Camelot, la patria della cavalleria

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Guisgard 01-02-2017 03.22.42

La leggenda dello Scorpione di Giada
 
Prologo


"Eliminerai dalla terra il loro frutto,
la loro stirpe di mezzo agli uomini."

(Salmo 21)

Era un tardo pomeriggio di un giorno d'Inverno nella cupa campagna appena fuori Afragolopolis.
Due giovinastri sedevano accanto ad una vecchia e dimenticata lapide in rovina del XIII secolo, speculando sull'innominabile.
Guardavano la grossa ed austera quercia che sorgeva da sempre in mezzo a quel luogo, il cui tronco aveva quasi divorato l'ormai illeggibile lapide.
"Chissà" disse uno dei due all'altro "queste colossali radici quale macabro nutrimento avranno succhiato in questa terra di morti per tutti questi secoli..."
"Non essere idiota..." il secondo, aprendo la borsa con la refurtiva e guardando il contenuto con avidità "... qui non ci hanno mai seppellito nessuno, non è un Cimitero e quindi queste radici non hanno mai succhiato altro nutrimento diverso dall'ordinario."
"Eppure" il primo guardandosi intorno come se quel posto mettesse soggezione "qui sono nate quelle storie su..."
"Su cosa?" Guardandolo l'altro.
"Beh, l'innominabile..." mormorò il primo.
"Ma che razza di idiozie vai blaterando?"
"Nessuno un tempo pronunciava il suo nome..." il primo "... nessuno... per questo non si è mai saputo cosa fosse... qualcuno pensa sia un fantasma, qualcun altro persino un demone..."
"Ma ti senti?" Ridendo il secondo. "Sei completamente andato! Ed io che ti presto anche attenzione! " Contando la refurtiva nella borsa.
"Tutti qui ne hanno sentito parlare..." titubante il primo "... anche io da piccolo ho ascoltato storie sull'innominabile... pare esista da sempre e terrorizzi chiunque gli capiti a tiro..."
"Senti, dacci un taglio, chiaro?" Spazientito il secondo. "La vuoi o non la vuoi la tua parte?" Indicando la borsa. "Quindi vedi di farla finita che mi dai il nervoso..." scuotendo il capo "... l'innominabile... che idiozia..."
Ad un tratto un fruscio, mentre il crepuscolo calava sinistro intorno a loro.
"Hai sentito?" Agitato il primo.
"Vuoi darti una calmata?" Prendendo una pistola il secondo. "Deve trattarsi di un dannato animale... va a dare un'occhiata ed al minimo sospetto spara..."
“Neanche morto mi muoverei da qui...” teso il primo.
Ma all'improvviso un sibilo attraversò l'aria intorno a loro.
Un attimo dopo il malvivente con in mano la borsa cadde a terra, con una freccia conficcata nel collo.
Incredulo l'altro emise un grido ed incredulo prese a correre.
Una seconda freccia però fendendo l'aria lo raggiunse ad una gamba.
Il lestofante rotolo' così a terra, contorcendosi per il dolore.
Allora una figura scura, ambigua e misteriosa emerse dalle ombre del tardo crepuscolo.
"Non..." tremante il ladruncolo "... non... non uccidermi..."
Ma la figura, senza dire nulla svanì nello stesso chiaroscuro che l'aveva partorita, lasciando il malvivente spaventato a morte ed in lacrime.
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Capitolo I: La Furia dei Taddei


“<<Ora,>> disse l'uomo sconosciuto <<addio bontà, addio umanità, addio riconoscenza... addio a tutti quei sentimenti che allargano il cuore!>>”

(Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo)

Una miriade di agglomerati che dal nulla si ergevano verso l'alto, dalle forme sinuose, di un Barocco vuoto e fittizio, di cemento e vetro, brulicanti di luci intermittenti che rischiaravano le basse nuvole che si addensavano indifferenti ed informi su Afragolopolis.
Infinite strade e stradine correvano ovunque, intersecandosi ed incrociandosi in disegni indefiniti, attraversate da auto, bus e tram in una Babele di suoni, voci, colori e bagliori, tra fumo, nebbia e la psichedelica e ossessionante pubblicità sui manifesti e le insegne luminose.
Radio Capomazda imperversava in molte case, negozi e locali, con le sue canzoni sognanti e romantiche, gli spot pubblicitari sui biscotti e la spremuta d'arance ed il notiziario della sera, con le notizie della borsa e lo sport in chiusura.
Da un'ampia vetrata di uno dei grattacieli più alti ed imponenti, sede della celebre Gazzetta Rosa, il quotidiano più diffuso ed autorevole, un uomo alto, dalla barba incolta ed i capelli rasati, fissava, fumando un grosso Avana, la città che appariva dall'altra parte come un film senza sonoro.
“Signor Symminel...” disse un uomo di mezz'età a quello che fumava “... mi avete fatto chiamare?”
“Crawel, stasera” l'altro “passatemi tutte le telefonate sul mio numero privato... inoltre informate la signora Swansie che domattina deve presentarsi dal mio vice direttore per la liquidazione.”
“Si, signore.” Annuì Crawel. “Lei ha già ricevuto la lettera di licenziamento.”
“Ha fatto domande?”
“Beh, in effetti è stupita ed anche turbata...” Crawel.
“Non si chiede del perchè?”
“No, signore.”
“Neanche per quella telefonata?”
“Signore?” Fissandolo Crawel.
“Lasciate stare...” tagliò corto Symminel “... potete andare. Ah, un momento...”
“Prego, signore.”
“Domani naturalmente mi occorrerà una nuova segretaria...” Symminel “... ma non una qualunque... niente quindi inviate o proposte di qualche agenzia pubblicitaria... voglio una semplice dattilografa, magari ancora in odore di università... nessuna qualifica, nessuna esperienza... voglio una segretaria bisognosa di lavoro e denaro... è il solo genere di persone di cui ci si può fidare oggigiorno.”
“Certo, signore.”
“Potete andare.” Lo congedò Symminel, per poi tornare a fumare ed a guardare ancora dai vetri la sterminata e caotica Afragolopolis.
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+++

Clio 01-02-2017 03.28.58

Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, ci fu una guerra, lunga e potente.
Una guerra che sembrava non finire mai.
Una guerra che ora, dopo migliaia di anni, non trova ancora eguali.
Nulla fu mai più paragonabile alla Guerra Senza Nome.
Mondi diversi tra loro entrarono in contatto, guerrieri di ogni stirpe si affrontarono in scontri senza pari.
Eppure le sorti della guerra erano sempre in bilico.
Il potere di Cormonios era forte, inarrestabile e i Sette faticavano a tenergli testa, eppure resistevano.
Sette piccoli pianeti uniti contro il gigante rosso, che da solo era più grande di tutti loro messi insieme.
Fu allora che accadde qualcosa, qualcosa che nessuno ormai si aspettava, qualcosa capace di ribaltare le sorti della guerra.
Un’arma, potente e unica venne forgiata nelle miniere di Valstin.
Un’arma capace di veicolare l’energia delle Sette Stelle.
Ci fu una grande riunione intergalattica tra i capi supremi di ogni pianeta dell’alleanza, alcuni erano restii a consegnare la propria Stella, altri invece non esitarono.
Alla fine, devastati dalla lunga guerra, tutti i capi acconsentirono e Supernova entrò in azione.
Io stessa fui incaricata di scagliarla contro Cormonios.
Nessuno però, si aspettava quello che successe quel giorno.
Fu un giorno talmente terribile, da essere ricordato negli annali come il Giorno del Silenzio.
Silenzio, fu quello che si sentì quel giorno, dopo che Supernova entrò in azione.
Cormonios non venne solo sconfitto.
Cormonios venne cancellato, distrutto.
Nessun Cormoniano sopravvissuto, un'intera stirpe sterminata e perduta in un battito di ciglia.
Quell'arma era troppo potente, troppo imprevedibile.
Nessuno era al sicuro, nessuno poteva dormire sonni tranquilli.
Il consiglio discusse violentemente sul da farsi, ma tutti erano d'accordo: era troppo per tutti loro.
Stava sorgendo un'era di pace, nota come la Pace dei Sette, e non ci sarebbe mai stata pace con quell'arma in circolazione.
Fu deciso così di smembrarla.
Le singole Stelle vennero nascoste su un pianeta neutrale, un pianeta che non si era nemmeno reso conto della guerra: la Terra.
Mentre la Supernova venne affidata a noi Muse.
Un onore, indubbiamente, ma anche una responsabilità.
Ma se c’era un posto dove Supernova sarebbe stata al sicuro era Solaria, un luogo fuori dal tempo e immune alle bassezze che corrompono l’anima.
Un luogo di pace, conoscenza e contemplazione.
Un luogo però dove non si è dimenticato l’orrore della guerra, dove si ogni Musa è pronta alla guerra che verrà.
Fin dalla Grande Notte, quando tutto ebbe inizio.
Questo è il nostro destino, la nostra missione: conservare la Supernova.
Senza le Sette Stelle, però, essa non è altro che un bellissimo ornamento, una stella a sette punte di Metallo Solare.
Preziosa, per lo più, ma non pericolosa.
Ma se qualcuno dovesse trovare le Stelle e farla ripartire, sarebbe la fine.
La fine del mondo per come lo conosciamo.
Per questo, da millenni monitoriamo la terra, silenziose, eteree, lontane.
Il ritrovamento di una stella era quanto di più pericoloso potesse capitarci.
O almeno così pensavo...

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“Signori, vi prego!” tuonai, mentre il silenzio tornava nella sala.
Avevo sentito abbastanza, e la mia pazienza stava per esaurirsi.
Era una situazione assurda, la cosa più assurda che avessi mai vissuto da dopo la guerra.
Restai in silenzio per un istante, e il vociare riprese.
Adesso si stava esagerando.
Mi alzai dal trono d’oro che dominava l’ampia stanza circolare.
Si trattava di una stanza rimasta immutata da migliaia di anni, con un colonnato esterno, in marmo bianco, diversi scranni usati durante il consiglio, una fonte zampillante al centro, e naturalmente il trono d’oro, su una pedana con leoni intarsiati al suo interno.
Aveva visto migliaia di sedute del consiglio dei Sette, centinaia di volti diversi, problemi diversi.
Ma mai, mai aveva dovuto affrontare una simile minaccia, un simile tradimento.
Ribollivo di rabbia, mentre guardavo tutti intorno a me.
Si erano zittiti al mio cospetto.
Non erano in molti a poter dire di aver sentito la mia voce, come garante del consiglio, io mi limitavo a supervisionare, a garantire le trattative, a sancire la sacralità dei patti.
Dopotutto io c’ero, io ci sarei sempre stata.
C’ero quando tutto era immutabile, c’ero quando Cormonios ci attaccò, c’ero quando la Supernova lo distrusse, c’ero per costruire la pace.
I mondi potevano nascere e crollare prima che su Solaria tramonti il sole, si diceva nella galassia.
Ma ora, ora anche il nostro pianeta era in pericolo, anzi, soprattutto il nostro pianeta.
“Ascoltate!” la mia voce risuonò nella sala “Tutti noi siamo stati ingannati, noi tutti siamo stati traditi..” li guardai, ad uno ad uno, dall’alto del trono “Ma io più di voi..”.
Un vocio sibilante si diffuse, ma alzai una mano per zittirli.
“La Supernova è stata affidata a noi Muse….” Annuendo gravemente “Ed è una di noi ad essersi macchiata del più infame ed efferato tradimento nella storia della galassia..” mentre sentivo il sangue ribollire nelle vene.
“È mio compito, dunque, risolvere la situazione… mio, non vostro..” guardandoli.
Era vero, e tirarmi indietro non era mai stata un’opzione.
“Andrò sulla terra, recupererò Supernova e consegnerò in catene la musa Athia a questo consiglio, perché le venga inflitta la più terribile delle punizioni..”.
Se solo pensavo all’amicizia che ci aveva legato da anni, a tutto quello che avevamo condiviso.
Dovevo andare io, volevo che mi guardasse negli occhi mentre mi diceva perché aveva tradito me e tutto il nostro mondo.
“Ma maestà..” una voce si fece largo tra le altre “Non potete andare sola, è pericoloso..”.
“Lasciare la Supernova nelle mani di chissà chi è pericoloso, generale..” ribattei, inflessibile “E poi è soltanto la terra..”.
“Un paese che non conosciamo..” azzardò un altro membro del consiglio.
“Che voi non conoscete..” ribattei, voltandomi di scatto verso di lui “Noi osserviamo la terra da millenni ormai, abbiamo visto costruire e distruggere, abbiamo visto guerre, imperi, singoli, piccole storie.. conosciamo quello strano mondo mortale meglio di chiunque di voi…” guardandoli con aria grave “Anche per questo andrò io..” annuendo.
“Estea!” chiamai, distendendo la mano di fronte a me, ad indicare la Musa che faceva il suo ingresso in quel momento “Vi guiderà in mia assenza, con saggezza e lungimiranza..” le sorrisi, facendole segno di raggiungermi sul trono, mentre io scendevo per farla salire.
Le strinsi la mano, e ci scambiammo uno sguardo in cui erano racchiusi millenni di storia, e infinite emozioni.
“Lei è mia sorella, il mio specchio…” portando elegantemente in alto la mano giunta alla sua “Portatele il medesimo rispetto che riservate a me, poiché le affiderei la mia vita, e ora le affido Solaria..”.
Ci fu un applauso per lei, a cui io sorrisi compiaciuta.
La strinsi a me per un istante e poi mi avviai in mezzo al consiglio, dove ogni generale, re o presidente volle farmi i suoi auguri per il viaggio.
Un viaggio che poteva essere il primo senza ritorno.


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La sala dei comandi era in piena attività.
Una missione del genere andava studiata nei minimi dettagli, nulla poteva essere lasciato al caso.
Ormai era tutto pronto, l’astronave era stata impostata per Afragopolis, la città in cui era atterrata Athia, io stavo ultimando la mia decontaminazione interstellare per adeguare il mio corpo allo spazo-tempo della terra, e Vale pensava ai dettagli.
Vale, la mia inseparabile aiutante, mi sarebbe stata indispensabile sulla terra.
Vale era molto più di un robot, era un marchingegno di cui ormai non potevo fare a meno.
Di metallo Valisiano, era in grado di mutare le sue cellule in modo da ottenere la forma che più si aggradava alla situazione, munita di un processore di ultima generazione, era in grado di elaborare dati alla velocità della luce, cosa molto utile in quel frangente.
Mentre io sistemavo le ultime faccende burocratiche prima di partire, lei aveva effettuato una ricerca capillare su quella che era la situazione terrestre del momento, per quanto riguardava le cose più basilari e banali, a cui di solito noi non facevamo caso nel nostro monitoraggio.
Cose come la moda del momento, il modo di parlare, le abitudini elementari, e cose del genere.
Dovevo ricordarmi cose come i vari pasti della giornata, il fatto che avessero bisogno di dormire, ma la cosa più importante era non dimenticare mai che i terrestri erano convinti di essere l’unico pianeta abitato dell’universo, cosa per cui tutta la galassia li prendeva particolarmente in giro.
Però questa ignoranza ci aveva fatto comodo, ed ora che l’arma più potente mai costruita era sul loro pianeta.. beh, era meglio che non sapessero niente, in effetti.
La decontaminazione interstellare prevedeva anche l’installazione di un driver di lingue e la preparazione delle mie cellule Solaniane all’atmosfera terrestre.
Quando uscii dalla cabina stagna, Vale aveva già tutto pronto: gli abiti e la mia nuova identità.
Dovendo entrare in contatto con i terrestri, era fondamentale che ne avessi una, Vale aveva studiato tutte le varie opzioni, ma alla fine, come spesso accade, era meglio optare per la cosa più semplice.
Sarei stata semplicemente me stessa, una regina in vacanza, lontano dagli impegni di corte.
Questo mi avrebbe permesso di poter girare senza un vero motivo, di non tradirmi per il modo in cui mi relazionavo con gli altri, di poter essere bizzarra... era un’ottima strategia.
Vale mi stava mostrando dove doveva posizionarsi il mio piccolo regno, tra i monti urali, dove la geografia era ancora avvolta dal mito. Un piccolo regno sperduto non sarebbe stato un problema, e avrebbe spiegato anche il mio particolare pallore, che nemmeno la decontaminazione interstellare aveva alterato.
Ormai era tutto pronto per partire.
Indossai i bellissimi abiti che Vale aveva preparato per me, seguendo la moda del momento, insieme alle armi di ogni genere che affiancavano la mia Damasgrada e il mio Tamasco, e mi diressi nell’astronave.
Avevo salutato una ad una le mie Muse prima di entrare nella sala dei comandi, che a causa della decontaminazione era sigillata. Dunque la parte più difficile della partenza era andata, ora non mi restava che imbarcarmi verso quell’avventura.
Un po’ ero elettrizzata all’idea di lasciare Solaria, e di vedere finalmente la terra da vicino, dopo averla osservata per migliaia di anni.
Chissà com’erano gli umani, se il cibo era davvero così fondamentale, o il vino così inebriante, tutto il loro mondo ci appariva alquanto bizzatto.
Sì, anche se il destino della galassia dipendeva dalla riuscita della mia missione, infondo era un po’ anche un’avventura, anche se poteva essere un’armatura pericolosa, perché una volta oltrepassata la frontiera dello spazio-tempo, io stessa sarei diventata mortale, fatta di carne e sangue come qualunque essere umano.
L’atmosfera terrestre era sempre più vicina, apprima vidi solo mare e terra, poi pian piano che mi avvicinavo, protetta dallo Specchio, un meccanismo che rendeva l’astronave invisibile, iniziavo a vedere boschi, monti, distese senza fine.
Era davvero bellissimo, molto più di quanto non si capisse dai nostri monitor di sorveglianza.
Restai ad osservarla farsi sempre più vicina, mentre mi avvicinavo, sempre più.
Afragopolis era immensa e Vale aveva impostato il navigatore per un luogo appartato, lontano da occhi indiscreti, dove l'astronave sarebbe rimasta nascosta da occhi indiscreti, finchè non avessi portato a termine la missione.
Quando uscii dall’astronave per poco non soffocai, ma poi mi abituai pian piano a quella strana atmosfera, guardandomi intorno stranita.
Vale, che aveva assunto le sembianze di un simpatico animale chiamato "cane", particolarmente carino e coccoloso, aveva già tracciato una rotta, sui possibili spostamenti di Athia, anche se mi fece notare che prima dovevamo trovare un albergo degno di una regina in visita.
Così la seguii tra le vie del centro cittadino, perdendomi ad ammirare ogni particolare di quella città.

Lady Gwen 01-02-2017 03.36.17

Percorrevo il marciapiede, invaso da donne in pelliccia ed eleganti uomini d'affari in giacca e cravatta, diretta all'università, dopo che la macchina del nostro autista mi aveva lasciata poco distante da lì.
L'aria di Gennaio era pregna di profumo costoso, aroma di sigari e fumo delle grandi industrie che da alcuni anni andavano sempre più nascendo, come funghi dopo la pioggia; tutto ciò creava quell' ''odore di città'', così tipico e frizzante, caotico e corroborante, contornato com'era da quel continuo via vai di gente di ogni tipo, dagli chaffeur agli strilloni, dalle signore, accompagnate da piccoli cagnolini, ai giovani liceali rampanti, stretti nelle loro divise scolastiche impeccabili.
Tutto questo, in una sola città. Era semplicemente meraviglioso.
Quando ci eravamo trasferiti qui per il lavoro di papà, proprietario un'industria produttrice di automobili, io avevo nove anni e mia sorella, Betty, la viziatissima e petulante Betty, dodici.
Io ero stata subito entusiasta, attorno a me era tutto così grande, luminoso e stimolante, impreziosito dalle mille luci scintillanti della città, che brillavano come diamanti; per lei, invece, era stata un'enorme tragedia e lo era soprattutto adesso.
Non certo perchè preferisse la mediocrità della periferia al lusso e lo sfarzo della città, ma proprio perchè eravamo in città non riusciva a tollerare l'idea di non essersi ancora accaparrata un marito.
Diceva che, ormai, a ventitre anni, sarebbe rimasta sola e triste, senza un marito e si sarebbe chiusa in casa per il resto della sua vita, troppo sommersa dalla vergogna per farsi vedere per strada, mente tutte le altre giovani donne della città mostravano orgogliose l'anulare sinistro che riluceva di quell'oro tanto agognato, più della coccarda del primo posto per i giocatori di polo della domenica.
A me non importava un accidente di trovare un marito, sposarmi e riempire la mia bella casa con un nugolo di bambini nel giro di cinque anni, nossignore!
Mi ritenevo un spirito libero, troppo libero per essere costretto e invischiato nelle convenzioni di una società che doveva cambiare, evolversi.
Lo dimostravano le moderne e lussuose macchine che sfilavano ogni giorno nelle vie principali, totalmente in contrasto con gli abiti eduardiani e demodè di quelle donne avanti con l'età che facevano della loro arretratezza quasi un motivo di vanto, tutte impettite nei loro corsetti, quasi come se quelle rigide stecche di balena servissero ad aumentare il loro integralismo in una società troppo avanti per loro.
Ma torniamo all'università, che distava solo pochi metri, ormai.
I miei genitori avevano accolto contro voglia la mia richiesta di proseguire gli studi, ritenevano che anch'io, come Betty, una volta terminato il liceo, dovessi dedicarmi alla caccia al marito, ma si erano rassegnati e avevano capitolato, a patto che mi iscrivessi ad una facoltà ''per signorine'', come la definivano loro.
Avrei dovuto studiare poesia, letteratura... O almeno, era ciò che pensavano loro.
La verità era che i romanzi e le poesie potevo benissimo leggermeli nel calduccio della mia stanza, senza scomodarmi ad uscire.
Non erano in molti, nessuno in realtà, tranne la mia cameriera personale Ranya, a sapere che, da un anno a questa parte, il mio obiettivo era stato un altro.
Mi ero infatti iscritta in gran segreto alla facoltà di Medicina.
Era da sempre stato il mio sogno, non solo per il desiderio di aiutare gli altri e di rendermi utile, ma anche per prendere parte a quell'universo di cambiamenti, di emancipazione che trasudava dalle parole di quelle ragazze, anch'esse di buona famiglia, che la società aveva rinominato ''flappers'', ma che mia madre deliziosamente ribattezzava semplicemente ''donnacce'' e che facevano bella mostra di sè ogni giorno in quelle aule, piene di giovani dottori ed affermati primari.
Non erano stati solo i loro vestiti a frange, le loro collane di perle o i bocchini per sigarette in legno laccato e madreperla che sembravano quasi galleggiare fra le mani pallide e abbellite dallo smalto rosso vivo ad affascinarmi, ma era stata soprattutto la speranza del progresso e la rivendicazione dei nostri diritti di donne a far sorgere in me il sentimento della ribellione e la viva fiammella della rinascita.
Ne erano un esempio le mie adorate colleghe e amiche, Lizzy e Lucy.
Tutte e tre eravamo legate ed animate da questi principi, oltre che da un sano e sadico divertimento nel vedere le altre ragazze impallidire e svenire alla vista di budella e organi molli di non ben identificata natura, mentre noi trovavamo tutto quello terribilmente affascinante.
Il mio primo giorno di università, mi sembrava di aver ricevuto la manna dal cielo.
Mi ero presentata davanti alla facoltà e mi ero illuminata vedendo la facoltà di Lettere completamente attaccata a quella di Medicina.
Era stata come una benedizione, un segno del destino.
Come se qualcuno avesse voluto indicarmi una strada che era già a me ben nota ed io avevo colto la palla al balzo.
Di sicuro, fingere sarebbe stato molto più semplice così.
Non che ai miei sarebbe importato, occupati com'erano con le paturnie esistenziali di Betty, la cocca di famiglia.
Ormai la mia presenza in casa era totalmente superflua; mia madre diceva di aver perso le speranze con me, soprattutto perchè col carattere da ''ragazzaccia'' che mi ritrovavo mi sarebbe stato impossibile trovare qualcuno disposto a sposarmi e per me era molto meglio così.
Non ero nemmeno sicura di volermi sposare, quindi tanto meglio.
Certo era che a loro sarebbe preso comunque un colpo sapendo che cosa studiavo, sapendo quali fossero le mie idee politiche e soprattutto religiose.
Per quelle mi avrebbero rinchiusa e buttato la chiave e mio padre sarebbe diventato paonazzo in volto, rischiando quasi di strozzarsi con uno dei suoi immancabili Havana.
Per fortuna per tutto quello c'erano Lizzie e Lucy, le uniche in grado di comprendermi.
A proposito delle due, mi fermai nel cortile interno della facoltà per attenderle, mentre accendevo una sigaretta e portavo ritmicamente il bocchino alle labbra, mentre gli sbuffi di fumo si confondevano con le vaporose nuvolette della fresca aria invernale ed io mi stringevo nel cappotto di Cashmere.

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Guisgard 01-02-2017 04.14.36

Atterrati in un luogo isolato della vasta brughiera, Clio ed il fedele Vale si incamminarono attraverso un sentiero irregolare, fino a ritrovarsi su una stradina secondaria.
Intorno a loro vi era campagna a perdita d'occhio, sebbene qui e là si notavano le luci di qualche fabbrica che sorgeva fuori città.
Infatti le luci di Afragolopolis rischiaravano il cielo davanti a loro.
“Laggiù dovrebbe trovarsi Afragolopolis, altezza.” Disse Vale scodinzolando. “Mentre entravamo nell'atmosfera terrestre ho inviato un segnale tramite il computer di bordo, agganciando le onde radio che attraversano il capo magnetico dei cieli di questi paralleli... in pratica al più lussuoso albergo cittadino è arrivata una prenotazione per la migliore sistemazione possibile. Naturalmente a nome della regina Clio, sovrana del piccolo principato di Uralstan.”
Ad un tratto nel tardo crepuscolo si intravidero due luci ed una macchina apparve sulla strada.
“Ora vediamo quanto sei abile ad adattarti alle usanze di questo pianeta, Altezza...” Vale “... vedi quel rozzo mezzo di trasporto?” Indicando l'auto che si avvicinava. “Ecco, metti in fuori il pugno ed usa il pollice... dovrebbe fermarsi, facendoci salire a bordo...”

Nyoko 01-02-2017 04.27.59

Il cielo stellato si aprì a me, come una rosa pronta a sbocciare e i miei occhi si tuffarono fra le sue costellazioni, imprimendo nella mente ogni singola forma. Sdraiata sul ponte della nave, con la mia veste da notte e i capelli neri sciolti e ribelli, lasciandoli danzare col vento, o meglio, con quella leggera brezza che profumava di mare. Il silenzio battuto dagli scricchiolii della nave e lo sbattere delle onde su di essa, mi riempivano i timpani come una graziosa melodia. Voltai appena lo sguardo e sorrisi a vedere quello della mia amata sorella. Mi guardava con i suoi occhi blu e i capelli biondi boccolosi e ribelli. Eravamo così diverse, eppure con la stessa passione.
Il nostro viaggio era iniziato circa tre anni fa; mi ero appena iscritta all'università di archeologia e ero riuscita ad entrare in una compagnia di esploratori. Quando i miei genitori vennero a sapere della mia scelta di partire mi imposero una condizione: se fossi partita, al mio ritorno avrei dovuto sposare il mio cugino di terzo grado, un ragazzo noioso e privo di ogni interesse verso la storia e l'arte. Mi misi a sedere e guardai l'orizzonte: eravamo quasi arrivati al porto di Afragolopolis, una città ricca di misteri, proprio quelli che cercavamo. Da tre anni avevo intrapreso la ricerca di manufatti misteriosi che nascondevano in se leggende e misteri legati alle divinità di ogni religione ed etnia, in particolare quella egizia, greca e indiana. Accarezzai il mio volto pallido sentendo la leggera brezza mattutina, quel cielo che mi aveva accompagnato quella notte, adesso andava spegnendosi, arrossendo come una donna innamorata all'orizzonte. L'alba era uno dei miei momenti preferiti della giornata, la nascita di una nuova avventura, la schiusa di un giorno nuovo. Mi alzai e andai a vestirmi, correndo emozionata con mia sorella. Indossai il mio abito preferito, blu come il cielo illuminato dalla madre luna. Avremmo presto sbarcato e non volevo farmi trovare impreparata. Riguardai le mie carte e controllai di avere tutto a posto, e nel frattempo sentivo i mariani annunciare l'attracco al porto. Subito uno di loro mi venne a chiamare per assistere all'arrivo ed io non me lo feci ripetete due volte. Ormai il sole era abbastanza alto da poter illuminare gli alti grattacieli della città. L'effetto era simile a quello di un dipinto in olio, uno di quelli che ti immergono al suo interno, l'unica differenza era che questa traboccava di vita. Il mio caro badante Carl, un uomo sulla sessantina, un padre per me, gentilmente preparò i miei bagagli e quelli di mia sorella, pronti ormai a sbarcare. Il cuore batteva come mai prima d'ora e sentivo un sorriso sbocciare sul mio volto e gli occhi scuri tingersi di luce. Ero sempre emozionata quando iniziavo una nuova avvenuta e non vedevo l'ora di conoscere chi mi avrebbe aiutato a scovare misteri e leggende legate a quelle terre. Appena toccai terra, sentì il mondo girare di nuovo, come se si fosse fermato nell'istante in cui l'avessi lasciato per solcare le acque. Forse era solo l'adrenalina che mi aveva dato alla testa, tuttavia ero felicissima e salutai tutti con immensa cortesia. Mia sorella mi raggiunse poco dopo, indossava il suo bellissimo abito rosa e bianco, dono di un ammiratore, che lei indossava per occasioni speciali. Era così bella e radiate, eravamo il giorno e la notte, e ci amavamo, tanto che l'idea di separarci fu insopportabile e così, decisi di portarla con me. Questo, i miei genitori, non lo accettarono, e ci tagliarono completamente tutti i ponti, obligandoci a legarci con delle catene nuziali se solo avessimo osato tornare a casa. Per noi non era un problema rimanere a girare per tutto il mondo, non ci avrebbe di certo fermato, soprattutto me, determinata più che mai a raggiungere il mio obiettivo: svelare misteri.

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Guisgard 01-02-2017 04.32.28

Il cortile della facoltà era ben frequentato in quel momento, mentre Gwen attendeva le sue due amiche.
Ad un tratto la sua attenzione fu subito attirata da uno strano personaggio.
Si trattava di un vecchio, dai capelli lunghi e bianchi, con la barba del medesimo colore.
Era vestito con abiti consumati e sporchi e parlava ad alta voce, quasi delirando circa qualcosa di terribile che si annidava intorno a loro.
“Aprite gli occhi...” disse ad alta voce, attirando l'attenzione di tutti “... aprite gli occhi e sarete liberi... non leggete e non ascoltate... aprite gli occhi e tornerete padroni della vostra vita!”
Molti degli studenti risero nel vederlo e nell'ascoltarlo, altri restarono turbati o infastiditi, altri ancora persino indifferenti.

Clio 01-02-2017 04.34.40

Mi guardavo intorno, quel territorio sterminato e nuovo... e bellissimo.
Non avevo mai visto nulla del genere così da vicino, somigliava un po' alla piana di Taris, ma i colori erano più vivi, l'aria diversa, il profumo.
Il profumo era qualcosa che non avevo mai provato.
Sapevo in teoria come funzionava, gli umani avevano questi "sensi" che gli permettevano di percepire il mondo intorno a loro.
Per adattarmi alla loro atmosfera, ora li avevo anche io.
Era una sensazione nuova ed inebriante.
Quando poi vidi la città in lontananza, restai ammaliata ad osservarla, certo era diversa da Solaria, ma aveva in se qualcosa di incredibilmente affascinante.
Vale aveva pensato a tutto, e non potevo che esserne grata.
Sorrisi nel vedere la macchina che si avvicinava, le avevamo viste, e ci erano apparse alquanto bizzarre.
Dopotutto era il primo tentativo che facevano, prima nemmeno sapevano cosa fossero dei mezzi del genere.
Ero davvero curiosa di salire su uno di quegli aggeggi.
Così, come mi disse Vale, allungai una mano alzando il pollice.
Chissà che bizzarra doveva sembrargli una regina in mezzo alla brughiera.

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Lady Gwen 01-02-2017 04.36.13

Aspettavo le mie colleghe, mentre ad un certo punto notai un uomo canuto, che indossava abiti consunti e sembrava delirare.
Molti degli studenti lo derisero, ma per me tutto ciò che diceva sembrava sensato, molto.
Del resto, età ciò che avevo fatto anch'io e mai parole potevano essere più vere.

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Guisgard 01-02-2017 04.59.51

Il panfilo entrò nel porto sul Lagno, mentre lo scorcio della città sembrava muoversi sulle onde increspate.
Carl e Bettina giunsero sul ponte, dove Nyoko era ferma a guardare l'attracco sul molo.
“Appena a terra” disse Carl “troveremo un degno alloggio. Ci sono molti alberghi in città.” Annuendo con un sorriso.
Scesi dalla nave presero un taxi che condusse i tre in un albergo poco distante.
Qui prenotarono due camere, una per le due ragazze e l'altra per il badante.
Nella hall dell'albergo però Nyoko notò un uomo.
Era anziano, ben vestito e sfogliava una rivista di storia.
E sentì un cameriere che si rivolgeva a lui col titolo di marchese.

Guisgard 01-02-2017 05.14.27

L'auto avanzava spedita su quella stradina, ma nel vedere Clio tra le siepi, come una qualunque autostoppista, allora frenò di colpo.
E come dargli torto?
Clio aveva cambiato molte cose per adattarsi alla Terra, ma la sua bellezza era rimasta intatta.
E ragazze così non era semplice incontrarle.
L'auto si fermò e subito Vale fece cenno alla sua regina di raggiungere la vettura e salire.
A guidarla era un uomo di mezz'età, vestito da contadino, che canticchiava di continuo e rideva con ancora più frequenza.
“Ebbene...” disse guardando Clio “... dov'è diretta una giovane così carina?”


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