"Dubito che che capirebbero la nostra lingua..." disse Fellay a Marin "... come del resto noi la loro..."
"Seguiamoli, a questo punto sono curioso da impazzire." Bret.
"Si, solo così, forse, capiremo tutta questa assurdità." Mormorò Laudup.
"Tu cosa ne pensi?" Fellay a Juninho.
L'altra non rispose nulla, ma il suo sguardo era eloquente, circa il suo stupore.
Seguirono così gli indigeni, attraversando quel luogo assurdo, tra cemento in decadenza e una flora che dominava su tutto.
Passare in quelle che un tempo dovevano essere state strade trafficate, con negozi, vetrine, piazze, rioni e quartieri, fra grattacieli altissimi e costruzioni di ogni genere, trasmetteva una profonda angoscia nell'animo di Marin e degli altri.
Alla fine arrivarono davanti a una struttura ampia, alta, che un tempo doveva apparire lussuosa e monumentale, forse il municipio o qualche palazzo governativo, tutta circondata da una moltitudine di indigeni armati che circondavano una tenda, sotto cui c'era un trono fatto di legno e gemme preziose, sul quale sedeva una strana figura.
Si trattava evidentemente di uno stregone, o forse uno sciamano, abbigliato con pelli e maschera rituale.
"Aka, tinde mo tak!" Disse uno degli indigeni che avevano portato lì Marin e i suoi compagni. "Uke rusta tabeke!"
Lo stregone lo zittì con un cenno e poi si alzò, uscendo dalla tenda ed avvicinandosi al gruppo dei bianchi, proprio di fronte a Marin, fissando i suoi capelli rossi.