Camelot, la patria della cavalleria

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Guisgard 16-07-2017 06.50.41

Blaue Blume
 
Prologo

“Lo stolto pensa: «Dio non c’è».”

(Salmo 53)

La vecchia stazione dei pullman di Afragolopolis, appena fuori città, nei meandri desolati della sua periferia di interminabili cantieri, edifici inagibili,
stradine laterali chiuse al traffico e murales di vivace, colorata e decadente Urban Art.
Un olezzo di salsiccia alla brace, peperoni fritti e cavolo lessato proveniva da uno squallido pub in fondo al vicoletto tra via Florenzia e la Saggesia, risalendo lungo gli sporchi marciapiedi di manifesti e graffiti, intervallati da tombini e scarichi fognari fino al semaforo di Largo Ruggerio, le cui luci verticali erano ormai fuori uso da tempo.
Il cielo, in quel pomeriggio di un soleggiato Luglio, era di un azzurro terso e chiazzato da lontane e bianche nuvole, lasciando sulla sterminata città una cappa di afa che rendeva tutto indistinto, spento, quasi apatico.
Il caldo sembrava togliere a tutti la voglia di fare ogni cosa.
A passo lento il bambino attraversava i binari ormai in disuso dei tram che tagliavano alle spalle la vecchia stazione.
Camminava distrattamente, senza neanche preoccuparsi di cercare l'ombra del muro e ripararsi così dal Sole pomeridiano, facendo rimbalzare con insistenza la sua pallina di gomma davanti a lui.
Ad un tratto per un falso rimbalzo la pallina gli saltellò via, rotolando lungo il brecciolino dei binari, fino a fermarsi in un ciuffetto d'erba che spuntava dal pietrisco.
Il bambino rincorse la sua pallina, raggiungendola, per poi inginocchiarsi a raccoglierla.
Ma tra l'erba la sua pallina non c'era più.
Si guardò intorno stupito, cercando di capire dove fosse finita per colpa di quello strano rimbalzo.
Lo sguardo allora finì all'imbocco del vecchio sottopassaggio ormai abbandonato e dopo un'esclamazione di paura mista a sorpresa indietreggiò di un passo o due.
All'ombra dell'imbocco c'erano due occhi rossi, così dannatamente simili a quelli che sin da piccolo aveva immaginato di intravedere ogni qualvolta scendeva nel garage di casa sua.
Quegli occhi inquietanti e spaventosi che aveva sempre temuto di vedere, ma che poi mai aveva visto davvero nel suo garage.
I mostri non esistono, gli ripetevano sempre a casa.
Nei film si, come nei cartoni animati e nelle favole della sera, ma non certo nella realtà, si sentiva sempre dire dai suoi familiari.
Allora probabilmente si tratterrà di un qualche animale, forse un gatto oppure un cane.
O chissà, magari solo un grosso topo.
Comunque era pronto a girare i tacchi e a darsela a gambe, infischiandosene bellamente di quella stupida pallina.
Si alzò e fu sul punto di girarsi ed andare via, quando accadde qualcosa.
“Salve, Tonio.” Disse una voce simpatica e dal tono musicale che giungeva dall'imbocco del sottopassaggio.
Il bambino restò un attimo inebetito, stupito se non addirittura incredulo per ciò che aveva davanti.
Dal sottopassaggio infatti era spuntato un pagliaccio in carne ed ossa, di quelli che si vedono nei circhi o in tv per quegli show di clown e prestigiatori.
La sua faccia era in tutto e per tutto quella che ci si aspetta di vedere in un pagliaccio, così come il suo aspetto.
Il volto infatti era bianco, con un grosso sorriso da clown disegnato sulla bocca, il naso grosso e rosso, buffi ciuffi di capelli colorati e due occhi ora non più rossi, ma di un blu luminoso, vivace e limpido.
Indossava un abito multicolore, con bottoni arancioni, cravatta lunga fosforescente e larghi pantaloni pastello tenuti su da ampie bretelle dai motivi psichedelici.
Mostrava la sua abilità come giocoliere, lanciando in aria diverse palline colorate, simili a succulenti frutti maturi tutti da cogliere.
“Come fai a conoscere il mio nome?” Chiese meravigliato Tonio.
“Noi pagliacci conosciamo tutti i segreti.” Rispose, continuando a far volteggiare le sue palline in aria. “E scommetto che adesso rivorresti la tua pallina, giusto.” Sorridendo.
“Certo!” Esclamò il piccolo, non potendo fare a meno di sorridere visto quanto era contagioso il sorriso del pagliaccio.
“Certo!” Ridacchiò questo, come a scimmiottare la voce del bambino. “Mi piace! Bravo! E anche una delle mie palline, no? Magari a tua scelta!”
“Magari!” Annuì Tonio, per poi ritrarre subito la mano che aveva invece allungato solo un attimo prima. “No, non posso... mio padre non vuole che accetti nulla dagli sconosciuti... e neanche che ci parli...” rammaricato.
“Devo ammettere che tuo padre è una persona molto saggia.” Si complimentò il pagliaccio. “Davvero molto.” Annuì, senza smettere di far volare in aria le sue palline. “Allora vorrà dire che mi presenterò.” Sorridendo ancora. “Io sono Penny House, il pagliaccio acrobata, canterino e ballerino. Penny House, ti presento il piccolo Tonio. Tonio, questi è Penny House.” Divertito. “Ecco, adesso io non sono più uno sconosciuto per te e tu non lo sei per me, giusto?”
“Si, credo di si.” Contento il bambino, per poi allungare di nuovo la mano, che un attimo dopo tornò a ritrarre. “Come... come sei finito in questo posto? I pagliacci non vivono nei circhi?”
“Il caldo mi ha spinto quaggiù, Tonio.” Penny House. “Tutto il circo è stato spinto quaggiù. Non senti i suoi suoni? Ed i suoi odori?”
Tonio cominciò allora a sentire le note giocose di un organetto, di quelli che si vedono proprio all'entrata di un circo.
E poi l'odore di noccioline tostate, delle salse che si spruzzano sulle patatine fritte e dello zucchero a velo sui dolci.
Il profumo delle ciambelle che friggevano e della glassa calda sopra, delle pizze che uscivano dal forno e del caramello che cospargeva i popcorn.
“Oh, si che lo sento!” Tonio al pagliaccio.
“Vuoi la tua pallina, Tonio?” Questi con un sorriso gioviale e luminoso. “Te lo chiedo di nuovo perchè non mi sembra ti stia molto a cuore riaverla.” Giocherellando con maestria con le sue palline e mostrandogli infine proprio la sua pallina di gomma.
“Si, certo che la rivoglio!” Rispose il bambino.
“Ed un' altra pallina? Ne ho diverse... rosse, gialle, verdi, blu, bianche...”
“Rimbalzano?” Domandò Tonio.
“Eccome, amico mio!” Rispose Penny House. “Rimbalzano come neanche immagini!”
Tonio allora allungò la mano.
Ma subito il pagliaccio gli afferrò il braccio ed il bambino vide quel volto bianco e dal naso rosso trasformarsi, mutare in un qualcosa di diverso.
Ciò che Tonio vide andava oltre le sue paure, le sue fobie e tutto ciò che aveva fantasticato su quella cosa immaginata nel garage di casa sua.
“Rimbalzano!” Cantilenò ridacchiando la creatura all'imbocco del sottopassaggio con una voce ora divenuta rauca, grottesca e gracchiante.
Strinse in una morsa il braccio del bambino, per poi trascinarlo verso quella terribile oscurità da cui anche la luce sembrava incapace di giungere.
Tonio torse il collo, voltandosi per non guardare quelle spaventose tenebre senza ritorno e cominciò a strillare.
I suoi strilli erano disperati, stridenti ed acuti, ma nessuno lo sentì in quella vecchia stazione abbandonata.
I mostri non esistono, gli avevano detto a casa sua.
Ma ora casa sua era lontana, così come il mondo intero e la sua infanzia ormai rubata e violata per sempre.
Nello scolo di scarico, intanto, che dal sottopassaggio portava alle fognature sottostanti la pallina di gomma proseguiva veloce il suo viaggio attraverso gallerie semibuie e lunghi corridoi di fetido cemento, dove gorgheggiavano ed echeggiavano le acque.
Ad un certo punto fu poi proiettata da una feritoia come un proiettile dalla canna della pistola e terminò in un canale senza nome, per poi sfociare poco dopo nella rabbiosa e verdastra corrente del Lagno.
La pallina galleggiò e rollò a lungo, nonostante fosse molto consumata per i troppi lanci effettuati dal piccolo Tonio nei suoi giochi.
Nessuno sa dove sia arrivata e se mai si sia fermata.
Forse dal Lagno avrà raggiunto il mare, per poi galleggiare per sempre come la pallina magica di tanti cartoni animati e favole.
Tutto ciò che si sa è che galleggiava ancora quando sulle verdastre acque del Lagno arrivò a varcare i confini urbani di Afragolopolis, uscendo per sempre da questa storia.
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Capitolo I: Angelo e demone?

“Fuori dalla luce e dentro le tenebre.”

(Adso da montier-en-der)

Il corpicino senza vita del bambino giaceva coperto da un telo scuro sull'asfalto, reso infuocato dall'inclemente Sole di Luglio, della vecchia stazione dei Pullman mentre tutt'intorno brancolavano nel buio i carabinieri di Afragopolis.
“Odio questi pedofili...” disse sbottando il maresciallo ad un paio di giornalisti presenti “... non hanno abitudini, manie e neppure comportamenti ripetuti... i maniaci sono ben altra cosa... hanno la testa fusa, qualche filo staccato nel cervello e qualche indizio su cui lavorare te lo lasciano sempre... ma questi dannati pedofili no... sono come animali e si adattano alle loro prede...”
“Quindi” uno dei giornalisti “non avete dubbi sul fatto che si tratti sempre dello stesso individuo, giusto?”
“Ho forse detto questo, stramaledizione?” Il militare, mentre i giornalisti annotavano ogni sua parola. “Anzi, mi sembra di aver detto esattamente il contrario!” Visibilmente alterato. “Non ci sono elementi che colleghino questo nuovo stupro ed omicidio di un bambino con quelli precedenti!”
“Ma sono 22 bambini con questo, maresciallo!” Un altro dei giornalisti.
“So contare anche io, stramaledizione!” Lesto il maresciallo. “Sembra scoppiata un'epidemia di pedofili in città!”
Ad un tratto il militare notò del movimento e poi l'arrivo di alcuni uomini in borghese.
A guidare quel piccolo gruppo vi era un uomo di altezza e corporatura media, capelli e pizzetto brizzolati, occhiali scuri e sguardo indagatore e penetrante.
Fecero per avvicinarsi ancor più al corpo del bambino, ma subito uno dei carabinieri li bloccò.
Allora uno di quelli estrasse un distintivo, mostrandolo al militare in divisa scura.
“Maresciallo...” il militare voltandosi verso il suo superiore “... ci sono i federali...”
“I federali?” Stupito il maresciallo. “Chi diavolo li ha messi in mezzo?”
“Le dice niente” l'uomo col pizzetto “il Dipartimento di Giustizia Afragolignonese?”
“Zulian...” leggendo il distintivo il maresciallo.
“Comandante Zulian.” Precisò quello col pizzetto. “E da questo momento il caso è competenza della polizia federale.”
“Perchè mai?” Infastidito il maresciallo.
“Forse perchè sono morti 22 bambini e voi carabinieri non sapete che pesci prendere?” Zulian, per poi avvicinarsi al cadavere del bambino e facendo segno ai suoi di fare lo stesso.
“Allora?” Chiese poi al maresciallo.
“Aveva 12 anni...” questi “... viveva dall'altra parte dell'isolato e forse si è trovato a passare di qui per caso... o chissà, può essere stato indotto a farlo, magari adescato dal pedofilo...”
“Sa per certo che si tratti di un pedofilo?” Guardando il cadavere Zulian.
“Beh, si...” borbottò il maresciallo “... chi altri può essere stato?”
“Magari, non so...” sarcastico Zulian “... un maniaco?”
“Un maniaco?” Ripetè il maresciallo. “Non ne vedo il motivo.”
“Leggo” leggendo il breve referto medico appena stilato Zulian “che ha subito lesioni durante lo stupro... e nel colon sono state infilate quattro palline di gomma... con ogni probabilità quando il bambino era ancora in vita...” guardando poi il maresciallo “... il colpevole non aveva solo una gran voglia di sollazzarsi con un minore, ma anche di fargli molto male... accanendosi senza motivazioni apparenti.”
“Forse il bambino gli aveva opposto resistenza e...” provò a formulare come ipotesi il maresciallo.
“Cavolate.” Lo interruppe Zulian. “Poteva spezzargli le bracia o le gambe, pestarlo a sangue, ma non infilargli quattro palline in quel modo. No, si tratta di un gioco perverso. Non siamo davanti ad un semplice pedofilo.” Con tono spiccio. “Inoltre ho sentito alcuni testimoni affermare come il ritrovamento del cadavere sia avvenuto 30/45 secondi dopo che il bambino aveva lanciato il primo urlo.”
“Impossibile!” Esclamò il maresciallo. “Quel bastardo non può averlo ridotto così in meno di un minuto!”
“Forse i testimoni erano ancora scossi e quindi poco attendibili.” Uno degli uomini di Zulian.
“Oppure” un altro dei federali che erano con lui “lo stesso assassino ha gridato camuffando la voce da bambino quando ormai aveva completato il suo lavoro.”
“Ora questo non è importante.” Sentenziò Zulian. “Mettiamoci subito al lavoro. Voglio mappe e prospetti di tutta la periferia Ovest della città. Voglio posti di blocco sulle strade urbane più trafficate ed altri posti di blocco tutt'intorno alla città. Ed un paio di elicotteri volare sulla campagna. Nessuno dovrà uscire o entrare ad Afragolopolis senza che noi lo si sappia. Inoltre voglio la lista di tutte le attività, organizzazioni e combriccole varie di omosessuali in città.”
“E questo che diavolo c'entra?” Meravigliato il maresciallo. “Cosa c'entrano gli omosessuali ora?”
“Ha forse qualche gay in famiglia?” Zulian a lui. “Non so... amici di vecchia data dell'altra sponda o con gusti particolari?”
“Certo che no!” Rispose il maresciallo. “Ma ciò non vuol dire che io non giudichi inutile ed inopportuna la sua richiesta! Vuol forse ritrovarsi contro le minoranze? Essere bollato come intollerante? Omofobico? O peggio... come fascista?”
“Me ne frego.” Fumando Zulian. “Ho un maniaco da trovare. I bempensanti ed i liberali possono andare a farsi benedire per quanto mi riguarda. Sono stati stuprati ed uccisi 22 bambini, dei quali 20 erano maschi. Una statistica che come minimo mi insospettisce.” Gettando la sigaretta. “Devo smettere con questo dannato vizio... Monique!” Chiamando una dei suoi. “Voglio una di quelle ciambelle fritte con lo zucchero tutt'intorno... non glassa, cioccolato o zucchero a velo... zucchero e basta.”
“Una graffa.” Monique a lui.
“Si, qualunque sia il suo nome.” Annuì Zulian. “Ed un caffè... lungo, dolce, schiumoso...”
“E noi cosa facciamo?” Il maresciallo.
“Perchè non vi dedicate a fermare le auto e controllarne i documenti?” Ironico Zulian. “Ci occuperemo ora noi del caso. Su, ragazzi, al lavoro.” Ai suoi.
“Borioso pallone gonfiato e fascista...” a bassa voce il maresciallo, per poi andare via con i suoi uomini.
Intanto la vita ad Afragolopolis continuava a scorrere perlopiù pigra ed indifferente, salvo un po' di sdegno e forse un inizio di apprensione per quella storia, per quei 22 bambini violati.
Inoltre cominciò a diffondersi in città l'idea, il sospetto e forse persino la paura che il colpevole di tutto ciò fosse uno dei tanti ospiti poi rilasciati dell'Imperion Nolhian, il vecchio manicomio criminale di Afragolopolis.
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Nyoko 16-07-2017 08.24.54

Quel mattino mi ero alzata presto. Non volevo alzarmi insieme a lui, era già tanto dormirci insieme. Potevano essere le 5... O le 6... Non aveva alcuna importanza. Ormai erano notti che non riuscivo neanche a dormire, io che di solito sono una dormigliona.
Vado al bagno e mi guardo: "cosa hai fatto, Nyoko?" mi dico a bassa voce guardandomi allo specchio.
"Chi hai al tuo fianco?"
Passai una mano sui capelli e me li scompigliai appena.
Sono giovane... Troppo giovane. Alla mia età dovrei essere ancora all'università a studiare lettere. E invece sono qui, in questa piccola casa, non molto accogliente, con un uomo che ormai non amo più. Jeffrey è un uomo considerato "perfetto" per me dalla mia famiglia.
Ci eravamo fidanzati al tempo del liceo.
Oh, ai tempi lo amavo. Caspita se lo amavo... Ma col tempo, quell'amore che ci univa, sembrò spegnersi, trasformando le coccole in pura e vera abitudine.
Ho sempre avuto un concetto di amore ben diverso da quello che raccontano le favole o i loro derivati, non credo in nulla di fiabesco.
Guardo ancora il mio viso sullo specchio e mi chiedo che cosa stia davvero facendo della mia vita.
Sono una scrittrice, amo il mio lavoro e guadagno pure bene.
Decido che guardarmi allo specchio non farà di me una donna libera e felice, e probabilmente neanche provare ad uscire da quella situazione, mi renderà una donna libera e felice.
Mi avvio al mio studio, dove ho tutto quello che mi serve per scrivere i miei libri: dizionari, mappe, giornali e il mio carissimo computer di ultimo modello perfettamente funzionante.
Le mie storie sono a tema omosessuale. Anche eterosessuale, ovviamente, ma il mio genere è basato proprio su quelle storie d'amore fuori dal comune.
Ho già scritto e pubblicato un libro del genere e ha fatto molto successo, non posso dire di non esserne orgogliosa.
Tuttavia, con quello che sta accadendo in città, mi sento un po' impedita. Provo a scrivere qualcosa ma... Tante cose mi fermano.
Mio marito sta ancora dormendo ma già immagino come si comporterà appena si sveglierà: "buongiorno cara" dirà. "Bella giornata oggi" sorriderà.
"Ti amo" mi darà un bacio e si chiuderà in bagno.
Avrei voluto fosse manesco, con me. Una scusa per lasciarlo, almeno. Invece... Sono quasi costretta a stare con lui, dai miei genitori che lo adorano, e un po' anche dalle mie paure.
Nessuno che pensa a me e a come mi sento a stare con un uomo che non amo. Quasi costretta a fingere di amarlo, a stargli accanto nonostante il desiderio di lasciarlo.
Non voglio ferirlo... O forse non ho semplicemente la forza di provarci.
Ma cosa mi è successo? Ero così forte, prima! Ero capace di difendermi, ero anche molto allegra, sarcastica, con il sorriso sempre stampato in faccia. Forse mi ha ucciso la sua gelosia, la sua "perfezione". Forse ho sbagliato a dirgli "sì" dopo tutti quegli anni. Forse avrei dovuto accorgermene prima che... Che ormai non lo amavo più.
E invece sono stata soggiocata dalla sua perfezione, dal suo talento oratorio. Mi dispero ancora un po' e provo ad arrancare qualche frase.
-Lui l'afferra e...- e poi? Nulla, cancello tutto.
-I suoi occhi erano...- erano? No, no! Cancello tutto ancora.
Sono sconfortata. L'ispirazione mi ha abbandonata e non posso far altro che piangere. Guardo finalmente l'orogio: quasi le sei... Fra un po', Jeffrey si alzerà... Devo prepararmi a ricevere il suo solito monologo.
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Lady Gwen 16-07-2017 13.55.40

Un'ora.
Due ore.
Tre ore.
O forse tre giorni.
Non sapevo più da quanto mi trovassi nella vasca.
La volta che era durata di più ci ero rimasta per una settimana di fila; l'infermiera Lucy mi aveva imboccata e cambiata lei, anche con l'aiuto dell'infermiera Lizzie, avevano detto che dovevo calmarmi e rimanere lì dentro buona buona.
Io ci riuscivo, a volte, capitava che mi addormentassi pure, ma altre volte non ci riuscivo e l'infermiera Lucy allora mi dava quella pastiglietta azzurra dalla forma strana con una lettera stampata sopra.
Io cercavo di calmarmi prima, non mi piaceva che mi desse quella pastiglia, ma a volte non ci riuscivo e quindi non c'era niente da fare.
Risultato: cadevo addormentata in un attimo e restavo lì dentro finché non mi svegliavo e mi portavano nella mia camera con tutte le braccia e le gambe che sembravano quelle di Maya, la bambola di pezza che mi avevano regalato per i miei cinque anni.
Questo lo ricordavo, insieme a qualche altra cosa; non ricordavo sempre le cose, era questo l'effetto del "calmante", come lo chiamava sempre il dottor Jon.
Gommetta fra i denti, scossa e via.
Tutto confuso per tre giorni.
O almeno, quelli che mi sembravano tre giorni.
Di più o di meno non importava, tanto mi ritrovavo qui dentro comunque.
Loro a volte, i dottori e le infermiere, come i miei genitori, pensavano che lo facessi apposta, ma non era così.
Non era colpa mia se loro venivano da me.
Venivano dicendomi di aiutarli, ma io non avevo mai saputo come farlo.
Me ne accorgevo sempre quando arrivavano: sentivo come una sensazione di pace, di tranquillità, come se andasse tutto bene, anche se sapevo che non era così, oppure lì vedevo per qualche istante quand'ero in dormiveglia, loro stavano lì a guardarmi e poi sparivano.
Appena mi sentivano parlare con loro, il dottor Jon o l'infermiera Lucy entravano nella mia stanza tenendomi ferma e obbligandomi a calmarmi, ma io non volevo calmarmi perché non ero affatto nervosa.
Però lo diventavo e allora cominciavo a urlare, a gridare, forte, fino a quando non sentivo le corde vocali quasi saltar via come le corde usurate di una chitarra, a muovermi, a cercare di liberarmi ed ecco che mi ritrovavo qui nella vasca, se mi andava bene.
In realtà non ho mai capito che ci facessi qui, insieme ad Ariadne, la signora tanto gentile che mi passa qualche dolce di nascosto, proprio quando l'infermiera Lucy torna a casa e l'infermiera Lizzie è troppo impegnata a civettare col dottor Jon, e che dice di vivere in una bellissima villetta di campagna con un'altra signora, un po' meno gentile di lei, che si chiama Tya, ma non so come facesse a viverci insieme se Ariadne e Tya avevano la stessa faccia e lo stesso corpo, e poi diciamocelo, qui non siamo certo in una villetta di campagna, ma forse lei non lo sa ed io non ho il coraggio di dirglielo.
Oppure con Emis, quel tipo strano che non vuole passare davanti agli specchi perché dice che ci vede dentro uno che vuole ucciderlo, ma io ci vedo riflesso solo lui.
Non udivo particolari rumori provenire da fuori, come sempre a quest'ora, un po' dopo l'ora di pranzo, ma prima dell'ora in comune nel salone grande al primo piano e avevo paura che mi lasciassero anche stavolta qui dentro per una settimana, mentre io rimanevo a fissare il soffitto, cercando di pensare e ricordare.

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Clio 16-07-2017 16.45.50

"Mamma mamma, perchè?" prendendola per la mano, terrorizzata "Non faccio male a nessuno, mamma... ti prego".
Il pianto leggero della bambina trovò lo sguardo vuoto della madre.
Uno sguardo fatto di terrore, di bigottismo e preoccupazione.
L'ufficio dell'esorcista è austero e cupo, e io avevo davvero paura.
Già mi spaventava il mio dono, ora ne ero letteralmente terrorizzata.
Mamma diceva che era il demonio, era lui a farmi entrare nella mente della gente.
E io piangevo, di notte.
Io non volevo il demonio, non avevo mai fatto male a nessuno.
Non volevo fare del male a nessuno.
Mi veniva da piangere, all'idea dell'esorcista.
La mamma mi teneva per la mano, trascinandomi quasi in fondo alla chiesa così cupa e buia.
Avevo paura, ed ero arrabbiata.
Perché la mamma non capiva che io non volevo fare male a nessuno?
Perché il demonio avrebbe dovuto darmi un dono così?
L'uomo uscì dalla porta, era vestito di nero, il volto austero, barba e capelli bianchi, era magrissimo e l'espressione vuota.
Mi faceva paura.
Iniziò a parlarmi severamente, chiedendomi quale fosse il motivo della nostra visita.
"Diglielo, Clio.." mia mamma, stringendomi il braccio "Diglielo.
Io restavo in silenzio, guardando con due occhioni teneri e spaventati il religioso.
"Diglielo!" continuò la donna, scuotendomi il braccio "Diglielo!".
Lui restava in silenzio e mi guardava, mi guardava con due occhi così intensi e cupi che mi terrorizzavano.
Il respiro accelerato, gli occhi spalancati.
"Io.." sussurrai piano, con il cuore in gola "Io..." terrorizzata.
"Sì, bambina?" con sguardo severo e voce accomodante l'esorcista.
Allora prendo coraggio, e lo guardo negli occhi.
"Sento i pensieri della gente..." sussurrando quasi ma sostenendo il suo sguardo.


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Anche quella notte mi ero addormentata sul divano, ormai era diventata un'abitudine, pensai tirandomi su con i gomiti, guardandomi attorno con gli occhi appannati.
Erano anni che non sognavo quel momento, forse uno dei più cupi della mia infanzia.
Scossi la testa, come a voler scacciare quel ricordo lontano.
Mia madre non mi aveva mai capito, nessuno mi aveva mai capito.
Aveva provato di tutto, la mia bigottissima mamma, ma nulla aveva posto fine al mio dono, nemmeno il rito dell'esorcista che non aveva fatto altro che spaventarmi a morte.
E io, io detestavo essere spaventata; la paura ti paralizza, ti blocca, ti rende debole.
Uaarania mi ha insegnato a non avere paura, a non temere il mio dono ma a svilupparlo, a controllarlo, a renderlo sempre più forte.
È un dono, non una maledizione, anche se lo sembra.
Sono scappata che avevo 14 anni, per raggiungere la sede segreta di Uaarania, lì mi hanno cresciuta, addestrata e seguita per anni.
Ora non c'è niente che mi faccia paura.
Dopo anni di addestramento, affinando le qualità più utili che potevo avere, non resta nulla di quella bambina spaventata da qualcosa che le sembra più grande di lei.
No, ora il mio dono non mi spaventava più, ora sapevo controllarlo, usarlo, direzionarlo.
Ci avevo persino costruito una carriera, come psicologa, ed ero dannatamente brava nel mio lavoro.
Certo, baro...
Era vero, io entravo nella mente dei pazienti, la sondavo, la ascoltavo, i loro pensieri erano chiari e cristallini come acqua di montagna.
Sì, baravo, ma riuscivo anche a dare loro tutto quello che volevano, tutto quello di cui avevano bisogno, perchè sapevo anche quello che non mi avrebbero mai confidato, quello che non ammettevano nemmeno a me stessa.
Ma Uaarania non mi aveva insegnato soltanto quello, mi aveva temprato il corpo oltre che la mente.
Avevo imparato a combattere, perchè anche se le mie capacità costituiscono un vantaggio, di sicuro non possono bastare nella lotta che ci attende.
Ora ero una macchina da guerra, una delle migliori cacciatrici di Uaarania, tanto da vedermi affidata quella missione, quella missione che aspettavo da anni.
Il salto di qualità, la missione che mi avrebbe permesso di farmi notare dalle cariche più alte, di trovare il mio posto tra i gerarchi dell'organizzazione.
Eppure ero diversa da molti di loro, ma non mi importava.
Non mi importava di nulla.
Ora contava soltanto la missione, quella missione a cui avrei dato tutta me stessa.
Anche se il problema più grande in quel momento era la mia copertura, più che la mia vita vera, quella che consideravo tale, quella che vivevo di notte, nascosta dalla città.
Il mio segreto oscuro.
La clinica per cui avevo lavorato aveva chiuso, e mi serviva un nuovo posto di lavoro come psicologa.
Una vita normale è la prima regola fondamentale per non farsi notare.
Nessuno avrebbe mai immaginato che cosa si nascondeva dietro il mio faccino innocente.
Nessuno vedeva il mio lato oscuro, se non i miei nemici, ma sempre un attimo prima di morire.
Per il resto del mondo ero solo una ragazza come tante, una giovane e insignificante psicologa.
Un sorrisetto divertito mi si dipinse sul viso.
Sì, sottovalutatemi, avanti.. poi riderò io quando capirete l'errore che avete commesso.
Mi alzai dal divano controvoglia, stavo prendendo la brutta piega della nullafacenza da disoccupata.
Presi solo dei biscotti, mi misi una vestaglia e mi sedetti a letto, col giornale degli annunci che avevo preso la sera prima e ancora non avevo guardato.
Non avevo avuto ancora notizie da Uaarania, e fremevo per avere informazioni dettagliate sulla missione, quell'apatia mi stava uccidendo e solo allenarmi dava sollievo alla mia noia.
Ti serve un lavoro, su.. concentrati..
Sospirai e mi misi a guardare il giornale attentamente, spulciando tutti gli annunci che potevano riguardarmi, qualcosa avrei trovato, dopotutto.

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Altea 16-07-2017 16.47.38

Uscii dal bagno togliendomi l'accappatoio bagnato e gettandolo sul lussuoso letto, mi stesi avendo
ancora del tempo per prepararmi.
Accarezzavo il mio gatto nero e accesi la tv annoiata, era stata una pessima idea chiedere a me di sostituire Matilda..io l'avevo già fatta la gavetta ed ora ero una delle investigatrici più rinomate tra i colleghi ed ero passata ai casi più pericolosi.
"La rosa nera" era il mio soprannome e me lo avevano dato per il mio carattere misterioso, il fascino che, a parer loro, avrebbe fatto cedere qualsiasi nemico ma io mi chiamavo Altea Bastian.
I soldi me li ero guadagnati e senza compromessi, ma in me vi era quella freddezza e sete di vendetta per mio padre che mi attanagliava fin da ragazzina. Figlia di Gustav Bastian, importante investigatore della Polizia Federale Afragolonese e morto in circostanze molto misteriose, mentre stava indagando su dei fatti a nessuno noti si diceva.
Fu per questo non volli entrare in Polizia, effettivamente pensavo mio padre non fosse stato tutelato o forse tradito da qualche amico
o infiltrato e scelsi la strada dell' agenzia privata.
Lavoro per la Afragolopolis Metropolitan Agency, sotto varie coperture..a volte mi sta stretto questo sporco lavoro ma come si dice qualcuno lo deve fare.
A volte devo lasciare la mia identità, il mio nome e la mia vita e perdere me stessa..a volte mi mancano quelle camminate sul lungomare, magari un ristorante e una cena romantica per Amore e non per finzione per addescare il malcapitato.
Cinica? No affatto..è il lavoro che lo impone.
Ad un tratto mi soffermo in un canale e in me si insinua un volto e una voce che stranamente mi attanaglia ma rido sarcastica.
Ascolto con attenzione le sue parole e poi giro canale, sempre Lui.
"Oh, pure Shakespeare" guardando il mio gatto nero.."Sentito Black? Lo scapolo d'oro..ma chi mai può essere,è borioso e forse non trova una donna perchè non...è capace di amare..o..però non è male anzi..ma la gente si affida oggigiorno a una agenzia di cuori per innamorarsi?" perplessa.
Le mie parole rimangono sospese nell' infinità di quelle parole e sorrisi che Lui estrae e dal fascino misterioso, è un tipo fascinoso e conturbante.."e sa usare bene le parole e sarà pieno di donne.."
Giro nervosamente la tv,ma leggermente turbata, non dovevo soffermarmi di più a vedere quelle interviste..dopodichè la polizia..fantasmi e spettri.."Che diamine sta accadendo?" incuriosita.."Di che stanno parlando quegli incapaci di poliziotti..già barcollano su quelle morti strane di un presunto maniaco..Bene lavoro per noi altri" accarezzando il gatto e sorridendo ma sentivo stesse accadendo qualcosa di strano.
Il Boss aveva detto dovevo trovare una buona copertura ora, lavorare in incognito, avere una vita in incognito o avrei rischiato e la segretaria mi sembrava il lavoro più semplice per non destare sospetti sulla mia vera identità.
Spengo la tv e indosso un vestito per la sera di gala, dovevo sostituire Matilda e seguire una donnetta di un uomo facoltoso che se la intendeva con un altro tipo ricco, e il marito voleva prove..non voleva sborsare nemmeno un soldo a quella donna facile.
Scossi il capo..già la gavetta io l' avevo fatta ma forse avrei potuto, in quella festa, sapere qualcosa di questi fantasmi o ciò che stava accadendo.
Salii sulla Corvette nera e sfrecciai verso la Metropolitan Agency, in centro di Afragopolis.
Entrai dalla porta laterale e mi infilai nel mio studio, presi la pistola e la misi in una giarrettiera e un pugnale nell' altro..ormai ero abituata a girare armata.
Mi diressi verso l' ufficio del capo ed entrai.."Eccomi pronta.." sospirando.
"Ho sentito un' intervista della polizia..che ne pensi? Non ne abbiamo abbastanza per quello che pensano sia un pedofilo..ora ne escono fantasmi pure" prendendo del caffè e osservando il mio vecchio ed astuto Capo..Jake o "La Volpe di Afragopolis".
Mi sedetti sulla sedia mentre lui sfogliava il giornale e sorrideva.."Ehi Volpe, hai trovato il lavoro di segretaria adatto per me?" incuriosita guardando il giornale.

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elisabeth 16-07-2017 19.00.39

Parcheggiare nel vialetto di casa voleva dire mettere fine a lunghe ore di lavoro, anche se sapevo di dover preparare alcune lezioni per l'indomani ma per ora casa dolce casa.........entrando l'aria condizionata mi accoglie come un abbraccio in'atteso ...poso la borsa da lavoro e tolgo le scarpe......che vita.....non ho orari e forse non ho neanche una vita..un sorriso amaro appare sulle mie labbra mentre mi preparo un caffè.....sin da bambina dicevo ai miei che sarei diventata un medico ed avevo tenuto fede alla mia parola...ero una Neurologa a cui da qualche anno avevo aggiunto la specializzazione in pschiatria ...Ospedale, studio e insegnamento assorbivano tutto il mio tempo ma la medicina era tutta la mia vita...L' ospedale presso cui lavoravo era il Metodist al centro di Afragolopolis mentre lo studio e' fuori città vicino al mare per me e per i pazienti e' un luogo molto rilassante ......scusate non mi sono presentata sono Elisabeth Anderson.........Vi sembra una vita senza emozioni ?......tutt' altro....vivo dell' andamento del quotidiano della presenza nella vita degli altri, vivo della vita o della morte già... riesco a convivere con la morte anche se è ancora una grande sconfitta......Scusate... il telefono le mie pazienti alle volte non hanno orario ..." Adelaide come stai ?....."......
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Guisgard 17-07-2017 18.52.22

Il soffitto bianco e lontano, le pareti piatte e chiare.
La stanza sembrava fatta apposta per il silenzio.
Un silenzio profondo, come se provenisse da tutto il vuoto che avvolgeva il mondo.
Gwen passava ore a fissare il soffitto ed a chiedersi cosa ci fosse oltre quelle pareti piatte.
Ariadne era stata portata via per la terapia, come avveniva ogni mattina dispari.
Ad un tratto però qualcosa giunse ad interrompere quel profondo silenzio.
Tonfi sordi, cadenzati, costanti, ravvicinati che provenivano dal corridoio.
Allora la ragazza vide rimbalzare nella camera una pallina di gomma bagnata, tanto che lasciava aloni scuri ed umidi sul bianco pavimento.
Ma poi, fissandola meglio, Gwen si accorse che era sporca di sangue.
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Guisgard 17-07-2017 18.58.44

Clio sgranocchiava i suoi biscotti, mentre in sottofondo la tv elencava i più importanti fatti del giorno.
Erano 22 i bambini stuprati ed uccisi, con le forze dell'ordine a brancolare nel buio.
Ad un tratto il suo sguardo azzurro si posò su un annuncio a fondo pagina, che così diceva:

“L'agenzia matrimoniale Blaue Blume cerca nuovo personale.
Sono richieste discrezione, sensibilità, serietà e professionalità.
Presentarsi in sede o contattare telefonicamente i recapiti riportati in fondo.”

Ad un tatto squillò il cellulare della ragazza.

Guisgard 17-07-2017 19.01.29

Il capo vide Altea entrare e sedersi.
Le sorrise e smise di fumare.
“I giornali” disse “sono pieni di annunci relativi ad ogni tipo di segretaria. Da quelle da ufficio, fino alle escort più qualificate per i pezzi grossi dell'industria e della finanza. Consultali pure se vuoi.” Indicando il giornale accanto a lui. “Però a momenti è atteso un cliente... mi ha contatto poco fa... si tratta di un operaio, sposato e padre di un bambino. Teme per suo figlio...”

Lady Gwen 17-07-2017 19.02.17

Continuavo a stare lì, in silenzio totale e assoluto.
Avevo sentito per un attimo la voce di Ariadne nel corridoio, mentre un infermiere la convinceva a seguirlo per la solita terapia.
Ad un certo punto ti però il silenzio fu spezzato da alcuni tonfi sordi e cadenzati.
Sporsi il collo, per quanto i teli della vasca me lo consentissero e cercai di vedere.
Vidi allora un oggetto, sembrava una pallina, che rimbalzava nel corridoio e lasciava delle striature scure.
Ma... Era sangue!
Possibile che nessuno si accorgesse di una pallina insanguinata in un corridoio di quel bianco sterile ed asettico?
Iniziato a pensare che adesso anche agli infermieri mancasse qualche rotella...
Voltai il capo a destra e sinistra, guardando se qualcuno la notasse, ma pensai che se non volevo rimanere in quella maledetta vasca per altri tre giorni era meglio farmi i fatti miei.
Così, appoggiai di nuovo il collo sul bordo e tornai a guardare il soffitto.


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