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Vecchio 22-09-2016, 15.12.06   #9781
Taliesin
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AMATISSIMA SORELLA DEL RE: ANNA DI CLAVES.

Anna era nata il 22 settembre 1515 a Düsseldorf secondogenita di Giovanni III, duca di Jülich-Kleve-Berg e della principessa Maria di Jülich-Berg.
Dopo due anni di lutto per la morte prematura della terza moglie, Enrico VIII decise di risposarsi. Mandò in giro per l'Europa i suoi ambasciatori in cerca di una moglie che avrebbe scelto secondo il suo ritratto. Fu così che la sua corte cercò pace con la Germania e trovò opportuno che Enrico VIII sposasse Anna di Clèves.
Il ducato di Cleves, il cui nome si conserva oggi nella città di Kleve, nella Vestfalia settentrionale, a pochi chilometri dalla frontiera olandese, era costituito da un labirinto di elettorati e vescovati a prima vista lontani dal grande scenario dominato dalle grandi potenze europee: solo nel 1512 il duca Giovanni III, tramite il matrimonio con Maria di Jülich-Berg, era riuscito a riunire sotto un'unica signoria tutti i territori, con capitale a Düsseldorf. La coppia aveva avuto quattro figli: Sibilla nata nel 1512, Anna, Guglielmo nato nel luglio dell'anno successivo ed infine Amelia nel 1517.
All'età di 11 anni, Anna fu fidanzata a Francesco di Lorena, figlio ed erede del Duca di Lorena, di due anni più giovane, ma nel 1535 tale fidanzamento, considerato come ufficioso, fu cancellato.
Quanto ai costumi religiosi: Giovanni III, influenzato da Erasmo da Rotterdam, era un protestante moderato, fautore della Lega di Smalcalda e oppositore dell'imperatore Carlo V; i suoi figli, tra cui Anna, erano luterani mentre la madre, la duchessa Maria, era una fervente cattolica.
Nel 1538, Giovanni III morì e a lui successe il figlio Guglielmo il quale si trovava in dissidio con l'imperatore Carlo V d'Asburgo, apparendo quindi un alleato ideale dell'Inghilterra di Enrico VIII e del suo cancelliere, Thomas Cromwell.
Nella corte di Clèves non vigevano le innovative idee rinascimentali sull'educazione delle donne: Anna non conosceva né il francese, né il latino, né l'inglese, non sapeva né cantare né suonare e mancava completamente della raffinata educazione che aveva contraddistinto Caterina d'Aragona ed Anna Bolena.
La giovane sapeva leggere e scrivere, anche se solo nella propria lingua, il cosiddetto dutch, il dialetto germanico parlato nei Paesi Bassi ed aveva un considerevole talento per il cucito ed il ricamo oltre ad essere appassionata di giochi d'azzardo e di carte.
Per quanto riguarda il suo aspetto, l'ambasciatore francese, Charles de Marillac, la descrisse "alta e sottile, di media bellezza", "di carattere modestissimo e gentile", soffermandosi a lodarne la "fermezza di proposito" e l'aspetto "dignitoso".
Il ritratto dipinto da Hans Holbein il giovane e dai contemporanei reputato molto rassomigliante al vero, mostra una fanciulla di bell'aspetto, anche se esami radiografici effettuati nel XX secolo rivelarono che il naso, in origine, era più importante di quanto non appaia; pare inoltre che Anna non avesse una carnagione perfetta, probabilmente per le cicatrici del vaiolo, all'epoca assai comuni.
Il primo incontro con il re, il 1º gennaio 1540 si rivelò deludente: quando Enrico, sotto mentite spoglie, entrò nella stanza dove era alloggiata Anna, a Rochester, nel palazzo del vescovo, lei forse neppure lo riconobbe, mentre il sovrano dichiarò pubblicamente che l'aspetto della sposa lo disgustava.
Le nozze, officiate dall'arcivescovo Cranmer, ebbero luogo il 6 gennaio presso il Palazzo di Placentia a Greenwich, non appena ella si convertì alla chiesa anglicana.
Nonostante l'elegante abito ed i capelli sciolti, Anna continuava a non attrarre il difficile sovrano e così nei giorni successivi il matrimonio non venne mai consumato. In diverse occasioni, Enrico si lamentò con i propri consiglieri in merito all'aspetto della consorte, descrivendone "i seni cascanti" ed il "ventre flaccido", particolari che a suo giudizio lo facevano dubitare della verginità della sposa e che ciò lo disgustava a tal punto da non riuscire a indurlo consumare il matrimonio.
Dopo pochi mesi di matrimonio, Enrico aveva già allacciato una relazione con la damigella d'onore Caterina Howard, nipote del potentissimo duca di Norfolk ed era fermamente deciso ad annullare il matrimonio, rivelatosi politicamente svantaggioso.
Il pretesto ufficiale fu un precedente contratto di fidanzamento stipulato tra Anna ed il duca Francesco I di Lorena.
Il Consiglio del Re decretò che tale contratto, fosse da ritenere un accordo "per verba de presenti" ovvero avente l'efficacia vincolante di un vero e proprio matrimonio, con l'ovvia conseguenza che, a quel punto, le nozze tra il sovrano inglese e la giovane Anna dovevano ritenersi nulle.
Il 24 giugno, Anna, che era stata trasferita nel castello di Richmond a partire dall'inizio dell'inchiesta con la scusa del pericolo di un'epidemia di sudore anglico, fu informata dell'annullamento ed acconsentì di buon grado all'annullamento e quindi al divorzio, che fu ufficializzato il 13 luglio.
In seguito all'annullamento, ad Anna fu attribuito il titolo di "Amatissima Sorella del Re", con diritto di precedenza su ogni altra dama d'Inghilterra, eccetto le figlie e la consorte del re, oltre alle proprietà di Richmond Palace e del Castello di Hever, già appartenuti alla famiglia di Anna Bolena oltre una rendita di 4.000 sterline annue.
A riprova della propria obbedienza, Anna ebbe cura di scrivere al sovrano, ammettendo che "il caso è stato molto complicato e doloroso per me, dato il grande affetto che porto alla Vostra nobilissima persona'" ma che "avendo fede in Dio e nelle Sue verità" ella accettava la decisione assunta in ordine alla nullità del matrimonio "interamente e del tutto rimettendomi, per quanto riguarda il mio stato e la mia condizione, alla bontà ed al volere di vostra altezza" chiedendo solo di poter talvolta "godere del piacere della Vostra nobile presenza, cosa che io reputerei un grande dono" e ringraziandolo della risoluzione di "prendermi come vostra sorella, cosa della quale con tutta umiltà vi ringrazio" esprimendo la propria gratitudine per il generoso trattamento ricevuto, firmandosi "umilissima serva e sorella della Maestà Vostra, Anna figlia di Clèves ".
Alla lettera, Anna accluse l'anello nuziale donatole solo pochi mesi prima, su cui era inciso il motto "God send me Well to keep", ovvero "Dio serbami nella buona sorte", pregando il sovrano di spezzarlo, come un oggetto di nessun valore.
Una missiva di analogo tenore fu inviata al fratello, duca di Clèves, per rassicurarlo delle intenzioni amichevoli di Enrico nei suoi confronti: "Anche se non posso legittimamente averlo come marito, ho trovato un lui un padre e fratello che mi usa tanta benevolenza quanto Voi ed i nostri amici potremmo desiderare" ed annunciando la propria volontà di rimanere in Inghilterra "a Dio piacendo".
La permanenza di Anna in Inghilterra fu posta dal sovrano e da Thomas Cromwell quale condizione per ottenere la generosa rendita ed i titoli nobiliari promessi, soprattutto allo scopo di evitare nuovi scandali diplomatici causati dalle vicissitudini matrimoniali di Enrico VIII, ma fu reputata conveniente dalla stessa Anna, che dichiarò ripetutamente che un eventuale ritorno a Clèves sarebbe stato umiliante e avrebbe potuto esporla anche al pericolo di ritorsioni.
Dopo il divorzio, il rapporto fra i due rimase curiosamente molto cordiale, come attestato da numerosi doni - inviati da Anna all'ormai ex marito, tra cui un libro di preghiere con l'affettuosa dedica "Supplico la Maestà Vostra di ricordarsi di me quando avrà questo sotto gli occhi. Anna, figlia di Clèves".
In qualità di membro onorario della famiglia reale, Anna fece regolarmente visita a corte, dove fu sempre accolta con riguardo.
Durante le celebrazioni per il Natale 1540, la giovane trascorse quasi tutte le serate danzando fino a tardi con la sua ex dama di compagnia ed attuale regina Caterina Howard, appena diciottenne, mentre il re si ritirava a dormire; strinse un'intensa amicizia con entrambe le figlie dell'ormai ex consorte, Maria ed Elisabetta.
Dopo la morte di Catherine Howard, lei ed il fratello Guglielmo offrirono nuovamente un matrimonio ma il re rifiutò. È noto che Anna non ebbe un rapporto cordiale con Catherine Parr, la sesta ed ultima moglie del re; pare che, in occasione del sesto matrimonio del sovrano avesse osservato pubblicamente che Catherine Parr "non era minimamente attraente quanto lei" e che comunque "madama Parr stava prendendo un bel peso", con riferimento alla salute sempre più malferma di Enrico ed alla sua patologica obesità.
Nello stesso periodo, fu ventilato un matrimonio tra Anna e Thomas Seymour, fratello della defunta regina Jane Seymour e futuro sposo di Catherine Parr, sesta ed ultima consorte di Enrico, ma senza che seguissero vere e proprie trattative in tal senso.
Il 4 agosto del 1553, Anna scrisse alla figliastra Maria, ormai divenuta regina, congratulandosi con lei per le nozze con Filippo II di Spagna; in seguito, insieme ad Elisabetta, accompagnò la regina nel suo trasferimento dal St James Palace a Whitehall ed infine fu tra gli ospiti all'incoronazione ufficiale di Maria I a Westminster.
Dopo un breve ritorno a corte, Anna perse il favore di Maria dal momento che l'ex regina non aveva cessato i propri frequenti contatti con la principessa Elisabetta, sospettata di simpatie protestanti; sebbene, quindi, non fosse stata ufficialmente allontanata da corte, Anna preferì ritornare alla vita tranquilla e riservata che conduceva nei propri palazzi[22]. Al di là di brevi attacchi di nostalgia per il proprio paese nativo, Anna apparve a tutti soddisfatta della propria sistemazione e della libertà che le consentiva e fu descritta da Raphael Holinshed come una donna di rilevanti qualità, cortese, gentile, eccellente amministratrice della propria casa e affabile con la servitù.
All'inizio del 1557, la salute di Anna cominciò a declinare e la regina Maria le concesse di trasferirsi al Chelsea Old Manor, la dimora ove Caterina Parr aveva trascorso i suoi ultimi anni. Qui, alla metà di giugno, Anna dettò le sue ultime volontà menzionando il fratello, la sorella, la cognata e la principessa Elisabetta ed altre nobildonne di corte; infine, lasciò molto denaro alla servitù e supplicò la regina Maria affinché i suoi servitori fossero riassunti a corte.
Anna di Clèves morì il 16 luglio 1557, probabilmente per un cancro alle ovaie; aveva ormai quarantadue anni, un'età che la maggior parte delle donne sue contemporanee non arrivava a raggiungere. Venne seppellita all'abbazia di Westminster a Londra nei pressi dell'altare principale della chiesa; la sua tomba in marmo nero reca l'epigrafe: "Anne of Cleves Queen of England".
tratto da: wikipedia
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Vecchio 23-09-2016, 11.43.07   #9782
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LA MONACA DELL’ANNUNCIATA: DONNA CLAUDIA SESSA.

Claudia Sessa, detta la Monaca dell'Annunciata, nacque a Milano intorno al 1570 da famiglia aristocratica, i Sessa di Daverio. Suora delle Canoniche di S. Maria Annunciata a Milano, fu assai rinomata come abilissima cantante, strumentista e musicista, nonché monaca virtuosa, come si legge ne Il supplimento della nobiltà di Milano di Girolamo Borsieri. Di lei si conoscono due composizioni sacre: Vattene pur, lasciva orechia humana e Occhi io vissi di voi (per soprano e basso continuo) incluse nell'antologia del 1613 «Canoro pianto di Maria Vergine», entrambe rappresentative della tradizione monodica dell'Italia settentrionale. Sempre secondo il Borsieri, morì probabilmente giovane, nel fiore delle capacità creative.

Gran parte delle notizie pervenuteci sulla Sessa provengono dalla suddetta opera di Borsieri, nella quale si legge: «è stata Claudia Sessa a’ tempi nostri singolare non solamente per la musica, ma anche per altre rare qualità. Ha suonato di varij stromenti, ed accompagnato il suono con un'armonia così mirabile che non ha avuto cantore, che pur abbia potuto pareggiarla ... spiritosa nel movimento della voce, pronta, e veloce ne' trilli, affettuosa e padrona negli accenti, e soprattutto pratica delle altrui composizioni. Perciò era sì grande il concorso dei popoli a quella Chiesa (dove cantava) che molti erano costretti a starsene fuori. Invitata dalla Catholica Reina Margarita d'Austria, che l'haveva udita cantare, ad andarsene in Ispagna alla Corte, non volle acconsentire all'invito facendo intendere a S. Maestà che sì haveva preso quel monastero come perpetua clausura. Il Serenissimo di Savoia, e ciascuno de' figlioli suoi l'hanno più volte udita anco suonare. L'Arciduca Alberto e la Serenissima Infanta Isabella mentre dimoravano in Milano più volte finsero d'esser costretti a uscir di corte ... per andarla a udire, e nella Chiesa e nel Parlatoio. Il Cardinal Aldobrandino, S. Giorgio e Piato per udirla hanno celebrato più volte le loro Messe in quella Chiesa. ... Non è stato governatore dentro questa Città che, mentr'ella ha cantato, non habbia voluto prender con lei famigliarità: il Conte di Fuentes soleva chiamarla figliola sua e il Contestabile di Castiglia e la moglie tanto l'amarono che presero licenza di entrare nel monastero stesso a visitarla e gustar delle sue virtù che in essa risplendevano: modesta ed humile ... pregata ad impetrar gratie da' Governatori per colpe di persone grandi. Si scopriva candida di costumi, tanto che Principi, dopo che con ella hebbero favellato, dissero che quando non l'avessero conosciuta per angiolo nella voce, l'havrebbero confessata creatura angelica nel procedere

Tratto da: wikipedia, l’enciclopedia del sapere

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Vecchio 23-09-2016, 11.44.36   #9783
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LA RIVENDICAZIONE DELLA DONNA IN MUSICA: MADDALENA CASULANA.

Nata probabilmente attorno al 1540, Maddalena Casulana, compositrice, liutista, organista e cantatrice, è passata alla storia come Maddalena de Mezari detta “Casulana” o “Casulana Vicentina”. I due appellativi potrebbero derivare rispettivamente dalla provenienza geografica, oggi individuata nel Comune di Casole D’Elsa in provincia di Siena[1] – diversamente da quanto attestato in studi più datati che la fissavano in Brescia, e dal luogo in cui ella svolse parte della sua attività, Vicenza. Il cognome (riportato per i fatti della sua vita posteriori al 1571), invece, potrebbe ricondursi a un matrimonio contratto con tal de Mezari (o Mezari) identificabile con Giacomo Mezari, uno dei partecipanti alla fondazione (Verona, 28 marzo 1556) dell’Accademia alla Vittoria e suo membro ancora nel 1564, anno in cui l’organismo confluisce nell’Accademia Filarmonica (anch’essa operante a Verona).

Nebulosi, quindi, i primi dati biografici e, del resto, poco si conosce con certezza di tutta la sua vita, i termini della quale sono per lo più desumibili dalle dediche contenute nelle sue opere o da riferimenti di altri compositori o scrittori del tardo Rinascimento. Ad ogni modo, si sa che a Casole, centro musicale all’epoca di Maddalena molto fiorente dove qualche anno prima operava il compositore e architetto Fra’ Leonardo Morelli, detto Casulano, si compie la prima formazione musicale di Maddalena che, in seguito, ritroviamo alla corte medicea di Firenze, incoraggiata a perseguire l’attività professionale di compositrice da Isabella de’ Medici, la quale le assicura protezione e le commissiona quella che sarà la prima opera interamente sua, Il primo libro de’ madrigali a quattro voci. Pubblicata nel 1568, la raccolta si apre con una dedica della compositrice alla sua mecenate, molto interessante per la storia femminile considerato che vi si può leggere, tra l’altro, della necessità di
«mostrare al mondo (..in questa profession delle musica) il vano error de gl’huomini, che degli alti doni dell’intelletto tanto si credono patroni che par loro ch’alle Donne non possono medesimamente esser communi».

È una vera e propria rivendicazione del ruolo delle donne nell’arte della musica, questa, che fa il paio con l’essere la Casulana la prima donna ad ottenere la pubblicazione delle proprie composizioni: si tratta dei suoi primi quattro madrigali apparsi nel 1566 raccolti in un’antologia di autori vari intitolata Il Desiderio. Primo libro a quattro voci, cui fanno seguito altre composizioni incluse in ulteriori due antologie (stampate l’anno dopo) intitolate Terzo libro del Desiderio. Madrigali a quattro voci e Il Gaudio. Primo libro de’ madrigali a tre voci, ambedue curate dal compositore e cantante Giulio Bonagiunta e pubblicate dallo stampatore Girolamo Scotto di Venezia. Dotata di notevoli qualità artistiche e diplomatiche, Maddalena riesce a instaurare profondi legami con ambienti veneziani, veronesi, vicentini e padovani, soprattutto nell’ambito di quel genere di rappresentazione che, sorta nel XVI secolo, sarà poi chiamata, nei secoli successivi, commedia dell’arte, avendo modo di confrontarsi con compositori e scrittori dell’epoca che svolgono la propria attività anche, o in alcuni casi esclusivamente, fuori dalla corte medicea, tra i quali Philippe De Monte, Orlando Di Lasso, Stefano Rossetto, Antonio Molino (detto “Burchiella” o “Manoli Blessi”) e Giambattista Maganza il Vecchio. Particolarmente profondo appare il suo legame con Antonio Molino che, già settantenne, apprende da Maddalena l’arte della composizione dichiarandosi suo allievo e definendo i suoi insegnamenti «talmente abili da suscitare ardentemente nuovi desideri di gloria anche nella più vetusta intelligenza»[2].

Oltre al rapporto con Molino, fondamentale per la Casulana è il rapporto con Orlando di Lasso (maestro di cappella alla corte del Duca Alberto V di Baviera) che le consente di acquisire ulteriore notorietà: infatti è proprio di Lasso che, avendola conosciuta nel 1567 a Venezia, la invita l’anno successivo a scrivere una composizione da presentare in occasione del matrimonio di Guglielmo V (figlio del Duca di Baviera) con Renata di Lorena e a partecipare alle stesse celebrazioni nuziali a Monaco in veste di compositrice e cantatrice. In risposta all’invito Maddalena compone il mottetto a cinque voci su testo di Nicolò Stopio Nil mage iucundum[3], cantato alle celebrazioni nuziali (nel resoconto stilato da Massimo Troiano, compositore, poeta ed annalista di corte, presente all’evento, si possono leggere grandi lodi della Casulana compositrice, dal che si può desumere che ella non avesse partecipato all’evento anche come cantatrice). Ritroviamo poco dopo Maddalena a Vicenza, in contatto con il poeta, pittore e liutista Giambattista Maganza che, nel 1569, con lo pseudonimo di Magagnò, le dedica alcune rime in “lingua rustica” (vernacolo) altamente celebrative ma, al contempo, assai audaci, cantando di lei non solo le abilità artistiche ma anche la bellezza e la forte sensualità. Ormai ben nota negli ambienti di corte e in quelli accademici, nel 1570 Maddalena pubblica (sempre con lo stampatore Scotto di Venezia) la sua seconda raccolta intitolata Il secondo libro de’ madrigali a quattro voci con dedica ad Antonio Londonio (potente ufficiale governativo milanese del quale ella riesce ad assicurarsi i favori con evidente abilità diplomatica).

Le testimonianze del periodo sembrano avvalorare la supposizione che Maddalena si fosse, nel frattempo, stabilita a Milano: il musicista Nicolò Tagliaferro, infatti, descrive nel suo scritto Esercizi Filosofici le esibizioni di Maddalena e di altre due “virtuose” cantatrici di quel periodo, Vittoria Moschella e Sudetta Fumia, affermando con riferimento alla Casulana che «sì come con le sudette di sopra io tenni strettissima conversatione in Napoli, così con costei io la tenni in Milano» e continuando con il dire che Maddalena anziché il canto prediligesse la composizione, arte nella quale «ella si dilettò molto, anzi più di quello che a profession donnesca conviensi». Il soggiorno milanese chiude probabilmente il rapporto di Maddalena con la corte medicea[4], ma non quello con la corte bavarese come si può desumere dalla sua presenza a Vienna tra l’agosto e il settembre del 1571, in occasione dei festeggiamenti per il matrimonio di Carlo II d’Asburgo (arciduca d’Austria e fratello dell’imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano II) con Maria Anna di Baviera (figlia del Duca Alberto V), oltre che dalla notizia di una sua presenza nel 1572 in Francia, dove ella si reca in visita a Elisabetta d’Austria (figlia dell’imperatore Massimiliano II e, dal 1570, regina di Francia in seguito alle nozze con Carlo IX di Valois) che in tale occasione le elargisce una somma di 500 lire francesi[5].

Dopo questa visita mancano notizie che possano essere reputate certe, ma è ritenuto verosimile che Maddalena abbia trascorso i primi anni Settanta del Cinquecento alla corte viennese dove sarebbe entrata in contatto con altri famosi musicisti dell’epoca tra i quali Mauro Sinibaldi e sua moglie Marta di Mechelen, Andrea e Giovanni Gabrieli, Alessandro Striggio e sua moglie Virginia Vagnuoli, Giovanni Battista della Gostena. Ad ogni modo ritroviamo notizie certe di Maddalena dal 1582, anno in cui ella partecipa a un banchetto a Perugia, dove «La Casolana famosa dopo cena cantò al liuto di musica divinamente»[6].
Nello stesso anno il tipografo veneziano Angelo Gardano le dedica il Primo libro dei madrigali a tre voci di Philippe de Monte con un verso celebrativo di un poeta dell’epoca che la definisce “Di questa nostra età Musa e Sirena”[7].

Ormai all’acme della notorietà, nel 1583 Maddalena pubblica la sua ultima opera pervenutaci, Il primo libro de’ madrigali a cinque voci: in esso si legge la dedica al conte Mario Bevilacqua, personaggio di spicco dell’Accademia Filarmonica di Verona, e il ringraziamento per averle consentito di dimostrare le sue qualità artistiche presso la stessa Accademia. Sempre nel 1583, Maddalena è a Verona in un’esibizione all’Accademia Olimpica[8] che sembra essere stato l’ultimo atto della sua attività artistica, sulla quale non vi sono ulteriori documenti. Le due raccolte di madrigali a quattro voci dal titolo Casulana, spirituali primo & secondo citate in un catalogo pubblicato nel 1591 dall’editore veneziano Giacomo Vincenti, infatti, potrebbero in realtà non essere mai state scritte considerando che nessun’altra fonte dell’epoca cita opere di carattere sacro ascrivibili alla Casulana. Notizie certe della musicista mancano per il seguito della sua vita e per la data della morte, indicata da alcuni studiosi fra il 1586 e il 1590.

Dubbia anche l’iconografia di Maddalena della quale un ritratto era sicuramente conservato in una collezione austriaca di provenienza ferrarese insieme con quelli di Isabetta e Lucietta Pellizzari, musiciste vicentine salariate dal 1582 al 1587 da quella stessa Accademia Olimpica dove nel 1583 avviene l’ultima esibizione nota della Casulana.

NOTE
1. Maddalena è menzionata tra i musicisti di origine senese «che fiorirono con maggior lode» da Giulio Piccolomini in Siena illustre per antichità.
2. Così Molino in Dilettevoli madrigali a quattro voci. Peraltro da un rapporto epistolare tra Molino e la Casulana si può evincere la loro differenza d’età: settantunenne lui, trentenne lei.
3. Del mottetto è stato tramandato il testo nella trascrizione fattane dal Troiano, mentre è andata perduta la musica.
4. È questa un’ipotesi avvalorata dalle mutate condizioni di forza interne al Granducato di Toscana e, soprattutto, in considerazione della perdita di potere che colpisce Isabella de Medici, protettrice della Casulana. A quel tempo, infatti, a Firenze le lotte intestine dilagano senza freno e, del resto, corrono ormai gli ultimi anni di governo del Granduca Cosimo I de Medici, padre di Isabella che di lì a poco, nel 1576, rimarrà uccisa per mano del marito tradito, Paolo Giordano Orsini.
5. Negli atti della Tesoreria Francese conservati presso la Biblioteca Nazionale di Francia (Paris, BNF F-Pn Clairambault 233, pp.3471-3472) si trova la quietanza di questa donazione firmata da Maddalena il 9 agosto 1572: «A damoiselle Magdelaine Casulana de Vincentia l’une des damoiselles de l’imperatrice la somme de cinque cents livres tom[ois]… dont ledit Seigneur luy a faict don en faveur de la Royne et pour luy donner moyen de supporter les fraiz et despences qu’elle a faicte d’allemagne in France estant venu trouver leurdits Majestez de la part de l’empereur et de l’imperatrice».
6. Cronaca di Perugia dal 1578 al 1586 di Giambattista Crispolti.
7. In exergo.
8. Di essa è memoria negli atti della stessa Accademia: Nel genaro pure di quest’anno fu letta in pubblica Accad.a ridottasi per la venuta di due ragguardeuoli soggetti [..]la Pastorale del S.r Fabio Pace. Vi fu gran concerto di stromenti, e, cantò la virtuosa Maddalena Casulana Vicentina, recitando distinta composiz[ion]e il S.r Gio. Batta. Titoni Acc. Ol. e poi vi fu Banchetto. Dalla lettura degli stessi atti si evince che l’esibizione della Casulana fu di altissimo livello.

Tratto da: www.enciclopediadelledonne.it

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INTENDENTISSIMA DELLA MUSICA: VITTORIA ALEOTTI.

Vittoria iniziò ancora bambina («di quattro in cinque anni») lo studio della musica, ascoltando le lezioni che l'anziano maestro Alessandro Milleville e, successivamente, Ercole Pasquini, impartivano alla sorella maggiore. Il padre, l'architetto ferrarese Giovan Battista Aleotti, afferma che studiò almeno due anni, finché il maestro consigliò di farle proseguire gli studi musicali presso il convento ferrarese di S. Vito, rinomato per l'eccellenza della musica. Vittoria entrò in convento all'età di 14 anni, e il padre ottenne per lei da Battista Guarini alcuni madrigali da porre in musica, che più tardi donò al conte del Zaffo; il conte li fece stampare a Venezia nel 1593 dall'editore Giacomo Vincenti con il titolo Ghirlanda de madrigali a quatro voci e furono dedicate a Ippolito Bentivoglio. Oltre all'edizione veneziana, uscì a nome di Vittoria anche un madrigale a cinque voci (Di pallide viole), stampato in Giardino de musici ferraresi del 1591, una raccolta di musiche di vari autori tra cui anche Alessandro Milleville ed Ercole Pasquini. Alcuni studiosi hanno avanzato l'ipotesi che Raffaella Aleotti, ritenuta la sorella maggiore, sia stata in realtà la stessa persona (che avrebbe mutato nome al momento di prendere gli ordini), poiché né nel convento di S. Vito, né altrove, esistono documenti relativi a Vittoria, mentre Raffaella fu badessa del convento ed ebbe notevole fama come organista e «intendentissima della musica». Anche il testamento del padre, redatto nel 1631, nomina Raffaella e non Vittoria, tuttavia non esistono prove definitive a confermare questa supposizione. La dedicatoria alla Ghirlanda del 1593, scritta proprio da Giovan Battista Aleotti, è la fonte più autorevole, anche se non chiara, da cui si traggono le notizie sulla musicista. Tra l'altro, proprio lui afferma che delle sue cinque figlie, la maggiore era incline alla vita religiosa e studiò musica, e che Vittoria imparò dalle lezioni impartite alla prima. Purtroppo Battista non dice il nome della figlia più grande, ma le sue parole depongono a sostegno della tesi di due sorelle distinte.

Tratto da: wikipedia, l’enciclopedia del sapere.

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UNA DINASTINA IN MUSICA ALLA CORTE MEDICEA: FRANCESCA CACCINI.

Le cantanti per lungo tempo non poterono esibirsi in pubblico: «nei primi secoli di vita della chiesa cristiana, le donne furono parte attiva nelle cerimonie, ma in seguito le autorità religiose si opposero all’utilizzazione delle voci femminili. Con la costruzione di chiese, basiliche e monasteri la musica divenne una pratica esclusiva dei monaci e dei musicisti di professione. Le suore cantavano all’interno dei loro conventi e nei secoli successivi incrementarono le attività musicali fino ad incorrere in una serie di misure restrittive attuate da numerosi papi».[1]

Solo gli uomini potevano divenire Maestro di Cappella o Maestro di corte. È solo nei conventi o nelle famiglie di musicisti che le donne vengono iniziate ad una istruzione musicale che va oltre il vezzo e il passatempo consono alle fanciulle. Inoltre la maggior parte dei manoscritti e anche molte delle prime pubblicazioni musicali del 1500 e del 1600 rimasero anonime: soltanto alla fine del 1600 le donne cominciarono a firmare le proprie opere.
Francesca Caccini rappresenta un’eccezione per il suo tempo. Nasce nella corte Medicea, primogenita in una famiglia di musicisti: il padre, Giulio Caccini, musico di corte, cantante e compositore; la sorella, Settimia, cantante; la madre, Lucia Gagnolanti, è definita valente cantatrice d’ignoto casato. Anche la donna che Giulio sposerà dopo la morte della moglie, Margherita Benevoli della Scala, sarà una cantante.

La corte Medicea viene ricordata per la magnificenza degli spettacoli e per la vivacità culturale che vi si incoraggia. Firenze è la culla delle nuove forme del dramma musicale: il melodramma è nato, spetta alla corte consacrarlo. I Medici applaudirono le prime opere della Camerata Fiorentina. A loro spetta il vanto, scrive M. G. Masera[2], di aver protetto con eccezionale liberalità i musicisti più insigni, di aver accolto i cantanti più celebrati.

All’età di tredici anni Francesca si esibisce, forse per la prima volta, in pubblico, cantando nel Concerto Caccini (formato dal padre, dalla sorella e dalla matrigna) in occasione del matrimonio di Maria dei Medici con Enrico IV, Re di Francia.
Venne immediatamente notata per la sua bellissima voce e richiesta anni dopo, dalla stessa Maria dei Medici, alla corte del Re. Ma i Medici fiorentini le rifiutarono il permesso.

Francesca Caccini oltre a distinguersi come cantante, viene istruita dal padre alle lettere; scrive poesie in latino e in volgare, apprende le lingue straniere: canta in francese e in spagnolo. Apre una scuola di canto, e dal 1619 già si parla delle sue discepole. Suona il liuto, il chitarrinetto e il clavicembalo e all’età di diciotto anni inizia a comporre.

«La Caccini soprattutto s’impone come solista, cantando anche in francese e in spagnolo, sicchè il re la loda come ottima cantatrice, ritenendola superiore a tutte le francesi e dichiara il concerto Caccini migliore di ogni altro. Enrico IV avrebbe voluto trattenere a corte la Caccini, ma sebbene suo padre avesse infine acconsentito, il granduca di Toscana – al quale Giulio aveva scritto per chiedergli il permesso di lasciare la figlia maggiore alla corte francese – non vuole privarsi di lei»[3].
Delle sue poesie nulla è giunto fino a noi[4], ma grande fu la sua fama ed il successo di cantante e anche di compositrice: iniziò a musicare le poesie di Michelangelo Buonarroti il Giovane, pronipote del Grande Michelangelo – amico anche di Artemisia Gentileschi di poco più grande di Francesca, la quale si dipingerà come liutista -, il quale ricevette spesso dai Medici l’incarico di scrivere libretti per musica con Francesca Caccini. Collaborarono insieme per anni, legati da una grande amicizia, definita da alcuni amore, documentata da una fitta corrispondenza[5].

La Caccini scrisse madrigali, ballate, variazioni, musica per voce, e la prima opera melodramma composta da una donna La liberazione di Ruggero. Attivissima collaboratrice negli spettacoli di corte, come esecutrice di musica sacra e profana[6], nel 1607 entra ufficialmente nell’organico di corte e diventa la musicista più pagata: passa dai 10 ai 20 Scudi mensili.
Dal fitto epistolario con il Buonarroti emerge chiara la passione per la composizione: si confida, chiede consigli per eventuali pubblicazioni, informa del successo o meno delle rappresentazioni: «Non mi sono scordata del debito ch’io aveva di scrivere a V. S. ma si bene sono stata impedita da infinite occupazioni le quali mai non lascerebbono me s’io talvolta non le fuggissi. (…) Basta che in me prima mancherà la vita e il desiderio di studiare e l’affetto che ho sempre portato alla virtù perché questa vale più d’ogni tesoro e d’ogni grandezza»[7].

Nel 1615, durante il Carnevale, rappresenta al palazzo Pitti il Ballo delle Zigane, interamente musicato da lei, di cui è pervenuto solo il libretto, ma del quale sappiamo che si alternavano brani esclusivamente strumentali a parti corali e ad arie solistiche. In quel periodo di lei si scrive: «Qui ella è udita per meravigliosa e senza contraddizione, et in pochi giorni la fama sua è sparsa»[8].
Scrive sempre la Masera: «Le virtuose soprattutto formavano il vanto di Pitti: non v’era gusto maggiore, che quello di udire una di queste leggiadre artiste… la Caccini fu veramente la regina delle cantanti medicee, segnalandosi non solo per l’angelica voce e la scuola eccezionale, ma per il suo genio che doveva assegnarle un posto nella schiera non troppo numerosa delle compositrici italiane»[9].

Nel 1618 viene pubblicato il suo primo libro di musica ad una e due voci.
Si sposa con il cantante Giovan Battista Signorini, ma questo matrimonio sembra non aver avuto grande importanza nella sua vita «essendo essa stipendiata dai Medici parve opportuno di accasarla con un cantante della corte che, del resto, era uomo di scarsa genialità, faceva parte della musica da camera e guadagnava 13 scudi al mese»[10].
Indubbiamente fu forte l’influenza del padre sulle sue prime composizioni, ma nella sua prima Opera Romain Rolland riconoscerà, secoli dopo, l’espressione di una delicata individualità di insigne artista, che «riflette già l’influsso del genio di Monteverdi e per questo la Caccini rimarrà vicina a noi più degli altri compositori fiorentini dell’epoca sua».
Viaggiò in tournée, accompagnata spesso dal marito, per le corti italiane ed europee, rappresentando a Varsavia, in onore del principe ereditario polacco Ladislao Sigismondo, proprio la sua prima opera La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina, che porterà la dedica al futuro re. È la prima opera italiana scritta da una donna, e la prima ad essere rappresentata all’estero[11].
Un episodio che dà conto del carattere della Cecchina viene riportato da Antonio Magliabecchi. Nei suoi ricordi inediti la dichiara valente nel cantare e nel recitare, ma la dice «altrettanto fiera ed irrequieta». È proprio in relazione a questa sua prima opera che nacquero baruffe e litigi con il poeta di corte, Andrea Salvadori, il quale rifiutò di scrivere per la Caccini il libretto. Il Salvadori scrisse versi pungenti contro Saracinelli, il nuovo librettista, e la compositrice. Lei per risposta lo mise in ridicolo come amante dai facili successi, e riuscì a far naufragare la rappresentazione di una sua favola (Jole ed Ercole) dicendo che era una satira contro il principe. Si cominciò a far deduzioni poco lusinghiere sul carattere della Caccini, che fu detta vendicativa e dispettosa.

Alla fine del 1626 il marito muore e con questa morte si perdono le tracce anche della Caccini. Si sa soltanto che prestò servizio fino al 1628 nella corte medicea ma nulla di preciso si sa più della sua vita. Rimane un unico ricordo di un contemporaneo che scrive: «Ella si rimaritò in un lucchese lasciando il servizio di queste Altezze et morì di cancro alla gola»[12].
Dal 1640 non è più ricordata come vivente. Nonostante la fama ed il successo di cui si è detto già nel 1700 la Cecchina cade nell’oblio, rotto nel nel 1847 da un articolo pubblicato nella Gazzetta Musicale di Milano e da successivi studi storici e filologici.

NOTE

1.Patricia Adkins Chiti, Almanacco delle virtuose, primedonne, compositrici e musiciste d’Italia, DeAgostini, pag. 9.
2.Cfr in «La Rassegna Musicale», Maria Giovanna Masera, numero 5, 1941.
3.Dizionario Biografico degli Italiani, voce a cura di Liliana Pannella, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1973, pag. 20.
4.Op. cit.
5.Cfr. Alcune lettere inedite di Francesca Caccini, di M. G. Masera in «La Rassegna Musicale» IV numero, 1940.
6.«La Cecchina fu attivissima collaboratrice in molti spettacoli di corte, e nei concerti, e anche partecipava a quelle esecuzioni di musiche sacre che si tenevano nella Chiesa di San Nicola di Pisa durante la Settimana Santa», in Una musicista fiorentina del seicento, Francesca Caccini, di M.G. Masera, in «La rassegna Musicale», V, pag. 197.
7.In «La Rassegna Musicale», IV, Alcune lettere inedite di Francesca Caccini, di Maria G. Masera, 1940
8.Dizionario Biografico degli italiani, voce a cura di Liliana Pannella, Istituto enciclopedia italiana, Roma 1973, pag. 20.
9.Op. cit. pag. 183.
10.Op. cit. pag. 194.
11.La liberazione di Ruggero dall’isola di Alcina, scritta nel 1625, è custodita nella Biblioteca di Santa Cecilia. Nello stesso periodo scrisse Rinaldo Innamorato , rimasto manoscritto e di cui oggi non se ne ha più traccia.
12.Dizionario Biografico degli italiani, voce a cura di Liliana Pannella, Istituto della enciclopedia italiana, Roma 1973, pag. 21.

Tratto da: www.enciclopediadelledonne.it

Taliesin, il Bardo
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Vecchio 23-09-2016, 13.17.05   #9786
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Tra mortificazione delle menti e delle occasioni perse oramai appese ad un'angosciante e schiacciante apatia, nella speranza che colei che gli uomini oggi chiamano Dea possa leggere qualcosa di emozionante, nelle righe del suo Poeta preferito...

Oggi, 1973.


"Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche,
assomigli al mondo nel tuo gesto di abbandono.
Il mio corpo di rude contadino ti scava
e fa scaturire il figlio dal fondo della terra.

Fui solo come un tunnel. Da me fuggivano gli uccelli
e in me irrompeva la notte con la sua potente invasione.
Per sopravvivere a me stesso ti forgiai come un'arma,
come freccia al mio arco, come pietra per la mia fionda.

Ma viene l'ora della vendetta, e ti amo.
Corpo di pelle, di muschio, di latte avido e fermo.
Ah le coppe del seno! Ah gli occhi d'assenza!
Ah le rose del pube! Ah la tua voce lenta e triste!

Corpo della mia donna, resterò nella tua grazia.
Mia sete, mia ansia senza limite, mio cammino incerto!
Rivoli oscuri dove la sete eterna rimane,
e la fatica rimane, e il dolore infinito."


"Corpo di Donna" di Pablo Neruda

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Vecchio 23-09-2016, 13.30.14   #9787
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Che magnifica esaltazione della donna.
Leggo in essa il Vero Amore unito a una passione e sensualità
che non cade nel degrado della volgarità.
Ma leggo pure uno struggimento interiore per l' amata..

Grazie per questa magnifica poesia di Neruda..
Questo giardino ne aveva sete..prima del cadere delle foglie
per il nutrimento dell' Anima.
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"Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte". E.A.Poe

"Ci sono andata apposta nel bosco. Volevo incontrare il lupo per dirgli di stare attento agli esseri umani"...cit.

"I am mine" - Eddie Vedder (Pearl Jam)

"La mia Anima selvaggia, buia e raminga vola tra Antico e Moderno..tra Buio e Luce...pregando sulla Sacra Tomba immolo la mia vita a questo Angelo freddo aspettando la tua Redenzione come Immortale Cavaliere." Altea
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Vecchio 26-09-2016, 14.59.53   #9788
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Oggi in Paradiso, Canto XI
Nacque al Mondo un Sole

"Intra Tupino e l'acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d'alto monte pende,

onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di questa costa, là dov' ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.

....
Ma perch' io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.

La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;
tanto che 'l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.

...

Né li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi' di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;
ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religïone.

Poi che la gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
meglio in gloria del ciel si canterebbe,
di seconda corona redimita
fu per Onorio da l'Etterno Spiro
la santa voglia d'esto archimandrita.

E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che 'l seguiro,
e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l'italica erba,
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l'ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.

Quando a colui ch'a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
ch'el meritò nel suo farsi pusillo,
a' frati suoi, sì com' a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l'amassero a fede;e del suo grembo l'anima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara..."

Divina Commedia - Dante Alighieri

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Vecchio 30-09-2016, 16.24.11   #9789
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Leggere Dante è sempre un dono all' Animo..

Ottobre fa capolino..ma mi rallegro..amo l' autunno
e il susseguirsi dell' inverno...e non perchè solo odio il caldo.
Perchè se estate è caldo, autunno e inverno per me sono "calore".
I suoi colori caldi..dal giallo, rosso, vermiglio e varie screziature,
è lo scoppiettare delle braci per arrostire castagne e ridere attorno
e parlare coi miei cari...qualcuno accompagnandole a uno dei nostri
ottimi vini regionali.
E' il tepore di una coperta mentre leggo un libro, mentre fuori è buio
ma quell' atmosfera la trovo profondamente mia.
Amo quando di sera il sole lascia largo spazio al buio..ed ecco il calore
di un the fumante vicino al libro.
E' il calore e l' allegria della vendemmia che nelle nostre zone è una festa...
E' poterti dire "buon compleanno, mio adorato fratello" e provare la stessa gioia di quando sei nato..
E' il calore del Natale...delle luci..e lo stare assieme...del tuo sorriso innocente di bambina che attendi l' arrivo del vecchio barbuto.
E' il calore del Natale con la Luce della Pace di Betlemme che ogni anno
illumina la mia casa..
E' il calore della solidarietà per chi una casa non ce l'ha...
E' tante cose...la speranza di una guerra che finirà...

Altea

Buon fine pomeriggio di settembre Camelot...
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Vecchio 04-10-2016, 15.02.12   #9790
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Oggi, La Morte di Francesco
Ancora non era notte,
il Sabato dopo i Vespri
Frate Francesco chinò il capo
Ed al Signore tornò.
L’anima sua come luce
Oltre le nubi si levò
Come una nave sulle acque
Nella gloria dei cieli entrò
Ed al calar delle ombre
Vennero le allodole cantando,
sopra le case roteando
stettero a lungo gridando.
Ancora non era notte,
il Sabato dopo i Vespri
compiuto in lui ogni mistero
Frate Francesco spirò.

(tratto da: "L'Infinitamente Piccolo" di Angelo Branduardi a.d.200)



FRATE FRANCESCO ED IL SULTANO DI BABILONIA

Quando Francesco si reca dal Sultano per salvargli l’anima Frate Illuminato era preoccupato e tremante, mentre con Francesco, dopo aver lasciato alle spalle l’accampamento crociato, si era messo in cammino verso le mura di Damietta, per incontrare il Sultano El-Kamil.
Era trascorso circa un mese dalla cruenta sconfitta che i crociati avevano subito, come Francesco aveva intuito nella sua visione.
Né l’appoggio di Gerard, né la straordinaria insistenza di Francesco con ogni comandante crociato, erano valsi a scongiurare la battaglia, Ed ora, durante la tregua, Francesco aveva deciso che non riuscendo a convincere i crociati a fare la pace, avrebbe provato a parlare al Sultano in persona.
Nel campo crociato tutti avevano cercato di dissuaderlo dal suo proposito. “Appena ti vedranno, ti taglieranno la testa!”. Così lo avevano scongiurato di non partire. Ma Francesco era stato irremovibile, anche se sentiva dentro di sé che quella nuova avventura, per lui e il suo compagno, sarebbe con ogni probabilità finita con il martirio.
I due frati, provati dalle fatiche dei viaggi e dal caldo insopportabile, dalla dissenteria e da ogni tipo di malattia, si trascinavano intrepidi per quel lungo tratto di “terra di nessuno”, ancora disseminata da tutto ciò che ricordava la battaglia: pezzi di corazza, lance spezzate, carogne di cavalli. Unica compagna la loro fede.
“Sei sicuro di volermi seguire fratello Illuminato?”, chiese Francesco, vedendo il tremore del compagno, sudato all’inverosimile.
“Sempre”, rispose Illuminato con un filo di voce “e spero di seguirti anche in Paradiso”.
Francesco lo carezzò e disse: “Forse non è ancora la nostra ora, ma se così fosse ti assicuro che sarà Gesù stesso ad accoglierci!”.
Non aveva finito di pronunciare la frase che quattro cavalieri saraceni al galoppo, i temibili giannizzeri, erano apparsi al loro fianco, li avevano circondati e dopo averli gettati a terra e picchiati, cominciarono ad interrogarli.
“Soldan, soldan”, urlava Francesco. “Sono cristiano. Voglio parlare con il Sultano”. E alzava le braccia al cielo, per far capire che venivano in nome di Dio. Uno dei saraceni aveva già estratto la scimitarra, ma il capo giannizzero lo fermò. Era incuriosito dallo strano modo di vestire dei due frati, così diverso da cavalieri o sacerdoti cristiani.
Nell’Islam, i saggi, i “sufi” (“suf” vuol dire cappuccio) portavano abitualmente un rosso abito con un cappuccio. E quei due infedeli erano abbigliati di stracci, ma anch’essi avevano un cappuccio.
Ciò fu sufficiente per far smettere ai saraceni di insultarli e picchiarli. Vennero legati e mentre Francesco ringraziava Dio, continuava ad urlare “Soldan, Sultano”. Dopo qualche tempo furono condotti al cospetto di El-Kamil, il Sultano d’Egitto, che ammirato di tanto coraggio, li trattò bene e li ospitò presso di sé alcuni giorni, ascoltando ciò che avevano da dire.
Francesco all’inizio predicò il Vangelo, raccontò con parole dolcissime la nascita del Salvatore a Betlemme, fino al supplizio della sua morte in croce. In ogni modo tentò di persuadere il Sultano, i saggi e gli “ulema” musulmani, come la fede in Cristo fosse vera e la loro sbagliata.

I due frati rischiarono anche di vedersi tagliare la testa, quando sfidarono la corte, proponendo l’ordalia del fuoco, una prova medioevale che consisteva nel lasciare a Dio le risposte. Bisognava entrare nel fuoco e chi non veniva bruciato era quello che diceva la verità.
El-Kamil era lieto di quell’incontro. Ascoltava con attenzione Francesco, quel giullare della fede, che tentava di ammaliarlo in ogni modo, con canzoni, danzando, con la mimica dei gesti, ma che sentiva innamorato del Cristo più di qualunque uomo di fede avesse mai conosciuto. Uno sgorbio d’uomo, ammantato solo di stracci puzzolenti, che dimostrava una forza, una volontà inimmaginabili. Neanche il più potente tra tutti i crociati, era degno di stargli a fianco.
Il Sultano si era perfino commosso quando Francesco, insultato ed offeso dai suoi dignitari, che gli magnificavano le meraviglie del Paradiso del Profeta – dove scorrono fiumi di ambrosia e miele e dove bellissime giovani tornavano ad esser vergini ogni volta, dopo aver fatto l’amore – si sentì rispondere: “Ma tutto questo cosa conta se non c’è l’amore, il perfetto amore di Gesù, che ci ha insegnato ad amare anche i nostri nemici”.
“Perché mai tu dovresti amare anche me, che posso farti tagliare la testa in ogni momento?”, aveva chiesto El-Kamil.
“Certo che ti amo, come amo tutti voi. Sono qui perché voglio salvare la tua anima, voglio che la fede in Cristo entri nel tuo cuore”.
El-Kamil era affascinato dalla dolcezza di carattere e dall’indomabile volontà di Francesco. Parlarono anche dell’Islam, che considera Gesù un profeta, certo non grande come Maometto e che prova venerazione anche per Maria. E parlarono delle crociate, che insanguinavano quelle terre da più di un secolo.
“Tu credi davvero”, aveva provocato il Sultano, “che i crociati siano qui solo per Gerusalemme o per Betlemme, che tu ami tantissimo? O sono qui per impadronirsi delle nostre terre, delle nostre ricchezze?”.
Francesco aveva compreso che quell’uomo descritto, come una belva sanguinaria, come crudele assassino, aveva un cuore e che le loro anime si erano incontrate. Tanto che El-Kamil, temendo che la predicazione di Francesco potesse indurlo a qualche debolezza, che non sarebbe stata accettata dal suo “entourage”, preferì farlo tornare al campo crociato. Prima però gli offrì dei mandati per recarsi nei luoghi santi, ma soprattutto una grande quantità di doni, per i poveri che Francesco amava tanto.
Francesco non poteva accettare quelle ricchezze. Sia per la situazione in cui era, sia perché aveva fatto voto di povertà. Ma capì che il suo incontro non era stato vano quando El-Kamil gli chiese: “Frate, prega per la mia anima, perché Dio si degni di mostrarmi quale fede gli è più gradita”.
E così Francesco ed Illuminato fecero ritorno all’accampamento cristiano.
Lì i crociati non riuscivano a credere che quei due monaci, partiti qualche giorno prima, potessero essere usciti vivi da quell’avventura e che il Sultano li avesse ascoltati e trattati con grande rispetto.
Purtroppo né i consigli di Francesco, né l’offerta del Sultano di consegnare Gerusalemme, Nazareth e le reliquie della vera croce ai crociati, dissuasero Pelagio, il legato pontificio, dal continuare l’assedio.

Chiuso nel suo ostinato rifiuto ad un compromesso con i musulmani, Pelagio finì per costringere i comandanti crociati ad una nuova spaventosa offensiva, che si concluse il 5 novembre del 1219 con la presa della città, che fu saccheggiata, e gli abitanti massacrati.
Un altro episodio inglorioso per i crociati, che due anni dopo subirono la riconquista della città da parte musulmana ed assistettero al fallimento dell’intera crociata.
Francesco, disgustato da tutto quel sangue, dalla morte di tanti giovani mandati al macello – anche Gerard, il suo amico Templare era morto – comprese come venisse frustrato il suo desiderio di pace e se ne tornò a S. Giovanni d’Acri. Nel deserto e al campo crociato, aveva contratto una infezione agli occhi che non riusciva a guarire e che a volte gli impediva quasi di vedere.
Nella primavera dell’anno successivo, Francesco, ormai impossibilitato anche a visitare il Santo Sepolcro e la Betlemme dei suoi sogni, si era imbarcato per ritornare in Italia.

(tratto da “Il Presepe di S. Francesco”, di G.M. Bragadin, ed. Melchisedek)

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