Camelot, la patria della cavalleria

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Guisgard 06-04-2018 00.02.25

La leggenda della Pieve di Monsperone
 
LA LEGGENDA DELLA PIEVE DI MONSPERONE

Scena I: Le dolci colline di Sygma

"In disparte Ulisse partecipa al banchetto;
un treppiede e un sedile ancora più umile il principe gli assegna."

(Omero, Odissea, libro XX)

Nel ridente distretto della felice Sygma, bagnato dal fiume Elsa si estende un vasto bosco, chiamato Chanty, che ricopre gran parte delle belle colline e delle vallate tra il profluvio e le città di Florenza e Sanae.
Qui le leggende parlano di tempi antichi e favolosi, quando infuriava il furore dei Taddei con le molte battaglie combattute per il trono del paese e delle bande di intrepidi fuorilegge Afragolignonesi le cui gesta sono state immortalate in tante canzoni Sygmesi.
Se questa è la scena principale della nostra storia, la sua data si riferisce ad un periodo intorno alla fine del governo di Severo I, vescovo di Monsperone, quando i suoi abitanti, approfittando della sua lunga prigionia, si ribellarono alla Santa Sede e proclamarono la nascita della libera città repubblicana.
La nobiltà feudale, con la cacciata dei Taddei, aveva sempre più ripreso forza e vigore e diverse generazioni non erano state sufficienti a mescolare il sangue ed i valori ostili dei Sygmesi e dei filo Taddeidi, né ad unire attraverso la lingua e gli interessi comuni due razze avverse, una delle quali era ancora euforica per il trionfo, mentre l'altra gemeva per le conseguenze della sconfitta.
Dopo la cacciata dei cavalieri Afragolignonesi tutto il potere era passato alle signorie Sygmesi che lo usavano senza alcuna moderazione.
La politica dei feudatari era volta ad indebolire con ogni mezzo, legale o illegale, le forze di quella parte della popolazione ritenuta, a ragione, animata da forte ostilità verso il vincitore.
Il Clero, schierato a favore dei Cattolici, era considerato nemico dai signorotti locali che con l'ausilio di leggi ostili avevano reso ancora più opprimenti le catene feudali ai laici, così come agli stessi chierici, che avessero mostrato simpatie verso gli odiati Afragolignonesi.
Quel giorno il Sole stava calando dolcemente su un'erbosa spianata del bosco.
Un esercito di tozze e fronzute querce secolari stendevano i loro frondosi rami su un tappeto di erba e fiori dai riflessi deliziosamente iridescenti.
A quelle querce, in certi punti della radura, si confondevano faggi, olmi, pini ed altre piante del sottobosco così fittamente da intercettare gli ormai obliqui raggi del Sole, mentre in altre zone si distanziavano fra loro al punto da formare ampi e lunghi squarci spaziosi, racchiusi da svettanti cipressi, dove primeggiavano eriche, agrifogli, betulle e nei cui meandri lo sguardo ama smarrirsi e la fantasia li trasforma in sentieri e scenari ancora più selvaggi e sognanti di romantica solitudine silvestre.
Qui i raggi del Sole proiettavano una luce spezzata e pallida, in parte trattenuta dai rami contorti e dai tronchi muscosi degli alberi, illuminando con vivide chiazze quelle parti del prato che riuscivano a raggiungere.
Un placido corso d'acqua, che finiva per gorgheggiare nel fiume, mormorava con fievole voce sussurrante.
Le figure umane che completavano questo boschivo paesaggio ben si intonavano ai caratteri rustici e selvaggi di queste lande.
Una era abbigliata con abiti semplici, quasi primitivi e conduceva alcuni porci in cerca di bacche selvatiche perse sul terreno.
La seconda, simile nell'abbiglio sebbene con stoffa appena migliore e meno logora, seguiva il suo compagno facendo strani versi ai maiali che grugnivano.
“Bah...” disse il guardiano di porci “... che San Giorgio maledica questi maiali!” Cercando di radunarli inutilmente col fischio. “E maledica anche me che son finito in questa fetida melma!” Imprecando. “Vieni qui, Astro! Che il diavoli porti via anche te!” Gridò con quanta voce aveva in corpo al suo irsuto cane, un po' pastore ed un po' mastino, che correva abbaiando con l'intenzione di aiutare il padrone a radunare i riottosi suini.
“Magari San Giorgio lo ha già fatto...” ridendo il servo “... forse un tempo questi erano eretici ora trasformati in maiali.” Imitando il verso di quegli animali.
Ad un tratto i due sentirono un calpestio di cavalli che si fece man mano più vicino, con Astro che prese ad abbaiare verso la boscaglia.
Poco dopo i cavalieri, spuntati dalla fitta e verde vegetazione, apparvero lungo il sentiero e li raggiunsero.
Erano una decina e i due che guidavano il gruppo dal loro abbiglio e portamento si distinguevano dagli altri, che apparivano come loro servi o paggi.
Il primo, del quale non era difficile immaginarne il censo, apparteneva sicuramente al mondo scolastico ed intellettuale, come rivelava il suo abito cattedrale, sebbene fatto di stoffe ben più pregiate di quelle usualmente adoperate dai membri del suo ordine.
Il mantello col cappuccio era di meravigliosa stoffa di Fiandra, con pieghe ricamate che aggraziavano la sua figura alta ma non bella.
Il degno filosofo cavalcava un cavallo ben pasciuto, tutto bardato di sonaglini d'argento che abbellivano una magnifica sella di Spagna ricoperta da un drappo purpureo dall'orlo dorato.
Il superbo filosofo era affiancato da un altro individuo, oltre la quarantina, alto e robusto, dal fisico muscoloso e ben temprato da fatiche ed esercizi di certo di natura marziale.
Portava sul capo un cappello di raso scarlatto e foderato di pelliccia, con un'espressione sul viso volta ad incutere rispetto, se non addirittura timore agli sconosciuti.
Gli occhi, acuti e penetranti, raccontavano di una vita fatta di prove, pericoli e sacrifici affrontati e sembravano voler sfidare ogni opposizione al suo volere.
Sotto il mantello, scuro e prezioso, appariva una pregiata giubba di un blu opaco che tradiva la sua appartenenza ad un ordine nobile e militare.
Alla cintola portava un lungo stiletto a doppio taglio che brillava in modo sinistro contro i bagliori del Sole morente.
Giunti davanti al porcaro ed al servo, i cavalieri si fermarono e con un cenno indifferente della mano il dotto li salutò.
“Vi chiedo, onesti compagni, se nei paraggi si trovino degni uomini che per amor della dotta fratellanza fra noi simili diano ospitalità e ristoro a due dei loro più pacifici fratelli ed al quieto seguito che li scorta.”
I due grezzi individui a quelle parole si scambiarono un'occhiata eloquente.
“Se voi nobili signori” fece il porcaro “amate la buona cucina ed un comodo alloggio allora troverete la più meritevole accoglienza a poche miglia da qui in un'onesta locanda.” Annuì.
“Se invece preferiscono trascorrere una notte in penitenza” intervenne il servitore “allora potranno voltare per quella radura laggiù, che li porterà alla vecchia Pieve dove un devoto anacoreta dividerà con loro il suo riparo per la notte ed il beneficio delle sue preghiere.”
Il filosofo scosse la testa quasi seccato ad ambedue le proposte.
“Buon amico...” fissando i due “... se il grugnito dei maiali non ti avesse confuso la mente allora sapresti che noi dotti scolastici non usiamo ricevere ospitalità dagli sconosciuti ed ancor meno dai chierici, che simboleggiano tutto ciò che con la sapienza noi neghiamo e combattiamo.” Sdegnato.
“Ben dite, maestro...” sorridendo il servitore “... ma io, asino che sono, che non distinguo il grugnito di un maiale dal suono dei sonaglini del vostro cavallo, ingenuamente pensavo che la Carità di Nostro Signore cominciasse dalla Propria Casa.”
“Modera la tua insolenza, gaglioffo” intervenne il cavaliere con tono severo e minaccioso ad interrompere le ciance del servitore “ed indicaci, se puoi, la strada per la città di Monsperone che sorge nel bel mezzo di questo bosco di Chanty.” Schioccando la sua frusta davanti ai maiali in modo minaccioso, facendo girare su se stesso due volte il proprio destriero nervosamente.
“In verità, reverendo maestro, l'aspetto militare del vostro venerabile compagno mi ha spaventato al punto da farmi dimenticare persino la strada verso casa mia.” Scimmiottò il servitore.
“La tua bonaria insolenza” mormorò il filosofo “sarà perdonata a patto che ci indicherai la via per Monsperone.”
“Ebbene” rispose il servitore “le vostre eminenze devono prendere quel sentiero e seguirlo fino a raggiungere una vecchia Croce che spunta da un dosso e guarda verso Mezzogiorno... lì imboccheranno la strada centrale di tre che si incontrano presso il fiume. Mi auguro che le vostre eccellenze raggiungano la città prima che si faccia buio.”
Il dotto li ringraziò e poi quella compagnia spronò i cavalli rimettendosi in cammino e raggiungendo Monsperone poco dopo il crepuscolo.
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+++

Lady Gwen 06-04-2018 00.28.24

La notte regnava sovrana.
E come avrebbe potuto essere altrimenti?
Era così l'esistenza di chi vagava come noi fra la vita e la morte.
Un'eterna notte scintillante di Luna, di stelle... E di sangue.
Il sangue che era vita, in corpi che di vita non ne avevano neanche un po' da secoli, chi uno in più, chi uno in meno.
Io ne avevo uno in più, anzi, parecchi in più.
Circa mille anni per l'esattezza, anno più anno meno.
Era stato una notte del 549: avevo vent'anni, una furia sanguinaria si era abbattuta su questa casa, e aveva trucidato e prosciugato i corpi dei miei familiari.
Ma io, ero stata risparmiata.
Mi aveva condannata all'oscurità perché "sarebbe veramente un peccato vedere sfiorire un visino così."
Già.
Che peccato.
I giorni seguenti erano stati l'inferno in terra; la mia sete era stata insaziabile, bruciante, selvaggia, praticamente irrefrenabile e avevo ucciso chiunque mi fosse capitato fra le mani, chiunque incontrassi nei vicoli bui e fumosi, di notte, quasi tutti preda a volte della sbornia.
Dopo quasi un anno di vagabondaggio, avevo conosciuto un altro come me, Nikolaj.
Era a capo di una congrega e subito mi aveva accolta, facendomi trovare una nuova famiglia e facendomi conoscere anche gli altri: Ivan, Tatiana e Roze, quelli che ancora dividevano fedelmente con noi questo fardello.
Tutti provenienti dai gelidi Carpazi, chi da Budapest, chi da Bistrita, tutti riuniti in un'unica grande famiglia.
Il tempo, tanto tempo, passò fra salotti, abiti eleganti e corti d'Europa; da brava Proserpina, imparai ad accettare l'Oscurità in cui ero stata catapultata con violenza.
Perché non era affatto male la prospettiva di un'eternità per dedicarsi a qualsiasi cosa si volesse fare, passare da questo a quel palazzo, coltivare i propri gusti raffinati.
Vero che non era male?
Passarono quasi mille anni da quella notte orribile, fin quando, nella prima metà del '400, il bastardo riapparve sulla scena.
La prima grande guerra dei Vampiri si era disputata circa novant'anni prima, ma non riguardando i nostri territori non vi avevamo preso parte.
Dopo la prima sconfitta, Bela, così si chiamava, era stato costretto all'esilio e aveva iniziato a vagare e spargere sangue nel nuovo continente, insieme ai suoi accoliti.
Ma Bela era sempre stato incosciente, impulsivo, e tempo dopo era tornato in Europa, in una insensata rivendicazione di certi territori che non gli appartenevano neanche.
Io e Nikolaj avevamo radunato un esercito, ma gli uomini di Bela erano ancora più spietati di noi e dopo la sconfitta, i pochi rimasti si sparpagliarono, mentre noi ci rifugiammo qui, nella proprietà della mia famiglia.
Motivo per cui Nikolaj lasciò a me il timone della Congrega della Dalia Nera.
Non era male il microcosmo che avevamo messo su.
Un piccolo gioiellino gotico, fatto di quella eleganza di tenebra che ci contraddistingueva, di passatempi annoiati e notti infinite.
Mentre camminavo, i miei tacchi alti riecheggiavano nel maniero, seguiti dal fruscio ovattato del mio vestito.
Non erano solo i miei passi a risuonare nei corridoi: versi ambigui (non poi così tanto) provenivano dall'ultima camera in fondo, dove Nikolaj era impegnato con la sua "cena".
O meglio, con la giovane Isabel, una piccola contadinella bionda che aveva scelto come sua familiare.
Ognuno di noi ne aveva uno.
Un ragazzino o una ragazzina disposti ad essere i nostri servitori, a donare spontaneamente il loro sangue qualora ne avessimo voluto, il tutto con la devozione per la speranza della trasformazione.
Raggiunsi il grande salone, le tende damascate che occultavano appena la Luna eterna che campeggiava fuori grazie ad un incantesimo, e trovai Tatiana e Roze impegnate la prima con Herkus e la seconda con Volos, a sorseggiare il liquido denso e scarlatto dai calici in argento, mentre Ivan era di sicuro in biblioteca, difatti la sua familiare, Aleria, era fuori in giardino.
"C'è chi continua a preferire la cena in camera..." dissi sarcasticamente, un attimo prima che strani gemiti irrompessero, sempre da quella stanza, facendoci ridere maliziosamente.
"La consumerà, prima o poi, quella ragazza..." alzando gli occhi al cielo con fare teatrale "Oltre a consumare le lenzuola, che ogni volta, imbrattate come sono di sangue, è impossibile farle tornare linde e pulite..." con una smorfia, mentre mi sedevo sulla sedia in velluto.
"Marko" chiamai, quasi stancamente.
Il ragazzetto moro, di circa diciassette anni e ruscelli limpidi negli occhi, arrivò, col suo solito modo dinoccolato di fare.
Era scappato da un orfanotrofio quando aveva 11 anni e un mese dopo lo avevo trovato io.
Nei suoi occhi la leggevo sempre, quella speranza della vita eterna, e sempre io riflettevo se mai gliene avrei fatto dono.
"No, niente calice oggi..." gli dissi, vedendo che preparava il coltello per ferirsi il braccio.
Lo feci sedere sulle mie gambe e sbottonai con calma il colletto della sua camicia.
Avvicinai le labbra, che scoprirono i lunghi canini quasi arricciandosi in un ghigno e affondai i denti nella tenera carne del collo del ragazzino.
Non si mosse, mentre quel nettare mi scorreva in gola come l'ambrosia sublime degli Dèi, sfamandomi; era bravo Marko.
Faceva tutto con devozione e con cura e non avrei potuto chiedere di meglio.
Continuai a bere quel sangue ancora per un po', fino a saziarmi.
Poi, allontanai le labbra dal collo del ragazzo, regolarizzai il respiro e lo guardai.
Poi, poggiai la mano sui due fori sanguinanti, guarendoli.
Buffo, che i più grandi predatori per l'essere umano avessero il dono della guarigione, ma tant'era.
Uno dei tanti pregi della nostra condizione.
"Va' a mangiare qualcosa" gli ordinai dolcemente, facendolo alzare, poi presi il mio fazzoletto ricamato e pulii il sangue dal mio viso e dalla bocca.https://uploads.tapatalk-cdn.com/201...619fab253c.jpg

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Altea 06-04-2018 15.40.29

Il viso pallido e il solito vestito nero, buio come la mia anima.. camminavo per il corridoio dove le fiammelle delle lampade davano a quel posto, durante la notte, un chè di misterioso.
Fin da bambina mi ritenevo fortunata ad abitare in un castello così gotico nel bosco di Sygma, Chanty, forse ne avevo assunto l' aspetto dentro e fuori.
Si diceva vi avesse vissuto una dama sposata ed innamorata di un uomo bellissimo, impavido e ancora di notte si sentissero i suoi sospiri; "la rosa nera" la chiamavano, io sentivo nel sonno il leggero vento del suo desiderio e respiro, le ombre notturne mi perseguitavano, potevo sentire a volte lei e lui vociare, desiderarsi e le lor parole d' amore...eravamo in simbiosi io e lei. Riuscivo a sentire il suo pianto e la sua disperazione dentro me quando egli dovette tornare ad Afragolignone. Mi ritenevano strana, forse pazza, ma io l' avevo vista ed ella mi faceva compagnia fin da bambina e mie sorelle e mia madre mi tenevano a debita distanza dalle feste modaiole del tempo temendo raccontassi questi fatti a loro dire blasfemi e io mi ero rintanata nel mio piccolo mondo antico e buio, tra i libri, i sogni..no sogni non ne avevo, io abitavo bene nella mia anima fredda.

Mio padre, il Conte de Bastian, mi aveva fatto chiamare ed entrai nel salottino.
Sorseggiava del thè e mi guardò mentre io mi sedetti nella poltrona davanti al caminetto vicino a lui.. "Mi avete fatto chiamare padre, è successo qualcosa di grave?".

Lui sorrise e mi guardò sospirando.. "Altea, sai nonostante tutto sei sempre la mia figlia prediletta però lo devo fare, il tuo comportamento non si compiace molto alle feste mondane della nostra contea, io non riesco a cambiarti...avresti bisogno di un uomo..si io" lo vidi arrossire e strinsi il fazzoletto tra le mani giocherellandoci nervosamente.. "Voi cosa?" ribattei senza battere ciglio.
Deglutì.. "Insomma ti ho trovato marito, si, tra una settimana ti sposi.. è un ottimo partito, è nobile pure lui, è una miniera di oro, si è invaghito di te appena visto il tuo ritratto, ha tanti immobili, palazzi, tenute...farai una vita agiatissima".
Avvampai di collera alzandomi infervorita "Mi avete venduta come un negriero fa con una schiava? E i miei sentimenti? Lo avete fatto per sbarazzarvi della mia presenza vero...io mi oppongo" sfidandolo con un ghigno di odio sul volto.
"O lo sposi o ti mando in convento" disse quella frase così sciocca.
"In convento..sta bene...almeno sarò me stessa e libera" lui mi diede uno schiaffo forte.. "Torna in camera tua e tra una settimana indosserai il tuo abito da sposa".

Presto fui costretta a preparare i miei bagagli, presi pure la spada "Volpe Ambrata" donatami da un caro maestro d' arme, brillava davvero dei colori dell' arcobaleno dopo una giornata di pioggia primaverile.
Misi nella valigia le lettere e i libri di questa donna, presi alcune mie lettere personali, i miei vestiti, gioielli, la ricca dote ma il cuore era una pietra.


Mi svegliai tra le lenzuola fresche del mio talamo nuziale..la mia prima giornata in questo sontuoso castello, il giorno dopo le nozze e la mia prima notte di nozze.
Mi alzai e subito mi lavai...lavai il tocco delle sue mani sulla mia candida e bianca pelle, il sapore insopportabile delle sue labbra sulla mia bocca ma non potevo lavare la mia anima lacerata da quella notte per lui di passione e godimento e per me di disgusto e mi chiesi fino a quando avrei resistito a tutto questo. Mia madre aveva detto non potevo rifiutarlo a letto, mi avrebbe ripudiata e sarebbe stata peggio.
Indossai uno dei miei vestiti neri, mi guardai allo specchio, il volto senza espressione e sospirai di indolenza. Mi misi nell' inginocchiatoio e pregai fortemente...era assurdo, desideravo la morte di quell' uomo.

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Guisgard 06-04-2018 18.02.56

Il palazzo, dall'aspetto gotico e decadente, racchiuso da due alte torri quadrangolari e merlate, sorgeva appena fuori le mura di Monsperone, ai piedi di un mite poggio ammantato da ulivi e cipressi.
La sera era scesa sulla vallata e la falce lunare, simile ad un truciolo d'ottone e d'onice, si affacciava tra alte e sottili nuvole che velavano appena il cielo sopra il bosco.
Le stanze del palazzo erano avvolte da una cupa penombra, sferzata appena dall'esile alone di alcune candele.
Gwen congedò Marko ed unse il fazzoletto del vischioso sangue che colava dal suo labbro inferiore.
Allora nella stanza, quasi fosse uno spettro, arrivò la pallida figura di Tatiana.
“E' un peccato” disse lasciandosi cadere appagata su una poltrona “che di notte non vivino gli uomini... come se Qualcosa volesse tenerci divisi da loro...” con un sorriso sadico “... si, un vero spreco di bellezza...” giocando con i suoi capelli.
Entrò ad un tratto Ivan con in mano un candeliere a 4 braccia che illuminava quel tratto di salone.
Un attimo dopo però qualcuno bussò al portone del palazzo.
“A questa tarda ora...” destandosi Tatiana “... chi potrà mai essere?” Visibilmente euforica.

Guisgard 06-04-2018 18.04.12

Era ancora notte fonda, ma l'inquietudine e la disperazione aveva costretto Altea ad alzarsi dal suo letto.
Suo marito riposava beato dopo aver sfogato la sua rozza passione su di lei, russando tra le lenzuola ancora calde di quel talamo nuziale.
La donna raggiunse l'inginocchiatoio e cominciò a pregare.
Forse per un'ora, forse per due.
La notte trascorreva lenta, quasi apatica, il palazzo era silenzioso ed indifferente, la Luna lontana e misteriosa.
Poi dei rumori, dei passi provenienti dalle cucine.
Era di certo il vecchio Salamano, fidate servitore del padrone di casa, proveniente come lui dal Sud e con sangue saraceno nelle vene.
Si alzava sempre molto presto, dopo aver dormito per un pugno di ore a notte, sempre intento a preparare il tutto per il risveglio del padrone.
Fulminaccio Casale era un uomo come tanti, benestante borghese giunto a Sygma anni prima dal Sud e legatosi ai De Bastian prima per motivi economici, poi imparentatosi come marito di Altea.

Altea 06-04-2018 18.20.41

Non so quanto rimasi lì a pregare, piangere poiché un destino crudele ed effimero mi aveva legato a quell' uomo venuto da quei posti lontani, lo sentivo russare, avrei potuto pugnalarlo durante il sonno e fuggire ma la mia forte devozione cattolica me lo impediva.
Il mio destino era legato alla "Rosa Nera o Dama Nera" ma io non avrei avuto qualcuno da amare, che mi avrebbe dato attimi di gioia e forse salvata da questo uomo.
Poi udii dei rumori dalla cucina e indossai il vestito nero e scesi le scale ripide, davanti a me si parò Salamano e lo scrutai e con sguardo freddo dissi solo..."Vi svegliate presto? State preparando la colazione...parlatemi di voi" sedendomi "E' strano vero? Non so nulla dell' uomo che ho sposato".

Lady Gwen 06-04-2018 18.34.43

Era una notte silenziosa, ma la sensazione era di qualcosa che sarebbe arrivato a spezzare quel silenzio.
E no, non mi riferivo alle parole di Tatiana, alle quali sorrisi con stanca malizia.
"Oh, ti assicuro che quel gastaldo, secoli fa, era vivo eccome, di notte..." risposi e la mia risata argentina risuono in tutto il salone come il tocco di una posata su un calice di cristallo "Non sarà rimasta manco più la polvere, di quell'uomo... Chissà se troverò mai qualcuno come lui..." con in sospiro teatrale.
Ad un certo punto, arrivò Ivan dalla biblioteca con il volto pallido appena rischiarato da un candelabro.
Po, però, qualcuno bussò.
Assunsi un'espressione sorpresa.
Erano almeno ottant'anni che nessuno si avvicinava a questo palazzo, anche perché di giorno non sembravano esserci segni di vita e nessuno sembrava interessarsene.
"Ivan, va' a vedere chi è, per favore" gli dissi, molto curiosa.

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Guisgard 06-04-2018 18.47.28

Salamano guardò Altea e la salutò con un inchino.
“Non è strano, madama...” disse continuando il suo lavoro “... poche donne conoscono davvero l'uomo che sposano... le poche fortunate però le ho sentite nominare solo nei romanzi d'Amore.” Annuendo. “Parlarvi di me? C'è poco da dire... ero molto più giovane quando i Casale mi presero in casa loro dandomi un lavoro... vostro marito mi ha voluto qui con lui a Sygma ed io l'ho seguito. Sono come un marinaio che segue il vento e cerca di non farsi sopraffare da qualche onda un po' troppo alta.” Accennando un vago sorriso.

Guisgard 06-04-2018 18.48.47

Ivan annuì a Gwen, prese con sé il candelabro e scese fino all'ingresso.
“Voi...” disse aprendo lo spioncino del portone “... chi bussa in quest'ora tarda?”
Vide una carrozza trainata da due cavalli e una figura in piedi davanti all'entrata chiusa.
“Perdonate, ma siamo forestieri persi in queste strade buie ed isolate...” rispose l'uomo “... i cavalli sono stanchi e non si vedono altri luoghi in cui poter alloggiare... San Raffaele vi ha messo sulla nostra strada, signore...”
Ivan sorrise a queste parole, poi notò che l'uomo, non molto alto e poco aggraziato nei modi, portava un Crocifisso al collo.
“Non abbiamo posto per voi qui...” fece Ivan “... più avanti troverete di certo una locanda... i cinghiali di certo non vi assaliranno e se vi guarderete dalla Luna eviterete di incontrare qualche lupo... quindi tornate a sperare nel vostro San Raffaele e buona fortuna.” Seccamente, per poi chiudere lo spioncino e tornare da Gwen e da Tatiana.

Lady Gwen 06-04-2018 18.52.24

Non riuscii a sentire chi fosse, ma ad un certo punto sentii il tono seccato di Ivan.
"Accidenti, chi ha avuto la sfortuna di incrociare il tuo cammino?" chiesi al vampiro, provocando le risate di Roze e Tatiana.
Non si poteva dire che Ivan fosse la persona più socievole del mondo, di sicuro preferiva starsene da solo in biblioteca a leggere che in mezzo ad altra gente.

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