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Vecchio 10-10-2013, 10.18.16   #161
Taliesin
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LA FANCIULLA DEI FIORI: IOSEFINA CIARDI DA SAN GIMIGNANO.


Nata nel 1238 a San Gimignano dai Ciardi, nobili decaduti, nella casa ancora esistente nel vicolo che porta il suo nome, Fina (abbreviazione di Iosefina) a dieci anni fu colpita da una malattia che la paralizzò completamente.

Già orfana di padre, Fina perse anche la madre e rimase in assoluta povertà, aiutata solo da un'amica di nome Beldia. Dopo cinque anni di indicibili sofferenze sopportate con serenità e devozione, Fina si spense il 12 marzo 1253, festa di San Gregorio Magno, di cui era devota e dal quale avrebbe avuto l'annuncio della morte.

Secondo la leggenda, trascritta nel Trecento dal domenicano Giovanni del Coppo, al momento del suo trapasso le campane di San Gimignano suonarono a festa senza che mano alcuna toccasse le corde, e quando il suo corpo fu sollevato dall'asse di quercia che era stato il suo giaciglio, questo si coprì di fiori. Contemporaneamente, torri e mura si ornarono di migliaia di viole gialle, e ancor oggi questa fioritura si ripete ogni anno, per quanto rigido sia l'inverno.

Il culto della Santa fu molto vivo fin dagli inizi, tanto che grazie alle offerte lasciate sul suo sepolcro già nel 1258 si poté costruire uno spedale. Nel 1457 il Consiglio del Popolo deliberò la costruzione di una magnifica cappella nella collegiata, realizzata da Giuliano da Maiano e ornata di sculture di Benedetto da Maiano ed affreschi del Ghirlandaio. La città volle la piccola Fina come propria protettrice al fianco del patrono ufficiale, Geminiano, e a lei ricorse nella calamità con fiducia e devozione. Le feste annuali in suo onore sono due. La prima cade il 12 marzo - anniversario della sua dipartita; la seconda si celebra la prima domenica d'agosto, per ricordare che nel 1479 Fina salvò la città dalla peste e dalla guerra.

tratto da www.santitoscani.it

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Vecchio 10-10-2013, 11.53.59   #162
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LA CONTESSA DEI PAPI: MAROZIA, LA CORTIGIANA.

Una donna che con astuzia,seduzione e intelligenza riuscì a manovrare politici e re,papi e cardinali.
E’ la storia di Marozia,figlia di una nobildonna sorella di Adalberto di Toscana e di un gentiluomo di nobiltà tedesca.

Marozia nacque a Roma presumibilmente nel 892.

Sin da ragazzina mostrò immediatamente un carattere volitivo,a cui aggiungeva la consapevolezza di essere una gran bella ragazza;l’intelligenza la unì alle sue indubbie doti di avvenenza,e le sfruttò al meglio,tanto che a sedici anni era già l’amante di un papa,Sergio III, che tra l’altro era un suo primo cugino.
Una relazione scandalosa,ma non per quei tempi,in cui la chiesa versava in una crisi morale profonda;una crisi che coinvolgeva comunque tutte le sfere della società,priva di una guida morale autorevole.
Marozia era scaltra e ambiziosa.

A 28 anni,dopo 12 anni passati all’ombra del papa,restò incinta.
Con furbizia combinò,grazie all’aiuto del potente papa, un matrimonio di convenienza con Alberico I di Spoleto, che riconobbe il figlio nato dalla relazione adultera.
Nel 910,con l’aiuto di alcuni sicari,fece uccidere il papa,e iniziò la sua personale scalata alle vette della società.
Con Alberico,uomo ambizioso quanto lei,costituì una coppia affiatata e spietata.
Il passo successivo che fecero fu quello di entrare nell’entourage di papa Giovanni X.
Una mossa intelligente,visto che Alberico,messo a capo dell’esercito pontificio,sconfisse in battaglia i saraceni e divenne console.
La via per il successo sembrava spianata,quando all’improvviso,per cause incerte,Alberico morì.

Marozia reagì immediatamente,e in breve tempo combinò un altro matrimonio,naturalmente con un nobile,il marchese Guido di Toscana,fiero avversario del papa Giovanni.

La volitiva Marozia seguì il marito in una congiura antipapale,che si concluse con un assalto alla residenza del papa,che venne fatto prigioniero e morì poco dopo,pare strangolato da qualche sicario.
Da questo momento la via per la gloria è spalancata;Marozia riesce a pilotare le elezioni successive,quelle di Leone VI e Stefano VIII,prima di compiere il suo capolavoro,l’elezione al trono di Pietro di Giovanni XI,il figlio nato dalla relazione con Sergio III.

Con questa mossa Marozia raggiungeva il suo scopo,diventare la donna più potente d’Italia;e ancora una volta il caso (forse pilotato abilmente dalla diabolica donna) le venne incontro.
Poco dopo l’elezione di Giovanni XI moriva Guido,suo marito.
In breve tempo Marozia compì il suo capolavoro politico,sposando Ugo di Provenza,re d’Italia e fratello di Guido.
Una situazione paradossale,ai limiti dell’incesto,e assolutamente vietata dai codici civili e morali.
Naturalmente non poteva esserci un freno all’ambizione dei due amanti;a Ugo serviva la donna come trampolino di lancio per controllare il papato,a Marozia serviva il titolo di regina d’Italia.

Così scandalizzando tutti,Ugo giurò di non essere fratello di sangue di Guido,ma suo fratellastro,in quanto nato da una relazione adulterina del padre.
Tutto sembrava pronto,quindi,per la logica conclusione,l’incoronazione di Ugo a imperatore.
Ma i piani tanto accurati di Marozia erano destinati a essere cancellati proprio dalla persona alla quale meno pensava,suo figlio Alberico II,nato dal matrimonio con Alberico,fratellastro di papa Giovanni XI.

Alberico II,difatti,con quello che oggi definiremmo un golpe,spiazzò tutti facendo arrestare Ugo,deporre papa Giovanni e confinando la sua terribile madre in un convento,e restando in pratica dominatore incontrastato di Roma.

Marozia,chiusa in un convento,sorvegliata a vista,priva di appoggi esterni,visse da reclusa ben 22 anni.

Che saranno sembrati,alla grande tessitrice di inganni,un tormento ed un’eternità. Si spense nel 955,a 63 anni.Era l’ombra della donna che aveva tramato e tessuto intrighi a corte e nell’entourage papale.

La sua vicenda ispirò la popolare leggenda della papessa Giovanna.

tratto da:www.paultemplar.it

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Ultima modifica di Taliesin : 10-10-2013 alle ore 12.03.43.
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Vecchio 10-10-2013, 12.39.07   #163
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I VANITOSI FAZUOLI DEI VESPRI: LE ANONIME MESSINESI.

Triste fu il tramonto del XIII secolo in Sicilia. Il lamento del popolo sofferente non tardò a divenire grido di ribellione. Così se i francesi portarono nuove maniere di vivere non riuscirono ad abbagliare con lo splendore del fasto quel popolo presso il quale erano ancora fiorenti le mirabili manifestazioni del lusso orientale.

Prima della dominazione francese i mercanti erano forniti di merci straniere e mentre a Palermo i Veneti godevano d'ogni franchigia per le gemme, le seterie e gli ermellini, a Messina ogni mercé preziosa poteva essere acquistata e lo smeraldo della Nubia, i velluti, i zendadi di Costantinopoli, i gingilli artistici niellati di Damasco facevano bella mostra sulle donne di quei tempi.


I Francesi favorirono forse il commercio dei tessuti d'occidente, e con gli sciamiti lucchesi e veneziani introdussero in Sicilia quelle stoffe di lana di pecora inglese fabbricate in Francia, stoffe preziose, che non tardavano ad essere adottate dalle donne siciliane e specialmente da quelle messinesi.

Ad esempio fulgida appariva la ricchezza degli ornamenti femminili ed in particolare si rammenta che le donne di Messina usavano fra l'altro coprire le acconciature del capo con ghirlande d'oro o d'argento adorne di perle, e portavano "fazzuoli" trapunti d'oro filato, usavano stringere al busto, per somiglianzà delle donne francesi, con cinti preziosi e arricchivano di perle il nastro con la quale chiudevano i loro mantelli.


I regali costosissimi che si davano alle spose erano messi in mostra quasi incoraggiamento per i donatori a gareggiare nel valore degli oggetti offerti, e quest'usanza si riscontra tanto nelle classi umili, quanto nelle classi elevate. Generalmente ogni nuova maniera di vestire, ogni esotica manifestazione del lusso era adottata a Messina prima che in ogni altra città dell'isola, e ciò per i maggiori traffici che quella città aveva con le nazioni straniere. Ovunque le donne camminavano per le vie con zone dorate, con mantelli di camelotto foderati di cendato, ovunque esse facevano mostra di vesti dai colori vivi come il rosso o il verde, con larghe frangie le quali furono anche oggetto della severità del legislatore.

Chi non aveva veli di seta li aveva di lino, chi non poteva avere cintura di metallo prezioso la portava di stoffa con fili d'oro, ma la vanità appariscente del vestire si era innescata in ogni classe sociale, dalle castellane alle fruttivendole. Quando si trattò di reprimere le fogge eccessivamente costose delle vesti, le donne di Messina protestarono tanto energicamente da costringere Carlo D'Angiò ad annullare lo statuto suntuario emesso da magistrato messinese e da lui confermato nel 1272, e permettere che esse potessero portare in quella quantità che "lor piacesse aurum, perlas atque aurifrigie etc...".

Se però quelle donne si ribellarono alle imposizioni della legge, non esitarono a deporre i "soperchii ornamenti" quando la patria richiese sacrifici e privazioni.

Allora le donne eleganti si videro per le vie di Messina andare con la tunica succinta, con i piedi nudi, i cofanetti in cui avevano tenuti i loro monili furono pieni di pane e di viveri.
I cronisti dell'epoca ci raccontano di slanci sublimi e il Gregorio ci narra che quando la città fu aspramente combattuta da Carlo d'Angiò, proprio quelle donne "vanitose" diedero l'aiuto a rifar le mura.
La difesa di Messina oltre d'essere uno degli episodi più gloriosi della guerra del Vespro è una delle pagine più belle nella storia dell'abnegazione femminile. Tutto si trasforma ma nulla cambia, ora e sempre.
di Claudio Calabrò


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Vecchio 11-10-2013, 08.58.46   #164
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IL SOGNO DELL'ETERNA GIOVINEZZA: MARIA, LA GIUDEA.

Nel mondo dei nostri antichi sapienti che credevano e basavano i loro studi esperenziali sul potere della trasformazione attraverso il fuoco con la realizzazione del grande sogno: l’immortalità e l’eterna giovinezza.

E’ in questo universo antico che troviamo una delle poche, forse l’unica, donna alchimista ricordata, Maria la Giudea .

Maria visse forse nel XIII secolo a.C. e fu sorella di Mosè ma più probabilmente la sua esistenza si svolse intorno al III secolo d.C. periodo in cui gli studi alchemici erano al massimo del loro fulgore.
Ed ecco apparire Maria nella nostra mente… bellissima donna dai lunghi capelli rossi e dai grandi occhi verdi….
Maria in grado di incantare l’universo maschile grazie a capacità dialettiche e percezioni magiche che la rendevano in grado prevedere il futuro.
Dal fuoco dei suoi esperimenti nuvole di fumo si elevavano e in essi Maria coglieva messaggi ben più sottili.

Dalla logica maschile di sfruttamento lei leggeva il deprecabile egoismo e l'intenzione di sfruttare la natura per piegarla secondo una volontà utilitaristica; il sogno alchemico di trasformare il metallo in oro e tutto il tempo speso dai suoi colleghi per questo scopo era per lei svilimento del creato.

Maria invece lavorava per riuscire ad entrare in sintonia con questo stesso creato e per ogni singola pianta, pietra, frutto, fiore, metallo ne coglieva la parte magica, liberandola a beneficio di tutti.
Recita di Maria la famosa frase ermetica:
il risultato atteso non ci sarà se non impareremo a rendere incorporei i corpi e corporee le cose prive di corpo…”

Nasce la Magia alchemica improntata sul corpo femminile che può dar vita e rendere corporea attraverso l’incarnazione l’anima umana, nasce lo strumento alchemico del “bagnomaria”.

Tutti conosciamo il bagnomaria in quanto normalmente utilizzato come tecnica di cottura; (sfruttare il calore rilasciato dall’acqua in ebollizione per evitare di sottoporre l’alimento a sbalzi termici), ma non tutti sanno che il pensiero di Maria e la Sua grande invenzione si ispirarono proprio al calore dolce e tiepido di trasformazione generato all’interno dell’utero femminile che determina la crescita e lo sviluppo miracoloso del feto.

Ed è a giugno in questo momento dell’anno che richiamiamo alla mente questa metodologia alchemica ben sintonizzata con l’energia del sole in cancro. Il Cancro, la grande madre, l’avvolgenza del ventre materno, il segno d’acqua che è l’acqua del liquido amniotico che protegge e dà nutrimento.

Ed è in sintonia con l’essenza del mese del Cancro che penseremo ad un rito magico in onore di Maria la Giudea e di tutte le donne a cui il periodo dominato dal pianeta Luna è dedicato, integrando assieme anche il grande sogno alchemico dell’eterna giovinezza.

Nel Basso Medioevo altre donne iniziate alla rinascennte alchimia, usarono il nome dimenticato ed oscuro di Maria, la Giudea per nuovi riti legati al suddetto sogno alchemico, ma, tra le incomprensioni degli Uomini, le sentenze e condanne dei Puritani, queste donne furono chiamate "semplicemente" Streghe, ma questa, come sappimo bene, è certamente un'altra storia...

tratto da: www.ilcerchiodellaluna.it

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Vecchio 11-10-2013, 15.23.15   #165
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In voi ritrovo sempre ....la vaglia di far conoscere la vita delle donne...quando gli uomini amavano farne dimenticare l'esistenza.........
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Vecchio 11-10-2013, 15.34.09   #166
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Madonna...ringrazio la vostra innata sensibilità che si unice alla mia estrema comprensione per l'universo femminile...ma uno dei motivi che mi ha spinto a ricercare di queste Donne e di queste mie canzoni, è che i cosiddetti Secoli Bui sono tornati prepotentemente in quest'epoca nefasta e violenta, dove certi Uomini continuano a cancellare l'esistenza stessa della Donna che in altri termini sarebbe l'unica ancora di salvezza per l'Uomo, inteso come Umanità.

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Vecchio 19-11-2013, 15.17.25   #167
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LA GIUDICHESSA DI SARDEGNA: ELEONORA D'ARBOREA.

Esile nella corporatura quanto energica e vigorosa nel carattere, EleonoraD’Arborea, nobildonna sarda, portò con la storia di cui lei stessa si volle rendere protagonista, un vero e proprio cono di luce sulla capacità delle donne di essere strateghe.
Quella che da tutti è ricordata come la “giudichessa” nacque in Catalogna intorno al 1340 da Mariano de Bas – Serra e da Timbra di Roccabertì ed ebbe due fratelli, Ugone e Beatrice. La sua vita si svolse e riguardò la Sardegna dove nel 1347 il padre Mariano venne nominato giudice dalla Corona de Logu, assemblea dei notabili, prelati e funzionari delle città e dei villaggi dell’isola.

Prima della morte del padre, Eleonora aveva sposato Brancaleone Doria, un matrimonio dettato dall’esigenza di creare un’alleanza tra gli Arborea e i Doria da frapporre agli Aragonesi. Dal matrimonio nacquero due figli: Federico e Mariano.

Nel 1382 Eleonora prestò 4000 fiorini d’oro a Nicolò Guarco, doge della Repubblica di Genova, il quale si impegnò a restituirli entro dieci anni; in caso contrario il doge avrebbe dovuto non solo pagare il doppio della somma che gli era stata prestata ma anche concedere sua figlia Bianchina al figlio di Eleonora, Federico. Il prestito di una tale ed ingente somma di denaro ad una delle più potenti famiglie di Genova e le clausole del contratto, erano già segni del disegno dinastico che la futura giudichessa aveva in mente.

Inoltre, accordando quel credito, Eleonora intendeva mantenere alto il prestigio della sua famiglia, riconoscere l'importanza degli interessi liguri e assicurarsi un collegamento, mediante la rete delle loro navi, con tutti i porti del mediterraneo. In sostanza Eleonora D’Arborea con questo passo entrò alla pari nel gioco della politica europea.

Quando il fratello Ugone III, che era a capo del giudicato, si ammalò si profilò il problema della successione ed Eleonora si rivolse al re d’Aragona perché sostenesse suo figlio piuttosto che il visconte di Barbona, vedovo di sua sorella Beatrice. A trattare con il re inviò il marito Brancaleone, il quale però venne trattenuto dal re che ne fece un ostaggio e uno strumento di pressione contro Eleonora.

Il disegno di Eleonora, che gli spagnoli avevano intuito, era quello di riunire nelle mani del figlio due terzi della Sardegna che Ugone aveva occupato. Così il re non ritenendo opportuno avere una famiglia tanto potente nel suo regno, tanto più che non essendoci erede diretto maschio di Ugone quei possedimenti, secondo la "iuxta morem italicum", avrebbero dovuto essere incamerati dal fisco, trattenne Brancaleone col pretesto di farlo rientrare in Sardegna non appena una flotta fosse stata pronta.

Ma la risposta di Eleonora non si fece attendere. La donna punì i congiurati e si proclamò giudichessa di Arborea secondo l'antico diritto regio sardo, per cui le donne possono succedere sul trono al loro padre o al loro fratello.

Nella prassi e negli orientamenti di governo la giudichessa si riallacciò direttamente all'esperienza del padre abbandonando definitivamente la politica antiautoritaria del fratello Ugone III. Punti nevralgici della suo governo furono la difesa della sovranità e dei confini territoriali del giudicato e, infine, l'opera di riordino e di sistemazione definitiva degli ordinamenti e degli istituti giuridici locali che diede vita alla Carta de Logu.
La Carta de Logu fu il fiore all’occhiello della politica di Eleonora d’Arborea e fu definita come un distillato di modernità e saggezza. Nel reagire ai tentativi di infeudazione aragonese, Eleonora emanò, infatti, una nuova disciplina giuridica nei propri territori, i quali erano in uno stato di perenne agitazione politica.

Tale legislazione non era episodica o sporadica ma era la componente di una più vasta politica intesa allo sviluppo dello stato degli Arborea. Tra le norme più importanti sono da citare quelle che salvavano dalla confisca “i beni della moglie e dei figli, incolpevoli, del traditore” , i quali secondo quanto disposto dal parlamento aragonese del 1355, diventavano servi del signore della terra.

Inoltre la giudichessa inserì anche una norma che permetteva il matrimonio riparatore alla violenza carnale subita da una nubile solo qualora la giovane fosse stata consenziente. Altri esempi della portata innovativa della carta sono la contemplazione del reato di omissione di atti d'ufficio, la parità del trattamento dello straniero a condizione di reciprocità, ed il controllo, attraverso "boni homines" delle successioni"ab intestatio" in presenza di minori.

Dopo essere riuscita a completare il progetto del padre di riunire quasi tutta l'isola sotto il suo scettro di giudichessa reggente, tenendo in scacco e ricacciando ai margini dell'Isola, in alcune fortezze sulla costa, gli aragonesi, Eleonora vide crollare il suo progetto per un’imprevedibile incognita della sorte: la peste, che consegnò, senza combattere, la Sardegna agli Aragonesi.

tratto da: "Una Donna stratega a capo della Sardegna" di Tiziana Bagnato.

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Vecchio 20-11-2013, 14.01.33   #168
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E come sempre amato Bardo...avete aggiunto il nome di altra Donna.....e lo avete dedicato ad una popolazione che sta soffrendo......la vita e' una strana cosa.....si piange sulla morte ma con le mani vuote si ricostruisce una nuova vita..........
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Vecchio 20-11-2013, 15.02.50   #169
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Madonna Elisabetta...
La Vostra Perla di Speranza e di Saggeza ha solcano i confini degli uomini, ormeggiando nel mare delle solituidni e degli abissi ignoti, posandosi sulle coscenze e sui cuori di ogni spazio temporale...
Grazie per esserci stata, là, dove osano in pochi, per sempre...sempre.

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Vecchio 08-01-2014, 12.43.13   #170
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LA MADRE DEL SUFISMO: RABI'A AL-'ADAWIYYA AL -'QAYSIYYA.
ابعة العدوية القيسية,

Quarta figlia di una famiglia molto povera (da cui il suo nome proprio, che significa "quarta"), secondo alcuni sarebbe stata una suonatrice di flauto (nay), quindi dai più bigotti considerata una peccatrice. Il poeta medievale Attar scrisse nel XIII secolo le Storie e detti di Rabi‘a, sottolineando la sua autorità tra i mistici e la sua santità. Nonostante ciò, quanto sappiamo di lei è semplice leggenda, quindi per lo più inattendibile, ma che dà comunque un’idea della sua personalità e della stima di cui godeva.

Secondo ʿAṭṭārʿ la sua vita fu segnata fin dall’inizio da eventi miracolosi La notte della sua nascita non c’era una lampada in casa, né fasce in cui avvolgere la neonata. La madre chiese al marito di andare a chiedere petrolio per la lampada al loro vicino, ma egli aveva promesso a se stesso che non avrebbe mai chiesto aiuto a nessuno, quindi tornò a mani vuote. Si addormentò turbato per non aver provveduto alla figlia. Il profeta Muhammad gli apparve in sogno e gli disse: «Non dispiacerti poiché questa figlia appena nata è una grande santa, la cui intercessione sarà desiderata da settantamila persone della mia Umma». Aggiunse poi di mandare una lettera ad ʿĪsā Zadhan, emiro di Basra, «ricordagli che ogni notte è solito dedicarmi cento preghiere e quattrocento il venerdì, ma questo venerdì mi ha negletto e come penitenza dovrà darti quattrocento dinar». Il padre di Rābiʿa si svegliò in lacrime e subito scrisse e mandò la lettera all’emiro, che dopo averla letta ordinò di dare quattrocento dīnār al povero padre e volle incontrarlo.

Divenne presto orfana, e la carestia costrinse le sue sorelle a separarsi. Mentre se ne andava errando senza meta, fu catturata da un mercante di schiavi che la vendette per poche monete (sei dirham) a un ricco signore che le impose lavori pesanti. Digiunava per tutto il giorno, dedicando la notte alla preghiera. La sua devozione per Dio era fortissima. Il suo padrone percepì la sua illuminazione vedendola pregare una notte, avvolta di luce. Trasalì vedendo quella luce meravigliosa e restò a pensare tutta la notte. La mattina dopo decise di liberarla affinché perseguisse il suo percorso spirituale. Rābiʿa allora si diresse nel profondo deserto dove iniziò la sua vita solitaria e ascetica.

La sua scelta dell’Assoluto era così totale da implicare perfino la verginità (cosa malvista dall’Islam). Rimase nubile nonostante le svariate richieste di matrimonio (tra cui quella di Muḥammad b. Sulaymān al-Hāshimī, emiro di Baṣra). Rābiʿa era già spiritualmente "sposata" con Dio, e a chi le chiedeva il motivo di tale celibato rispondeva: «Non ne ho il tempo». Dovendosi occupare della purezza della sua fede, delle opere da presentare a Dio, e della sua salvezza nel giorno della risurrezione, il matrimonio l’avrebbe semplicemente distratta da Dio.
Fu un simbolo di purezza ed ascetismo. Visse e portò alle estreme conseguenze l’esigenza di radicalità propria del Corano. Scelse volontariamente la povertà e l’abbracciò con fervore per tutta la vita. Si vergognava di chiedere qualcosa dei beni di questo mondo perché «questi non appartengono a nessuno, chi li ha in mano li ha soltanto in prestito». Confidava unicamente in Dio per il proprio sostentamento. Visse come reclusa, ma dalla sua misera capanna si diffuse dovunque il suo insegnamento. I sapienti del suo tempo si consideravano privilegiati di parlare con lei dei misteri di Dio. Nel suo rifugio si dedicò inoltre ad opere pietistiche. ʿAṭṭār racconta che una notte al-Hasan al-Basn e alcuni suoi compagni andarono da Rābiʿa. Non essendoci lampade, Rābiʿa si mise in bocca la punta delle dita e quando le trasse fuori queste irraggiarono luce fino all’alba.

Si dice che pregasse migliaia di volte al giorno e che dormisse pochissimo. «Pregava tutta la notte, e quando cominciava ad albeggiare faceva un breve sonno sul suo tappeto per la preghiera fino al sorgere dell’aurora». Non ebbe alcun maestro spirituale, rivolgendosi direttamente a Dio. Rinunciò a tutti i beni del mondo e a qualunque desiderio, dedicando la sua intera vita alla devozione per Dio, al Suo servizio, alla Sua contemplazione e all’estasi: «Strappai dal mio cuore ogni attaccamento alle cose del mondo e distolsi il mio sguardo da ogni realtà mondana».
Affermava che perfino i desideri più puri fossero distrazione ed ostacolo, perché «Dio solo dev’essere cercato, e tutto ciò che non è Dio è mondo, è idolo e vano… L’amore per il creatore mi ha distolto dall’amore per le creature… La continenza nelle cose del mondo è riposo del corpo, il desiderarle procura afflizione e tristezza… L’Inviato di Dio ha detto che chi ama una cosa la ricorda di continuo, il ricordare il mondo mostra la vanità dei cuori. Se foste immersi in Chi è altro da esso non lo ricordereste». Considerava perfino la redazione dei libri di hadith come "cosa del mondo", e vanità la Ka'ba: “La Casa è un idolo adorato sulla terra, è pietra».
Anche l’amore per Maometto era da lei considerato una distrazione: «L’amore di Dio ha riempito il mio cuore a tal punto che non c’è restato posto per amare o detestare un altro»... «Il paradiso stesso non è nulla rispetto a Colui che lo abita… Il vicino prima della casa» (detto divenuto comune tra gli Arabi). Disse: «Io custodisco il cuore perché non permetto che esca nulla di ciò che è dentro di me né che entri nulla di ciò che è fuori». Le sue preghiere non erano finalizzate all’intercessione ma alla comunione con l’ Amato, la Sua visione e la Sua conoscenza. Bramava l’incontro con Dio, l’unico desiderio e l’unica pena che le rimaneva e che l'assillava e la faceva disperare. Si dice che gemesse di continuo perché affetta da una malattia la cui unica medicina era la Sua visione. «Ciò che mi aiuta a sopportare questa malattia è la speranza di realizzare i miei desideri nell’aldilà». Affermava che Dio non dovesse essere adorato per timore di essere puniti o nella speranza di ottenere un riconoscimento ma per un amore fine a sé stesso. «Per la potenza tua, io non ti ho servito desiderando il tuo paradiso. Non è questo il fine a cui ho rivolto tutta la mia vita». Avrebbe voluto andare "in cielo, per gettare il fuoco nel paradiso e versare l’acqua nell’inferno", in modo che lo sguardo potesse rivolgersi soltanto a Dio "senza speranza né timore". Diceva che il pentimento poteva esserci solo se Dio concedeva prima il perdono "Tu ti pentirai se Dio ti perdona". La sua preoccupazione perenne era di conformarsi alla volontà di Dio in tutto ciò che capita, attraverso un totale annientamento di sé stessa. «Sono del mio Signore e vivo all’ombra dei suoi comandi. La mia persona non ha alcun valore».

Si dice iperbolicamente restasse quarant’anni senza alzare la testa tanto si vergognava di fronte a Dio. Le fu chiesto "Donde sei venuta?" |Dall’altro mondo". "E dove sei diretta?" "All’altro mondo". "E cosa fai in questo mondo?" "Me ne prendo gioco. Mangio del suo pane e compio l’opera dell’altro mondo".

Morì ad ottant’anni. La sua morte fu semplicissima. Una tradizione riferisce che fu sepolta a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, luogo privilegiato di sepoltura per i pii musulmani, e che la sua tomba divenne meta di devoti pellegrinaggi.

Taliesin, il Bardo

tratto da: wikipedia, l'enciclopedia del sapere.
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"Io mi dico è stato meglio lasciarci, che non esserci mai incontrati." (Giugno '73 - Faber)
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