Capitolo IV: Orrore dai cieli
“Le arpie mi rapiscono il cibo di bocca piombando da non so dove, da qualche nido funesto, e non ho modo di difendermi.”
(Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro secondo)
Levet guardò Dacey, annuì e le sorrise.
“Non temete, tornerò.” Disse.
Si avvicinò poi al taverniere, chiedendogli di aprire la porta.
L'uomo aprì ed il baronetto corse fuori.
“Fate attenzione, milord!” Si raccomandò Fines.
Ma la porta chiudendosi coprì la sua voce.
“Speriamo non gli accada nulla...” mormorò Leones.
“Speriamo non accada nulla al borgo e a tutti noi.” Impaurito Poeh.
All'improvviso di nuovo cominciò ad udirsi quel sinistro e misterioso sibilo.
“Di nuovo...” fissando il soffitto Leones.
“Al diavolo!” Alzandosi Poeh. “Così impazziremo, o moriremo di paura!”
“Cosa diavolo vorresti fare allora?” Fissandolo Fines.
“Cantare!” Esclamò Poeh.
E cominciò ad intonare una vecchia canzone, cercando di coprire con la sua voce quel sibilo angosciante.
Leones comprese e iniziò anch'egli a cantare, invitando con un cenno Fines a fare altrettanto.
I tre borghesi cantavano così, buffi, sgraziati e stonati, per evitare che quel lungo e basso sibilo si sentisse ancora.
E mentre cantavano scoppiarono a ridere, seguiti dalle risate del taverniere e di sua moglie.
I tre allora si avvicinarono a Dacey, coinvolgendola in quella buffa scenetta, con l'intento non solo di coprire l'angosciante sibilo, ma anche di scacciare la paura.