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Vecchio 06-04-2018, 01.02.25   #1
Guisgard
Cavaliere della Tavola Rotonda
 
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La leggenda della Pieve di Monsperone

LA LEGGENDA DELLA PIEVE DI MONSPERONE

Scena I: Le dolci colline di Sygma

"In disparte Ulisse partecipa al banchetto;
un treppiede e un sedile ancora più umile il principe gli assegna."

(Omero, Odissea, libro XX)

Nel ridente distretto della felice Sygma, bagnato dal fiume Elsa si estende un vasto bosco, chiamato Chanty, che ricopre gran parte delle belle colline e delle vallate tra il profluvio e le città di Florenza e Sanae.
Qui le leggende parlano di tempi antichi e favolosi, quando infuriava il furore dei Taddei con le molte battaglie combattute per il trono del paese e delle bande di intrepidi fuorilegge Afragolignonesi le cui gesta sono state immortalate in tante canzoni Sygmesi.
Se questa è la scena principale della nostra storia, la sua data si riferisce ad un periodo intorno alla fine del governo di Severo I, vescovo di Monsperone, quando i suoi abitanti, approfittando della sua lunga prigionia, si ribellarono alla Santa Sede e proclamarono la nascita della libera città repubblicana.
La nobiltà feudale, con la cacciata dei Taddei, aveva sempre più ripreso forza e vigore e diverse generazioni non erano state sufficienti a mescolare il sangue ed i valori ostili dei Sygmesi e dei filo Taddeidi, né ad unire attraverso la lingua e gli interessi comuni due razze avverse, una delle quali era ancora euforica per il trionfo, mentre l'altra gemeva per le conseguenze della sconfitta.
Dopo la cacciata dei cavalieri Afragolignonesi tutto il potere era passato alle signorie Sygmesi che lo usavano senza alcuna moderazione.
La politica dei feudatari era volta ad indebolire con ogni mezzo, legale o illegale, le forze di quella parte della popolazione ritenuta, a ragione, animata da forte ostilità verso il vincitore.
Il Clero, schierato a favore dei Cattolici, era considerato nemico dai signorotti locali che con l'ausilio di leggi ostili avevano reso ancora più opprimenti le catene feudali ai laici, così come agli stessi chierici, che avessero mostrato simpatie verso gli odiati Afragolignonesi.
Quel giorno il Sole stava calando dolcemente su un'erbosa spianata del bosco.
Un esercito di tozze e fronzute querce secolari stendevano i loro frondosi rami su un tappeto di erba e fiori dai riflessi deliziosamente iridescenti.
A quelle querce, in certi punti della radura, si confondevano faggi, olmi, pini ed altre piante del sottobosco così fittamente da intercettare gli ormai obliqui raggi del Sole, mentre in altre zone si distanziavano fra loro al punto da formare ampi e lunghi squarci spaziosi, racchiusi da svettanti cipressi, dove primeggiavano eriche, agrifogli, betulle e nei cui meandri lo sguardo ama smarrirsi e la fantasia li trasforma in sentieri e scenari ancora più selvaggi e sognanti di romantica solitudine silvestre.
Qui i raggi del Sole proiettavano una luce spezzata e pallida, in parte trattenuta dai rami contorti e dai tronchi muscosi degli alberi, illuminando con vivide chiazze quelle parti del prato che riuscivano a raggiungere.
Un placido corso d'acqua, che finiva per gorgheggiare nel fiume, mormorava con fievole voce sussurrante.
Le figure umane che completavano questo boschivo paesaggio ben si intonavano ai caratteri rustici e selvaggi di queste lande.
Una era abbigliata con abiti semplici, quasi primitivi e conduceva alcuni porci in cerca di bacche selvatiche perse sul terreno.
La seconda, simile nell'abbiglio sebbene con stoffa appena migliore e meno logora, seguiva il suo compagno facendo strani versi ai maiali che grugnivano.
“Bah...” disse il guardiano di porci “... che San Giorgio maledica questi maiali!” Cercando di radunarli inutilmente col fischio. “E maledica anche me che son finito in questa fetida melma!” Imprecando. “Vieni qui, Astro! Che il diavoli porti via anche te!” Gridò con quanta voce aveva in corpo al suo irsuto cane, un po' pastore ed un po' mastino, che correva abbaiando con l'intenzione di aiutare il padrone a radunare i riottosi suini.
“Magari San Giorgio lo ha già fatto...” ridendo il servo “... forse un tempo questi erano eretici ora trasformati in maiali.” Imitando il verso di quegli animali.
Ad un tratto i due sentirono un calpestio di cavalli che si fece man mano più vicino, con Astro che prese ad abbaiare verso la boscaglia.
Poco dopo i cavalieri, spuntati dalla fitta e verde vegetazione, apparvero lungo il sentiero e li raggiunsero.
Erano una decina e i due che guidavano il gruppo dal loro abbiglio e portamento si distinguevano dagli altri, che apparivano come loro servi o paggi.
Il primo, del quale non era difficile immaginarne il censo, apparteneva sicuramente al mondo scolastico ed intellettuale, come rivelava il suo abito cattedrale, sebbene fatto di stoffe ben più pregiate di quelle usualmente adoperate dai membri del suo ordine.
Il mantello col cappuccio era di meravigliosa stoffa di Fiandra, con pieghe ricamate che aggraziavano la sua figura alta ma non bella.
Il degno filosofo cavalcava un cavallo ben pasciuto, tutto bardato di sonaglini d'argento che abbellivano una magnifica sella di Spagna ricoperta da un drappo purpureo dall'orlo dorato.
Il superbo filosofo era affiancato da un altro individuo, oltre la quarantina, alto e robusto, dal fisico muscoloso e ben temprato da fatiche ed esercizi di certo di natura marziale.
Portava sul capo un cappello di raso scarlatto e foderato di pelliccia, con un'espressione sul viso volta ad incutere rispetto, se non addirittura timore agli sconosciuti.
Gli occhi, acuti e penetranti, raccontavano di una vita fatta di prove, pericoli e sacrifici affrontati e sembravano voler sfidare ogni opposizione al suo volere.
Sotto il mantello, scuro e prezioso, appariva una pregiata giubba di un blu opaco che tradiva la sua appartenenza ad un ordine nobile e militare.
Alla cintola portava un lungo stiletto a doppio taglio che brillava in modo sinistro contro i bagliori del Sole morente.
Giunti davanti al porcaro ed al servo, i cavalieri si fermarono e con un cenno indifferente della mano il dotto li salutò.
“Vi chiedo, onesti compagni, se nei paraggi si trovino degni uomini che per amor della dotta fratellanza fra noi simili diano ospitalità e ristoro a due dei loro più pacifici fratelli ed al quieto seguito che li scorta.”
I due grezzi individui a quelle parole si scambiarono un'occhiata eloquente.
“Se voi nobili signori” fece il porcaro “amate la buona cucina ed un comodo alloggio allora troverete la più meritevole accoglienza a poche miglia da qui in un'onesta locanda.” Annuì.
“Se invece preferiscono trascorrere una notte in penitenza” intervenne il servitore “allora potranno voltare per quella radura laggiù, che li porterà alla vecchia Pieve dove un devoto anacoreta dividerà con loro il suo riparo per la notte ed il beneficio delle sue preghiere.”
Il filosofo scosse la testa quasi seccato ad ambedue le proposte.
“Buon amico...” fissando i due “... se il grugnito dei maiali non ti avesse confuso la mente allora sapresti che noi dotti scolastici non usiamo ricevere ospitalità dagli sconosciuti ed ancor meno dai chierici, che simboleggiano tutto ciò che con la sapienza noi neghiamo e combattiamo.” Sdegnato.
“Ben dite, maestro...” sorridendo il servitore “... ma io, asino che sono, che non distinguo il grugnito di un maiale dal suono dei sonaglini del vostro cavallo, ingenuamente pensavo che la Carità di Nostro Signore cominciasse dalla Propria Casa.”
“Modera la tua insolenza, gaglioffo” intervenne il cavaliere con tono severo e minaccioso ad interrompere le ciance del servitore “ed indicaci, se puoi, la strada per la città di Monsperone che sorge nel bel mezzo di questo bosco di Chanty.” Schioccando la sua frusta davanti ai maiali in modo minaccioso, facendo girare su se stesso due volte il proprio destriero nervosamente.
“In verità, reverendo maestro, l'aspetto militare del vostro venerabile compagno mi ha spaventato al punto da farmi dimenticare persino la strada verso casa mia.” Scimmiottò il servitore.
“La tua bonaria insolenza” mormorò il filosofo “sarà perdonata a patto che ci indicherai la via per Monsperone.”
“Ebbene” rispose il servitore “le vostre eminenze devono prendere quel sentiero e seguirlo fino a raggiungere una vecchia Croce che spunta da un dosso e guarda verso Mezzogiorno... lì imboccheranno la strada centrale di tre che si incontrano presso il fiume. Mi auguro che le vostre eccellenze raggiungano la città prima che si faccia buio.”
Il dotto li ringraziò e poi quella compagnia spronò i cavalli rimettendosi in cammino e raggiungendo Monsperone poco dopo il crepuscolo.



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