Discussione: Mito La leggenda di Alassia
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Vecchio 11-09-2010, 10.07.09   #6
Lady Dafne
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Lady Dafne sarà presto famosoLady Dafne sarà presto famoso
II parte...

Ecco a voi la seconda parte della leggenda...

<Quindici anni dopo la loro fuga, seppero un giorno che l’imperatore in persona sarebbe venuto in visita alla nobile città di Albenga. Tutti accorsero dai dintorni per vederlo, e i figli del carbonaio insistevano anche loro per andarci. Alla fine Alassia prese una decisione: “Senti Aleramo, è la Provvidenza a mandar qui mio padre; riconciliamoci con lui, è buono e ci perdonerà. Tu prima chiedi parere al vescovo che di certo saprà consigliarci bene”. Aleramo, che già in cuor suo aveva maturato la stessa risoluzione, indossò il suo vestito migliore e corse ad Albenga. Si presentò al vescovo: “Monsignore, avrei da parlarvi di una cosa grave”.
Il vescovo, che in quel momento era occupato a dar ordine ai cuochi che dovevano preparare il pranzo per l’imperatore, rispose: “Benedetto figliolo, adesso non posso: ho altro da pensare. Piuttosto porta ancora venti sacchi di carbone, perchè in questi giorni c’è gran consumo”.
Ma Aleramo insisté, disse che si trattava di cosa che riguardava lo stesso imperatore. A questo punto il vescovo si dispose ad ascoltare, e con crescente stupore apprese l’incredibile storia. Alla fine disse: “Aleramo, io sono ben disposto ad aiutarti, ma bisogna azzeccare un momento buono per parlare all’imperatore; in questi giorni è quasi intrattabile perché la nostra cucina non lo soddisfa”.
Aleramo si ricorda allora qual’era la vivanda preferita dell’imperatore, il cinghiale con salsa agrodolce, e comunica al monsignore la ricetta originale.
“Sta bene. Ora vai; torna domani nel pomeriggio e speriamo in Dio”.
Il giorno dopo ci fu solenne banchetto nel palazzo del vescovo. Passarono sulla mensa pesci, capponi, timballi e sformati, ma l’imperatore era d’umore nero e rimandava tutto indietro senza quasi averlo assaggiato. Ma, a un cenno del monsignore, entrarono due servitori con un cinghiale intero su un’enorme vassoio. L’imperatore staccò un bel cosciotto con palese voluttà. “Monsignore” disse quando l’ebbe spolpato, “da quindici anni non gusto questo piatto, di cui solo il mio scudiero Aleramo conosceva la ricetta”. Per un momento i ricordi del passato offuscarono la fronte dell’imperatore, ma subito si riscosse con fierezza e in onore del vescovo bandì un torneo per quel pomeriggio.

Il torneo fu apprestato all’ora fissata, sotto gli sguardi del sovrano, del vescovo, di tutti i notabili e di un’enorme folla, il torneo ebbe inizio. Molti cavalieri s’affrontarono, combattendo abilmente e dando grandi prove di coraggio e di forza; ma ecco entrare di galoppo un cavaliere sconosciuto, con una sopraveste segnata nel mezzo con una croce vermiglia. “Monsignore”, domandò l’imperatore, “chi è costui?”.
“E’ un mio prode soldato di nobilissimo sangue, che vuole rimanere incognito.”
Ben presto non restano in arcione che il duca Guglielmo di Sassonia e il cavaliere misterioso. I due s’affrontarono nello scontro decisivo; Aleramo, perché naturalmente di lui si trattava, evita abilmente il colpo, mentre il duca cade a terra come una sacco di ferraglia.
“Monsignore”, disse il sovrano, “voi avete il miglior campione dell’impero. Presentatemelo, che lo conosca”.
“Maestà, sarà fatto al più presto. È un uomo sventurato ed io rivolgo fin d’ora una preghiera per lui: Vostra Maestà gli prometta la grazia che chiederà. Io garantisco nel suo merito e della sua discrezione.”
Ottone promette, e poco tempo dopo Aleramo con tutta la famiglia varca la soglia del palazzo del vescovo per essere ricevuto dal sovrano. L’imperatore lo attendeva circondato dalla corte e discorreva con i suoi cavalieri dell’ignoto cavaliere vincitore del torneo. Entrarono per prima i ragazzi, che il vescovo aveva fatto rivestire di abiti suntuosi che apparivano per quello che veramente erano: degli splendidi principini. Poi entrarono i genitori, tenendosi per mano, lui ancora con l’armatura vescovile ma con il capo scoperto, lei pallida e dimessa come una popolana.
Si gettarono ai piedi di ottone, abbracciandogli le ginocchia. L’imperatore ebbe un sussulto, per un istante solo pensò di svincolarsi, ma poi scoppiò in singhiozzi e rimase con loro, mentre i cortigiani uscivano senza parola.
Il giorno dopo ci fu gran festa ad Albenga. A metà del banchetto l’imperatore disse con voce tonante: “Aleramo, tu sei un uomo prode: a te il compito di liberare questa regione dal mal seme dei saraceni. Ti dono il territorio che potrai percorrere in tre giorni di cavalcata; fin d’ora te ne faccio marchese. Quanto a te, figlia mia, cerchiamo di dimenticare entrambi il male che ci siamo fatti a vicenda”.
Il mattino dopo Aleramo inforcò il più forte destriero e iniziò un lunghissima cavalcata che lo portò dapprima verso oriente, poi a nord attraverso l’Appennino fino al Po, indi si volse a mezzogiorno e dopo un lungo tratto ridiscese al mare. Si ricorda tra l’altro che durante il tragitto gli capitò di dover ferrare il cavallo in aperta campagna adoperando un mattone: la tradizione vuole che allora abbia battezzato tutta la marca Mun fra o mattone ferrato, donde poi il nome Monferrato.
Ma sempre il luogo più caro rimase per lui quello dove per tanti anni aveva vissuto in povertà con la donna amatissima, luogo cui pose il nome di Alassio affinché il ricordo di lei durasse in eterno.>
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"Gli uomini che meglio riescono a stare con le donne sono gli stessi che sanno starci benissimo senza" Baudelaire
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