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Vecchio 03-07-2011, 21.31.29   #6
Emrys
Cittadino di Camelot
 
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Residenza: in una grotta tra le montagne (per davvero tra le montagne, ma la magione è assai più comoda)
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Emrys sarà presto famoso
[L'ARPA E LA SPADA]


"Il coraggio non è la grande quercia
che vede la tempesta arrivare e passare,
ma è il fragile fiore che si apre nella neve."
Alice M. Swain



PARTE I

Il cielo color del piombo, il forte vento, ancora freddo ma non gelido, e il mare agitato, che ancora rendeva impossibile la pesca, lasciavano intendere che l'inverno non fosse ancora passato. Eppure, ad un occhio attento, gli indizi che annunciavano il cambiamento della stagione non sarebbero passati inosservati: piccoli ciuffi di un verde intenso si facevano largo tra rocce e zolle grigiastre; qualche insetto si muoveva nervosamente alla ricerca di qualcosa; altri sembravano intontiti dal freddo e come in attesa, sorpresi e speranzosi, di un sole che tardava ad arrivare. E alcuni uccelli erano già tornati e riempivano l'aria di richiami.
A Cerdic non era necessario osservare tutto questo. Alla sua giovanissima età, la primavera, la si sente arrivare in anticipo: il corpo freme, impaziente di movimento e, nel suo caso, di lotta e di avventura. A undici anni, se il sole latita, ci si scalda da sé o con l'immaginarne uno già carico d'estate. E la fantasia a Cerdic non mancava di sicuro.
La fantasia gli era necessaria. Necessaria per alimentare i suoi sogni, perché lui ne era certo: un giorno sarebbe diventato un cavaliere! Avrebbe difeso la sua terra. Avrebbe salvato un damigella in difficoltà. Avrebbe servito fedelmente Re Artù e, forse, avrebbe trovato posto alla Tavola Rotonda.
La fantasia gli era necessaria anche per sopravvivere ai momenti di sconforto. Se, in precedenza, farsi accettare dai suoi coetanei non era stato facile, in quei giorni, quando era fortunato, veniva ignorato o allontanato dai giochi comuni. Altre volte veniva bersagliato con pietre e insulti.
Tutto era cambiato, da quando, sei mesi prima, era morto suo padre...

Tredici anni erano trascorsi, da quando Horad, il padre di Cerdic, arrivò a Chilfach Cudd aggrappato ad un asse di legno, in un mare ancora in tempesta: unico sopravvissuto di una piccola flotta di sassoni alla ricerca di una nuova terra dove stabilirsi. In quei giorni, i rapporti tra i due popoli non erano ancora diventati così burrascosi, ma la diffidenza verso gli estranei era già radicata negli abitanti del piccolo villaggio.
Tuttavia, soccorsero lo straniero in difficoltà. Lo curarono. E col tempo, vista la sua intenzione a trattenersi presso di loro, visti il suo carattere socievole e l'abilità con cui svolse ogni lavoro in cui si impegnò, riuscirono ad accettarlo e ad accoglierlo all'interno della loro comunità. Dopo un paio d'anni, solo le sue caratteristiche fisiche lo distinguevano dagli altri. I capelli biondi, così chiari da sembrare bianchi, spiccavano tra capigliature nero corvine, castane o rossicce. Spiccava anche a causa della sua statura, di una testa più alto di chiunque altro. Gli occhi azzurri, invece, non erano rari da queste parti; ma le sue iridi non ricordavano il colore del cielo, piuttosto sembravano scaglie di ghiaccio.
In molti si domandarono cosa attirò l'attenzione di Gwen, la madre di Cerdic, e perché s'infiammò d'amore per quello straniero; ma lei non lo confidò mai a nessuno. Neppure ad Horad, che non glielo chiese mai, ma ne ricambiò il sentimento come un dono insperato, vivendo la loro relazione come se gli fosse concessa solo per poco tempo. Di tempo, invece, gliene venne concesso; seguirono più di dieci anni di gioie e soddisfazioni: la nascita di un figlio; la stima degli abitanti di Chilfach Cudd; il riconoscimento dei suoi meriti, sia per le sue capacità di pescatore e cacciatore, sia per la sua abilità di guerriero; soprattutto, gli furono riconoscenti quando difese il villaggio dai tentativi di invasione del suo popolo d'origine, quando i sassoni divennero più ostili o si unirono alle scorribande dei pirati.
Già, i pirati!
Sei mesi prima, il demone biondo, Virno il Guercio, sassone pure lui, a capo di sette galee, attaccò il villaggio e uccise quasi tutti gli uomini: tra questi, il padre di Cerdic e i padri dei suoi amici, che da allora, nonostante il rispetto che ancora provavano per suo padre Horad, mal sopportarono le sue origini, i suoi lineamenti e, soprattutto, quei capelli biondi, che ricordavano loro l'aspetto di quegli assassini.
Il ricordo di quella notte era ancora vivo in tutti loro. E non meno in Cerdic: il buio del nascondiglio in cui l'avevano spinto i suoi; le urla della madre; l'agonia di suo padre, inchiodato con due arpioni alla parete della loro camera da letto, e da cui, nei suoi ultimi istanti di vita, tentava inutilmente di porre fine alle violenze che subiva Gwen. Cerdic ricordava gli scherni dei sassoni; le risa dei sassoni; e ancora i sassoni che lo tiravano fuori dal suo nascondiglio. Poi, il lungo e penoso viaggio verso Camelot... e, dopo tutta quell'oscurità, finalmente un raggio di luce, di speranza, di giustizia: il castello; l'affetto e la dolcezza delle dame; i cavalieri che partivano per liberare il villaggio dai predoni del mare!
E due giorni dopo, quando riabbracciò sua madre, quando dovette tornare a Chilfach Cudd e abbandonare le dame, i cavalieri e le torri di Camelot, Cerdic ne fu ancora più convinto: vi sarebbe tornato! E avrebbe combattuto a fianco del suo idolo: il vendicatore, l'uccisore di Virno il Guercio...
Cavaliere25!

Cavaliere25, ogni dieci giorni, circa, disponeva di una giornata tutta per sé. Libera dagli impegni ufficiali, ma non dagli impegni cavallereschi: fare la corte alle dame, andare a caccia, allenarsi con gli altri cavalieri, bisbocciare alla taverna. Insomma, le tipiche attività di un giovane cavaliere in libera uscita.
Per meglio dire, queste erano le sue attività preferite fino a sei mesi prima. Infatti, in molti notarono che Cavaliere25, da qualche tempo, in quelle giornate libere, usciva sempre di buon'ora, molto prima dell'alba, per una meta ignota, da cui faceva ritorno soltanto nel primo pomeriggio. Le premature illazioni sulle sue cacce sfortunate — visto che rientrava sempre senza prede —, lasciarono subito il posto ad ipotetiche fanciulle di qualche vicina contrada. Ma nessuno poté immaginare dove realmente si recasse e in quali attività fosse impegnato durante quelle sue assenze. La gelosia, il disappunto, le battute, i pettegolezzi di alcune dame sarebbero cessati all'istante, anzi il loro cuore sarebbe esploso d'amore, se avessero saputo... Come difatti avvenne, quando si seppe!
Né pioggia, né neve, né le minacciose tempeste, come quella di quel giorno, gli impedirono nei mesi precedenti di raggiungere la costa per tener fede ad una sua promessa, al suo nuovo impegno. In realtà, non aveva ancora capito cosa lo spinse, in quei lontani giorni autunnali, ad interessarsi della sorte di un particolare ragazzo e del suo sogno — del suo impossibile sogno! — di diventare un cavaliere.
Qualche giorno dopo l'uccisione di Virno e la liberazione di Chilfach Cudd, Cavaliere25 tornò al villaggio per accertarsi di persona che, nonostante la terribile sciagura, i sopravvissuti fossero in grado di superare la crisi. Per assicurarsi che le donne e i pochi uomini scampati alla strage — perché lontani dal villaggio, a caccia o per commerciare —, grazie anche all'aiuto giunto dai villaggi vicini, si stessero preparando all'inverno, ormai non troppo lontano.
Accadde al termine di quella prima visita, mentre salutava il nuovo capo-villaggio e lasciava Chilfach Cudd per ritornare a Camelot. Accadde sulla cima della collina alle spalle del villaggio, dove gli si parò dinanzi un ragazzino biondo, a gambe divaricate, pugni stretti e lo sguardo inchiodato su di lui. Rimasero a fissarsi per un tempo che parve lunghissimo. Poi, anticipando la domanda già sulle labbra di Cavaliere25, il ragazzo sbottò: «Sono Cerdic, figlio di Horad, e voglio diventare cavaliere!».
Un'altra lunga pausa di silenzio. Poi, Cavaliere25 sorrise, allentando la tensione del ragazzo. «Tra una settimana... All'alba... In questo stesso luogo!».
Il viso di Cerdic esultò, gli occhi lucidi. Il ragazzo non disse nulla, non riusciva a parlare dalla gioia; emise solo una specie di singhiozzo e corse via, verso il villaggio.
Iniziò così il loro strano rapporto. Ogni sette o dieci giorni, a seconda degli impegni di Cavaliere25; in ogni sua giornata libera, senza eccezioni; con qualsiasi condizione atmosferica o stato di salute; dall'alba a mezzogiorno; sulla cima di quella collina.
Né pioggia, né neve. E neppure l'immane stanchezza di quel giorno. Stanchezza dovuta al cattivo riposo dell'ultima settimana; dovuta agli incubi ricorrenti che, ogni notte, da sette notti, gli impedivano di riposare.
Sogni. In realtà, si trattava sempre dello stesso sogno, che si ripeteva in continuazione. Dapprima fiamme; fiamme che si trasformavano in immagini. Un drago e un cavaliere che l'affrontava e ne veniva sconfitto. Poi, voci. Quella di una donna e quella di un vecchio, che recitavano una sorta di cantilena. Nelle notti precedenti era solo una di quelle voci a recitarla... o almeno così gli sembrava di ricordare. Ma nella notte appena trascorsa c'erano entrambe e si alternavano: iniziando da quella femminile, ognuna recitava un verso, per così dire. E come nelle notti precedenti, risvegliarsi una prima volta dall'incubo non era servito: appena richiudeva gli occhi, si ripeteva. Così, Cavaliere25 finì con l'imparare a memoria quella sorta di filastrocca.
Anche nella luce incerta di quella mattina, mentre si arrampicava lungo il fianco della collina — sulla cui cima, sicuramente, l'attendeva Cerdic —, quella maledetta cantilena riecheggiava nella sua mente:


"Cavaliere,
combatterete il figlio del drago bianco,
e sarete sconfitto;
il sole brillerà sul suo capo:
voi a terra, lui ritto!
Ma nella caduta non vi sarà onta alcuna:
là scorgerete un indizio di fortuna.
Andrete a Nord, dove siete nato;
un luogo vi sarà indicato.
Scudo, lancia, spada e redini in mano:
urge il vostro aiuto, e non sarà invano!
Sangue dal cielo. E sangue di un cavaliere.
Poi, sangue che vincola nelle vene.
Tre volte sangue e tre volte morte,
ma giorni di gioia, quando tornerete a corte.
Mentre sarà seduto al vostro fianco,
brinderanno al figlio del drago bianco".



Un drago? Un drago bianco, per giunta! I sogni sono proprio strani. Un drago non l'aveva mai visto in vita sua. Bianco, poi...
Eppure aveva la sensazione d'aver già sentito parlare di draghi bianchi, ma era troppo stanco per cercare di ricordare. E stanco di quello stupido sogno che lo perseguitava anche ad occhi aperti. Stanco di tutte quelle fiamme. Stanco di quella litanìa di sconfitte, di sangue e di morte.
Ed eccolo! Il rimedio che già stava esorcizzando quell'incubo: un ragazzino che gli correva incontro, col viso illuminato dal sorriso; un ragazzino che lo ritemprava appena compariva all'orizzonte, riempiendolo di nuova forza — come un sonno ristoratore, come una bevanda corroborante. Cavaliere25 ne era sempre più convinto: quel che provava per Cerdic era un affetto vero; simile, immaginava, a quello di un padre per il proprio figlio. Provava gioia nel rivederlo; nel passare con lui quei ritagli di tempo; nell'ascoltare i racconti delle sue giornate; nell'ascoltare i suoi sogni e le sue paure; nel dargli consigli; nel contribuire alla sua evoluzione di uomo con aneddoti, storie, rimproveri e, naturalmente, con i loro esercizi di combattimento, con i loro finti duelli. E quanto era cresciuto, quanto si era irrobustito negli ultimi mesi e quanti progressi con la spada. Se fosse cresciuto a corte, se fosse stato figlio di un nobile, sarebbe già paggio da un paio d'anni e, tra altri tre, sarebbe diventato scudiero; e, un giorno, cavaliere!
Non voleva illuderlo. Presto o tardi avrebbe dovuto affrontare l'argomento e fargli capire che il suo sogno era destinato a rimanere tale. Il suo futuro sarebbe stato diverso. Sarebbe diventato un grande combattente — questo, sì! —; avrebbe difeso la sua gente e, magari, avrebbe potuto aspirare al titolo di capo-villaggio. Horad, il suo vero padre, ne sarebbe stato altrettanto fiero!
Sì, prima o poi, avrebbe dovuto affrontare anche questo discorso, ma non oggi. Oggi era il giorno del duello. Oggi avrebbero esorcizzato i loro incubi con la fatica, il sudore, il ritmo dei colpi delle loro spade di legno, dei loro scudi, e con il fragore delle loro risate. Risate portate lontano dal vento, che cominciava a farsi impetuoso e a schiaffeggiarli con mani d'acqua gelida, complice la pioggia. Lo stesso vento che spingeva le nuvole a correre più veloci delle Furie; e, come furie, fondersi con le onde del mare e infrangersi contro gli scogli. Lo stesso impeto dei colpi che si scambiavano Cerdic e Cavaliere25, dimentichi del tempo e delle intemperie; lo sguardo dell'uno fisso negli occhi dell'altro: intenso, concentrato e... felice!
La fine della pioggia coincise con quella del duello. Cerdic, la spada impugnata saldamente con entrambe le mani, parò un colpo laterale, che dal basso verso l'alto, tentava di forzare la sua guardia. Bloccò ed attirò verso di sé la spada di Cavaliere25 e lo sorprese, roteando la propria lama intorno alla sua e, con uno strappo veloce e con forza insospettata, gliela fece volar lontano, dall'altro lato, facendo perdere l'equilibrio al suo maestro, mentre questi poggiava incautamente il piede su una pietra malferma. Il cavaliere piombò a terra, pesantemente, in un piccolo avvallamento del terreno. Nessun danno, solo l'orgoglio un po' ammaccato. Rise. Una risata di gusto, liberatoria; gli occhi lucidi per la gioia, mentre guardava Cerdic ancora saldo nella sua posizione, con la spada puntata verso il naso di Cavaliere25. Poi, anche il ragazzo scoppiò a ridere e abbassò l'arma. Ridevano ancora, quando uno squarcio tra le nuvole liberò un raggio di sole, alle spalle di Cerdic. I capelli sfolgorarono d'oro e dell'accecante biancore della neve. Cavaliere25, abbagliato, fece scudo con la mano e girò lo sguardo verso il terreno, alla sua destra, dove lo stesso raggio illuminava un ciuffetto di trifoglio, tra i quali ne spiccava uno con quattro foglioline.
Improvvisamente, a squarciarsi fu il velo che annebbiava la mente.


"...combatterete il figlio del drago bianco,
e sarete sconfitto;
il sole brillerà sul suo capo:
voi a terra, lui ritto!
Ma nella caduta non vi sarà onta alcuna:
là scorgerete un indizio di fortuna".


E un altro ricordo si fece strada, seguendo il primo. La leggenda sull'adolescenza di Merlino. La sua profezia per re Vortigern. Il drago bianco,... cioè il popolo sassone!
Profezia. Questa parola incupì Cavaliere25. Si preoccupò per le implicazioni di ciò che andava congetturando la sua mente; si preoccupò della sua sanità mentale, perché lui non credeva a queste cose; si preoccupò, perché, se mai ci fosse stato del vero, l'aspettava un lungo viaggio e, da qualche parte, sangue e morte.
Ma non poteva essere vero! Quello doveva essere stato solo un caso. E checché andasse cianciando quel vecchio bardo, a Camelot, sull'inesistenza del caso, quella era assolutamente una pura coincidenza.
Pensare al vecchio bardo, gli fece tornare alla mente il dono che, ogni volta che si recava a trovare Cerdic, gli giungeva da parte sua, tramite Dysgor, il ragazzo che serve alla Taverna dell'Orso Stanco. Quel mattino aveva con sé due focacce d'orzo, un paio di mele, fichi secchi, formaggio e del latte di capra.
Cavaliere25 si rese conto di avere una gran fame; e la fame scacciò tutti i cattivi pensieri. Lui e Cerdic scesero alla spiaggia, si sistemarono su una barca capovolta e, godendo degli intermittenti e tiepidi raggi, mangiarono, chiacchierarono e risero ancora, fino a quando il sole, dopo aver raggiunto il punto più alto dell'arco tracciato nel cielo, cominciò la sua discesa verso l'orizzonte.
Come al solito, il tempo era trascorso troppo velocemente per loro. Ma cominciava a farsi tardi e Cavaliere25 risalì sulla sua cavalcatura e riprese il cammino già percorso, per rientrare a Camelot: non prima, però, di aver rinnovato il suo impegno, con la promessa di tornare presto.

Ma non si sarebbero rivisti tanto presto!
A tutto questo stava ripensando Cavaliere25, quando, quattro giorni dopo, si ritrovò nei pressi di Caer Wrygion, la Viroconium dei romani. Alle spalle tre giorni di viaggio e di pioggia ininterrotta, immerso in una oscurità perenne che, anche di giorno, non aveva nulla da invidiare alla notte. Lasciata Camelot, s'era diretto dapprima verso Caerllion (che i romani chiamavano Isca Silurum), per recapitare un messaggio urgente per il re, che, per impegni ufficiali, si trovava nella fortezza che tutti consideravano l'altra Camelot. Cavaliere25 aveva attraversato lo stretto braccio di mare — primo ostacolo sul suo cammino —, a bordo di una grossa chiatta carica di merci, il mattino successivo al duello con Cerdic. C'era ancora il timido sole del giorno precedente e non ebbe problemi durante la navigazione. Môr Hafren, il Mare dell'Hafren, così chiamano questa vasta insenatura. Solo le sue acque salate e le incredibili maree — capaci di risalire l'estuario e invertire il corso del fiume Hafren — ne rivelano la natura; altrimenti sembrerebbe solo un enorme canale, prolungamento ideale del più grande fiume del regno.
Era sbarcato nei pressi di Venta Silurum, la città-mercato voluta dai romani e che gli abitanti del luogo ribattezzarono Caer Went. Poi, raggiunta Caerllion, l'aveva lasciata immediatamente, prendendo un antico cammino sfruttato anche dai romani, che l'utilizzarono per collegare Isca Silurum a Deva, poi nota semplicemente come Caer: la città-fortezza da loro costruita più a Nord, nella regione del Gwynned, chiamata Vendotia dai romani.
La pioggia era iniziata subito dopo: ancora visibili le mura del castello di Caerllion.
Nel procedere sull'antica via, deserta da giorni, continuava a chiedersi per quale insano impulso avesse preso quella folle decisione. Condizionato da un sogno, poi, che, da quando era partito, aveva smesso di perseguitarlo. Invece, quella maledetta cantilena gli tornava alla mente ogni volta che ripensava a tutta la vicenda e, soprattutto, ogni volta che pensava a Cerdic.
Le coincidenze di quella giornata e un'altra notte di tormenti, lo convinsero a confidarsi con Sir Guisgard, che in quei giorni era già Comandante dei Cadetti, ma non sedeva ancora alla Tavola Rotonda. Meno di due ore dopo attraversava le porte della città, con il beneplacido di Sir Hastatus77, che gli affidò il messaggio per re Artù e il compito di tornare con un rapporto sulle condizioni dell'antica via e dei punti di ristoro.
Non sapeva quanto tempo sarebbe stato lontano da Camelot e da Chilfach Cudd. Quindi, aveva chiesto a Dysgor di portare un suo messaggio a Cerdic. Dysgor aveva accettato di buon grado, anche se tra i due evidentemente non correva buon sangue. Orfano di entrambi i genitori (sua madre s'era suicidata dopo quella maledetta notte), da quando era andato a vivere a Camelot — accolto da Hynaws, l'oste, e da sua moglie Claudia, che pensavano di adottarlo —, Dysgor sembrava più sereno; e felice del suo lavoro alla taverna. Di tanto in tanto, poi, si recava al villaggio natale per qualche commissione per conto di Hynaws e per far visita ai suoi compagni rimasti laggiù.
Ricordando il desiderio di Claudia e Hynaws di adottare Dysgor, Cavaliere25 tornò a pensare a Cerdic.
Durante il viaggio, più volte, aveva preso in considerazione questa idea. La legge, quella militare, glielo avrebbe permesso: adozione militare! Al compimento dei suoi quattordici anni, Cerdic poteva essere adottato da Cavaliere25, che gli avrebbe trasmesso così i privilegi della sua casata.
Dopotutto, volendo darle un minimo di credito e volendo interpretarla, anche se era restìo a farlo, la maledetta litanìa non recitava forse:

"Mentre sarà seduto al vostro fianco,
brinderanno al figlio del drago bianco"?

"Tre anni... Sarà questo il tempo che trascorrerà prima del mio ritorno a corte? Prima dei decantati giorni di gioia?" — così rimuginava Cavaliere25, mentre una parte di sé rifiutava a priòri ogni riferimento a sogni e profezie.
All'improvviso, con il riforzare del vento, la pioggia prese a rovesciarsi con più violenza, sferzandogli il viso con acqua gelida. Non durò a lungo, ma quando diminuì d'intensità, ebbe l'impressione che l'assordante scrosciare della pioggia persistesse nelle sue orecchie. Proseguendo sul suo cammino, il suono cambiò timbro e si trasformò in un rombo continuo e minaccioso: erano le acque tumultuose dell'Hafren, il grande fiume.
Finalmente! Tra poco avrebbe avuto un rifugio; un luogo dove ristorarsi e asciugarsi da tutta quell'umidità.
Era mattino inoltrato, ma il mondo era immerso in una luce fioca, crepuscolare. Nonostante la pioggia, che cadeva di nuovo fitta, riuscì a vedere il ponte. Oltre, vide le prime abitazioni di Caer Wrygion e la locanda dove si sarebbe fermato. Fuori dalla Locanda dei Corni c'era movimento. Gli sembrò che fosse giunta una piccola comitiva. Vide le finestre e l'ingresso della locanda illuminate dall'interno. Sull'uscio un uomo con una lanterna, che osservava un gruppetto di persone e dei cavalli.
Di lì a poco, proprio mentre Cavaliere25 iniziò l'attraversamento del ponte, il gruppetto si congedò dall'uomo sulla porta e si diresse a nord.
"Per mettersi in viaggio con questo tempo," — pensò Cavaliere25 — "devono avere davvero qualcosa d'urgente da fare".
L'uomo sulla soglia, che stava chiudendo la porta mentre rientrava, lo vide arrivare e si affrettò a riaprirla e ad accogliere il nuovo cliente.
Cavaliere25 si rilassò di colpo e già pregustava un bagno caldo, un fuoco, del cibo e un'intera giornata di riposo.


(continua)



PARTE II


Kerygwel quella mattina aveva davvero perso la pazienza.
Gli uomini che le erano stati assegnati, quale scorta nel suo viaggio, ancora tremavano al pensiero del suo sguardo carico d'ira e delle sottintese, velate, minacce di una maledizione. Tranne Hanes, ovviamente, e quel maledetto capitano: Sir Heinrich!
Possibile — si chiese Kerygwel — che, ogni volta, doveva impiegare un'eternità per convincere questa gente. Eppure avrebbero già dovuto capire che lei non parlava senza ragione! Non li aveva forse avvisati per tempo, quando tre giorni prima stavano per essere sorpresi dalla tempesta e lei, nonostante l'urgenza di raggiungere Ynys Môn, consigliò loro di fermarsi a Caer Wrygion? E non era stata lei ad avvertirli della sensazione di pericolo che provava, quando, nei pressi di Lactodurum, stavano per cadere in una imboscata?
E ogni volta — pensò —, prima c'erano lo scetticismo e la derisione; poi, il timore e la deferenza, quasi fossero in presenza di una dea; e di lì a poco, neanche il tempo necessario al sole per attraversare metà del cielo, tutto veniva dimenticato. O quasi... Perché ricordavano benissimo di avere a che fare con una futura sacerdotessa di Avalon. Era quest'unica certezza che le permetteva di incutere terrore nelle deboli menti di quegli sprovveduti cadetti, e di ottenere la giusta considerazione da parte di un druido come Hanes. Sir Heinrich, invece,... si vedeva che faticava a portarle rispetto; lui badava solo al titolo nobiliare che lei portava: quello della casata del padre, che era anche un fedele — per quanto pigro, burocratico e forse pavido — alleato di re Artù.
Kerygwel si ritrovò a maledire, nuovamente, il giorno in cui si infatuò di Sir Heinrich.
Erano trascorsi solo otto mesi da allora, ma Kerygwel ricordava perfettamente quel momento. Era anche quello un giorno di pioggia e faceva freddo, nonostante fosse ancora estate. Lei stava scendendo dalla nave che l'aveva riportata in Britannia, quando un colpo di vento fece oscillare l'imbarcazione, proprio mentre si trovava alla fine della passerella, facendole perdere l'equilibrio. Non gridò, lo ricordava bene, né si spaventò. Rassicurata da una sensazione ancora nuova per lei, quasi diede per scontate le braccia robuste, che l'afferrarono al volo, e il sorriso e lo sguardo che incrociò, sollevando il suo.
Sir Heinrich era lì per lei, per ordine di suo padre, per accoglierla e scortarla fino a casa. Lei sentì solo il suo nome e non si rese neppure conto del trambusto alle sue spalle, provocato dai marinai e dagli uomini di Sir Heinrich, che tentavano di ripescare la sua accompagnatrice, un'anziana sorella di suo padre. Kerygwel si smarrì negli occhi neri del capitano, profondi quanto l'abisso su cui dicono galleggi il mondo. Neri anche i suoi capelli, scuri e lucenti quanto l'ala di un corvo. Corvine anche le sopracciglia, un po' più spesse di quelle delle genti del nord. Eleganti i tratti, che le ricordavano le statue nei templi, nelle agorà e nelle ville dei territori del Sud, meta del suo recente viaggio. E anche sotto quella dura armatura e gli abiti spessi, immaginava, il resto del corpo poteva competere con quelle sculture. Un corpo che emanava un calore che le ricordava le temperature di quelle terre felici e gli uomini che vi abitavano. In tutto e per tutto, Sir Heinrich le ricordava quelle popolazioni, salvo per il colorito della sua pelle, piuttosto chiaro.
Quando, qualche ora più tardi, le riuscì di ottenere qualche scarsa informazioni sul bel capitano, che era giunto dal lontano Tirolo — non lontano dalle terre che aveva appena visitate e quindi, secondo lei, bagnato da quello stesso mare blu e benedetto da quel clima idilliaco —, immaginò che quel colorito fosse dovuto alla lontananza da quell'ardente sole, di cui lei già rimpiangeva il calore dei raggi, che avrebbe ritrovato, pensò, nell'abbraccio di Sir Heinrich.
Ricordava, con dolore e stizza, che si riteneva la donna più fortunata del mondo. A pochi giorni dal suo quattordicesimo compleanno, il destino le aveva donato solo benedizioni: un viaggio per apprendere il sapere di quegli antichi popoli, la conoscenza di quei luoghi e di quelle genti, le prime avvisaglie del Potere che si celava nella sua mente e i primi segnali del suo corpo che la rendevano ufficialmente una donna. E, infine, l'incontro con l'uomo che, riteneva, sarebbe diventato il suo compagno per la vita.
Ma ben presto i suoi sogni dovettero fare i conti con la realtà. Sir Heinrich la notava appena.
Kerygwel aveva saputo di una dama di Camelot legata a lui da una promessa d'amore. E per quanto già la odiasse, non era lei l'ostacolo maggiore da superare, ma un assurdo voto di castità espresso dal cavaliere, in nome di uno di quei personaggi della nuova religione che rappresentavano per questi individui dei simboli o dei modelli a cui ispirarsi o a cui votarsi per esprimere il loro potenziale, le loro aspirazioni o, come riteneva Kerygwel, per celare le loro paure. Eppure anche quel muro d'ostinazione, secondo lei, avrebbe potuto cedere, prima o poi.
Tuttavia, aveva compreso quasi subito — anche se non voleva accettarlo — che Sir Heinrich non l'avrebbe mai vista come una donna, ma solo come una ragazzina.
Le aveva tentate tutte. Anche al loro arrivo alla Locanda dei Corni, suggerendogli di dividere con lei l'unica stanza libera e, magari, anche l'unico letto; ma quel maledetto capitano aveva preferito dividere il giaciglio con i suoi uomini, nelle stalle, lasciando quel privilegio ad Hanes, il druido.
Hanes...
Neppure lui accettò di dividere l'alloggio con lei. Come druido non avrebbe trovato indecente dividere la stanza, o addirittura il letto, con una giovane donna: druida, per giunta! Ma conscio delle puerili convenzioni della nuova società romano-britannica, preferì non scandalizzare il senso comune, né arrecare danno alla reputazione di Kerygwel e si trovò anche lui un giaciglio nelle stalle.
Kerygwel adorava Hanes. Da tempo, aveva appreso quanto fosse vasto il suo sapere, quanto avesse viaggiato per il mondo, e quanto potesse confidarsi con lui: sulle sue aspettative in qualità di futura sacerdotessa; sui suoi timori, soprattutto riguardo al Potere che aumentava in lei. Da lui aveva sempre ricevuto un valido consiglio, un'informazione utile o una frase comprensiva, quando, come quel giorno, si trovava a combattere contro l'ignoranza, la superstizione o la derisione.
Lo adorava e al tempo stesso lo invidiava... Invidiava il fortissimo legame di amicizia che lo legava a Sir Heinrich. Secondo quanto le raccontò Hanes, nei primi giorni dell'autunno passato, da quando si conobbero quei due, tre anni prima, s'erano immediatamente legati: più che amici; più che fratelli!
Kerygwel ricordava con rammarico di aver pensato male di Hanes, di averlo addirittura considerato un rivale in amore.
Che sciocca era stata! Non è tanto raro che due persone, due anime, siano legate tra loro a livelli superiori, da vincoli che trascendono il tempo, lo spazio e qualsiasi tentativo umano di sondarne la natura, e che, sin dal primo incontro, queste abbiano la sensazione di conoscersi da sempre.
Ed il legame tra Sir Heinrich ed Hanes era di questo tipo. Quando Kerygwel riusciva a rintuzzare l'invidia per Hanes o il risentimento per Sir Heinrich, non poteva non rimanere affascinata dall'amalgama perfetta, dell'equilibrio delle opposte tendenze dei loro caratteri, delle loro qualità e dei loro difetti. Dove Sir Heinrich era, sulle prime, riservato e diffidente, Hanes era espansivo e spontaneo in ogni circostanza. Il primo era forte ed armato di una sicurezza dettata dall'esercizio e dall'esperienza; il secondo era meno prestante fisicamente, ma armato di una sicurezza dovuta al sapere di cui era custode e al Potere della sua voce, avendo scelto il cammino del bardo e la libertà di movimento, anziché aspirare alle cariche più alte di sacerdote e capo della comunità. La sua formazione di druido, la conoscenza di migliaia di miti e tradizioni dei britanni e di altri popoli, gli conferivano un'apertura mentale, che contrastava con l'ostinata razionalità del capitano. Ma condividevano il coraggio, la disciplina, il senso del dovere, l'onesta, l'altruismo, il buonumore, l'ottimismo, la franchezza e la modestia. Tutte qualità che attiravano intorno a loro spiriti affini e che finivano col contagiare anche i più riottosi.
La loro amicizia, poi, amplificava queste potenzialità e smussava le spigolosità di certi eccessi dei loro caratteri: così, per esempio, la spiccata riservatezza del capitano e l'eccessiva schiettezza del bardo giocavano ruoli ambivalenti, influenzandosi a vicenda e sviluppando nel primo l'empatia che potrebbe renderlo un modello a cui potranno ispirarsi i futuri cavalieri e nell'altro il tatto, la finezza, la prudenza, l'abilità necessaria, che un giorno, forse, gli aprirà le porte di un regno, quale grande consigliere di un sovrano illuminato — chissà, magari dello stesso Artù!
D'improvviso i pensieri di Kerygwel furono interrotti. I suoi sensi, resi più acuti dalla disciplina druidica, avevano captato un cambiamento. La pioggia cadeva ancora copiosa, ma adesso lei percepiva una sorta di tepore: una brezza, appena accennata, era sopraggiunta. Era la conferma di quanto aveva predetto a quegli zotici che l'accompagnavano: il tempo stava cambiando, presto avrebbero rivisto il sole.
Anche Hanes aveva avvertito il cambiamento, infatti, le si avvicinò sorridendo. Ma c'era qualcosa che Hanes non poteva percepire. Un altro senso si era risvegliato in lei: quello legato al Potere e che l'avvisava del sopraggiungere di qualcos'altro. Non padroneggia ancora il suo Potere e non riusciva a decifrare quella sensazione. Non avvertiva un vero pericolo, non per sé stessa, almeno. Sentiva una forza diversa, qualcosa di naturale e al tempo stesso di minaccioso. E sentiva anche una sorta di malessere, di rimpianto o di tristezza. Era stanca di questi segnali imprecisi del suo Potere e si rinfrancò al pensierò che presto avrebbe raggiunto Ynys Môn, l'isola dei druidi; che, con il prossimo novilunio — di lì a quattro giorni —, sarebbe stata iniziata alla futura carica di sacerdotessa e che avrebbe appreso le tecniche per controllare ed aumentare il suo Potere; che, finalmente, avrebbe reso più chiare quelle premonizioni, sviluppando anche la Vista, che anche stavolta, come già in un paio di occasioni in precedenza, s'era manifestata e le aveva mostrato uno strano paio di ali, dei cavalli al galoppo, l'occhio di una lucertola, dei volti tristi, per la maggior parte sconosciuti, salvo uno. Scosse il capo per allontanare quelle fastidiose sensazioni e prese un profondo respiro, scoprendo che, mentre era investita dalle sue visioni, Hanes le aveva impedito di cadere di sella, cavalcandole accanto e trattenendola per un braccio, e che l'aria profumava di primavera e che la pioggia era cessata e il sole già faceva capolino tra le nubi.


Un ultima secchiata d'acqua e Cavaliere25 si lasciò cullare dalla nuova ondata di calore e dai vapori emanati dalla vasca, nella quale era immerso. Una vera sorpresa, questo cimelio in zinco, residuo dell'arredamento di chissà quale antica villa romana. Fin'ora la sua sosta alla Locanda dei Corni gli aveva offerto solo piaceri e promesse di nuove soddisfazioni...
Appena giunto, aveva appreso con sollievo che l'improvvisa partenza di una giovane dama gli rendeva disponibile l'unica stanza libera: sempre che non preferisse utilizzare le stalle. Ma dopo quattro giorni di giacigli umidi e duri, Cavaliere25 avrebbe speso ben volentieri una moneta d'oro per un letto decente, caldo ed asciutto. Non gli restò che consegnare il suo cavallo al ragazzo che si occupava delle stalle e aspettare che sistemassero la stanza per il nuovo ospite.
Nell'attesa gli offrirono delle focacce d'orzo e una curiosa birra, densa e scura, preparata personalmente dal locandiere, che gli raccontò di averne appresa la tecnica da un monaco, istruito a sua volta da un mercante proveniente da Iwerddon, la grande isola a occidente, che i romani chiamavano Hibernia. Il locandiere gli assicurò che era meglio berla fredda, se non addirittura gelata, ma Cavaliere25, per questa volta, preferì la versione calda e speziata, come si usava, di solito, in inverno: una delizia che gli scaldò immediatamente le viscere e il sangue. Per scaldare le ossa, invece, si avvicinò al grande camino che riscaldava e illuminava la grande sala, affollata dagli ospiti annoiati, intrappolati qui dal brutto tempo. Nel camino, inoltre, avevano appena inserito un enorme spiedo, sul quale cominciava a sfrigolare un giovane cinghiale; lì sotto, tra la cenere, cuocevano lentamente un buon numero di cipolle e di rape...
Immerso nell'acqua, Cavaliere25 pregustava quello che sarebbe stato il suo pranzo, e si abbandonò, ancor più, a quel tepore. Vinto dalla stanchezza, s'immerse lentamente anche nel mondo dei sogni, e si accorse a malapena che il ragazzo assegnatogli per servirlo, dopo aver recuperato dalla sua mano, prima che cadesse, la coppa contenente ancora un po' di birra, e dopo aver aggiunto ancora un ceppo nel caminetto, si allontanò dalla stanza — in silenzio, se si esclude il leggero cigolìo di un secchio.

È buio. C'è silenzio, o quasi... C'è il crepitìo di un fuoco, da qualche parte. Poi, d'un tratto, l'oscurità è animata da uno sciame di scintille. S'innalzano disperdendosi in tutte le direzioni, poi ricadono, spegnedosi. Il crepitìo si fa più vicino, o più forte, e di nuovo c'è un'esplosione di scintille. Ma stavolta, non fanno in tempo a dileguarsi che un'altro sciame di scintille sopraggiunge; e poi ancora un altro; e un altro ancora. Finché il crepitìo si trasforma in un ruggito di fiamme e l'oscurità di ritrae in qualche angolo. Tutto è un vorticare di fiamme, ormai. Poi, le fiamme prendono forme inusuali. Ed ecco un drago. Ed ecco un cavaliere... Noooo!


Cavaliere25 si svegliò di soprassalto.
"Ancora quel maledetto incubo!" — pensò — "Ancora quella maledetta cantilena!". E quel che era peggio, s'era svegliato con una sensazione di ansia e di urgenza...

"...urge il vostro aiuto, e non sarà invano!"


Mentre s'asciugava e si rivestiva in tutta fretta, aiutato dall'inserviente sopraggiunto di corsa — fatto che gli suggerì che probabilmente aveva urlato nel sonno —, maledì chiunque fosse il responsabile di quel tormento, maledì quelle dannate voci e maledì sé stesso che dava loro retta.
Ritornato nella sala, trovò il locandiere, che, preavvisato dell'accaduto, lo accolse allarmato, temendo che il cavaliere si lamentasse di qualche sua mancanza o peggio.
Cavaliere25 impiegò del bello e del buono per convincerlo che non vi erano lamentele da parte sua — anzi! —, e su due piedi inventò una scusa: la stanchezza gli aveva giocato un brutto scherzo... e tutto ad un tratto si era reso conto che il suo viaggio era durato più di quanto si fosse immaginato;... che era in ritardo e doveva raggiungere al più presto Caer Liwelydd, per un impegno che aveva preso.
Il locandiere si tranquillizzò solo quando Cavaliere25 gli allungò una moneta d'argento, per il disturbo, due monete di rame per i ragazzi che avevano servito lui e accudito il cavallo, e altre tre monete di rame per quattro di quelle sue focacce, un paio di quegli ortaggi cotti nella cenere e una bella fetta d'arrosto, da portare via con sé.

"Andrete a Nord, dove siete nato;..."

In fin dei conti non aveva mentito al locandiere. La sua direzione era Caer Liwelydd, Luguvallium per i romani: la stessa strada che portava al regno "liberato", il Rheged, la sua terra natale.
Cavaliere25 lanciò ad un galoppo sfrenato il suo destriero, si sentiva ancora sospinto da una forza che gli imponeva di fare più in fretta. La veloce andatura, però, non faceva che aumentare le sferzate di pioggia che ancora cadeva copiosa. Proseguì così per molto tempo, poi, d'improvviso, al bivio per Caer, il cavallo si oppose ai suoi comandi, rallentò e si fermò, sbuffando...
Niente. Qualsiasi tentativo di spronarlo sembrò inutile: anche quando riusciva a farlo avanzare di un paio di passi, immediatamente arretrava.
Scese da cavallo ed estrasse la spada, pensando che tra gli alberi che costeggiavano le strade vi fosse un animale o qualcos'altro che spaventava il suo cavallo.
Ispezionando cespugli ed alberi, non poté fare a meno di pensare a come molte strade del regno fossero ancora in abbandono. Ai tempi dei romani, un bivio come quello sarebbe stato presidiato da un paio di soldati della non lontana fortezza. Le vie di comunicazione sarebbero state molto più frequentate e in un angolo dell'incrocio ci sarebbe stato un piccolo tabernacolo dedicato a una qualche divinità dei viandanti e di fianco, magari, un contadino che vendeva i suoi prodotti.
Artù avrebbe fatto altrettanto e meglio, se i suoi uomini, già poco numerosi, non fossero necessari per presidiare le coste e, soprattutto, il confine sud-orientale, dove i sassoni tentavano in ogni modo di sconfinare ed occupare altre terre.
Assorto nei suoi pensieri, si accorse solo dopo un po' di tempo che la pioggia era dapprima diminuita e poi cessata del tutto. Riuscì a vedere con più chiarezza, potendo così notare che un idolo c'era ancora, anche se talmente rovinato da non permettere di distinguere se si trattasse di una divinità romana o precedente. Notò anche, nell'ombra alle spalle dell'idolo, una piccola nicchia ricavata tra le radici di un albero. C'era un ciotola con delle offerte di cibo, recenti: qualcuno ancora si ricordava dell'Oscura Signora e le chiedeva protezione.
Tornò al suo cavallo, rinfoderando la spada, sperando che il suo destriero fosse più calmo e riprendesse il cammino.
«Di là andati sono!» — disse una voce stridula alle sue spalle.
Cavaliere25 si girò di scatto, portando nuovamente la mano all'elsa della sua arma, ma la fece ricadere quasi subito. Dall'ombra, tra gli alberi, dietro l'idolo che aveva intravisto poco prima, sbucò una vecchia donna, minuta, vestiva un'ampia veste e un mantello con cappuccio, entrambi di color verde scuro: abiti poveri, ma dignitosi; ai piedi calzava dei sandali di corda, piuttosto consumati. Leggermente curva, si appoggiava ad un bastone, un ramo nodoso e spesso. Si osservarono a lungo, in silenzio. Cavaliere25 pensò di avere di fronte un'antica abitante delle montagne di questa regione: un'appartenente all'antico popolo, come venivano chiamati. La vecchia aveva dei capelli nerissimi, appena striati di bianco, e il volto, dalla carnagione olivastra, era scavato da rughe profonde, tra le quali spiccavano gli occhi, come socchiusi a fatica. Ma dietro le pesanti palpebre, brillavano delle iridi, nere, scure e vivaci.
«Di là, andati sono!» — ripeté di nuovo la vecchina, rompendo il silenzio e indicando col dito alle spalle del cavaliere. «Passato non è molto tempo! Persi non avete, coloro che indietro lasciato vi hanno!»
«Di chi parlate?» — chiese Cavaliere25 — «Non ho perso nessuno. E la mia strada è quella, in direzione di Caer Liwelydd.»
«Ciò che voi credete, questo è!» — sentenziò sghignazzando — «Di là, detto vi ho! Là, andati sono, e là andare dovete!» — aggiunse, continuando a sghignazzare.
«Mi spiace, signora! Mi confondete con qualcun altro!»
Pensando che la povera donna non fosse tanto sana di mente, Cavaliere25 la salutò cordialmente, montò a cavallo e cominciò ad allontanarsi al passo.
«Urge il vostro aiuto, e non sarà invano!» — disse a voce alta, alle sue spalle, una voce che non era più quella stridula della vecchina, ma quella della donna del suo incubo.
Si voltò di scatto, ma vicino all'idolo non c'era più nessuno.

"...un luogo vi sarà indicato"

"Ci risiamo!" — disse tra sé Cavaliere25, serrando le mascelle. Poi, con un sospirò e una nuova sensazione d'urgenza, prendendo il cammino alla sua sinistra — la strada che porta a Caer, all'antica Deva, la fortezza dei romani —, spinse di nuovo ad un galoppo sfrenato il suo destriero.


Kerygwel si era ripresa dai postumi della visione. Cavalcava quasi in testa al gruppo, subito dietro Hanes e Sir Heinrich, che procedevano al piccolo trotto. L'aria, divenuta fresca e profumata, la rinvigoriva e il sole di quella tarda mattinata, alle loro spalle, faceva splendere ogni cosa sul loro cammino, fino all'orizzonte. Anzi, curvando nuovamente verso nord al bivio che incontrarono uscendo da un piccolo bosco — seguendo la strada, anziché il largo sentiero che portava verso ovest —, vide proprio davanti a sé che c'era qualcosa che mandava dei riflessi, rimanendone abbagliata: qualcosa di metallico, probabilmente.
Quando si avvicinarono un po' di più, scorsero un piccolo carro, che si avvicinava, muovendosi in direzione opposta alla loro. "Un mercante" — pensò Kerygwel.
Di lì a poco, la sua intuizione si trasformò in certezza, e il gruppo già distingueva nitidamente il mercate che faceva loro gesti per attrarre l'attenzione ed invitarli a fermarsi. Era un omino buffo, grassoccio, dal viso rotondo e roseo, con capelli folti e ricciuti, ma presenti solo sui lati del capo. Era alla guida di un carretto che traboccava di mercanzie di ogni genere, tra le quali abbondavano suppellettili in metallo. Ma non era da lì che provenivano i bagliori notati poco prima, ma dal medaglione e dalla spessa catena che portava al collo: poteva sembrare d'oro, ma Kerygwel ne dubitava.
E in quel momento accadde...
Kerygwel dapprima fu investita da una sensazione fortissima, come un'onda improvvisa, che sapeva di forza, di curiosità e di ancestrale memoria. Poi, un'ombra calò su tutti loro con un fruscìo assordante, trascinando con sé un vento freddo e un odore pungente. Kerygwel fece in tempo a scorgere due strane ali. Ne intuì la direzione e guardò verso il carro del mercante. L'omino era sparito, ma si udivano le sue grida: provenivano dall'alto. Tutti insieme guardarono in su e ammutolirono dallo stupore: un drago!
Kerygwel avrebbe urlato per la meraviglia, ma le mancava l'aria. Era uno spettacolo incredibile. Un drago! Stava vedendo un drago! Pesava non ne esistessero più... E pensava a quando lo avrebbe raccontato a tutti gli altri sull'isola dei druidi.
Intanto, dopo aver afferrato il povero mercante, il drago aveva iniziato a girare in tondo sopra di loro e continuava a dare occhiate alla creatura che gridava e si dimenava tra i suoi artigli, avvicinando di tanto in tanto la sua testa all'omino. Poi, prese una decisione: addentò la testa del mercante; fece pressione; si udì netto il secco infrangersi delle ossa del cranio; poi, la staccò con decisione; volteggiò ancora un paio di volte sul posto; e infine scelse una direzione e si allontanò.

Ripresosi dalla meraviglia e riottenuto il controllo del suo cavallo, che dall'arrivo del drago aveva cominciato a scalciare e a imbizzarrirsi, Sir Heinrich attirò l'attenzione dei suoi uomini e impartì loro degli ordini: «Portate Lady Kerygwel a Segontium, il più in fretta possibile. Non fermatevi per nessuna ragione. Lì troverete dei druidi che l'aspettano con una barca. Affidatela a loro. Poi, andate a Deva: ci ritroveremo lì,... spero!»
Le ultime parole giunsero loro come un'eco lontana, perché Sir Heinrich e Hanes era già partiti al galoppo, inseguendo il drago, che si era diretto, zigzagando nel cielo, prima verso sud e poi a occidente, verso la piccola catena montuosa chiamata Y Berwyn.


Quando, con il suo cavallo ancora lanciato al galoppo, sbucò dalla curva della strada che usciva da un piccolo boschetto, Cavaliere25 non si aspettava di certo un imprevisto così bizzarro. Aveva appena cominciato a distinguere un gruppo di persone ferme sulla strada, quando scorse un'ombra improvvisa sopra di lui; poi, fu raggiunto da una folata di vento improvviso e infine fu investito da una pioggia di sangue.

"...Sangue dal cielo."

Il suo cavallo si arrestò di colpo, si imbizzarrì e cadde di lato, rovinando a terra. Cavaliere25 riuscì a non rimanere schiacciato dal suo destriero, ma rimase con un piede bloccato sotto la sella. In quel mentre, sopraggiunsero velocissimi due uomini a cavallo che superarono con un balzo lui e il suo destriero e, sempre al galoppo, giunsero al bivio nei pressi del boschetto e svoltarono a destra, verso ovest, verso le montagne. Comprese che stavano inseguendo qualcosa. E quel qualcosa stava volando davanti a loro: un drago!
«Alla fine un maledetto drago c'era per davvero!» — disse a mezza voce, mentre tra sé realizzò che stava vedendo un drago, il suo primo drago, e che esistevano dopo tutto.
Si liberò quasi subito dal suo cavallo che si rialzò contemporaneamente a lui. Vi montò sopra e guardò in direzione delle persone che aveva scorto in precedenza. Sembrava che stessero per ripartire. Tra di loro gli parve di distinguere una ragazza che guardava nella sua direzione. D'un tratto lei alzò il braccio destro e punto l'indice verso i due che si allontanavano inseguendo il drago. Cavaliere25 non aveva bisogno di un altro suggerimento, aveva già compreso in quale direzione avrebbe dovuto andare. Fece un cenno col capo e si allontanò al galoppo cercando di raggiungere gli uomini che lo precedevano e il drago.


(continua)
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Se a ciascun l'interno affanno
si leggesse in fronte scritto, quanti mai, che invidia fanno, ci farebbero pietà! (Metastasio)

Ultima modifica di Hastatus77 : 09-10-2011 alle ore 20.20.16. Motivo: Corretta prima parte
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