"Nel mezzo del cammin di nostra vitami ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita."
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto I)
Ardea e Biago, in sella ai loro cavalli, si allontanarono dalla sponda fangosa del Lagno e si addentrarono sempre più nell'oscuro e sterminato bosco.
Una natura primordiale, opprimente e variegata sembrava sorgere e diffondersi in ogni dove, con ampi cespugli, sterpi e rovi che parevano come sbucare ovunque, rincorrendosi e confondendosi ad ogni passo, mentre nodosi tronchi intrecciavano come disegni ancestrali i loro rami frondosi, rendendo impossibile alla luce della Luna riuscire a filtrare e ad illuminare quel luogo.
Una vaga ed enigmatica penombra così si diffondeva intorno a loro, con giochi di chiaroscuro sul punto di dar forma a sinistre figure, pronte ad animarsi nel silenzio di quella tetra foschia.
Gli zoccoli dei loro cavalli dal melmoso e denso argine del Lagno, giunsero a calpestare arbusti e pietrisco di quel terreno umido ed incerto, con quella lussureggiante vegetazione che man mano avanzavano si apriva per accoglierli, per avvolgerli ed inghiottirli in un mondo di primordiale e sinistra atmosfera.
Versi e latrati cominciarono ad echeggiare intorno al cavaliere ed al suo scudiero, prima vaghi e lontani, poi più intensi e vicini.
Ad un tratto il fievole sibilo del vento fra le foglie, poi come un lamento basso e leggero.
E all'improvviso una voce.
Lieve, appena accennata, eppure chiara.
Era la voce di uomo.
Ardea si fermò un istante ad ascoltarla e la riconobbe.
Era quella di suo padre.
Suo padre che lo chiamava sofferente, pietoso, come implorante.
“Padre...” disse Ardea “... padre, dove sei?”
“Ardea...” fissandolo Biago.
Ma il cavaliere udì ancora quella voce.
“Padre!” Chiamò il Taddeide.
“Ardea...” mormorò lo scudiero “... Ardea, è solo il vento... non c'è tuo padre qui...”
Il cavaliere lo fissò ed annuì.
I due così proseguirono.
Avanzarono per un altro tratto, in uno scenario che sembrava non mutare mai, negando la possibilità ai due di capire quanta strada avessero fatto.
Poi ancora il sibilo del vento tra le querce immobili come statue pietrificate.
E di nuovo Ardea udì qualcosa.
Una voce.
Lenta, lamentosa.
Era quella di Cramelide che lo chiamava.
Lo chiamava come se stesse scappando via per quei meandri di oscurità e dannazione.
La ragazza correva per il bosco ed in lacrime chiamava il cavaliere.
“Cramelide!” Gridò Ardea. “Cramelide! Continua a chiamarmi! Guidami con la tua voce!”
“Ardea!” Cercando di farlo ragionare Biago.
Ma il Taddeide spronò il suo destriero e galoppò verso la direzione da cui pareva provenire la voce.
“Ardea, non è lei!” Urlò Biago, cercando di raggiungerlo.
Ma il cavaliere galoppava come senza meta, fino a quando una faina attraversò la sua corsa, proprio mentre la Luna illuminò i suoi occhi feroci.
L'animali emanò uno stridulo ed Arante si imbizzarrì.
Ardea allora scese di sella e si guardò intorno, in cerca di Cramelide.
E fu in quel momento che intravide qualcosa.
Come un gioco di riflessi e bagliori tra l'alone lunare e le lucide fogli degli alberi inumidite.
Una figura, eterea e spettrale.
Una bellissima ragazza in lacrime che tendeva verso di lui le sue braccia aperte.
Il Taddeide così tentò di avvicinarsi a lei, muovendo pochi passi verso quella figura.
“Ardea, no!” Biago alle sue spalle.
Ardea si arrestò di colpo e chinò il capo.
Alzò allora lo sguardo ed estrasse rapido Parusia, facendola brillare tra i bagliori lunari, per poi puntarla contro la figura.
Ed essa, all'istante, si dissolse nel nulla.
“Ardea...” avvicinandosi Biago a lui.
“Amico mio...” rimettendo Ardea la spada nel fodero “... le forze del male sono beffarde e crudeli... abbiamo ancora molto cammino da fare ed ardue prove da superare...”
E ripresero ad attraversare il bosco con i suoi misteri.