Discussione: L'inizio della fine
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Vecchio 12-08-2009, 22.06.44   #9
Mordred Inlè
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Vi ringrazio infinitamente ;_; quello che mi preme di più è descrivere le emozioni.

(capitolo 4 di 6)
04. Artù - parte prima

Artù non era ancora nato quando il suo destino venne deciso.
Uther fu, al tempo, uno dei più grandi condottieri e re di Britannia e suo fratello Merlino, detto il Druido o il Mago, rimaneva un profeta e stregone temuto da molte genti. Dove Uther era irruente, spesso violento ed egoista, Merlino sapeva essere calmo, paziente e riflessivo. Ma nonostante questo, Merlino amava il fratello e non riusciva a negargli nulla, nemmeno un terribile incantesimo per ingannare Igraine, la donna di cui Uther si era invaghito.
Igraine, si uccise, appena le figlie furono in salvo, sposate o in convento, ed il figlio fu nato. Artù aveva due anni.
Ma quello di Uther non era stato un sentimento passeggero e, benché colmo di egoismo e rabbia, l'uomo aveva davvero amato Igraine. Fu così che, sommerso dal dolore per la morte di lei, l'uomo partì per battaglie sempre più pericolose, nella speranza di morire, e lasciò il suo unico figlio ed erede alle cure di Merlino ed Ector.
Il giovane Artù riuscì quindi a crescere nell'atmosfera gioiosa del castello di Sir Ector, assieme al figlio sir Kay, di un anno più giovane del piccolo Artù. Merlino si occupava dell'istruzione del nipote e faceva tutto ciò che era in suo potere per renderlo un uomo migliore di Uther, per trascinarlo sulla via della riflessione e della giustizia. Ector, spesso e volentieri, prendeva il piccolo Artù dalle cure di Merlino e lo allenava per renderlo, un giorno non molto futuro, il condottiero ed il guerriero più famoso di Britannia.
Tra giochi, allenamenti e studi, Artù crebbe ignaro della fine della madre e dei crimini del padre verso di lei, verso il popolo di Avalon e verso Viviane, una delle parenti di Igraine che si era mobilitata per salvarla. Artù crebbe anche ignaro di ciò che sarebbe diventato e di rado riusciva ad incontrare il padre.
Si limitava quindi ad immaginare le volte in cui Uther sarebbe passato a salutarlo ed in ogni sua fantasia, il padre era un uomo giusto, calmo ed amorevole, costretto a rimanere da lui per difendere il proprio regno.
Fu origliando una conversazione tra lo zio ed Uther, che Artù capì che si sbagliavano colore che dicevano che fantasticare non era doloroso.
"Spero tu possa stare di più. Artù ha bisogno di un padre," disse la voce di Merlino, con il suo timbro profondo e dolce.
"Artù ha già te ed Ector, non ha bisogno di me," rispose Uther, il padre, respirando affannosamente mentre si toglieva l'armatura. C'era odore di sangue nell'aria.
"Ma forse tu hai bisogno di lui."
Artù stette immobile, appoggiato alla porta, tentando di captare suoni ed immagini da un piccolo spiraglio.
Sobbalzò quando Uther sbatté rumorosamente un pugno contro il tavolo di legno, facendo cadere delle ciotole.
"Merlino! Non lo voglio vedere. Tu non capisci, ogni volta che guardo il suo volto vedo Igraine. La vedo che mi accusa, che mi insulta. La vedo ovunque-"
La voce del padre si era fatta quasi un sussurro ed il bambino non riuscì a sentire cosa venne detto subito dopo.
"Potresti fare ammenda ai tuoi peccati se volessi bene a tuo figlio ed alle sue figlie.
"Le sue figlie sono delle streghe! Tu stesso mi parlasti della profezia. Una di quelle donne ed Artù compiranno insieme un terribile peccato. Era così che diceva? Un peccato che distruggerà mio figlio!"
Merlino sospirò e si sedette su una delle sedie, stancamente. I suoi folti capelli rossi stavano iniziando ad ingrigirsi, qua e là, e la fronte, che un tempo era bella e liscia ed aveva fatto innamorare molte donne e uomini, aveva ora qualche lunga ruga.
"Le profezie ci ingannano e spesso ciò che facciamo per evitarle ci porta ad esse. Ti dissi del mio sogno per fare attenzione non per mobilitare le tue armate contro Lot o tentare di avvelenare Morgana ed Elaine."
Artù sapeva di avere tre sorellastre ma mai nessuno parlava di loro perché nessuno le aveva conosciute bene. Uther le aveva subito cacciate da Tintagel, poco dopo la nascita dell'erede.
"Non mi interessa, sono figlie del demonio, sono figlie di Gorlois. Una prega perché io muoia, l'altra complotta con la tua amante Nimue e la terza tenta di sollevare armate per prendersi il mio trono. Merlino, sto costruendo grandi cose per mio figlio. Sto costruendo una città ed un castello e lui un giorno ne diventerà Grande Re," sussurrò Uther ed il suo tono iniziò a divenire sognante, appassionato.
"Non vedi la scia di sangue che lasci dietro di te?"
Il cuore del piccolo Artù sobbalzò alla vista del padre che sguainava la spada e la premeva contro la gola di Merlino, con un gesto fulmineo.
"Sono stanco dei tuoi rimproveri," urlò, ma il fratello rimase immobile.
Fu quello il momento in cui Artù non poté più resistere e, con il timore che il padre uccidesse l'unico uomo che lo avesse mai trattato da figlio, entrò nella stanza e si buttò su Merlino, davanti a lui, con l'intento di proteggerlo.
"Artù," esclamò lo zio, sorpreso.
"Preferisci Merlino a me, figlio ingrato e spione," gli sibilò il padre, altrettanto sorpreso. Uther rimise la spada nel fodero, sputò nel fuoco, che si stava quasi spegnendo e finì di bere da uno dei boccali sul largo tavolo. Infine uscì dalla stanza, in silenzio.
Per tutto il tempo, Artù era rimasto abbracciato allo zio, con la testa nascosta nella sua spalla.
Non voleva vedere lo sguardo ubriaco e carico di delusione del padre.
Artù aveva quindici anni quando scoprì che, nonostante Uther lo ritenesse una delusione per il suo carattere troppo tranquillo e calmo, il padre lo considerava comunque come il suo unico e solo erede ed intendeva fare di lui il Grande Re della città splendente che aveva costruito: Camelot.
Uther arrivò da Sir Ector un giorno di maggio, chiedendo che gli fosse portato il figlio. Urlando che era ora di fare di lui un Pendragon.
Merlino aveva tentato di opporsi ma Uther era più forte e si portò via Artù, verso la prima battaglia del ragazzo contro i Sassoni.

Artù ed Uther combatterono fianco e fianco per tre anni, contro i Sassoni, contro bande di mercenari stanchi che non avevano nulla da perdere, contro i pirati Irlandesi.
Dove Uther era pronto a distruggere il nemico, Artù si prodigava in perdoni e ben presto quelle stesse bande senza capo che distruggevano le campagne, si aggrapparono a lui ed al suo comando pur di avere uno scopo nella vita.
La Britannia iniziava ad avere un nuovo ordine ma sembrò che tutto dovesse finire, quando Uther morì. Non fu un assassinio, come il paranoico condottiero tanto temeva, ma un incidente in battaglia.
Artù si ritrovò re, padrone di Camelot e di eserciti, portatore della temuta bandiera Pendragon, a soli diciotto anni. Temette di essere perduto ma fortunatamente Merlino tornò per soccorrerlo, ancora una volta, e guidarlo. Purtroppo giunse tardi.
Di ritorno da una delle battaglie per arginare le orde Sassoni sempre più pressanti, Artù ed il suo esercito avevano trovato il castello di Camelot colmo di ospiti e di invitati, lì per celebrare la morte del grande Uther e per acclamare l'ascesa al trono del giovane figlio.
Incapace di separarsi dai suoi uomini, il ragazzo era rimasto con loro, quella notte, a festeggiare la battaglia vinta ed a compiangere il re, a bere ed a ballare con damigelle che probabilmente non avrebbero mai più rivisto.
L'errore di Artù fu quello di fare ben di più con una damigella che sarebbe stato costretto a rivedere ancora molte e molte volte.
Merlino arrivò solo il giorno dopo e trovò il giovane distrutto, immobile nel suo letto, tremante.
"Artù, Artù, cosa succede?"
Il Mago era invecchiato. Era invecchiato troppo in quegli anni ed uno dei suoi occhi era diventato cieco. Una disputa con Nimue, avrebbe dichiarato successivamente, ma tutto ciò che gli importava in quel momento era tornare a vedere Artù sorridere come un tempo.
Il giovane non rimase immobile ancora a lungo, si risollevò a fatica dal letto ed abbracciò lo zio, sentendo le sue energie venire meno.
"Merlino, ho fatto qualcosa di terribile," sussurrò e non si preoccupò di fermare le lacrime perché con lo zio era al sicuro da tutto e da tutti, anche dal giudizio.
"Sei così giovane, non hai ancora avuto tempo per commettere crimini."
Ma la frase non consolò il ragazzo, anzi, gli ricordò quanto veramente fosse giovane e quante responsabilità avrebbe dovuto affrontare. Per un momento si sentì di nuovo come quel bambino che cercava disperatamente lo sguardo del padre, sperando di vedervi dell'orgoglio.
"Ho giaciuto con Morgause," sussurrò il giovane re, tremando. Dirlo a voce alta lo rendeva tremendamente vero.
Le braccia di Merlino, che in quel momento lo stavano abbracciando, esitarono solo per un momento che fu sufficiente per spingere Artù a giustificarsi con disperazione.
"Non lo sapevo- no, non lo sapevamo, nessuno dei due. O dei, o dei, è questo il peccato? So tutto, è questa la mia fine?"
"No, caro ragazzo, non temere. Non vedo come una cosa simile potrebbe ucciderti," tentò di consolarlo l'uomo e lo scostò un po' da sé per potergli mostrare un debole sorriso ed asciugargli le guance rigate dalle lacrime. "Esisteva un'antica società, in terre che né io né te abbiamo mai visto, in cui i re sposavano le proprie sorelle per mantenere pura la dinastia."
"Te lo sei inventato," sorrise Artù. Sentire nuovamente le favole del vecchio Merlino, i suoi racconti forse immaginati, era come un raggio di luce nel suo cuore. I due parlarono tutta la notte e lo zio riuscì a distrarre il nipote, raccontandogli dei suoi viaggia per la Britannia ed in Irlanda, delle principesse meravigliose che aveva visto e dei nobili cavalieri che aveva incontrato. Gli parlò del magico calderone chiamato Graal ed infine, quando le lacrime del re si fermarono e quando la gioia di quella visita riuscì anche se solo un poco a consolare la tristezza, Merlino si alzò e porse al suo sovrano una lunga cassa di legno nero, con intagli argentei.
"E' una spada," esclamò il ragazzo quando aprì la scatola e vi trovò un fodero di semplice pelle scura. Estrasse l'arma e ne ammirò la lama lucente e perfettamente affilata. Sarebbe sembrata una spada comunissima se non fosse stato per delle piccole parole intagliate nella superficie. Purtroppo era una lingua a lui sconosciuta.
"E' leggera ma è lunga, non è una daga. Di cosa è fatta? Cosa c'è scritto?"
"Non so di cosa è fatta ma so che è una spada sacra ed antichissima. Uther la rubò alla Dama Viviana, ad Avalon, dopo la rivolta. Guarda," aggiunse infine il Mago, toccando la lama, "rimane sempre affilata. Nessuno sa decifrare l'incisione ma c'è chi sostiene sia una formula magica per richiamare antichi dei di cui si è scordato il nome."
"Perché mio padre non la usava?"
"Gliela sottrassi. E' una spada molto potente e in mani sue avrebbe distrutto regni interi. Tu ne sei degno. Ti conosco e sarai un re giusto."
Da quel giorno Artù non lasciò mai Excalibur e non la allontanò mai dal suo fianco. Voci iniziarono a girare per Camelot ed alcuni cavalieri superstiziosi, conosciuta l'esistenza della spada, si unirono ai già numerosi seguaci del re.
Il ragazzo, con Merlino e l'amico Kay al fianco, riuscì ben presto a dimenticare ciò che accadde quella notte di mesi prima, immerso nelle proprie responsabilità, nella giustizia del regno e nelle battaglie contro i sassoni. Solo qualche volta, la notte, Artù si svegliava ansimando, febbricitante dopo sogni di orribili ombre che non riusciva a ricordare.
Le ombre arrivarono a perseguitarlo nove mesi dopo.
Morgause tornò a Camelot ma non era sola. Altera e bellissima, la donna non mostrò alcun timore o vergogna davanti al fratellastro e non perse tempo ad inchinarsi o a mostrarsi diversa da ciò che era.
"Dimmi cosa ne devo fare."
Furono quelle le parole di Morgause e nei suoi occhi non vi era altro che devozione mentre teneva alto il bimbo che era nato da quella fatidica notte. Le mani della donna artigliavano violente il petto del bimbo come se lei avesse già deciso quale sarebbe stata la risposta del re.
Artù non riuscì a vedere le manine rosee e le piccole gambette del figlio, non riuscì a vedervi il proprio sangue ma solo l'oggetto che l'avrebbe distrutto e per un attimo si immaginò mentre scendeva nell'oltretomba ed incontrava nuovamente il padre. Nuovamente deluso di un figlio incapace.
"Dobbiamo ucciderlo," sussurrò il re, improvvisamente spaventato alla vista di suo figlio. "E' un mostro, è un abominio." Tutte le rassicurazioni dello zio scomparvero alla vista degli occhietti neri del bambino e degli occhi terribili della sorellastra.
Non ci mise molto, il giovane re, a convincere la sorella che non aspettava altro che essere convinta. Morgause sembrava non aver alcun rimorso nel proporre l'uccisione del figlio ed anche quando le lacrime iniziarono a salire agli occhi di Artù, lei rimase ferma nella sua decisione. Prima che il re potesse replicare e volesse abbracciare quelle piccole braccette che si tendevano verso di lui, Morgause prese con sé il figlio senza nome e se ne sbarazzò.
Non passò un giorno in cui il re non si pentì di ciò che aveva fatto. Ma ogni giorno, ogni notte, il pensiero di essere ancora vivo sembrava confortarlo e la memoria degli occhi di Morgause sembravano ricordargli di quanto quel gesto fosse stato necessario. O questo era ciò che aveva bisogno di credere per non impazzire.
Non passarono nemmeno tre anni che Merlino consigliò ad Artù di prendere una moglie e non una moglie qualsiasi ma una principessa del nord così da unire anche le genti più lontane al dominio di Camelot. Scelse Ginevra, figlia di un potente duca nel nord del regno, duca che con immensa gioia gli donò figlia, cavalli, ricchezze ed una decorata tavola rotonda.
Artù pensò di essersi innamorato di Ginevra a prima vista perché lei era dolce, delicata e bellissima e qualsiasi donna avrebbe sfigurato accanto alla principessa. Ben presto, il re scoprì che l'amore è tutt'altra cosa e lo scoprì con la risata della dolce Ginevra.
Ginevra sapeva ridere in un modo unico, con uno sguardo sorpreso e la bocca aperta. Non era nulla di principesco ma qualcosa del modo in cui Ginevra sussultava tra le risate faceva gemere il cuore di Artù. Nessun'altra donna poteva farlo sentire così.
I primi mesi di nozze con Ginevra furono senza dubbio i più gioiosi della sua vita. Durante le settimane tentava di lasciare il regno in mano a Merlino o a sir Kay e di trascorrere più tempo possibile con la sua dama, sognando di essere un semplice cavaliere e non un uomo che per tutta la vita sarebbe stato legato al suo trono ed al suo nome.
L'idillio però terminò quando i sassoni ricominciarono ad avanzare verso Londinium ed Artù fu costretto ad indossare nuovamente le vesti del re guerriero ed a chiamare a raccolta i cavalieri e gli eserciti. Da quel momento tutto ciò che accadde sembrò nato da una terribile maledizione.
Merlino scomparve. Svanì nel nulla e a niente servirono le ricerche dei cavalieri. C'era chi mormorava che la sua amante, Nimue, si fosse infine rivelata per la strega che era e l'avesse imprigionato in una grotta. Ma Merlino non se ne andò prima di aver fatto ad Artù un nuovo dono: un cavaliere.
Lancillotto era giovane, molto giovane. Era il cavalieri più giovane che Artù avesse mai accolto nel suo castello ed anche il più straniero perché era il figlio dell'ormai defunto re Ban di Francia. La moglie, in fin di vita, l'aveva affidato ad una serva che, per fuggire agli aggressori romani, aveva navigato fino alla Britannia.
Artù trovò in Lancillotto una scintilla di speranza. Vedeva in lui un nuovo se stesso, abbandonato dai genitori e senza madre ma abile combattente e assetato di giustizia. Lancillotto ricambiò con gioia l'amicizia che il re gli offriva e, con grande dolore di Kay, ben presto tutti conobbero il nuovo cavaliere con il soprannome di Braccio destro del re.
Dopo la scomparsa di Merlino, Morgana iniziò ad inviare persistenti messaggi ad Artù, con la richiesta di vederlo e conoscerlo finalmente come fratello ed amarlo. Il re, ancora giovane ed ingenuo, accettò di accogliere la sorellastra a corte, sperando di trovare in lei dell'affetto ora che lo zio se ne era andato, forse per sempre.
Il loro primo incontro fu banale e con banalità i due si trovarono l'uno di fronte all'altra e si guardarono. Erano identici, come due fratelli.
Le timide speranze, alimentate dalla permanenza di Morgana accanto alla regina, vennero presto distrutte. La donna non aveva abbandonato le sue aspirazioni su quel trono ed insieme ad Accolon, un ingenuo amante, aveva rubato Excalibur.
Artù era stato costretto a combattere con la spada dell'amico Lancillotto ed aveva sconfitto ed ucciso l'inesperto Accolon.
"Mi ucciderai?" chiese Morgana, torreggiante sul cadavere dell'amante, senza provare la minima emozione.
"Ti bandisco."
"Debole, è un errore."
"Se fossimo cresciuti assieme... tu mi avresti voluto bene, sorella?"
"Non chiamarmi sorella," ringhiò Morgana, sputando per terra, "tuo padre ha ucciso nostra madre, il suo sangue di drago inferocito scorre nelle tue vene. Il sangue di un usurpatore di troni. Sarei stata una regina migliore di te."
Furono queste le parole con cui la sorellastra lo lasciò.
Con la fuga della Strega, l'umore di Ginevra sembrò diventare sempre più malinconico ed irritabile. Vi erano dei giorni in cui si chiudeva nella sua stanza a piangere o a guardare il vuoto, senza parlare nonostante le sue damigelle persistessero nel conversare con lei. Altri invece li passava a sgattaiolare fuori dal castello, a passeggiare in luoghi in cui nessun cavaliere riusciva a trovarla. Nessuno eccetto Lancillotto, che iniziò a sviluppare con la regina una forte amicizia.
Artù tentò di allontanarsi leggermente da lei. La amava, profondamente, ma vedere la freddezza della regina gli spezzava il cuore e sapeva bene di non poter riuscire per sempre ad amare una donna incapace di ricambiare. l
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