Cittadino di Camelot
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“Dottoressa, deve tornare indietro!” la voce in quell’inglese stentato parlato dalla guida mi giunse ovattata, parlava dalla sommità della buca, e per fortuna non poteva vedere il mio volto alzare gli occhi al cielo.
Lo stava ripetendo almeno da mezz’ora, come se io avessi fatto anni di ricerche, girato il mondo, per poi abbandonare tutto a pochi metri dalla camera sacra della “regina dimenticata”.
La chiamavo così, perché il nome era stato eraso da tutti i manufatti che la riguardavano, tanto che gli studiosi per secoli non si sono accorti della sua esistenza, la migliore damnatio memoriae della Storia.
Ma io no, io avevo visto quelle iscrizioni durante un mio viaggio in Egitto, le avevo toccate con mano durante una delle mie missioni, avevo decifrato il codice che indicava dov’era sepolta e ora stavo per rivelare al mondo la sua esistenza.
Tra tutte le missioni, più o meno ortodosse, che avevo affrontato in giro per il mondo per conto dei musei o di collezionisti privati, alla ricerca di oggetti diciamo… “particolari”, quella era veramente il fiore all’occhiello, quella che mi avrebbe fatto fare il salto di qualità.
Eppure, quella guida continuava a ripetermi di tornare indietro. Patetico.
Non facevano che parlare di una maledizione e altre cose assurde del genere. Se questa gente sapeva dell’esistenza della tomba, perché mai negarlo al mondo?
Mancava così poco ormai.
Talmente poco che dovevano iniziare a saltar fuori tranelli e inganni, lame rotanti che uscivano dalle pareti.
No, non succede solo nei film, mi era capitato di trovarle in svariati luoghi esotici e pericolosi.
Erano i rischi del mestiere, ma anche il suo divertimento.
Mi trovavo in un cunicolo scavato nella roccia, coperto dalla sabbia del deserto per migliaia di anni. O forse meno, a giudicare dallo scheletro che incontrai dopo qualche passo, o meglio dai resti dei suoi vestiti che dovevano appartenere a un soldato dell’epoca napoleonica.
Ma il mio amico pelle e ossa non doveva aver avuto fortuna, io invece avrei portato fuori di lì il sepolcro della regina e l’avrei consegnata al mondo intero.
Un piccolo sibilo mi destò dai miei pensieri.
Allora mi bloccai, era il segnale di qualche trabocchetto.
Per lo meno voleva dire che ero sulla strada giusta.
E infatti, rapido e silenzioso come la morte, un piccolo pugnale di diresse verso di me, azionato da una molla nell’angolo.
Uno, poi un altro, un altro ancora.
Riuscii a schivarli, grazie all’esperienza e ai pesanti allenamenti a cui mi sottoponevo per poter uscire viva da quelle situazioni.
E anche quella volta, ci riuscii.
Attraversai un piccolo ponticello che dava sul nulla e infondo, finalmente, la vidi.
La porta cesellata in oro che portava alla camera sepolcrale.
Ce l’avevo fatta.
Presi il cellulare e la fotografai.
Non sapevo cosa avrei trovato al suo interno, ma ero lì, avevo avuto ragione, quando tutti mi davano della pazza, io avevo avuto ragione.
Mi avvicinai, cautamente, e per fortuna dato che un altro trabocchetto per poco non mi scaraventò in mezzo a quella voragine scavata nella roccia sottostante.
Giunta davanti alla porta dorata mi ci volle un’ora buona per riuscire a risolvere l’enigma che mi avrebbe permesso di aprirla, e ci riuscii solo perché avevo trovato l’amuleto che permetteva di entrare tre anni fa in Tibet.
Quando la porta si spalancò, una luce intensa mi colpì in pieno viso.
Il che era assurdo pensando che eravamo sottoterra, ma poi mi resi conto che c’era un’apertura in cui entrava un raggio di sole studiato affinchè si riflettesse in sette specchi sparsi per la stanza.
Alzai lo sguardo e mi resi conto che la volta era ricoperta di uno strano materiale, una specie di minerale che non sapevo decifrare a quella distanza ma che sembrava come un immenso cristallo colorato, che grazie al gioco di luci doveva raffigurare un cielo stellato e vermiglio in una giornata di sole.
“Le stelle splenderanno a mezzogiorno…” sussurrai tra me, ricordando una delle iscrizioni che mi avevano guidato fin lì.
Ce l’avevo fatta.
Mi incamminai verso il sarcofago che stava al centro della stanza trattenendo il fiato mentre scattavo foto per rendermi conto che stava succedendo davvero.
Ma poi, accadde qualcosa, qualcosa che avrei dovuto prevedere, un errore da principiante.
Non saprei dire dove fosse esattamente il congegno che fece scattare la trappola, perché improvvisamente tutto intorno a me iniziò a collassare.
Le pietre, iniziarono a cadere, una per una, quasi fossero fissate singolarmente.
Provai a scappare, a tornare sui miei passi, ma la porta era sigillata, e stava crollando non solo la stanza ma anche il corridoio che mi aveva portato fin lì.
Non mi arresi e cercai ancora una via d’uscita.
Non la trovai.
Tutto intorno a me crollò e l’utlima cosa che vidi fu una pioggia di quelle pietre che mi pungeva, mi ricopriva, mi sormontava.
Poi tutto si fece buio.
Mi ritrovarono dopo tre giorni, convintissimi ormai che fossi morta.
E così in effetti sarebbe dovuto essere.
Invece, inspiegabilmente, ero viva.
I dottori del posto, se avevo capito bene, dicevano che quelle pietre mi avevano protetto dai detriti, salvandomi di fatto la vita.
Eppure, una di queste era penetrata così in profondità che era impossibile rimuoverla se non uccidendomi. Lì per lì mi dissi che questi erano degli incompetenti ma anche ad a Afragolopolis, una volta tornata a casa, mi ripeterono la stessa cosa.
Morale della favola quella scheggia di materiale sconosciuto se ne sarebbe stata buona buona lì per i fatti suoi nel mio organismo.
Erano passati mesi ormai da quell’avventura, che invece di dare una spinta alla mia carriera l’aveva stroncata senza tanti complimenti.
E da allora erano successe tante cose strane, cose che non sarei mai riusciuta a spiegare, che non riuscivo nemmeno a confidare a qualcuno per paura di essere presa per pazza.
La mia vita era cambiata, completamente cambiata da quel momento.
Era come se ci fosse qualcosa in me, qualcosa capace di fare cose che andavano oltre ogni capacità umana.
Da allora avevo dedicato ogni mia risorsa a cercare di capire che cosa mi stesse succedendo, io ero convinta che c’entrasse la pietra dentro di me, ma non riuscivo a provare con nessun metodo scientifico di che materiale si trattasse.
Forse perché non c’era niente di scientifico, forse perché c’era ben altro che agiva in me.
Capirete che quando un’amica che lavora in televisione mi ha fatto notare che cercavano qualcuno per affiancare il professor Minsk nel suo programma mi è venuto da ridere.
Insomma, se c’è uno che è sempre e comunque contro il soprannaturale è lui, se gli mostrassi le cose che so fare probabilmente tirerebbe fuori una formula matematica che le spiega perfettamente.
Non c’è, putroppo, l’ho cercata per mesi. Non c’è.
Ma ormai la mia carriera da Indiana Jones se non è finita si è presa una lunga pausa di riflessione e quella da supereroe non credo mi porterebbe troppi soldi, così decisi di provare.
E ora ero qui, ad aspettare di fare il mio colloquio.
Non che nutrissi molte speranze, lui cercava una bella neolaureata magari oca e bellissima, non certo qualcuno con un curriculum come il mio, con anni di esperienza sul campo, due lauree e un master.
Ma valeva la pena tentare.
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Lei si innamorò, sopra ad un cespuglio di rose, e poi rispose... Sì!
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