Layla fissò Talia che la teneva per un braccio.
I suoi occhi azzurri furono attraversati da un lampo e sul suo volto comparve un sorriso.
Un sorriso però enigmatico.
“La maledizione” disse “è una condanna e come tale richiede un colpevole ed una pena.”
Poi si voltò e s’incamminò verso il palazzo.
Giunte al palazzo, le due dame furono accompagnate da alcune servitrici in una grande sala.
Ampie vetrate si aprivano lungo la parete opposta all’ingresso, con all’esterno cespugli e piante rampicanti che si aprivano a ventaglio proprio davanti a quelle finestre, per filtrare e rendere più gradevole la luce del Sole, essendo quella sala rivolta ad Oriente.
La tavola era già imbandita e le due dame presero posto.
“Commovente l’amore che palesate per vostro marito, milady.” Con voce fredda Layla. “Tanto commovente da strapparmi quasi compassione… e voglio offrirvi qualcosa che non ha prezzo… la serenità.”
Batté allora le mani e subito una servitrice giunse con un vassoio.
Sul vassoio vi era un’ampolla di cristallo finissimo, con un fondo di giada.
Layla fece un leggero cenno alla servitrice e questa riempì con l’elisir contenuto nell’ampolla un calice di ottone.
“Conoscete il mito di Alcesti, milady?” Chiese Layla a Talia. “In verità vi dirò che fra tutti, compresi quelli fantasiosi che narrano del viaggio di Giasone e di quello di Ulisse, esso è il più incredibile.” Diede ordine alle servitrici di portare via il suo piatto, sebbene non avesse toccato quasi nulla. “Quel mito” continuò “è più fiabesco di qualsiasi novella de Le Mille e una notte e nello stesso tempo più ingegnoso ed ingannevole delle stupefacenti Metamorfosi di Ovidio.”
La servitrice portò il vassoio col calice accanto alle due dame.
“Ditemi, mia signora…” disse Layla a Talia “… voi se foste stata al suo posto, per amore di vostro marito, avreste bevuto il veleno come fece la devota e virtuosa Alcesti?”