatori di simili storie.
In fondo il piacere di chi racconta sta nella gioia e nell'interesse di chi ascolta.
Presto comanderò al mio cantastorie di deliziarci con qualcuno di questi racconti.
Egli saprà fondere in modo esemplare l'epico verso di Omero con quello agile e soave di Pindaro; senza far difetto, nel suo raccontare, dei dolci sospiri amorosi di Ovidio e del gusto per lo straordinario di Apuleio.
E se il suo narrare porterà gioia nel reame, allora saprò come ricompensarlo.
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Vecchio 03-08-2009, 17.13.47   #5
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"LA FEDE DI UN CAVALIERE"

Ruggero era un giovane di buoni sentimenti ed alti valori.
Era cresciuto amato e protetto dai suoi genitori nel feudo di San Giorgio Alto, nella vecchia Afritannia.
Il suo rango lo aveva destinato sin dalla nascita ad essere cavaliere.
Fù così affidato dai suoi genitori agli insegnamenti di un grande guerriero, Vito de Nigramante, gran cavaliere del re e pari del regno.
Il giovane Ruggero apprese così in maniera perfetta l'arte delle armi, della musica e della poesia, divenendo in breve il più ammirato giovane del feudo.
Ma il suo maestro gli ricordava spesso che non bastano la forza e l'abilità a rendere un uomo un vero cavaliere.
Il suo rango gli dava il privilegio di poter diventare un cavaliere, ma non il diritto ad essere considerato tale.
"Cosa mi occore ancora per essere un vero cavaliere, maestro?" Chiedeva spesso il giovane a Vito.
"La Fede, ragazzo mio. Perchè solo attraverso essa il Signore ci dona la sua Grazia!" Rispondeva questi.
"E cos'è la Grazia, maestro?"
"E' ciò che rende perfetto un cavaliere. Solo attraverso la Grazia un cavaliere può compiere ciò che è impossibile a tutti gli altri."
"E come posso avere la Fede?"
"Devi cercare il volto Dio, ragazzo mio."
Queste parole divennero un'ossessione per il giovane Ruggero.
Egli da quel giorno iniziò a digiunare, a pregare ed a fare ogni sorta di penitenza, nella speranza di vedere, anche solo in sogno, il volto di Dio.
Ma ogni suo sforzo era inutile. Anche nella solitudine della sua stanza, nell'immenso silenzio di un eremo o nell'infinità di una selva incatata egli non riceveca nè una visione nè un segno divino.
E così ogni giorno chiedeva al suo maestro:
"Come posso fare per poter vedere Dio, maestro?"
Devi volerlo con tutto te stesso." Rispondeva il maestro.
E così Ruggero continuò la sua quaresima nella speranza di vedere Dio.
Ed ogni giorno poneva la medesima domanda al nobile Vito.
E questi ripondeva sempre allo stesso modo: "Devi volerlo più di ogni altra cosa, ragazzo mio."
Un giorno, sfiduciato e sconfortato, Ruggero raggiunse il suo maestro mentre era intento a pescare sul lago.
"Come posso fare per poter vedere Dio, maestro?"
"Devi volerlo più di ogni altra cosa, ragazzo mio."
"Ma non esiste nulla al mondo che disederi di più! Eppure Egli non si rivela mai..."
Allora con un gesto rapido e poderoso Vito afferrò Ruggero e lo spinse con la testa nell'acqua.
Nonostante il ragazzo si dimenasse, il maestro lo teneva fermo, quasi volesse affogarlo.
Alla fine, con un gesto estremo, Ruggero riuscì a liberarsi dalla morsa del suo maestro e uscì dall'acqua, quasi senza avere più forze.
Vito lo fissò e disse:
"Ragazzo mio, solo quando desidererai vedere Dio con tutta questa disperata forza potrai vederlo veramente."
Poi, toltosi il mantello, il maestro asciugò il capo del suo allievo e donatogli un caldo sorriso lo abbracciò forte.
Era ormai il crepuscolo ed i due tornarono al castello, con il cuore gonfio di profonda serenità.
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Vecchio 10-01-2010, 02.02.35   #6
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VAQUERO E L'ANELLO MAGICO

Vaquero era famoso per il suo allevamento di bovini.
Ogni mese raggiungeva la Fiera Boara e trattava i suoi affari. Benchè però fosse un gran lavaratore ed un uomo onesto, madonna Fortuna non sembrava essergli amica.
Capitò così che una volta, a causa di un incendio, molte bestie fuggirono dalle sue stalle.
Un'altra volta, proprio mentre si recava alla fiera, fu assalito da un gruppo di briganti che gli rubarono tutti gli animali.
Egli, essendo un uomo di profonda fede, viveva con pacata sopportazione questi accadimenti, sicuro che un giorno la buona sorte si sarebbe accorta di lui.
Ma sua moglie Sisina mal sopportava questa perenne sfortuna e sfogava la sua rabbia e la sua delusione proprio sul povero marito.
Nella loro casa perciò quasi mai dominavano pace e serenità.
Un malinconico giorno di Settembre, Vaquero tornava dalla campagna, come faceva ogni sera.
La fatica di quella giornata di lavoro era pesante, ma il buon uomo non aveva molta voglia di tornare presto a casa.
Lì avrebbe sicuramente litigato con sua moglie.
Infatti quel giorno, Vaquero era stato chiamato dal suo padrone, il venale Cimmino. Costui gli aveva chiesto gli arretrati dei suoi profitti.
Ma Vaquero non aveva i soldi per soddisfare le richieste del suo padrone e questi lo aveva minacciato di cacciarlo via dalla sua terra se non avesse provveduto a sdebitarsi con lui.
L'umore di Vaquero era quindi particolarmente a terra quel giorno e sapeva benissimo che non avrebbe trovato nemmeno un pò di conforto a casa sua.
E così, mentre i cattivi pensieri lo assalivano, camminando per la campagna, scalciò una vecchia brocca sigillata che gli capitò davanti.
"Ahi!" Udì all'improvviso Vaquero. "Ma che modi sono questi!"
Il pover'uomo si guardò intorno ma non vide nessuno.
"Forse sarà stato il vento." Pensò, riprendendo a camminare.
"Qui dentro già si sta stretti!" Udì ancora Vaquero. "E se il tutto inizia a rotolare, prima o poi finirò con l'impazzire!"
"Stavolta ho udito davvero la voce!" Esclamò stupito ed intimorito Vaquero.
"Certo che hai udito la voce...era la mia!" Gridò quella misteriosa voce.
Vaquero allora, in preda al panico, non vedendo nessun altro, pensò di essere alla presenza di qualche fantasma.
Imboccò allora di gran carriera il vecchio sentiero che lo conduceva a casa e si apprestò a lasciare quel posto.
"Ehi tu, dove vai?" Gridò quella misteriosa voce. "Non puoi lasciarmi chiuso qui dentro! Se non mi aiuti finirò col morirci in questa brocca!"
Vaquero, a quelle parole, si fermò, voltandosi indietro.
Si avvicinò alla brocca e la fissò con paura mista a curiosità.
E con il piede la scosse.
"Ma allora è un vizio il tuo!" Tuonò ancora quella voce stridula. "Smettila di scuotere questa brocca o finirò per battere la testa sulle sue pareti!"
"Grandezza del Cielo!" Esclamò Vaquero. "La voce proviene proprio da qui dentro!"
"L'hai capito finalmente!" Rispose la strana voce.
"Oh Cielo..." Accennò Vaquero.
"In cielo ci salirò presto" rispose quella voce "se nessuno mi tira fuori da qui dentro!"
"Bontà divina" invocò spaventatissimo Vaquero "aiutami!"
"Tu la fuori sei al sicuro!" Disse la voce misteriosa. "Sono io che sono imprigionato! E ci resterò per sempre se non mi aiuti!"
"Ma..." cominciò a chiedere timidamente Vaquero "...chi c'è li dentro?"
"Liberami e faremo le doverose presentazioni!"
"E se lì dentro c'è il demonio?" Chiese Vaquero.
"Ma quale demonio!" Rispose stizzita quella voce. "Ci sono solo io! Liberami e ti ricompenserò!"
"E se sei uno spirito maligno?"
"Per mille calderoni colmi d'oro! Non sono nè un demonio, nè uno spirito, nè nient'altro di tutte quelle cose che ti spaventano! Liberami e te ne accorgerai!"
Vaquero restò turbato e pensieroso. E restò così per alcuni istanti.
"Insomma" disse quella voce "ti decidi? Liberami e ti ricompenserò come meriti!"
Vaquero non rispose nulla, spaventato come era.
"Ti prego...aiutami o morirò qui dentro..."
Vinto allora da quella pietosa invocazione, facendosi coraggio, Vaquero tirò un forte calcio a quella brocca, spaccandola in due, liberando così il suo contenuto.
E la sorpresa di Vaquero fu grande nel vedere cosa emerse dalla brocca rotta.
Era un minuscolo esserino, con un grosso cappello a punta ed un giubba verde.
L'esserino si spolverò gli abiti e si pizzicò le guance come a voler far tornare in circolo il sangue.
Poi, vedendo Vaquero, prese a dire:
"Ce ne hai messo di tempo per liberarmi!"
"Ma chi sei?" Chiese Vaquero.
"Sono Luk, suddito del potente Oberon, re degli elfi!" Rispose l'esserino inchinandosi.
"Sei un gnomo o roba simile?"
"Sono un gnomo e basta!" Rispose infastidito Luk. "In natura non vi è niente di simile ad uno gnomo!"
"E come ci sei finito lì dentro?"
"Ecco...è stato per volontà del mi re...per punire la mia...si, insomma...io amo parlare...e forse un pò troppo."
"Se lo raccontassi a qualcuno" disse Vaquero "non mi crederebbe di certo."
"Ma tu non devi raccontarlo a nessuno!"
"Nemmeno a mia moglie? Lei vorrà sapere di questo mio ritardo ed io non so mentirle."
Luk, nel fissare il buon Vaquero, sorrise e disse:
"Sei un brav'uomo ed io ti avevo promesso una ricompensa."
Estrasse allora da una tasca un anello e continuò a dire:
"Vedi questo anello, amico mio? E' la tua fortuna e bada di non separartene mai. A questo anello potrai chiedere un desiderio ed esso si realizzerà. Riflettici bene su, però, perchè questa possibilità potrai averla una sola volta."
Detto questo, Luk diede l'anello a Vaquero e sparì nella vegetazione della campagna.
Il povero Vaquero, quasi incredulo, corse felice a casa.
Pensava che un essere magico come quello che gli aveva donato l'anello fosse depositario di grandi poteri ed il suo anello quindi non poteva essere un comune oggetto.
Raccontò quindi tutto a sua moglie ed anch'ella, sentito tutto il racconto, non potè non credere a quella storia.
Sfortunatamente però, anche il malvagio Cimmino aveva assistito alla liberazione di Luk ed al dono dell'anello.
Decise allora di procurarsene uno simile in tutto e per tutto a quello di Vaquero e con una scusa sostituire i due anelli.
E così, un giorno, giunto a casa di Vaquero con una banale scusa, Cimmino riuscì a scambiare i due anelli.
E quando ritornò al suo palazzo, in preda ad una forte eccitazione, espresse il suo desiderio:
"Voglio tanto oro da esserne sommerso!" Gridò all'anello.
Un attimo dopo un incredibile quantità di monete d'oro iniziarono a spuntare, riempendo in breve l'intera stanza.
Cimmino, nel vedere quello spettacolo, iniziò a ridere forte ed a sguazzare in quella preziosa cascata.
E più rideva, più quelle monete sorgevano dal nulla, fino a quando Cimmino iniziò a sentirsi imprigionato da quella massa aurea.
"Va bene così! Fermati!" Urlò all'anello.
Ma la cascata d'oro non cessò e finì con il sommergere letteralmente il venale Cimmino, che in breve soffocò.
Vaquero invece, non si era accorto dello scambio ed era convinto di possedere il vero anello magico.
Non espresse però subito il suo desiderio. Anzi, quell'anello fu una forte motivazione per lavorare sempre più sodo.
"Lavoriamo fino a quando il buon Dio ci darà la forza" diceva a sua moglie "e quando avremo bisogno chiederemo aiuto all'anello."
Lavorarono così con serenità e determinazione, riuscendo in breve a riavviare la loro attività.
Così, pian piano, si costruirono una nuova casa, con nuove stalle più grandi e capaci di accogliere molti più animali.
Comprarono terra loro da coltivare, senza più dover dipendere da un padrone.
Non avevano paura di cattivi investimenti e quindi ebbero il coraggio di far fruttare al meglio il loro lavoro: del resto, in qualsiasi momento, pensava Vaquero, qualsiasi emergenza fosse sorta, l'anello avrebbe risolto tutto.
Passarono così gli anni, ricchi di lavoro e di guadagni, senza che mai Vaquero e sua moglie esprimessero il loro desiderio.
Invecchiarono così insieme, in serenità.
E quando morirono, i loro figli non ebbero il coraggio di separare il loro padre da quell'anello che aveva tenuto con sè per tutta la vita.
"Nostro padre" disse il maggiore fra loro "ha lavorato tutta la vita, lasciandoci oggi benessere e tranquillità. Tutto ciò che aveva lo divideva con gli altri. Per se ha sempre tenuto solo questo suo strano anello, del quale non faceva mai parola con nessuno. E giusto che lo porti con sè anche nella tomba."
E così termina la storia di Vaquero e del suo anello magico.
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Vecchio 10-01-2010, 22.13.31   #7
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mio sir io adoro ascoltare le storie mi immergo nella fantasia aspetto con ansia di leggerne una delle tante storie bellissime i miei ossequi e una buona serata da cavaliere25
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fabrizio

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Vecchio 11-01-2010, 00.13.08   #8
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Grazie a voi, messere.
Camelot vive dei sussulti e degli echi di ciò che gli uomini amano raccontare.
Sia quindi di grandissime gesta, sia di docili e allegre novelle.
Ma badate che in ogni cosa vi è una morale o un monito: la nostra saggezza sta nel riconoscere queste cose ed imparare da esse
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Vecchio 27-01-2010, 23.31.12   #9
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LA CIVETTA DI GIADA

Venne un tempo in cui i valori, gli ideali e tutto ciò che differenzia l'uomo dalle bestie e lo eleva al di sopra di tutte le altre cose del Creato, venne messo in discussione.
Il ruolo del re e dell'aristocrazia furono oggetto di critiche e di attacchi.
La stessa Chiesa, incarnazione terrena dell'essenza divina, fu bersaglio dei pregiudizi e delle miserie umane.
Deliranti filosofi e sedicenti maestri iniziarono a seminare nella massa ignorante il seme della follia e dell'illusione.
In breve, in gran parte del regno sorsero associazioni e corporazioni che celavano il seme diabolico della rivoluzione.
Focolai di ribelli, imbastarditi dalle visionarie tesi di questa innaturale filosofia, iniziarono a nascere nei punti più importanti del reame.
Ma cosa chiedevano i ribelli?
Non miravano alle terre, alle rendite o al potere dei loro signori.
No, essi miravano a debellare i loro valori, i loro ideali e le fondamenta su cui si basavano i loro diritti.
I ribelli, così, si accanirono contro tutto ciò che legittimava il ruolo del re e dell'aristocrazia.
E tra i loro bersagli ci furono la Chiesa e la religiosità stessa.
Ovunque, insieme alle armi, anche la corruzione ed il tradimento dominarono.
Molti membri del'aristocrazia, rinnegando loro stessi, si lasciarono sedurre dai nemici della corona.
Il regno fu allora insaguinato dalla guerra civile.
Padre contro figlio, fratello contro fratello, maestro contro allievo.
Lo scontro fu duro e scosse fin nel profondo i pilastri del reame.
Il re, stringendosi ai suoi fedelissimi, combattè con vigore ed alla fine sradicò il seme del male dal suo regno.
E tra i suoi più fedeli alleati vi fu la nobile stirpe dei Taddeidi.
Essi furono il braccio armato dei più alti valori del reame.
Ed il re volle premiare la loro fedeltà.
Ebbero così il possesso del più nobile e ricco feudo del regno.
I Taddeidi divennero così signori delle terre di Capomazda, che significa "Capo di Dio".
I Taddeidi presero possesso delle loro nuove terre e vi innalzarono un superbo palazzo, simbolo della nobiltà della loro stirpe.
Secondo il diritto feudale però, la terra era data solo in concessione dal re e questi, concedendola, doveva richiedere un prezzo ai suoi vassalli.
Ma il re non voleva che i suoi fedeli alfieri pagassero per quella terra.
Allora il sovrano chiese quale fosse l'animale più diffuso nelle campagne e nelle foreste di Capomazda.
Gli fu risposto che il più diffuso era la civetta.
Egli allora pretese come unico prezzo una civetta da offrire i primi giorni di ogni nuovo anno.
I Taddeidi furono grati al re per la sua generosità.
Ma essi vollero, per il primo anno, pagare un pegno particolare.
Fecero cosi forgiare dai loro orafi una superba Civetta di Giada.
E l'inestimabile manufatto fu intarsiato con diverse pietre e gemme preziose, prelevate direttamente dalle ricchezze che i Taddeidi avevano guadagnato combattendo in oriente contro gli infedeli.
Il re, quando ricevette quel dono, lodò oltre misura i suoi vassalli e giurò che l'intimo legame tra loro e la corona non si sarebbe mai estinto.
Ancora oggi la magnifica Civetta di Giada è conservata nel palazzo reale, simbolo di valori e di ideali immortali.
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bellissimo

complimenti cavaliere è molto bravo a raccontare queste storie mi emozionano sempre
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