“Venite, vi porterò a visitarlo.” Disse serio Vengor a Clio.
Chiamò il cocchiere e fece salire la ragazza sulla carrozza e fece anche lui lo stesso.
“Al Real Polverificio.” Disse poi a cocchiere.
“Signore?” Stupito quello.
“Non hai sentito?” Seccato Vengor. “Al Real Polverificio.”
“Subito, signore.” Annuì il cocchiere.
La carrozza partì e si diresse verso il maestoso palazzo.
Raggiunsero così il centro cittadino, dove la nebbia appariva più bassa e densa.
Come se la terra faticasse a lasciarla andare, per paura di scoprirsi agli occhi degli uomini.
Clio vide allora un antico ed aristocratico palazzo, dalle mura alte e decorate in stile borbonico, costruito con quel tipico raziocinio luminoso molto in voga nel secolo ateo, dove la ragione si illudeva di dominare il bello, l'armonioso e soprattutto il divino.
Ma in quella vasta costruzione vi era dell'altro.
Qualcosa di misterioso, di enigmatico.
Qualcosa di gotico che sembrava rivestire il palazzo di una patina d'altri tempi, di un fascino impossibile ed oscuro.
Ma ciò che più colpiva erano le pietre.
Le pietre, nude o rivestite di intonaco, che trasudavano quasi.
Le infinite goccioline di umidità che scivolavano su di esse parevano essere antiche lacrime di un remoto peccato.
E solo la solitudine sembrava aver accesso a quel luogo.