Camelot, la patria della cavalleria

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llamrei 09-01-2009 11.33.34

Donne nel Medioevo
 
Devo dare datto che Sir Lancelot è una continua fonta di ispirazione :D
Ho pensato di aprire una discussione per parlare di "donne che hanno contribuito a creare la storia nel Medioevo".
Dicevo che ho preso spunto dal topic "Tavola Rotonda" perchè, presunzione femminile -chiamatela come volete :D:D- credo che non solo i Cavalieri siano stati artefici di tanto beneficio, ma anche le donne hanno contribuito a renderlo tale, prendendo atto che nel Medioevo la donna poteva disporre di una autonomia diversa rispetto all'uomo.
Se vi fa piacere io inizierei citando colei che "stimo moltissimo" e che considero una Grande donna:
Eleonora d'Aquitania
http://farm4.static.flickr.com/3298/...bdfe72e8c1.jpg
al secondo posto citerei
Dhuoda
http://farm4.static.flickr.com/3485/...f2d5a1d1_o.jpg
al terzo
Matilde di Canossa
http://farm4.static.flickr.com/3261/...959452d3e3.jpg
al quarto (e mi fermo...ma l'elenco continuerebbe)
Teodora, sposa di Giustiniano
http://farm4.static.flickr.com/3530/...4353eccd_o.jpg

Lancelot 09-01-2009 11.53.32

E' un detto spesso ripreso da alcuni letterati, e direi che sicuramente cela un grande sostrato di veridicità storica: spesso la politica internazionale si decideva nell'intimità dell'alcova. E non alludo soltanto ai matrimoni politici, o all'ascendente sensuale che una donna poteva esercitare su un potente, ma soprattutto al fatto che nell'intimità domestica spesso un uomo poteva bearsi del parere illuminato della sua consorte, laddove invece nei pubblici uffici non le sarebbe stato concesso di parlare o di esprimersi.
Penso che la mano, e la mente, di tali donne siano stati rilevanti nella decisione dei movimenti di buona parte dello schacchiere politico dell'epoca, data la loro naturale arguzia e finezza politica. I modi gentili e soffusi delle donne poi riuscivano a imporre obbedienza lasciando che il loro Signore pensasse all'idea da esse ventilata come a un'invenzione sua propria...

llamrei 09-01-2009 12.52.00

Concordo appieno sir. Ricordiamoci che gran parte delle cortigiane erano donne che avevano una elevata cultura e arguzia che ben sapevano utilizzare dove meglio era il loro campo, sia per interessi propri che politici.
Molte di queste donne, però non hanno avuto la fortuna di essere ricordate ai posteri; hanno operato da dietro le quinte. Altre, per fortuna, sono ben state ricordate. E tra quelle che sono passate agli onori dei posteri vi sono quelle da me sopra citate.
Ah Sir: Teodora può essere compresa sia nella prima che nella seconda categoria ;)

Lancelot 09-01-2009 13.28.57

Aggiungerei anche Bianca di Castiglia, la "Regina Vergine" Elisabetta I (che tutto era fuor che vergine, ma le conveniva farlo credere), Caterina De' Medici e Adelasia del Vasto.

Bianca di Castiglia

Elisabetta I

Caterina de' Medici

Adelasia del Vasto

llamrei 09-01-2009 13.37.48

Complimenti!
Lascio a voi tutti di continuare l'elenco...anche se mi prudono i polpastrelli....vi è un nome che non posso...lasciar fuori dalla lista....
Maria di Champagne!!! Ecco!!! L ho detto!!!:sad_wall:

Lancelot 09-01-2009 13.41.30

Vi prego di proseguire voi nell'elenco, il topic è troppo interessante e importante affinché sia affidato alle mie mani indegne :o

Mi accontenterò di fugaci apparizioni in vostro sostegno.

llamrei 09-01-2009 13.49.40

E' corretto che siano anche altri a stilare un elenco. Ovviamente i nomi che ho citato io possono non essere graditi ad altri utenti e altrettanto può capitare a me. Quindi è doveroso che ognuno citi la propria preferenza e che lasci spazio a tutti di dire la sua. ;)

llamrei 11-01-2009 13.39.24

Avendo citato Guglielmo IX nel topic dedicato agli uomini nel medioevo, non potevo fare torto alla viscontessa....:D
quindi, tra le donne cito:
Maubergeon

Peregrinus 14-10-2009 22.10.09

Stilo la mia speciale classifica, mutuo Eleonora d'Aquitania da Ilamrei e procedo:

1 Eleonora d'Aquitania; perché è bella, perché è la madre di Riccardo, perché ha saputo governare il regno d'Inghilterra; in subordine ha conosciuto Guglielmo il Maresciallo ed Enrico VI;


2 Bianca Lancia, perché è la madre di Manfredi, perché era feudataria del feudio Montis Sancti Angeli e a quel feudo apparteneva anche Sipontum uno dei porti da cui si salpava per Gerusalemme; in subordine perché ha conosciuto lo Stupor Mundi;

3 Eloisa, «Al mio signore, anzi padre, al mio sposo anzi fratello, la sua serva o piuttosto figlia, la sua sposa o meglio sorella... ti ho amato di un amore sconfinato... mi è sempre stato più dolce il nome di amica e quello di amante o prostituta, il mio cuore non era con me ma con te»; perché se incontro una che mi ama così potrei anche sposarmi.

llamrei 15-10-2009 20.42.15

Citazione:

Originalmente inviato da Peregrinus (Messaggio 11059)
3 Eloisa, «Al mio signore, anzi padre, al mio sposo anzi fratello, la sua serva o piuttosto figlia, la sua sposa o meglio sorella... ti ho amato di un amore sconfinato... mi è sempre stato più dolce il nome di amica e quello di amante o prostituta, il mio cuore non era con me ma con te»; perché se incontro una che mi ama così potrei anche sposarmi.


Bellissime parole ad un Abelardo innamorato.:smile_clap:

Taliesin 22-05-2012 15.30.31

Donne nel Medioevo...
 
La passata notte un vento impetuoso ed irreale turbinava tra i meandri diroccati del mio vetusto maniero, e sotto la coltre di fumo di un vecchio e scricchiolante scaffale di castagno, vi era caduto un minuscolo libricino ad ore stampato nel secolo XVIII da un'antica tipografia rinascimentale...
Rannicchiato tra le polvere perenne e la muffa dei muschi di montagna che ombreggiano la mia malsana, l'ho raccolto con la dovuta cura: era un'autobigrofia romanzata della Gran Contessa del monaco Donizone...
Mi sono commosso nel rileggere cotanto ardore e passione ancestrale in una donna leggendaria e, tra le pagine consunte ed i rivoli celesti dipinti sul mio volto, ho pensato a quante Donne, in quell'epoca denominata per troppo tempo "Secoli Bui", hanno riscaldato il cuore ed il giaciglio i molti uomini, facendo crollare imperi e regni con una forza incontrollabile ed inimmaginabile...
Voglia questo essere, in un altro spazio e in un altro tempo, un mio piccolo omaggio...

Taliesin, il bardo

La Gran Contessa: Matilde di Canossa

Personaggio di primaria importanza nella storia del Medioevo europeo, Matilde di Canossa (1046-1115) è forse la figura storica più interessante del Medioevo nelle terre intorno al Po.
Nasce probabilmente a Mantova, dove il padre Bonifacio di Canossa ha una reggia, ma poi è costretta a fuggire con la madre, Beatrice di Lorena, perché il padre viene assassinato e muoiono misteriosamente un fratello ed una sorella.

La troviamo a Felonica, poi a Firenze, poi con la madre che si risposa con un vedovo, Goffredo il Barbuto, che ha un figlio, Goffredo il Gobbo, che viene promesso in sposo a Matilde stessa. Alla morte del patrigno, ella sposa il fratellastro in Lorena ed ha una bambina, Beatrice, che muore in fasce.
Fugge dal marito e si rifugia dalla madre a Mantova e poi a Pisa, dove Beatrice muore nel 1076. Matilde eredita così un dominio che andava dal Lazio al Lago di Garda, ed era strategico sia per i pontefici, quando dovevano essere insediati a Roma, sia per gli imperatori, quando dovevano essere incoronati.

Ella entra così nella lotta in corso tra impero e papato, giocandovi un ruolo prima di pacificatrice (anche perché era cugina di Enrico IV per parte di madre), come dimostra il famoso incontro di Canossa (28 gennaio 1077), poi di aperta sostenitrice del papato e della riforma della Chiesa. In questa scelta, ella mette in gioco i suoi poteri, in gran parte avuti per concessione dagli imperatori, ed il suo stesso dominio: dichiarata traditrice da Enrico IV, le si ribellano le città, ed anche i suoi possedimenti vengono invasi dalle truppe imperiali, restandole fedeli i castelli di Nogara nel Veronese, Piàdena nel Cremonese, Monteveglio nel Bolognese e Canossa nel Reggiano, come racconta il suo biografo, Donizone.

Donna di potere, controcorrente, al centro di uno scontro epocale, Matilde di Canossa diviene oggetto d’esaltazione da una parte (chiamata figlia di Pietro, ancella del Signore) e di denigrazione dall’altra (accusata di essere una meretrice, amante di Gregorio VII). In questo gioca un ruolo fondamentale l’essere donna: a lei il diritto longobardo assicura l’ereditarietà dei domini, ma ella ha sempre bisogno di un uomo che la sostenga e garantisca (il mundoaldo); da ciò la necessità di risposarsi, con un nuovo matrimonio, anch’esso fallito, con un ragazzino (Guelfo di Baviera), da ciò la nomina di un figlio adottivo nel conte Guido Guerra; da ciò, infine, la resa al nuovo imperatore, Enrico V, con l’accordo di Bianello del 1111, nel quale le viene riconosciuto di nuovo il potere sulla parte dell’Italia settentrionale del dominio canossano, in cambio della nomina dell’imperatore a suo erede, per la nota parentela.

Così, solo alla fine della sua esistenza terrena, Matilde può dedicarsi alla preghiera ed alla meditazione religiosa, verso la quale era portata fin da giovane, ma dalla quale fu sconsigliata addirittura da Gregorio VII di dedicarsi, perché era più prezioso il suo ruolo politico e militare in difesa del papato.

Morì a Bondanazzo di Reggiolo il 24 maggio 1115 e venne sepolta nell’amato monastero di San Benedetto Polirone, cluniacense, dove i monaci le eressero un adeguato sepolcro nella cappella di Santa Maria, con i noti mosaici, e la onorarono ogni anno con le loro preghiere.

Il suo ricordo, immortalato da un monaco di Canossa, Donizone, fu rafforzato con una pretesa donazione dei suoi beni alla Chiesa, e con una serie di leggende, anche popolari, che si diffusero fin dal basso Medioevo, e che, continuate sia a livello colto, che popolare sino ai giorni nostri, ne hanno fatto un personaggio mitico, non solo per le terre padane.

Ripercorrere la sua vita diviene così occasione per aprire una finestra su di un periodo cruciale della storia del Medioevo, e sugli uomini e sulle donne che vissero in quel tempo.

Taliesin, il bardo

(Informazioni tratte da: Matilde di Canossa - Donna di potere nel Medioevo, di Golinelli Paolo, docente dell'Università di Verona.)

ladyGonzaga 22-05-2012 15.36.36

molto bello questo vostro nuovo argomento.
Lo seguirò con molto interesse:smile:

Taliesin 22-05-2012 15.48.56

Il Fiore di Maremma: Margherita Aldobrandeschi

Figlia di Ildebrandino "il Rosso" conte di Sovana e di Pitigliano, nacque, forse, verso il 1255, poiché non doveva avere più di quindici o sedici anni quando fu celebrato il suo primo matrimonio con Guido di Montfort (febbraio 1270, secondo il Ciacci; seconda metà del 1270, secondo il Lisini).

Catturato Guido di Montfort nel 1287 dagli Aragonesi, durante la battaglia del golfo di Napoli, e morto prigioniero a Messina nel 1292, Margherita si trovò sola a fronteggiare le mire espansionistiche di Siena, tradizionale nemica degli Aldobrandeschi del ramo di Sovana. Forse già al momento della cattura di Guido, Margherita aveva stretto una relazione amorosa con Nello de' Pannocchieschi, signore di Pietra, in Maremma, con il quale, ove si debba accettare l'ipotesi del Ciacci, si sarebbe imita in matrimonio segreto, nella presunzione di avvenuta morte del marito, salvo ad abbandonare l'amante (o marito che fosse) nel 1290. Di questo periodo sono, infatti, le incursioni contro Orbetello, ove si trovava la contessa, di Ranieri d'Ugolino, signore di Baschi e Vi-tozzo, e di Ranieri di Montemerano, parenti di Margherita, miranti, probabilmente, a staccarla dal Pannocchieschi, sia che Margherita li avesse a ciò sollecitati, sia che essi agissero di propria iniziativa.

Di qualsivoglia natura fossero stati i rapporti tra Margherita e Nello de' Pannocchieschi, nel gennaio 1292 la contessa era in trattative con Napoleone Orsini, forse già in vista di un suo nuovo matrimonio con il fratello Orso Orsini, reso necessario dalle precarie condizioni in cui versava la contea minacciata dagli inquieti Comuni maremmani. Margherita sposò Orso nei primi mesi del 1292 e riuscì, grazie all'abilità del marito, a ristabilire i normali rapporti di reciproca tolleranza con Orvieto, rinnovando i giuramenti di amicizia e di cittadinanza già sottoscritti dagli antenati e dal primo marito, Guido di Montfort. In Virtù del nuovo matrimonio, Margherita riuscì a stipulare un trattato anche con Siena, il 5marzo 1294. Nuovi timori, tuttavia, per la contessa di Sovana e Pitigliano, sorsero quando anche Orso Orsini morì nell'ottobre del 1295.

Respinto un tentativo di Nello de' Pannocchieschi di riproporre la sua candidatura come terzo - e questa volta - legittimo marito, nonostante l'invio di un'ambasceria di cui, con ogni probabilità, faceva parte Binduccio, figlio di Margherita e dello stesso Nello, la contessa fu indotta da papa Bonifacio VIII a sposarne un nipote, Loffredo Caetani, il 19 sett. 1296, in Anagni. Il matrimonio, però, ispirato a evidenti motivi di predominio politico ambito da Bonifacio VIII sulla contea aldobrandesca, non durò a lungo, poiché, già nel febbraio 1297, Orvieto, in occasione di una rivolta di Pitigliano contro Margherita, inviava a proprie spese milizie "in adiutorium comitisse ",senza nessun riferimento a Loffredo.

Nulla più che ipotesi è dato di formulare a proposito delle vicende matrimoniali di Margherita con il Caetani: plausibile pare, tuttavia, quella che il pontefice, nel desiderio di isolare la contessa per poter. entrare completamente in possesso dei suoi beni, prendesse lo spunto dai suoi trascorsi coniugali alquanto torbidi per dichiarare nullo il suo matrimonio con Loffredo, al quale, nel 1298, procurava la mano della contessa di Fondi, Giovanna dall'Aquila, mentre, il 3 ottobre di quell'anno, ordinava al cardinale Gerardo Bianchi, vescovo di Sabina, di indagare sui precedenti matrimoni della contessa di Sovana, che venne di li a poco dichiarata bigama.

Certo è che già nel luglio 1298, l'A. doveva essersi imita con Guido da Santa Fiora, suo parente, cui da quella data i Senesi, come Margherita, si rivolgono negli atti pubblici, in occasione di lagnanze o di proposte di accordi. Nei primi mesi del 1299 - e cioè dopo che il precedente matrinionio con Loffredo era stato invalidato da Bonifacio VIII - Margherita era sposa di Guido, ricostituendo così, con grave pericolo per Siena e con minaccia implicita per lo Stato pontificio, l'unità dei due rami aldobrandeschi.

Si iniziò allora una vera e propria guerra tra gli Aldobrandeschi (di Sovana e di Santafiora) da un lato, e Siena e, in secondo tempo, Bonifacio VIII ed Orvieto, dall'altro. Nonostante l'apparente maggior peso militare e politico del gruppo controllato dal papa, le ostilità, dopo alterne vicende, non si conclusero con il pieno successo dei Senesi, perché questi, accortisi che Bonifacio VIII intendeva incamerare nella propria famiglia i beni aldobrandeschi, preferirono un compromesso con Margherita e con Guido di Santa Fiora. La lotta contro Orvieto e contro Bonifacio VIII si concluse invece nel 1302 con una richiesta di pace da parte di Guido (morto iopo poco).

Margherita, rimasta vedova per la terza volta, fu privata, dopo un breve periodo di tregua concessole dal papa, impegnato nelle difficili vicende della guerra del Vespro, di ogni diritto feudale con bolla del 3 marzo 1303 e costretta a sposare Nello de' Pannocchieschi.
Il provvedimento papale si giustificava formalmente perché Margherita aveva ceduto a Enrico e Bonifazio di Santafiora alcune terre dell'abbazia di S. Anastasio ad Aquas salvias,di cui godeva l'enfiteusi e che passò al nipote del pontefice, Benedetto Caetani.

Morto Bonifacio VIII, Margherita si separò dal Pannocchieschi e si rifugiò a Roma presso le figlie Anastasia e Maria, mentre le terre della contea erano corse da Nello e dalle soldatesche di Orvieto, che si era preoccupata dei tentativi compiuti dal signore di Pietra di ricostituire, ai danni del Comune, l'unità territoriale della contea.

Nel 1313 Margherita si recò ad Orvieto, dietro assicurazione di quel Comune, per abitare in un palazzo di sua proprietà; ma presto ne ripartì, adducendo a pretesto l'inadempienza degli Orvietani a certi patti con lei stipulati. Nonostante che avesse fatto ricorso ai senatori di Roma, Margherita non ottenne che Orvieto cedesse e prima di morire vide assegnata definitivamente la sua contea a Benedetto Caetani.

Margherita morì in epoca e luogo imprecisati.

Solo leggenda è la tradizione ispirata ai celebri versi danteschi (Purg.V, vv. 133 ss.) che vorrebbe Nello de' Pannocchieschi uxoricida nella persona di Pia de' Tolomei per amore dell'Aldobrandeschi.

Taliesin, il bardo

Fonti e Bibl.: Cronica Antiqua (Annales Urbe vetani),in Rer. Italic. Script.,2 ediz., a cura di L. Fumi, XV, 5, pp.125-136; Cronica Potestatum (Annales Urbevetani), ibid.,pp. 137-182; Cronaca di Luca di Domenico Manenti, ibid.,pp.269-414; G.Tommasi, Dell'Historia di Siena,Venezia 1625; Regesto di Atti originali per la giurisdizione del Comune,in Rer. Italic. Script.,2 ediz., XV, 5,a cura di L. Fumi, pp. 97-123; G.Caetani, M. A. e i Caetani,in Arch. d. soc. romana di storia patria,XLIV (1921), pp. 5-36; A. Lisini, La contessa palatina M. A. signora del feudo di Sovana,Siena 1933; G.Ciacci, Gli Aldobrandeschi nella storia e nella Divina Commedia,I, Roma 1935, passim.

Hastatus77 22-05-2012 17.47.25

Ricordavo che era già presente una discussione con lo stesso argomento.
Ho provveduto ad unire le nuove e le vecchie informazioni.

Guisgard 24-05-2012 00.36.13

Taliesin, belli ed interessanti i post che avete preparato su questo affascinante argomento.
Per tanto tempo un luogo comune ha visto il Medioevo come “l'epoca senza donne”.
Un giudizio tutt'altro che condivisibile, nato probabilmente in ambienti accademici troppo imbevuti della nuova rinascita umanistica e che poco conoscevano le straordinarie personalità che caratterizzarono questo straordinario periodo storico.
Personalità anche, ovviamente, di donne fuori dal comune.
Basti ricordare figure come Teodolinda, Eleonora D'Aquitania, Maria di Francia, Roswitha di Gandersheim, solo per fare alcuni nomi e senza poi dimenticare le grandi Sante e Mistiche che lasciarono un segno non solo in ambito religioso, ma anche culturale e politico come Santa Caterina da Siena, Santa Brigida di Svezia, Sant'Ildegarda di Bingen, Angela da Foligno.
Una discussione ed un tema dunque doverosi, che sanno arricchire la nostra visione sul quell'eccezionale periodo, così pieno, eppure ancora, in larga parte, poco conosciuto ed apprezzato fino in fondo :smile:

ladyGonzaga 24-05-2012 00.54.50

spesso quando vi leggo rimango sbalordita dalle vostre conoscenze in materia.
complimenti anche a voi Guiscard:smile:

Taliesin 24-05-2012 11.22.22

La Regina dei Trovatori: Eleonora di Aquitania

Giudizi e pregiudizi pesano su Eleonora d’Aquitania, due volte Regina di due Regni importanti e due volte sposata a due mariti illustri, ma colpevole d’aver vissuto in un’epoca in cui le donne erano costrette al silenzio.
Coltissima; spregiudicata; stravagante e dotata di forte personalità, incarnò lo scandalo: scandaloso, il suo ingresso a Vézelay, ove nella Pasqua del 1146 si presentò a Bernard de Clairvaux a cavallo e vestita dell’armatura; scandalosa, la sua partecipazione alla II Crociata; scandaloso, il sostegno politico offerto allo zio Raimondo d’Antiochia, suo presunto amante; scandaloso, il suo divorzio da Luigi VII di Francia; scandalose, le successive nozze con Enrico II d’Inghilterra e la relazione precedentemente intrattenuta con il suocero; scandaloso, l’appoggio alla ribellione dei suoi figli contro il padre; scandalosa, la sua Corte d’amore a Poitiers.

Tuttavia, se solo pochissime donne dominarono il Medioevo, ella spiccò fra esse.

Regina di Francia dal 1137 al 1152 e Sovrana d’Inghilterra dal 1154 al 1204; nata intorno al 1122 dal Conte Guglielmo X d’Aquitania e da Aénor di Châtellerault; cresciuta nella raffinata Corte del nonno Guglielmo IX ove ricevette una solida educazione in latino, musica e letteratura; ad otto anni già erede delle Contea di Poitou, dei Ducati d’Aquitania e Guascogna e dei territori di Saintogne, Marche, Limousin, Périgord e Angounois per la morte del fratello maggiore Guglielmo l’Ardito e poi di entrambi i genitori, era stata promessa al futuro Re di Francia Luigi VII che, pur destinato alla carriera ecclesiastica, a causa del decesso del germano all’età di undici anni: il 25 ottobre del 1131, fu consacrato a Reims.
Si sposarono il 25 luglio del 1137 nel palazzo di Ombrière a Bordeaux: nel Natale successivo, Eleonora fu incoronata a Bourges. Lo sposo, invece, pur investito dell’Aquitania nella cattedrale di Poitiers, ottenne il solo titolo di Duca consorte: il potente DUcato sarebbe stato annesso alla Corona quando e se fosse nato un erede maschio.

Guglielmo di Newburg testimoniò che egli era preso da amore ardente per la giovincella; tuttavia, fu presto evidente che la sua austerità non era compatibile col temperamento vivace e passionale della Sovrana cui la glaciale Aristocrazia francese manifestò tutta l’ostilità già tributata a Costanza di Arles un secolo avanti: a parte la propensione ai lussi e le presunte dissolutezze, infatti, le si imputò di esercitare sul marito quell’eccessivo e pericoloso ascendente causa di sconsiderate sviste politiche: la pretesa rivendicazione della Contea di Tolosa; il conflitto con Innocenzo II per la nomina di Pietro di Chartres a Primate di Bourges; la pressione esercitata su Rodolfo di Vermandois perché ripudiasse la moglie Eleonora di Champagne, preferendole Petronilla d’Aquitania; la conseguente scomunica a costui irrogata dal Papa; la guerra contro Tibaldo IV di Blois, presso il quale l’esule Prelato si era rifugiato; la conquista ed il sacco di Vitry-en-Perthois, risoltasi col massacro di oltre mille persone; l’interdetto abbattutosi sulla Francia.
Fu Bernard de Clairvaux ad indurre l’intrigante Eleonora a riconciliarsi con gli avversari e a guadagnarsi la revoca della scomunica.
Nel 1145, messa al mondo Maria, ella si dedicò al governo della turbolenta Aquitania incontrando le resistenze del Consigliere di Corte Abate Sugar, intollerante alla interferenze di una donna nella politica. In quel contesto, proprio il potente Abate cistercense di Clairvaux le chiese di persuadere Luigi a partecipare alla seconda crociata già bandita da Eugenio III, a seguito della caduta di Edessa.
Decisa a porsi al seguito dei contingenti del marito e dell’Imperatore Corrado III, Eleonora si presentò a Vézelay, per far voto di pellegrinaggio, in groppa ad un cavallo bianco e vestita dell’armatura, così suscitando l’indignazione della Comunità cristiana.

La Chiesa apprezzò lo zelo ma non l’offerta, pur condivisa da trecento signore, di assistere i feriti all’interno di una spedizione maschile ed anche le cronache coeve espressero durissimi giudizi, soprattutto per l’inopportuna scorta fornitale dal trovatore Jaufré Rudel.
Di fatto, maturò allora quella irreversibile crisi coniugale che la indicò responsabile della strage subìta dai Crociati al monte Cadmo nel 1148, quando l’avanguardia nella quale s’era posta col vassallo aquitano Goffredo di Rancon, contravvenendo agli ordini non attese il rincalzo delle retrovie guidate dal Re francese e fu decimata dai Turchi; responsabile dell’appoggio fornito all’ infausta decisione di riconquistare Edessa avanzata dallo zio Raimondo Principe d’Antiochia -col quale era accusata di intrattenere una relazione incestuosa fondata sulla comune memoria degli anni felici trascorsi a Poitiers- contro il programma di Luigi e Corrado III di puntare su Gerusalemme; responsabile, con la sua sconveniente condotta, della mancata conquista di Damasco e del complessivo esito negativo della crociata.
Di fatto, a spedizione conclusa, nel 1149 i coniugi approdarono in Italia su navi diverse recandosi nell’abbazia di Montecassino per chiedere il divorzio.
Di fatto, malgrado Eugenio III riuscisse a riconciliarli ed essi nel 1150 fossero allietati dalla nascita di Alice, la crisi si riacutizzò.
Di fatto, il 21 marzo del 1152, riuniti nel Sinodo di Beaugency, gli Arcivescovi di Bordeaux, Rouen, Reims ed il Primate di Francia, con l’assenso papale sancirono l’annullamento del vincolo nuziale per consanguineità di quarto grado, ambedue discendendo da Roberto II.
Conservando la legittimità, le due figlie restavano in quella Corte dalla quale si allontanava invece Eleonora, con i beni dotali d’Aquitania e Guascogna.

Ella s’era già invaghita del figlio della potente Empress Maud e del Duca di Normandia Goffredo il Bello: pur accusata d’essere già stata l’amante di costui, sposò Enrico il Plantageneto, di undici anni più giovane, il 18 maggio del 1152 a sei settimane dallo scioglimento del vincolo che l’aveva legata a Luigi VII. La sua cospicua dote, rendendolo padrone di gran parte della Francia, consentì al secondo marito di insediarsi al trono inglese nel 1154 col nome di Enrico II, quando Stefano di Blois firmò il Trattato di Westminster del Natale 1153, così risarcendo la usurpata cugina Maud e accettando di riconoscerne i diritti al figlio.
Se gli Inglesi indicarono il nuovo Sovrano come il Pacificatore, Eleonora fu addirittura celebrata nei Carmina Burana: entrambi furono incoronati il 19 dicembre del 1154.

A parte la prole femminile di primo letto: Maria, sposa del Conte di Champagne Enrico il Liberale e Alice, sposa del Conte di Blois Tibaldo V il Buono, Eleonora mise al mondo otto figli: Guglielmo Plantageneto, nato nel 1153 e morto nel 1156; Enrico il Giovane, nato nel 1155 e morto nel 1183, incoronato nel 1170 e coniugato a Margherita, figlia di Luigi VII di Francia; Matilda, nata nel 1156 e morta nel 1189, maritata al Duca di Baviera e Sassonia Enrico I il Leone; Riccardo Re, nato nel 1157 e morto nel 1199; Goffredo di Bretagna, nato nel 1158 e morto nel 1186, sposato a Costanza di Richemont; Eleonora, nata nel 1161 e morta nel 1214, impalmata da Alfonso di Castiglia; Giovanna, nata nel 1165 e morta nel 1216, moglie del Re di Sicilia Guglielmo II e poi del Conte Raimondo V di Tolosa; Giovanni senza Terra Re, nato nel 1166 e morto nel 1216. Tuttavia, l’infedele Enrico II predilesse; riconobbe ed allevò a Westminster il figlio naturale Goffredo di York, nato dalla prostituta Ykenai parallelamente al legittimo primogenito.

La vita privata e politica della coppia fu segnata da varie traversìe: il rifiuto dell’Aquitania a sottostare all’autorità del Sovrano; il fallimento dei tentativi di acquisire la Contea di Tolosa, attraverso la trasmissione ereditaria di Filippa di Tolosa; le nuove nozze di Luigi VII e il matrimonio di sua figlia Margherita con Enrico il Giovane; il contrasto col Cancelliere Thomas Beckett, Arcivescovo di Canterbury, rifugiato in Francia nel 1166 ed assassinato poi nella cattedrale nel 1170; il conseguente interdetto scagliato dal Papa sull’Inghilterra; l’isolamento della Corona inglese dal contesto internazionale; la scandalosa relazione del Re con Rosamund Clifford; il trasferimento di Eleonora che dal 1167 tenne Corte a Poitiers con la figlia Maria di Champagne, protettrice di Chrétien de Troyes, dedicandosi alla politica aquitana ed ospitando artisti, musicisti e letterati concorrenti alla diffusione dell’Amor cortese: Bernard de Ventadour ed i Normanni Benoît de Sainte-Maure e Wace; l’arresto e la detenzione della Sovrana; la duplice ribellione dei figli all’autorità del Padre/Re; le mancate nozze di Riccardo con Alice di Francia.

A fronte della morte del primogenito, Enrico II aveva destinato al figlio omonimo l’Inghilterra, la Normandia e l’Anjou; a Goffredo la Bretagna; a Riccardo la Contea del Berry e i territori di Guascogna, Aquitania e Poitou quando l’Arcivescovo di Canterbury Thomas Beckett, non considerandosi più suo servitore ma leader della Chiesa, insorse; si oppose nel Concilio di Clarendon del 1164 ad una proposta riferita alle reciprocità dei diritti e dei doveri; accusato di vlipendio e di irregolarità finanziarie, fuggì in Fiandra; inasprì la disputa nel momento in cui il Primate Ruggero di York ebbe incarico di officiare a Westminster la cerimonia di incoronazione del quindicenne Enrico il Giovane, posto sotto tutela di Guglielmo Marshall.
Era il 14 giugno del 1170.

Nel novembre successivo, l’irriducibile Presule tornò in Inghilterra e, deciso a riaffermare le proprie prerogative, minacciò di scomunica quanti, con quella celebrazione, avevano usurpato un diritto per tradizione spettante al Metropolita di Canterbury.
Il Sovrano, che in quel momento era in Normandia per trascorrervi le feste di Natale, se ne adontò e, certi di compiacerlo, quattro suoi fedeli vassalli: Reginald Fitz Urse, Guglielmo di Tracy, Ugo di Morville e Riccardo di Brito, il 29 dicembre assassinarono nella cattedrale l’ingombrante personaggio suscitando l’esecrazione di tutto il mondo cristiano.
All’interdetto lanciatosull’intera Nazione e sul Re dal Papa che subordinò il perdono a tre anni di espiazione ed al finanziamento di una crociata, si saldò il disastro familiare: Eleonora si era già trasferita da tre anni con i figli a Poitiers quando, nell’ulteriore amaro Natale del 1172, con i Re di Francia e Scozia e i vassalli aquitani e guasconi, aizzò il giovane erede contro il padre.

La rivolta, cui parteciparono anche Riccardo e Goffredo, suscitò la violenta levata di scudi dell’ Arcivescovo di Rouen che pronunciò parole di fuoco:...La moglie è colpevole quando si allontana dal marito… ritorna da tuo marito, altrimenti, con il diritto canonico, ti costringeremo a tornare da lui...
Enrico II, che aveva nel frattempo conquistato l'Irlanda e sottomesso il Galles, in una manciata di mesi ebbe ragione della sedizione e, nell’estate del 1174, dopo la sottomissione dei figli, fece arrestare la moglie; la fece rinchiudere a Chinon lasciandole il solo conforto dell’ancella Amaria; la internò poi nel castello di Winchester ed ancora a Sarum, tenendola segregata per ben tre lustri ed accingendosi ad ufficializzare la decennale relazione con Rosamund Clifford.
Nel 1176, tuttavia, costei morì forse avvelenata.
Sfumarono, così, il progettato divorzio e l’intenzione di confinare Eleonora nel convento di Fontevraud, dopo averle imposto i voti di povertà e la rinuncia a titoli e beni.
Fu davvero la Regina, come si sostenne a gran voce, la mandante del presunto assassinio della favorita?

La turbolenta famiglia si consegnò alla disgregazione definitiva nel 1183 quando, infuriato dal rifiuto opposto alle sue mire sul Ducato di Normandia di cui pure nominalmente era titolare, Enrico il Giovane si armò ancora contro il padre tendendogli un agguato a Limoges con la complicità del fratello Goffredo e del cognato Filippo Augusto, a sua volta infuriato dalle mancate nozze di Riccardo con Alice di Francia.
Non a caso già nel 1177 a nome di Alessandro III Papa, il Cardinale Pietro di san Crisogono aveva minacciato l’interdetto se quel contratto nuziale non fosse stato applicato e se non fosse stata posta fine anche alle scandalose dicerie di una relazione di Enrico II con la giovanissima futura nuora.
Il discusso Sovrano rabbonì il rivale, ma trattenne la fanciulla a Corte scoraggiando il figlio dal rompere la promessa di fidanzamento per non perdere l’appetibile dote del Vexin; quanto ai ribelli recidivi, assediata Limoges li mise in rotta.

Epperò, ammalatosi di dissenteria; consapevole d’essere prossimo alla morte ed aggredito dai rimorsi, il giovane erede implorò il perdono per sé e per la madre. Il decesso, presagito in sogno da Eleonora che ne raccontò nel 1193 a Celestino III, indusse Filippo Augusto a reclamare per conto della sorella vedova Margherita alcune proprietà in Normandia.
Enrico II ne sostenne, invece, la restituzione alla Regina/madre che pose in libertà sorvegliata alla fine del 1183 e riammise in Inghilterra.
Tutt’altro che doma, da quel momento ella prese a tramare per garantire la successione al prediletto Riccardo dileggiato per la sempre più accreditata relazione del padre con la sua promessa sposa.
In quel torbido clima, il problema ereditario fu inasprito dalla rivendicazione, da parte del nuovo candidato alla successione, dei territori dall’Inghilterra all’Anjou e dalla Normandia all’ Aquitania e al Poitou con esclusione del fratello Giovanni, cui il genitore intendeva assegnarli congiuntamente alla Corona d’Irlanda.

La contrapposizione padre/figlio coinvolse ancora la Corona francese e scatenò la guerra.
Quella violenta querelle, appesantita dalla scomparsa anche di Goffredo di Bretagna, si risolse solo il 6 luglio del 1189 con la morte dello stesso Re Enrico II.
Pur sospettato di averlo avvelenato, Riccardo ascese al trono e, incoronato a Westminster il 3 settembre, ordinò a Guglielmo Marshall il reintegro della madre in ogni sua prerogativa.
Parallelamente, Saladino metteva in ginocchio i Crociati ad Hattin: il nuovo Sovrano aderì al giuramento di liberazione del santo Sepolcro.
Il 2 febbraio del 1190 Eleonora si dette ad una serie di peregrinazioni nei suoi domini per raccogliere fondi utili alla crociata ed indennizzare il Re di Francia per le mancate nozze di Riccardo con Alice; poi, onde prevenire ulteriori pretese successorie, pur consapevole della omosessualità del figlio, si attivò per trovargli una moglie che individuò in Berengaria, figlia del Re di Navarra Sancho il Saggio. Prima di imbarcarsi da Marsiglia per l’Outremer, il promesso sposo affidò la reggenza del Regno alla ormai anziana Sovrana e designò Primate di York il fratellastro Goffredo.
Ella gli impose i voti, così condizionandone ogni eventuale rivendicazione ereditaria e, una volta al governo, elargì amnistie; costruì ospedali; assegnò fondi ai conventi; obbligò l’Alto Clero e l’Aristocrazia al giuramento di fedeltà al Re; fronteggiò strenuamente i tentativi di usurpazione posti in essere dall’altro figlio Giovanni. Paralelamente, Berengaria raggiungeva Riccardo a Cipro e lo sposava a Limassol.

Cuor di Leone espugnò san Giovanni d’Acri ma legò il suo nome al terrificante massacro di migliaia di uomini donne e bambini, prima di risolvere la sua marcia trionfale in quell’immane disastro che lo indusse a desistere dall’impresa proprio mentre il fratello espugnava Londra con l’appoggio francese.
E le sue vicissitudini non erano ancora concluse: sulla via del ritorno fu arrestato da Leopoldo d’Austria, su mandato dell’Imperatore tedesco Enrico VI che intendeva punirlo per il tentativo di impadronirsi della Sicilia, sulla base dell’asserito diritto maturato dalla vedovanza della sorella Giovanna. Eleonora ottenne la sua liberazione previo pagamento dell’ingentissimo riscatto di centomila marchi d’argento, portati personalmente a Magonza.
Rientrato in Inghilterra, Riccardo spodestò Giovanni col quale si riconciliò su pressione materna così cessando anche il conflitto anglo/francese: fra le clausole della tregua accettò di inserire l’ unione del dodicenne Luigi VIII di Francia con Bianca o Urraca di Navarra, figlie di sua sorella Eleonora e di Alfonso VIII di Castiglia. Tuttavia, prima che il trattato trovasse concreta applicazione, il 6 aprile del 1199 egli si spense a Châlus e gli successe Giovanni senza Terre, contro le giuste aspirazioni di Arturo I di Bretagna, figlio postumo di Goffredo.

L’affranta Eleonora presiedette all’incoronazione avvenuta il 27 maggio di quello stesso anno; protesse il Re dalle reazioni del nipote e si recò poi in Castiglia per scegliere la sposa di Luigi VIII; ma lasciata Poitiers, fu catturata da Ugo IX di Lusignano, partigiano del pretendente al trono: liberata, proseguì il viaggio attraverso i Pirenei e giunse a destinazione nel gennaio del 1200. Due mesi più tardi rientrò a Bordeaux con Bianca di Navarra, sotto scorta del celebre Mercadier il cui assassinio la sconvolse al punto da ritirarsi nell’abbazia di Fontevrault dopo aver affidato la giovane al Primate di Bordeaux.
Alla ripresa della guerra franco/inglese, Arturo di Bretagna tentò ancora di assumere il controllo dell’Aquitania e, durante il viaggio verso Poitiers, internò la nonna nel castello di Mirabeau: fu Giovanni, ora sposo della tredicenne Isabella d’Angoulême, a soccorrerla e a sconfiggere ed arrestare il ribelle, morto avvelenato in carcere nel 1203 forse per suo stesso ordine. A quel punto, l’ottantaduenne Eleonora tornò nel convento di Fontevrault; vi prese il velo e vi si spense nel 1204, dopo aver dato sepoltura a ben otto dei suoi dieci figli e dopo una vita intensa e lunga, accompagnata alla definizione di donna/scandalo ma anche di leggendaria protagonista del secolo.
Il monaco Alberico scrisse della sua indomabile propensione alla lussuria propria del suo sesso ... Luigi l’aveva lasciata per la sua incontinenza, infatti questa donna non si comportava da regina ma piuttosto da puttana....

Molti, al contrario, la ritennero vittima della freddezza dell’inadeguato Luigi e della brutalità dell’intemperante Enrico.

In realtà ella fu una irriducibile anticonformista, ostile al Clero e ad ogni sorta di bigottismo ipocrita; abile diplomatica; Regina illuminata e rispettosa delle esigenze dei sudditi; raffinata, affascinante e sensibile mecenate, tale da dare propulsione al modello ed alle tematiche dell’ amor cortese che concorse a diffondere nel Nord della Francia ed in Inghilterra con intellettuali come Benedetto di Saint-Maure; Bernard de Ventadour e Chrètien de Troyes.

Taliesin, il bardo

Bibliografia:
G. Duby: Medioevo maschio. Amore e matrimonio
J. Le Goff: L’immaginario medievale
J. Markale: Eleonora d’Aquitania, la Regina dei Trovatori

Taliesin 24-05-2012 14.09.44

La Poetessa di Re Artù: Maria di Francia

Maria di Francia nacque nella seconda metà del XIII sec e fu una poetessa francese del Medioevo, celebre per i suoi lai -novella in versi - scritti in antico francese

Visse nella seconda metà del XII secolo e si crede sia stata badessa di un convento (probabilmente quello di Barking). La sua opera sviluppa le tematiche dell'amor cortese trascrivendo leggende della Materia di Britannia. Prima scrittrice francese, di lei non si sa praticamente nulla, se non ciò che essa stessa scrive nell'epilogo della sua opera: Marie ai num, si sui de France ("Il mio nome è Maria e sono di Francia"): vissuta probabilmente alla corte di Enrico II d'Inghilterra e di Eleonora di Aquitania.
Numerose sono state le ipotesi sulla sua identità:
  1. Marie di Meulan, ipotetica figlia di Garelan IV de Meulan, studioso e letterato, a cui è dedicata la Historia regum britannie, il quale però non risulta che avesse avuto una figlia di nome Marie. È esistita una badessa Marie di Meulan, ma sarebbe morta entro il 1000, mentre i Lais sono stati scritti fra il 1160 e il 1175.
  2. Marie d'Ostillie, badessa e secondo alcuni sorellastra di Enrico II, secondo altri figlia di un uomo di fiducia del re. Entrata in tenera età in convento, mentre la cultura dell'Autrice dei Lais mostra chiaramente la sua vicinanza all'ambiente di corte di Enrico II e alle querelles letterarie coeve.
  3. Marie di Blois, principessa d'Inghilterra, badessa del monastero di Romsey, ma in pessimi rapporti con Enrico II, quindi non si spiegherebbe, oltre la vicinanza culturale all'ambiente di corte, anche la dedica al "nobile re" presente nel prologo.
  4. Marie sorella di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury. Maria sarebbe diventata badessa del monastero di Barking, monastero che conservava la tomba della badessa sorella dell'arcivescovo. Questa ipotesi, formulata da Carla Rossi, è la più probabile perché innanzitutto è quella più compatibile con i dati anagrafici: la badessa non sarebbe entrata da piccola in convento, ma da vedova, secondo un uso molto diffuso all'epoca. In secondo luogo i testi di Maria di Francia sono stati più volte trasmessi da manoscritti tramandanti testi strettamente legati a Thomas Becket.
  5. Marie di Francia, secondo R. Baum, non è mai esistita e il suo nome è una pura invenzione letteraria che mette insieme un primo nome "Maria" che vuole indicare un'identità letteraria portatrice della cultura e dei valori cristiani all'indicazione "de France" che non deve essere interpretata in senso geografico, ma culturale: l'autore si richiama direttamente alla cultura e ai valori celebrati in quello che era allora il centro culturale più prestigioso: Ille de France. Tra gli studiosi che hanno fatto propria questa ipotesi, non è mancato chi ha veduto la raccolta di Lais come opera di diversi autori, cosa che stride notevolmente con la palese unità stilistica dell'opera.
I lais

Il capolavoro di Maria è una raccolta di dodici lais, scritti tra il 1160 e il 1175, brevi racconti in ottosillabi a rima baciata, dei quali il più corto è il Lai du Chèvrefeuille, che narra un episodio della leggenda di Tristano e Isotta in 118 versi, e il più lungo è l'Eliduc di 1184. Secondo Avalle, l’ottosillabo deriverebbe dal dimetro giambico, metro caratterizzato da un ritmo veloce.

L'etimologia della parola "lai" (singolare di "lais") è tuttora incerta. Una delle ipotesi più credibili è la derivazione dalla parola (ricostruita) celtica "laid" con il significato di "canto" da cui deriverebbe anche il tedesco "lied" (canto). Questa ipotesi etimologica è supportata dal fatto che i lais venivano cantati o recitati con l'accompagnamento di arpa o viola. Il dittongo –ai si pronuncia [ε], monottongamento molto precoce nel francese antico.
I lais di Maria di Francia presentano un prologo in forma poetica, cosa molto frequente durante il Medioevo, epoca in cui anche testi didattici, filosofici, precettistici venivano redatti in versi. Il metro usato per questi componimenti è l'ottosillabo che secondo Avalle deriverebbe dal dimetro giambico latino. Questi racconti in versi presentano ciascuno un piccolo prologo e un epilogo ed una struttura costante: un'introduzione, uno svolgimento, una conclusione. I luoghi citati a volte sono mitici altre volte reali.
Le fonti dei suoi componimenti sono diverse: in alcuni lais si tratta di fonte orale, in altre di fonte scritta, altre volte la storia viene presentata semplicemente con l'accenno dell'Autrice: "Secondo il racconto che conosco". Maria dichiara nel prologo di aver scritto i suoi testi derivandoli da leggende bretoni: in effetti uno solo è propriamente arturiano, il Lai de Lanval in cui compaiono eroi tipici del mondo arturiano, come Galvano e Ivano.
Tutti i suoi racconti narrano vicende d'amore, spesso adultero, che sono poi sistematicamente il motore dell' "aventure" che si svolge sullo sfondo del mondo reale, ma che vedono la presenza di elementi del meraviglioso, mescolando tematiche e tono cortesi, alla magia delle leggende celtiche, ad immagini e topoi evangelici a elementi tipicamente ovidiani.
Alcuni dei lais possono essere raggruppati secondo un tema dominante, per esempio: Yonec, Lanval e Bisclavret sono accomunati dalla presenza del paranormale, Milun e Fresne dalla tematica del rapporto genitori-figli, Deus amanz e Laustic dall'amore triste.
I protagonisti non sono grandi eroi o famosi re, ma semplici cavalieri e semplici dame spesso in situazioni drammatiche che tendono a ripresentarsi in situazioni topiche come il caso della donna malmaritata, del marito vecchio e geloso, genitori che allontanano il figlio, luoghi magici riservati a iniziati.
La raccolta di lais, nell'ordine tramandato dal manoscritto Harley 978, presenta i seguenti testi:
  • Prologo. Nel prologo L’Autrice afferma di aver ricavato la materia da leggende bretoni. Un solo Lai è, infatti, propriamente arturiano: Lanval. Questo prologo è tramandato dal codice Harley 978 (siglato H), redatto in un monastero anglonormanno in Inghilterra nella seconda metà del XII secolo. Verosimilmente, il prologo è stato scritto dopo i lais e contiene costanti riferimenti alle auctoritas evangeliche e tardo latine. l’Autrice ricorre al topos della sapienza come lucerna, e come tale va tenuta in alto, in modo da portar luce a quante più persone possibili.
  • Lai de Yonec. Risalente ad un’antica leggenda irlandese del IX sec. Racconta la storia dell’amore adulterino con elementi fantastici.
  • Lai de Frêsne. In seguito ad un parto gemellare,Fresne(Frassino), giovane dolce e remissiva, viene abbandonata. Questo lai è accomunato a Milun dalla tematica dello scontro generazionale. I modelli sono rintracciabili nella commedia nuova di Menandro e Terenzio.
  • Lai du Chaitivel (Quattre dols). “Cattivello” detto anche “Quatre dols” ( Quattro dolori). Sviluppa il tema della donna affascinante, seduttiva e pericolosa.
  • Lai de Lanval. È accomunato a Yonec dalla presenza del meraviglioso. È la storia di una fata che si innamora di un essere umano e che lo porterà con sé ad Avalon. Presenta numerosi elementi arturiani. I modelli vanno rintracciati in racconti biblici, e in racconti classici come Fedra e Ippolito.
  • Lai de Milun. Il tema dominante è quello dello scontro genitori-figli. Milun, nato da una relazione extraconiugale, viene fato allevare dalla zia lontana. Come in Fresne, anche qui appare il motivo del segno di riconoscimento di impronta arturiana.
  • Lai des deus Amanz. Sviluppa il tema dell’amore e morte, con modelli rintracciabili in “Piramo e Tisbe”.
  • Lai d'Eliduc. Versione con patina bretone del tema del marito con due mogli. L’etimologia del nome va ricondotta a “Eles deus” .
  • Lai du Bisclavret. Narra la storia di un uomo che si trasforma in lupo. I modelli che hanno ispirato questo lai si possono rintracciare in Erodoto, Plinio e Petronio. L’etimo del nome è incerto; secondo Rychner, deriverebbe da “bleiz lavaret” ( lupo parlante); un’altra ipotesi è da “bisc lavret” (coi calzoni corti).
  • Lai de Guigemar.
  • Lai d'Equitan. Un cavaliere si innamora della moglie del vassallo, e quindi, insieme alla donna, tenta di uccidere il marito di lei, ma il piano va male e saranno loro a morire. Si ha in questo lai un ricorso al triviale e si riscontra la presenza di un proverbio finale. Il tono sardonico che lo caratterizza lo accomuna a Chaitivel.
  • Lai du Chievrefoil. Narra un episodio della storia di Tristano e Isotta assente negli altri manoscritti che tramandano la vicenda, ad eccezione di un riecheggiamento in un codice tedesco.
  • Lai du Laustic o Lai de l'eostic (dal bretone eostig = "usignolo"). Tratta dell’amore contrastato e, come Yonec, della figura della malmaritata. È presente il motivo antico del cuore mangiato.
Favole

Oltre ai Lai, Maria di Francia è autrice di un Ysopet, una raccolta di favole esopiche in prosa (scritte tra il 1167 e il 1189): si tratta del primo adattamento in lingua francese delle favole di Esopo (di qui il termine ysopet), o che si presumeva fossero di Esopo. La principale fonte degli ysopet di Maria è la silloge Romolus in lingua latina.
Maria attinse tuttavia anche a un volgarizzamento in antico inglese attribuito adAlfredo il Grande. Il genere si è sviluppato in epoca medievale, soprattutto nella Piccardia (da qui la "i" del termine "fabliaux" che derivando dal latino "fabula" dovrebbe evolversi in "fableau").
Taliesin, il bardo

Carla Rossi, Marie, ki en sun tens pas ne s'oblie; Maria di Francia: la Storia oltre l'enigma, Rome, Bagatto Libri, 2007.

Carla Rossi, Marie de France et les èrudits de Cantorbéry, Paris, Editions Classiques Garnier, 2009.

Léopold Hervieux, Les fabulistes latins depuis le siècle d'Auguste jusqu'à la fin du moyen âge. Paris : Firmin-Didot, 1899

Taliesin 24-05-2012 16.22.22

La Pulzella di Dio: Giovanna d'Arco

Giovanna d'Arco, la figlia più piccola di una famiglia di contadini del villaggio di Domrémy, in Francia, nacque nel 1412, in un periodo in cui la nazione era sotto la dominazione inglese a seguito della sanguinosa Guerra dei Cent'anni. Inoltre, la regione era stravolta da una guerra civile che vedeva gli Armagnacchi, partigiani del re, schierati con gli inglesi contro i Borgognoni. Uno dei fattori decisivi di questo conflitto interno era rappresentato dal controllo della città di Orléans, situata in posizione strategica sulla riva della Loira. Una sola cosa avrebbe potuto salvare la Francia e farle superare il suo periodo più oscuro... un miracolo.
Alla morte dei re Enrico V di Inghilterra e Carlo VI di Francia, avvenute entrambe nel 1422, gli inglesi proclamarono Enrico VI, allora ancora bambino, re di Inghilterra e di Francia. L'erede legittimo al trono francese, Carlo VII, si rifiutò di abdicare ribadendo i suoi diritti di successione al trono, ma non potè far celebrare la sua incoronazione secondo il rito ufficiale che avrebbe dovuto tenersi nella città di Reims, allora sotto il dominio inglese.
Nel frattempo, nel villaggio di Domrémy, la tredicenne Giovanna d'Arco trascorreva la sua adolescenza in preghiera. La giovinetta non solo era solita confessarsi più volte al giorno, ma spesso udiva "voci" celesti e aveva strane e sorprendenti visioni.
Ella stessa racconta:
La voce mi disse che dovevo lasciare il mio paese per recarmi in Francia. E aggiunse che avrei posto in assedio la città di Orléans. Mi ordinò di recarmi a Vaucouleurs, da Robert de Baudricourt, capitano della città, che avrebbe affidato alcuni uomini al mio comando. Risposi di essere una semplice ragazza che non sapeva andare a cavallo e ignorava come si conduce una guerra.

Sin dall'inizio le fu comunicata la sua missione: era stata scelta da Dio per salvare la Francia e aiutare il Delfino Carlo VII, erede legittimo al trono. Per portare a compimento quanto le era stato comandato avrebbe dovuto indossare abiti maschili, brandire le armi e condurre un esercito.
Un giorno, al suo ritorno dai giochi nei campi, Giovanna scopre che gli inglesi hanno invaso il suo villaggio. Nascosta in una credenza, assiste alla morte della sorella diciottenne, violentata e uccisa da alcuni soldati inglesi. In seguito a questo tragico evento, Giovanna viene mandata a vivere dagli zii in un villaggio vicino. Può sembrare alquanto improbabile che questa giovane ragazza innocente, che non era mai andata a scuola e non sapeva né leggere né scrivere, avrebbe un giorno condotto l'esercito francese alla vittoria sulla grande potenza inglese. Eppure nel maggio del 1428, Giovanna, eliminato ogni dubbio sulla sua chiamata divina in aiuto del re, scende in campo.
Dopo aver lasciato per sempre l'unica casa che avesse mai conosciuto, Giovanna si reca a Chinon per incontrare il Delfino. In un primo momento, il re e i suoi sudditi non sanno cosa pensare delle parole di Giovanna. Informato sulle presunte "visioni" della ragazza, ma nutrendo al tempo stesso dei sospetti sulle sue intenzioni, Carlo incarica il suo migliore arciere, Jean D'Aulon, di prendere il suo posto. Arrivata al castello, Giovanna si accorge dello scambio e lo rivela apertamente, suscitando lo stupore del re che le concede un colloquio privato.
Queste le sue parole a Carlo:
Vi porto notizie dal nostro Dio. Il Signore vi renderà il vostro regno, voi sarete incoronato a Reims e scaccerete i nostri nemici. In questo sono la messaggera di Dio: concedetemi la possibilità e io organizzerò l'assedio della città di Orléans.
Persuaso a credere alle parole di Giovanna, Carlo la mette a capo di un esercito con il quale raggiungere la vittoria sugli inglesi e assicurare la città di Reims per l'incoronazione. Nonostante siano molti a ritenere che la ragazza sia, nella migliore delle ipotesi, un'isterica innocua e, nella peggiore, una vera e propria minaccia non solo al trono, ma alla stessa vita del re, tutti percepiscono in lei un'aurea magica e un'irresistibile capacità di persuasione.
Giovanna si presenta sul campo di battaglia con indosso un'armatura bianca e con un proprio vessillo. L'apparizione impressiona profondamente entrambi gli eserciti, non abituati a vedere una donna impegnata nei combattimenti. Schierata nelle trincee al fianco dei suoi uomini, la Pulzella d'Orléans conduce alla vittoria i francesi, rinvigoriti e ispirati dal loro nuovo comandante. Ma la battaglia non è ancora finita: Giovanna, determinata a sferrare un altro attacco, raduna nuovamente le truppe per liberare per sempre la città di Orléans dalla dominazione inglese. Nonostante il valore con cui viene condotto l'attacco, gli uomini del suo esercito, già esausti, perdono ogni speranza quando la ragazza viene colpita in pieno petto da una freccia. 1 francesi si ritirano e si prendono cura della giovane donna ferita.
Gli eserciti di Francia continuano a trionfare sugli inglesi, sempre più indeboliti, ma, ben presto, alla vista della carneficina causata dai numerosi scontri, Giovanna inizia a provare un profondo rimorso. Sopraffatta dall'entità del massacro, la Pulzella contatta gli inglesi proponendo loro di ritirarsi. Un estratto della lettera inviata da Giovanna al re d'Inghilterra nel 1429 ce la mostra come una paladina della fede:
Sovrano d'Inghilterra, rendete conto delle vostre azioni al Re dei Cieli che vi ha conferito il vostro sangue reale. Restituite le chiavi di tutte quelle care città che avete strappato alla Pulzella. Ella è stata inviata dal Signore per reclamare il sangue reale ed è pronta alla pace se le darete soddisfazione rendendo giustizia e restituendo quanto avete preso.
Sovrano d'Inghilterra, se non agirete in siffatta maniera, io mi porrò a capo dell'esercito e, ovunque sul territorio di Francia trovi i vostri uomini, li costringerò a lasciare il paese, anche contro la loro stessa volontà. Se non dovessero obbedire a questo ordine, allora la Pulzella comanderà che vengano uccisi. Ella è inviata dal Signore dei Cieli per scacciarvi dalla Francia e promette solennemente che se non lascerete la Francia, ella, al comando delle truppe, solleverà un clamore quale non si è mai udito in questo paese da mille e mille anni. E confidate che il Re dei Cieli le ha conferito un potere tale da rendervi incapaci di nuocere a lei o al suo coraggioso esercito.
Come per miracolo l'esercito inglese si ritira. Si tratta di una vittoria sorprendente che consente l'incoronazione di Carlo a Reims.
Una volta incoronato, Carlo VII sembra pienamente soddisfatto. Non altrettanto Giovanna, che decide di continuare a combattere. Le sue truppe, ridottesi ormai da varie migliaia a poche centinaia di uomini, sono stanche e affamate. Aulon la informa che non soltanto Carlo ha abbandonato l'intenzione di fare una guerra, ma sta ordendo dei piani per tradirla. Rinnovando la sua fede in Dio, la giovane si sente obbligata a continuare a combattere con determinazione fino a quando le "voci" non le ordinino altrimenti.
Contro ogni parere, la Pulzella fa volta verso Compiègne dove ha luogo una battaglia durante la quale viene fatta prigioniera dai Borgognoni, un gruppo di mercenari che sostengono gli inglesi. Venduta al suo nemico, Giovanna si risveglia in una cella insieme alla sua Coscienza, che le appare nelle vesti di un misterioso uomo incappucciato. L'uomo incrina la volontà ferrea della giovane e le pone delle domande che la spingono a mettere in dubbio la veridicità delle sue visioni.
Abbandonata da tutti, Giovanna viene accusata di eresia e di stregoneria. Ha quindi inizio il processo per dimostrare che è una strega. Più e più volte le vengono poste domande sulle sue visioni e sulla sua fede nella Chiesa Cattolica. Fra una seduta e l'altra, la giovane conferisce con la Coscienza, che critica la sua fiducia in lui e la sua ingenuità.
Giovanna ne è devastata e comincia a perdere le speranze.

Poco prima che il processo si concluda, viene chiesto alla Pulzella di rinunciare ai suoi intenti passati e di giurare di non indossare più armi o abiti maschili, pena la morte sul rogo. Giovanna acconsente e viene condannata alla prigione a vita. All'ultimo momento, però, la giovane donna si rifiuta di sottomettersi al giudizio di una corte inglese. La sua decisione fa di lei un'eretica impenitente e la destina a morte certa.
Nel maggio del 1431, Giovanna d'Arco venne bruciata sul rogo nella piazza del Mercato Vecchio di Rouen.

Taliesin, il bardo

tratto da: tiscalinet.appuntiericerche

Taliesin 25-05-2012 12.44.25

La Spina e La Rosa: Rita degli Impossibili

Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza.
La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità.
Si racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione.

Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante.

E un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio.

Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo.

Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente.
Frequentava anche la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento.
Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto.

Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie.

I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta.

E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite.
Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito, erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita.

Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre.

La violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia.

Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero.

Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso, si narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro.

Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni.
La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere.

Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione.
La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio.

E in questa fase finale della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile, ma Rita insisté.

Tornata a Roccaporena la parente si recò nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle meravigliate consorelle.
Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli.

Il 22 maggio 1447 Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura.
Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per intercessione della santa.

Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia.
Accanto al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della “Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita.
Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte.

Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò solennemente.

Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino.

Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia, Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra.

Taliesin, il bardo

Taliesin 25-05-2012 13.46.43

La Gemma di Maremma: Pia De' Tolomei

Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
e riposato de la lunga via",
seguitò 'l terzo spirito al secondo,
"Ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria
disposando m'avea con la sua gemma".


(Purgatorio V, 130-136)


E’ una storia d’amore tragica quella di Pia de’Tolomei, sospesa tra fantasia e realtà, della quale oltre alla celebre citazione nel canto del purgatorio della Divina Commedia Dantesca, si trovano molteplici tracce nella secolare tradizione popolare di quelle terre incastonate tra Siena e Maremma che ne vissero le ipotetiche gesta per terminare ai giorni nostri con una appassionata canzone recentemente dedicatale da una sua moderna e roccheggiante concittadina, Gianna Nannini.
Nobildonna Senese, Pia intreccia ben presto il suo destino con quello del bello quanto rude, ma a tratti gentile, signore del Castello di Pietra roccaforte Senese nel cuore della Maremma, Nello di Inghiramo Pannocchieschi, capace condottiero e abile politico spesso impegnato in quelle campagne militari che contraddistinguono l’irrequieto periodo storico che vede contrapposte la Signoria Senese con quella Fiorentina e assiste alle sanguinose lotte tra Guelfi e Ghibellini delle quali anche un giovane Dante fu protagonista.

Il contesto storico all’interno del quale la leggenda nasce e si esaurisce merita un breve approfondimento che risulterà sicuramente superficiale data la complessità politica che contraddistingue questo periodo medievale ma che può contribuire a far comprendere meglio il periodo storico ma anche le zone geografiche direttamente interessate.
La nascita delle fazioni di Guelfi e Ghibellini si ha in Germania nella prima metà del XII secolo quando alla morte di Enrico V e in assenza di eredi diretti si contrapposero la Casa di Baviera e quella dei Duchi di Svevia aventi indirizzi politici assolutamente opposti, la casa di Baviera si schiera a favore dell’ingerenza Papale nella speranza di un sostegno diretto alla propria politica mentre quella di Svevia non accetta tali interferenze nella politica dell’impero.
Il ramo cadetto dei Duchi di Baviera denominato Welfen si scontra quindi con quello dei Waiblingen (nome derivato dal Castello omonimo origine del casato Svevo), ma a prescindere dalla connotazioni politiche le lotte risultarono quasi esclusivamente causate dalla incerta successione dinastica che da una effettiva volontà di legittimare l’interferenza Papale, quello che però a noi interessa è la nascita dei termini noti come Guelfi e Ghibellini che dalle due fazioni sopraelencate trova precisa origine grazie alla trasposizione linguistica dei termini.
Il conflitto tra Chiesa ed impero coinvolge Feudatari e Comuni tesi ad ottenere favori dall’una o dall’altra fazione in caso di supremazia, Firenze in questa situazione si dichiarò Guelfa perché già sostenitrice di Matilde di Canossa e del Papa della scomunica sia per il contrasto con Pisa dichiaratamente Ghibellina, ma la valenza politica degli scontri servì ben presto a giustificare lotte intestine di potere anche all’interno della stessa città tra famiglie e fazioni assetate di potere e di sangue, Siena invece sposa la causa Ghibellina accogliendo tra le sue mura gli esuli Fiorentini di tale fazione e godendo del sostegno dell’impero.
Lo scontro tra le due città si risolse infine a favore della Guelfa Firenze dopo che primato militare Senese trovò la sua massima espressione con la vittoria la battaglia di Monteaperti del 1260, ad iniziare dalla quale prese in via anche il suo declino causato anche dalle conseguenze economiche derivate dalla immediata scomunica Papale inferta ai Senesi, declino che terminerà con la sconfitta di Colle 1269 che sancì la definitiva supremazia Fiorentina sulla Toscana
Le lotte inziate nel 1100 si trascineranno con alterne motivazioni fino ad oltre il 1350 coinvolgendo le città Toscane in battaglie famose quanto sanguinarie come quella di, appunto, Monteaperti, Campaldino in Casentino o Montecatini.


Ma torniamo alla Pia e alla sua leggenda, se sulle sue ipotetiche origini e la sua giovanile esistenza le varie versioni trovano un comune accordo è sulla sua fine che le versioni invece ampiamente discordano e la fantasia si sovrappone alla leggenda in un inestricabile intreccio, sarà comunque il Castello di Pietra a vedere la sua prematura fine.
Non è chiaro infatti se la Nobildonna perita per volere del marito Nello si sia resa colpevole di adulterio tradendolo con un suo amico
durante una delle tante campagne guerriere, e se effettivamente il tradimento si sia consumato oppure la cieca gelosia del Pannocchieschi sia rimasta sorda alla voce della verità influenzata dalla volontà di vendetta dell’amante sdegnosamente respinto, o la sua scomparsa si sia stata richiesta dalla fredda e cinica logica delle alleanze che voleva sposo il Nello ad una esponente di una potente famiglia: Margherita Aldobrandeschi.
La stessa modalità della sua morte risulta controversa, gettata dalla rupe del castello detta “della Contessa” dallo stesso Nello anelante la mano di Margherita, oppure morta di stenti e di malaria rinchiusa nel castello eretto in una terra aspra ed ostile dove la bonifica da paludi e malaria non sarebbe arrivata che tra molti secoli.
Oltre ai luoghi già citati nel complicato intreccio, probabilmente più per errata attribuzione che per effettiva storicità, si inserisce anche un ponte romanico ricostruito in epoca medievale noto appunto con il nome di “Ponte della Pia” e dal quale si narra abbia avuto inizio, con il suo attraversamento, il viaggio di Pia verso la sua ultima e malsana dimora.

Quello che però a questo punto più interessa in questo contesto descrittivo è il suo inserimento in un percorso turistico assolutamente entusiasmante dal punto di vista storico e paesaggistico ma anche da quello meno nobile della guida motociclistica sulle orme della nobile e sfortunata Madonna Senese che prende il suo avvio proprio dalla città dal Palio per raggiungere rapidamente nei pressi di Rosia sulla SS73 i resti del Ponte della Pia per poi incunearsi sinuosa in terra di Maremma fino a Roccastrada da dove si raggiunge la zona di Gavorrano e i ruderi del Castel di Pietra, Maniero di antica datazione prima possesso dei Pannocchieschi e successivamente degli Aldobrandeschi e che ha progressivamente perso importanza ed infine esser abbandonato venuta meno la sua funzione militare.

Abbandonato da tutti meno che dalla eterna leggenda di una triste fanciulla che inseguendo i romantici sogni d’amore giovanile si vide imprigionata dal destino ad una serie di drammatici eventi che ne vedranno la triste e prematura fine ma non la consegna della sua memoria all’oblio e alla dimenticanza.

Taliesin, il bardo

p.s. di Gabriele "Frevax". Grazie a Gabrilele, Ladro di Ombre, amico di perduta memoria campestre

Guisgard 25-05-2012 15.57.42

Taliesin, mio buon bardo, vi sono debitore per averci parlato di una delle donne più straordinarie di ogni tempo.
Il culto di Santa Rita è fortissimo nelle mie terre, dove ella da sempre è stata amica devota, benigna protettrice e pietosa dispensatrice di doni.
Il suo appellativo, ossia Santa degli Impossibili, è dovuto alla grandezza dei suoi interventi, soprattutto in casi disperati, a dimostrazione dell'infinita Carità Cristiana che benedisse il suo cuore.

Taliesin 29-05-2012 09.35.42

Audite Poverelle: Chiara d'Assisi

Chiara nasce nel 1194 da una nobile famiglia d'Assisi, figlia di Favarone di Offreduccio di Bernardino e di Ortolana. La madre, recatasi a pregare alla vigilia del parto nella Cattedrale di San Rufino, sentì una voce che le predisse la nascita della bambina con quest eparole :"Donna non temere, perchè felicemente partorirai una chiara luce che illuminerà il mondo". Per questo motivo la bambina fu chiamata Chiara e battezzata in quella stessa chiesa. Si può senza dubbio affermare che una parte predominante della educazione di questa fanciulla è dovuta alla grande spiritualità che pervadeva l'ambiente familiare di Chiara ed in particolare la figura della madre che fu tra quelle dame che ebbero la grande fortuna di raggiungere la Terra Santa al seguito dei crociati.

L'esperienza della completa rinuncia e delle predicazioni di San Francesco , la fama delle doti che aveva Chiara per i suoi concittadini, fecero sì che queste due grandi personalità s'intendessero perfettamente sul modo di fuggire dal mondo comune e donarsi completamente alla vita contemplativa.

La notte dopo la Domenica delle Palme, il 18 marzo 1212, Chiara, accompagnata da Pacifica di Guelfuccio, si recherà di nascosto alla Porziuncola, dove era attesa da Francesco e dai suoi frati. Qui Francesco la vestì del saio francescano, le tagliò i capelli consacrandola alla penitenza e la condusse presso le suore benedettine di San Paolo a Bastia Umbra, dove il padre inutilmente tentò di persuaderla a far ritorno a casa.

Chiara si rifugiò in seguito, su consiglio di Francesco, nella Chiesetta di San Damiano che divenne la Casa Madre di tutte le sue consorelle chiamate dapprima "Povere Dame recluse di San Damiano" e, dopo la morte di Chiara, Clarisse. Qui visse per quarantadue anni, quasi sempre malata, iniziando alla vita religiosa molte sue amiche e parenti compresa la madre Ortolana e le sorelle Agnese e Beatrice.

Nel 1215 Francesco la nominò badessa e formò una prima regola dell'Ordine che doveva espandersi per tutta Europa. La grande personalità di Chiara non passò inosservata agli alti prelati, tanto che il legato pontificio, Cardinale Ugolino, formulò la prima regola per i successivi monasteri e più tardi le venne concesso il privilegio della povertà con il quale Chiara rinunciava ad ogni tipo di possedimento.

La fermezza di carattere, la dolcezza del suo animo, il modo di governare la sua comunità con la massima carità e avvedutezza, le procurarono la stima dei Papi che vollero persino recarsi a visitarla.

La morte di Francesco e le notizie che alcuni monasteri accettavano possessi e rendite amareggiarono e allarmarono Chiara che sempre più malata volle salvare fino all'ultimo la povertà per il suo convento componendo una Regola simile a quella dei Frati Minori, approvata dal Cardinale Rainaldo (poi papa Alessandro IV) nel 1252 e alla vigilia della sua morte da Innocenzo IV, recatosi a San Damiano per portarle la benedizione e consegnarle la bolla papale che confermava la sua regola; il giorno dopo, 11 agosto 1253, Chiara muore, officiata dal Papa che volle cantare per lei non l'ufficio dei morti, ma quello festivo delle vergini.

Il suo corpo venne sepolto a San Giorgio ed in seguito trasferito nella chiesa che porta il suo nome. Nonostante l'intenzione di Innocenzo IV fosse quella di canonizzarla subito dopo la morte, si giunse alla bolla di canonizzazione nell'autunno del 1255, dopo averne seguito tutte le formalità, per mezzo di Alessandro IV

Taliesin, il bardo

tratto da: Famiglia Cristiana, 1981.

Taliesin 29-05-2012 12.09.53

E diceva parole tanto dolci... : Caterina da Siena

Nasce a Siena nel rione di Fontebranda (oggi Nobile Contrada dell'Oca) il 25 marzo 1347: è la ventiquattresima figlia delle venticinque creature che Jacopo Benincasa, tintore, e Lapa di Puccio de’ Piacenti hanno messo al mondo. Giovanna è la sorella gemella, ma morirà neonata. La famiglia Benincasa, un patronimico, non ancora un cognome, appartiene alla piccola borghesia. Ha solo sei anni quando le appare Gesù vestito maestosamente, da Sommo Pontefice, con tre corone sul capo ed un manto rosso, accanto al quale stanno san Pietro, san Giovanni e san Paolo. Il Papa si trovava, a quel tempo, ad Avignone e la cristianità era minacciata dai movimenti ereticali.

Già a sette anni fece voto di verginità. Preghiere, penitenze e digiuni costellano ormai le sue giornate, dove non c’è più spazio per il gioco. Della precocissima vocazione parla il suo primo biografo, il beato Raimondo da Capua (1330-1399), nella Legeda Maior, confessore di santa Caterina e che divenne superiore generale dell’ordine domenicano; in queste pagine troviamo come la mistica senese abbia intrapreso, fin da bambina, la via della perfezione cristiana: riduce cibo e sonno; abolisce la carne; si nutre di erbe crude, di qualche frutto; utilizza il cilicio...

Proprio ai Domenicani la giovanissima Caterina, che aspirava a conquistare anime a Cristo, si rivolse per rispondere alla impellente chiamata. Ma prima di realizzare la sua aspirazione fu necessario combattere contro le forti reticenze dei genitori che la volevano coniugare. Aveva solo 12 anni, eppure reagì con forza: si tagliò i capelli, si coprì il capo con un velo e si serrò in casa. Risolutivo fu poi ciò che un giorno il padre vide: sorprese una colomba aleggiare sulla figlia in preghiera. Nel 1363 vestì l’abito delle «mantellate» (dal mantello nero sull'abito bianco dei Domenicani); una scelta anomala quella del terz’ordine laicale, al quale aderivano soprattutto donne mature o vedove, che continuavano a vivere nel mondo, ma con l’emissione dei voti di obbedienza, povertà e castità.

Caterina si avvicinò alle letture sacre pur essendo analfabeta: ricevette dal Signore il dono di saper leggere e imparò anche a scrivere, ma usò comunque e spesso il metodo della dettatura.

Al termine del Carnevale del 1367 si compiono le mistiche nozze: da Gesù riceve un anello adorno di rubini. Fra Cristo, il bene amato sopra ogni altro bene, e Caterina viene a stabilirsi un rapporto di intimità particolarissimo e di intensa comunione, tanto da arrivare ad uno scambio fisico di cuore. Cristo, ormai e in tutti i sensi, vive in lei (Gal 2,20).

Ha inizio l’intensa attività caritatevole a vantaggio dei poveri, degli ammalati, dei carcerati e intanto soffre indicibilmente per il mondo, che è in balia della disgregazione e del peccato; l’Europa è pervasa dalle pestilenze, dalle carestie, dalle guerre: «la Francia preda della guerra civile; l’Italia corsa dalle compagnie di ventura e dilaniata dalle lotte intestine; il regno di Napoli travolto dall’incostanza e dalla lussuria della regina Giovanna; Gerusalemme in mano agli infedeli, e i turchi che avanzano in Anatolia mentre i cristiani si facevano guerra tra loro» (F. Cardini, I santi nella storia, San Paolo, Cinisello Balsamo -MI-, 2006, Vol. IV, p. 120). Fame, malattia, corruzione, sofferenze, sopraffazioni, ingiustizie…

Le lettere

Le lettere, che la mistica osa scrivere al Papa in nome di Dio, sono vere e proprie colate di lava, documenti di una realtà che impegna cielo e terra. Lo stile, tutto cateriniano, sgorga da sé, per necessità interiore: sospinge nel divino la realtà contingente, immergendo, con una iridescente e irresistibile forza d’amore, uomini e circostanze nello spazio soprannaturale.

Ecco allora che le sue epistole sono un impasto di prosa e poesia, dove gli appelli alle autorità, sia religiose che civili, sono fermi e intransigenti, ma intrisi di materno sentire: «Delicatissima donna, questo gigante della volontà; dolcissima figlia e sorella, questo rude ammonitore di Pontefici e di re; i rimproveri e le minacce che ella osa fulminare sono compenetrati di affetto inesausto» (G. Papàsogli, Caterina da Siena, Fabbri Editori RCS, Milano 2001, p. 201). Usa espressioni tonanti, invitando alla virilità delle scelte e delle azioni, ma sa essere ugualmente tenerissima, come solo uno spirito muliebre è in grado di palesare.

La poesia di colei che scrive al Papa «Oimé, padre, io muoio di dolore, e non posso morire» è costituita da sublimi altezze e folgoranti illuminazioni divine, ma nel contempo, conoscendo che cosa sia il peccato e dove esso conduca, tocca abissi di indicibile nausea, perché Caterina intinge il pensiero nell’inchiostro della realtà tutta intera, quella fatta di bene e male, di angeli e demoni, di natura e sovranatura, dove il contingente si incontra e si scontra nell’Eterno.

Per la causa di Cristo

Una brulicante «famiglia spirituale», formata da sociae e socii, confessori e segretari, vive intorno a questa madre che pungola, sostiene, invita, con forza e senza posa, alla Causa di Cristo, facendo anche pressioni, come pacificatrice, su casate importanti come i Tolomei, i Malavolti, i Salimbeni, i Bernabò Visconti…

Lotte con il demonio, levitazioni, estasi, bilocazioni, colloqui con Cristo, il desiderio di fusione in Lui e la prima morte di puro amore, quando l’amore ebbe la forza della morte e la sua anima fu liberata dalla carne… per un breve spazio di tempo.

I temi sui quali Caterina pone attenzione sono: la pacificazione dell’Italia, la necessità della crociata, il ritorno della sede pontificia a Roma e la riforma della Chiesa. Passato il periodo della peste a Siena, nel quale non sottrae la sua attenta assistenza, il 1° aprile del 1375, nella chiesa di Santa Cristina, riceve le stimmate incruente. In quello stesso anno cerca di dissuadere i capi delle città di Pisa e Lucca dall’aderire alla Lega antipapale promossa da Firenze che si trovava in urto con i legati pontifici, che avrebbero dovuto preparare il ritorno del Papa a Roma. L’anno seguente partì per Avignone, dove giunse il 18 giugno per incontrare Gregorio XI (1330–1378), il quale, persuaso dall’intrepida Caterina, rientrò nella città di san Pietro il 17 gennaio 1377. L’anno successivo morì il Pontefice e gli successe Urbano VI (1318–1389), ma una parte del collegio cardinalizio gli preferì Roberto di Ginevra, che assunse il nome di Clemente VII (1342– 1394, antipapa), dando inizio al grande scisma d’Occidente, che durò un quarantennio, risolto al Concilio di Costanza (1414-1418) con le dimissioni di Gregorio XII (1326–1417), che precedentemente aveva legittimato il Concilio stesso, e l’elezione di Martino V (1368–1431), nonché con le scomuniche degli antipapi di Avignone (Benedetto XIII, 1328–1423) e di Pisa (Giovanni XXIII, 1370–1419).

All’udienza generale del 24 novembre 2010 Benedetto XVI ha affermato, riferendosi proprio a santa Caterina: «Il secolo in cui visse - il quattordicesimo - fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa e dell’intero tessuto sociale in Italia e in Europa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento».

Amando Gesù («O Pazzo d’amore!»), che descrive come un ponte lanciato tra Cielo e terra, Caterina amava i sacerdoti perché dispensatori, attraverso i Sacramenti e la Parola, della forza salvifica. L’anima di colei che iniziava le sue cocenti e vivificanti lettere con «Io Catarina, serva e schiava de' servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo», raggiunge la beatitudine il 29 aprile 1380, a 33 anni, gli stessi di Cristo, nel quale si era persa per ritrovare l’autentica essenza.

Taliesin, il bardo


Taliesin 29-05-2012 12.35.46

Scito Vias Domini: Ildegarda di Bingen

Ildegarda di Bingen (1098-1176) è una delle poche donne che occupino a buon diritto un posto nella filosofia occidentale prima dell’età contemporanea. Fin da bambina subì fenomeni visionari, legati ad uno stato di salute molto fragile; l’accettazione e l’elaborazione in senso cognitivo di queste esperienze le permisero di produrre un pensiero originale e molto incisivo nella realtà del suo tempo.

Trascorse tutta la sua lunga vita nel contesto monastico: oblata all’età di sette anni presso l’abbazia benedettina di Disibodenberg nella regione del Reno, dove ricevette un’educazione accurata, divenne in seguito maestra delle monache e poi badessa. Distaccandosi dal monastero in cui era cresciuta, creò una fondazione femminile nuova nelle vicinanze, a Rupertsberg e, successivamente, una seconda fondazione ad Eibingen.

A partire dalla fine degli anni ’40 legò la sua opera di scrittura e, nei decenni successivi, di predicazione pubblica all’opera di riforma della chiesa promossa da Bernardo da Chiaravalle; a questo scopo compì numerosi viaggi, allargando il suo raggio d’azione nella Germania centrale e nelle Fiandre. Esercitò la medicina e fu consigliera spirituale non solo di monaci e monache, ma anche di sovrani (fra cui Federico Barbarossa) e potenti laici ed ecclesiastici. Le sue opere principali sono i tre scritti profetici: Liber Scivias (da una contrazione di "Scito vias Domini", "conosci le vie del Signore", 1141-51); il Liber vitae meritorum (Libro dei meriti della vita, 1158-63); e il Liber divinorum operum (Libro delle opere divine 1164-74). L’opera naturalistica invece (Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum, Libro che indaga gli aspetti sottili delle nature diverse delle creature, ca. 1158-70) fu scritta in forma diretta; nei secoli successive venne smembrata in due tronconi: la Physica (Fisica, enciclopedia naturalistica) e Causae et curae (Le cause e le cure, dove le conoscenze fisiologiche e mediche relative al corpo umano sono connesse ai principi cosmologici). Ildegarda compose anche musica su propri testi: una raccolta di liriche ispirate a figure sacre (fra cui spicca Maria, “fiammeggiante aurora”), la Symphonia harmoniae caelestium revelationum (Armonioso concerto delle rivelazioni celesti, ca. 1151-58); e una sacra rappresentazione di contenuto morale, Ordo virtutum (L’ordine delle virtù, la cui prima stesura è contenuta nell’ultima parte del Liber Scivias).

La conoscenza delle opere divine. Nei suoi libri profetici e naturalistici Ildegarda espone idee cosmologiche di grande rilievo e di notevole originalità ed elabora una visione profetica della storia. Il suo approccio alla conoscenza della realtà non segue la modalità scolastica di lettura e commento dei testi, ma si basa sull' esperienza intuitiva di cui essa riferisce il carattere visionario in più luoghi della sua opera. Le visioni sono considerate di origine divina e portatrici di conoscenza nell’ambito della natura, della storia e della vita spirituale umana: i diversi livelli di significato delle visioni (letterale, allegorico, tropologico) sono esposti da Ildegarda in ampie spiegazioni, da lei ricondotte ad una costante ispirazione divina che si serve come tramite del suo “fragile corpo di donna”. La sua esperienza è dunque propriamente profetica, non una mistica unione dell' anima con Dio, ma l' assunzione di un ruolo di intermediaria fra Dio e l’umanità del suo tempo. Il fatto che essa non avesse avuto una formazione scolastica non significa che fosse incolta, ma che era stata educata secondo le linee della cultura monastica, fondata sulla lettura dei libri scritturali e patristici; questo fatto permette di comprendere perché Bernardo da Chiaravalle, venuto a conoscenza delle sue visioni, ne riconobbe subito l’importanza per la propria opera di riforma, in cui si opponeva frontalmente alla nuova cultura delle scuole.

Tuttavia i contenuti della nuova filosofia non erano ignoti ad Ildegarda, che li elaborò in termini originali, sottolineando il carattere creaturale della natura: il valore del mondo e dell’esperienza umana in esso, asserito in termini analoghi a quelli dei filosofi naturalisti del tempo, non si accompagna all’idea dell’autonomia della natura e della ragione umana, ma si radica nella dipendenza del mondo e dell’uomo dal Dio creatore. Nella terza visione dello Scivias Ildegarda presenta un' immagine del cosmo che, se ha alcune affinità con quelle dei filosofi coevi, presenta però anche importanti differenze; fra queste in primo luogo la “forma di uovo” del cosmo ildegardiano, che conferisce realtà fisica al simbolo tradizionale della vita del mondo, presente anche in una fonte importante della cultura delle scuole basata sulle artiliberali, il De nuptiis Mercurii et Philologiae.

Procedendo verso l' interno della struttura incontriamo i vari strati cosmici degli elementi, analoghi a quelli della cosmologia tradizionale ma con due importanti differenze: l’elemento superiore, il fuoco, si sdoppia in un fuoco luminoso e un fuoco nero, per rendere ragione della duplicità delle forze, positive e negative, che s’intersecano nel macrocosmo. Fra queste hanno un ruolo rilevante, oltre naturalmente al sole e ai pianeti della tradizione astronomica, i venti che, convergendo verso il centro, la terra, esercitano la loro funzione primaria nel conferire vita e movimento a questa complessa struttura . Nel Liber divinorom operum (1174) la forma del cosmo, generato nel petto di una figura divina a carattere antropomorfo, è rotonda e, per quanto gli strati successivi siano gli stessi che nell' opera precedente, ciò che ora tiene insieme la struttura sono raggi che s’intersecano unendo la circonferenza con il centro; questo è costituito da una figura umana, che rappresenta il microcosmo.

L’uomo e il suo mondo. Il tema centrale della riflessione cosmologica del XII secolo, la centralità dell'uomo e il suo rapporto con la vita del cosmo, si affermano anche nell' opera di Ildegarda, mostrando che, nonostante questa sia l' epoca in cui la razionalità scientifica comincia a divaricarsi nettamente rispetto alle fonti sapienziali di conoscenza, gli stessi temi di riflessione s' impongono, per quanto diversi siano gli strumenti e i metodi conoscitivi impiegati. Sviluppando un tema presente già nell’antropologia eriugeninana e centrale nelle nuove fonti ermetiche acquisite nel XII secolo, in particolare nell’Asclepius, Ildegarda afferma la superiorità dell’uomo sulle creature spirituali angeliche, perché nella duplice composizione – anima e corpo - che rispecchia la divinità e l’umanità di Cristo, risiede la possibilità che l’umanità ha di collaborare con Dio: con l’opera della creazione, mediante la generazione, che porterà il numero degli uomini a colmare il posto lasciato vuoto dagli angeli ribelli, ricostituendo la pienezza del creato; e con l’opera della salvezza, mediante il perfezionamento morale e spirituale dell’umanità al seguito di Cristo nella storia, che porterà alla piena vittoria sul demonio alla fine dei tempi.

La storia, infatti, è lo svolgimento delle vicende dell’intero creato, dalla caduta dell’angelo ribelle alla vittoria finale sull’Anticristo. In queste vicende (per la cui descrizione Ildegarda utilizza uno schema di ‘età del mondo’ affine a quello di Gioachino da Fiore) la razionalità umana, che ha lo stesso carattere igneo dello Spirito Creatore, ha il compito di riunificare il mondo corporeo e quello spirituale nella vita morale e nella realizzazione della salute, attraverso la conoscenza e l’utilizzazione del mondo naturale: in questo contesto è centrale la nozione di viriditas (che sostantifica il carattere simbolico del colore verde), in cui si esprime la vitalità e fecondità non solo del mondo vegetale, ma anche di quello sensibile e spirituale. All’essere umano è possibile inoltre sperimentare, nell’armonia della voce, l’esperienza immediata dell’unità di anima e corpo, che tende a riprodurre la perfezione dell’umanità prima del peccato originale: nella musica e nel canto la ricomposizione della dualità infatti è già in atto e il fine della vita umana è realizzato: “il corpo attraverso la voce canta con l'anima lodi a Dio”.

Taliesin, il bardo



Bibliografia

Edizioni
Hildegardis abbatisse Opera, Patrologia Latina ac. J.P. Migne, vol. CXVII, Parigi 1895
Hildegardis Scivias, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, vol. 43-43A, Brepols, Turnhout 1991
Hildegardis Liber Vitae Meritorum, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, vol. 90 (1995)
Hildegardis Liber divinorum operum, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, vol. 92 (1996)
Hildegardis Epistolae, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, voll. 91-91A 1\991.93
Vita Sanctae Hildegardis, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, vol. 126 (1993)
Hildegard von Bingen, Causae et curae, ed. P. Kaiser, Leipzig 1903

Traduzioni italiane
Ildegarda di Bingen, Cause e cure delle infermità, a cura di P. Calef, Palermo, 1997
Ildegarda di Bingen, Il centro della ruota. Spiegazione della regola di S. Benedetto, a cura di A. Carlevaris, Milano, 1997
Ildegarda di Bingen, Come per lucido specchio. Libro dei meriti di vita, a c. di L. Ghiringhelli, Milano 1998
Ildegarda di Bingen, Ordo virtutum. Il cammino di Anima verso la salvezza, a c. di M. Tabaglio, Verona 1999
Ildegarda di Bingen, Il libro delle opere divine, a c. di M. Cristiani e M. Pereira, Mondadori, Milano 2003
Ildegarda di Bingen, Cantici spirituali, Demetra edizioni, Milano 1995

Taliesin 30-05-2012 13.01.26

La Vergine del Monte Tauro: Innocenza da Rimini

Il culto della martire Innocenza, è autorevolmente documentato in un periodo antecedente, alla successiva leggendaria letteratura agiografica.
Infatti una Cappella di S. Innocenza o “monasterium”, esistente nel centro religioso di Rimini, vicino al vescovado, viene ricordata già in un documento del 6 maggio 996 (Privilegio di Ottone III al vescovo Uberto) e in una ‘Bolla’ di papa Lucio II del 21 maggio 1144.
Inoltre nel secolo XIV si riteneva che vi fosse sepolta la santa martire e gli “Statuti” locali, prescrivevano che nel giorno della sua festa il 16 settembre, si facesse l’offerta di un pallio; ma nei secoli successivi si ebbe qualche dubbio sull’esistenza della tomba o arca di s. Innocenza; a volte indicata nella cattedrale o nella chiesa di S. Gaudenzio, ma soprattutto nella sua chiesa, ricostruita nel 1477, divenuta parrocchia fino al 1797 e poi cappella del Seminario vescovile.

Altri documenti del 1059 e del 1144, ricordano un altro insigne monumento al culto di Rimini per santa Innocenza, che è la Pieve di S. Innocenza sul Monte Tauro a ca. otto miglia dalla città, senz’altro anteriore all’XI secolo.

Seconda una tradizione tramandata dagli storici locali del Cinquecento, la chiesa urbana di S. Innocenza, sarebbe stata costruita sulla sua casa natale, dallo stesso vescovo s. Gaudenzio nel IV secolo; mentre la Pieve sul Monte Tauro, sarebbe stata costruita sulle terre del contado del castello dove abitava.

La ‘Vita’ racconta che l’imperatore Diocleziano (243-313), durante una sua spedizione contro gli Ungari o altro popolo del Nord, passando da Rimini, sentì parlare di questa nobile, bella e ricca fanciulla di diciassette anni, come una fiera e fervente cristiana e quindi mandò i suoi soldati a prelevarla dal castello di Monte Tauro, insieme ad un’ancella.
Portata alla sua presenza, l’imperatore tentò senza successo, di farla apostatare e alla fine la fece uccidere a Rimini un 16 settembre forse del 303, anno in cui emanò l’editto di persecuzione contro i cristiani.

Quello che è certo, è che il culto per s. Innocenza è anteriore al 1000 e che a Rimini si sono sempre venerate le reliquie di una santa martire con questo nome.
L’esistenza nelle città di Ravenna e Vicenza di un culto per s. Innocenza, ha fatto creare un po’ di confusione; si tratta di una sola s. Innocenza, cioè quella di Rimini, oppure come sembra plausibile di altre due sante omonime?.

Bisogna aggiungere che s. Innocenza potrebbe anche non essere una martire ma solo una vergine riminese, magari fondatrice o donatrice di qualche complesso monumentale, adatto alla vita monastica femminile, volendo ricordare che la sua chiesetta è chiamata nei testi più antichi “monasterium”.

Per a tutti quegli Umini e quelle Donne che nella disperazione di questi giorni, lottano contro ogni elemento e contro gni avversità...

Taliesin, il bardo

tratto da: “Della storia civile e sacra riminese” di L. Tonini, Rimini, 1856.

Guisgard 19-06-2012 18.43.19

Taliesin, il poco tempo a disposizione mi aveva impedito di leggere i nuovi sviluppi di questo vostro notevole lavoro.
Davvero intensi i meravigliosi ritratti che ci avete mostrato di queste grandi donne.
Vi sono poi debitore e riconoscente perchè tra queste straordinarie figure avete narrato di una Santa e di una donna a me molto cara.
Grazie, amico mio :smile:

Taliesin 20-06-2012 08.50.23

LA MISTICA DELL'OGNIBENE: ANGELA DA FOLIGNO

La data di nascita non si conosce (molti, non si sa perché, indicano il 1248), mentre è certo che è morta il 4 gennaio 1309.
Verso il 1291, aderì al "Terzo Ordine Francescano", ora denominato "Ordine Francescano Secolare".


La sua "conversione", nel Sacramento della Penitenza, celebrato nella Chiesa Cattedrale di San Feliciano, a Foligno, era avvenuta, come comunemente si afferma, verso il 1285, dopo una vita cristiana mediocre e anche segnata dal peccato.
Angela, in quel periodo, era già sposata, aveva dei figli e viveva insieme a sua madre.
Successivamente, in breve tempo, perse tutti i famigliari e cominciò il cammino di "penitenza", che la spinse a liberarsi di tutti i beni, a fare vita comune in casa sua con una certa Masazuola e a professare la Regola del Terzo Ordine.

Al termine di un pellegrinaggio comunitario ad Assisi, poco dopo l'adesione al movimento francescano, uscì in grida rivolte all'"Amore", sulla soglia della Chiesa Superiore di San Francesco: si concludeva, così, una lunghissima, mirabile esperienza mistica.
Questo evento clamoroso assisano, a cui assistettero in molti, fu all'origine del singolare colloquio, che durò quasi sei anni, con un Frate Minore, parente e confessore di Angela, del cui nome si conosce solo la lettera iniziale A.

Il "Memoriale", che riporta le confidenze della Folignate e le annotazioni di Frate A., preceduto da un "Prologo", è la prima parte di quell'opera singolare, a cui si è soliti dare il titolo "Il libro della beata Angela da Foligno".
Esso contiene anche "Documenti", che testimoniano l'esistenza di una piccola cerchia di discepoli della Poverella di Foligno: lettere, discorsi, pensieri, relazioni su esperienze mistiche successive alla chiusura del "Memoriale", la notizia della morte di Angela e un singolare "Epilogo".
Dal "Libro" si possono individuare tutte le tappe fondamentali del cammino ascetico e dell'itinerario mistico della Folignate.
Le reliquie della Beata sono conservate nella Chiesa di San Francesco, retta dai Frati Minori Conventuali di Foligno.


Taliesin, il bardo

tratto da: www.beataangela.it

p.s. dedicato alla terra di meraviglie del Cavaliere dell'Intelletto, cullata da una rarissima spiritualità che avvolge i campi di grano, le bianche chiesette di confine, le dirute mura delle orgogliose cittadelle, racchiusa tra il regno degli Etruschi ed il mare dei Tirreni.

Taliesin 20-06-2012 09.20.05

IL CUORE DELLA PASSIONE: CHIARA DA MONTEFALCO

Seconda figlia di Damiano e di Giacoma, Chiara nacque a Montefalco, in provincia di Perugia, nel 1268. Presa d'amor divino, fin dall'età di quattro anni mostrò una così forte inclinazione all'esercizio della preghiera da trascorrere intere ore immersa nell'orazione, ritirata nei luoghi più riposti della casa paterna. Sin da allora ella ebbe anche una profonda devozione per la Passione di Nostro Signore e la sola vista di un Crocifisso era per lei come un monito di continua mortificazione, a cui si abbandonava volentieri infliggendo al corpo innocente le più dure macerazioni con dolorosi cilizi, tanto che sembrava quasi incredibile che una bimba di sei anni potesse avere non già il pensiero, ma la forza di sopportarne il tormento.

Consacratasi interamente a Dio, Chiara volle seguire l'esempio della sorella Giovanna, chiedendo di entrare nel locale reclusorio, dove fu accolta nel 1275. La santità della piccola e le elette virtù di Giovanna fecero accorrere nel reclusorio di Montefalco sempre nuove aspiranti, per cui ben presto si dovette intraprendere la costruzione di uno più grande, che, cominciata nel 1282, si protrasse per otto anni tra opposizioni, contrasti e difficoltà di varia natura. A causa delle ristrettezze finanziarie, per qualche tempo durante i lavori Chiara fu incaricata anche di andare alla questua. Nel 1290, allorché il nuovo reclusorio fu terminato, si pensò che sarebbe stato più opportuno fosse eretto in monastero, affinché la comunità potesse entrare a far parte di qualche religione approvata. Giovanna ne interessò il vescovo Gerardo Artesino, che, con decreto del 10 giugno 1290, riconobbe la nuova famiglia religiosa, dando ad essa la regola di s. Agostino e autorizzando in pari tempo l'accettazione di novizie. Il novello monastero fu chiamato "della Croce", su proposta della stessa Giovanna, che ne venne subito eletta badessa.

Alla morte della sorella (22 novembre 1291), Chiara fu chiamata immediatamente a succederle nella carica, contro la sua volontà e nonostante la giovane età. Durante il suo governo, che esercitò sempre con illuminata fermezza, seppe tenere sempre vivo nella comunità, con la parola e con l'esempio, un gran desiderio di perfezione. Ebbe da Dio singolari grazie mistiche, come visioni ed estasi, e doni soprannaturali che profuse dentro e fuori il monastero, venendo,- inoltre, favorita dal Signore col dono della scienza infusa, per cui poté offrire dotte soluzioni alle più ardue questioni propostele da teologi, filosofi e letterati.
Alla sua pronta azione, si deve poi la scoperta e l'eliminazione, tra la fine del 1306 e gli inizi del 1307, di una setta eretica chiamata dello "Spirito di libertà", che andava diffondendo per tutta l'Umbria errori quietistici.

Tanta era la fama di sé e delle sue virtù suscitata in vita da Chiara che subito dopo la morte, avvenuta nel suo monastero della Croce in Montefalco il 17 agosto 1308, fu venerata come santa.

Una tradizione leggendaria, fondata su una accesa pietà e su una ingenua nozione dell'anatomia, riferisce che nel cuore di Chiara, di eccezionali dimensioni, si credette di scorgere i simboli della Passione: il Crocifisso, il flagello, la colonna, la corona di spine, i tre chiodi e la lancia, la canna con la spugna. Inoltre nella cistifellea della santa si sarebbero riconosciuti tre globi di uguali dimensioni, peso e colore, disposti in forma di triangolo, come un simbolo della Santissima Trinità.

Erano trascorsi solo dieci mesi dalla morte di Chiara, quando il vescovo di Spoleto, Pietro Paolo Trinci, ordinò il 18 giugno 1309 di iniziare il processo informativo sulla sua vita e sulle virtù; poiché, però, avvenivano sempre nuovi miracoli e aumentava la devozione per la pia suora di Montefalco, molti fecero viva istanza presso la Santa Sede per la canonizzazione di Chiara; procuratore della causa fu Berengario di S. Africano, che a tal fine si recò nel 1316 ad Avignone da Giovanni XXII, il quale deputò il cardinale Napoleone Orsini, legato a Perugia, a informarsi e riferire.

Il nuovo processo, cominciato il 6 settembre 1318 e dal quale sarebbe dipesa certamente la canonizzazione di Chiara, per cause del tutto esterne non poté tuttavia aver seguito. Fu solo nel 1624 che Urbano VIII concesse, dapprima all'Ordine (14 agosto), poi alla diocesi di Spoleto (28 settembre), di recitare l'Ufficio e la Messa con preghiera propria in onore di Chiara, il cui nome Clemente X fece inserire, il 19 aprile 1673, nel Martirologio Romano. Nel 1736, Clemente XII ordinò la ripresa della causa e l'anno seguente la S. Congregazione dei Riti approvò il culto ab immemorabili; nel 1738, fu istruito il nuovo processo apostolico sulle virtù e i miracoli, ratificato dalla S. Congregazione dei Riti il 17 settembre 1743. In tal modo si poteva procedere all'approvazione delle virtù eroiche, che si ebbe, tuttavia, solo un secolo più tardi, dopo un ulteriore processo apostolico, incominciato il 22 ottobre 1850, conclusosi il 21 novembre 1851 e approvato dalla S. Congregazione dei Riti il 25 settembre 1852; solo l'8 dicembre 1881, però, la beata Chiara da Montefalco fu solennemente canonizzata da Leone XIII.

Il 17 agosto si commemora la santa, mentre il 30 ottobre si celebra la festa "Impressio Crucifixi in corde s. Clarae".

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it autore Nicolò De Re.

Taliesin 20-06-2012 09.52.10

LA SANTUZZA DI SICILIA: ROSALIA DA PALERMO

In Sicilia vi è un intensissimo culto per tre giovani sante vergini, Lucia di Siracusa, Agata patrona di Catania e Rosalia patrona di Palermo. Il loro culto si è diffuso in tutti Paesi in cui sono arrivate le schiere di emigrati siciliani, che hanno portato con loro il ricordo struggente della natia Isola e delle loro tradizioni, unitamente al culto sincero e profondo per le tre sante siciliane.

Ma se s. Lucia di Siracusa († 304) e s. Agata di Catania († 250 ca.) furono martirizzate durante le persecuzioni contro i primi cristiani, s. Rosalia è una vergine non martire, vissuta molti secoli dopo e divenuta patrona di Palermo nel 1666 con culto ufficiale esteso a tutta la Sicilia.

Ciò nonostante la “Santuzza”, come affettuosamente viene chiamata dai palermitani, si affermò come una delle sante più conosciute e venerate nella cristianità siciliana e in particolare in quella palermitana; ancora oggi in qualsiasi parte del mondo s’incontrino i palermitani, si scambiano il saluto “Viva Palermo e santa Rosalia!”.

Purtroppo sulla sua vita vi sono poche notizie in parte leggendarie, ma piace considerare con lo scrittore fiorentino Piero Bargellini che: “È ben vero che le leggende sono come il vilucchio (pianta rampicante) attorno al fusto della pianta; la pianta già c’era prima che il vilucchio l’avvolgesse. Così la santità già esisteva, prima che la leggenda la rivestisse con i suoi fantastici fiori”.
E questo vale per tutti i santi che in tanti secoli e luoghi, hanno donato la loro vita, spesso patendo il martirio, sono rimasti ignorati a volte anche per lungo tempo, finché la loro esistenza, il loro sacrificio, le loro virtù eroiche non sono pervenuti a conoscenza del popolo di Dio e della Chiesa.

È il caso di s. Rosalia che nacque a Palermo nel XII secolo e, secondo antichi libri liturgici, morì il 4 settembre del 1160 a 35 anni.

La leggenda dice che era figlia del Duca Sinibaldo, feudatario, signore di Quisquinia e delle Rose, località ubicate fra Bivona e Frizzi, nel Palermitano, e di Maria Guiscarda, cugina del re normanno Ruggero II; giovanissima fu chiamata nel Palazzo dei Normanni, alla corte della regina Margherita, moglie di Guglielmo I di Sicilia (1154-1166); la sua bellezza attirava l’ammirazione dei nobili cavalieri; il più assiduo pretendente, sempre secondo la tradizione popolare, si vuole che fosse Baldovino, futuro re di Gerusalemme.

Rosalia visse in quel felice periodo di rinnovamento cristiano-cattolico, che i re Normanni ristabilirono in Sicilia, dopo aver scacciato gli Arabi che se n’erano impadroniti dall’827 al 1072; favorendo il diffondersi di monasteri Basiliani nella Sicilia Orientale e Benedettini in quella Occidentale; apprezzando inoltre l’opera religiosa e monastica del certosino s. Brunone e del cistercense s. Bernardo di Chiaravalle.
In quest’atmosfera di fervore e rinnovamento religioso, s’inserì la vocazione eremitica della giovane nobile Rosalia; bisogna dire che in quel tempo l’eremitismo era fiorente in quei secoli, sia nel campo maschile sia in quello femminile.

Seguendo l’esempio degli anacoreti, che lasciati gli agi e la vita attiva si ritiravano in una grotta o in una cella, di solito nei dintorni di una chiesa o di un convento, così da poter partecipare alle funzioni liturgiche e avere nel contempo un’assistenza religiosa dai vicini monaci; così Rosalia si ritirò in una grotta del feudo paterno di Quisquinia a circa 20 km. da Palermo sulle Madonie, vicina a dei Benedettini.
Da lì la giovane eremita, dopo un periodo di penitenza non definito, si trasferì in una grotta sul Monte Pellegrino, stupendo promontorio palermitano; accanto ad una preesistente chiesetta bizantina, in una cella costruita sopra il pozzo tuttora esistente.
Anche qui nei dintorni, i Benedettini avevano un convento e poterono seguire ed essere testimoni della vita eremitica e contemplativa di Rosalia, che visse in preghiera, solitudine e mortificazioni; molti palermitani, salivano il monte attratti dalla sua fama di santità.

Secondo la tradizione morì il 4 settembre, che si presume, dell’anno 1160. In seguito fu oggetto di culto con l’edificazione di chiese a lei dedicate in varie zone siciliane, oltre la cappella già sul Monte Pellegrino e riprodotta in immagine nella cattedrale di Palermo e di Monreale; una chiesa sorse lontano, a Rivello (Potenza) nella diocesi di Policastro.
Ma all’inizio del 1600 il suo culto era talmente scaduto al punto che non veniva più invocata nelle litanie dei santi patroni di Palermo; ciò non esclude comunque un culto ininterrotto anche se di tono minore, durato nei quattro secoli e mezzo, che vanno dalla sua morte al 1600.
Sul Monte Pellegrino fino al primo Cinquecento erano vissuti i cosiddetti “romiti di s. Rosalia” dimoranti in alcune grotte vicine a quella, dove per tradizione era vissuta e morta la giovane eremita.

Verso la metà del sec. XVI, il viceré Giovanni Medina, fece costruire per l’”Ordine Francescano Riformato di Santa Rosalia e del Monte Pellegrino”, un convento accanto alla grotta adattata a chiesa. Ad ogni modo studiosi agiografi hanno trovato documenti che testimoniano, che già nel 1196 e decenni successivi, l’eremita veniva chiamata “Santa Rosalia”.

E arriviamo al 26 maggio 1624, quando una donna (Girolama Gatto) ridotta in fin di vita, vide in sogno una fanciulla vestita di bianco, che le prometteva la guarigione se avesse fatto voto di salire sul Monte Pellegrino per ringraziarla.
La donna salì sul monte con due amiche, era di nuovo in preda alla febbre quartana, ma appena bevve l’acqua che gocciola dalla grotta, si sentì guarita, cadendo in un riposante torpore e qui le riapparve la giovane vestita di bianco, ravvisata come in s. Rosalia, che le indicò il posto dove erano sepolte le sue reliquie.

La cosa venne riferita ai frati eremiti francescani del vicino convento, i quali già nel Cinquecento con il loro superiore s. Benedetto il Moro (1526-1589), avevano tentato di trovare le reliquie senza riuscirvi, quindi ripresero le ricerche, aiutati da tre fedeli, finché il 15 luglio 1624 a quattro metri di profondità, trovarono un masso lungo sei palmi e largo tre, a cui aderivano delle ossa.
Per ordine del cardinale arcivescovo di Palermo Giannettino Doria, il masso fu trasferito in città nella sua cappella privata, dove fu esaminato con i resti trovati, da teologi e medici; il risultato fu deludente, avendo convenuto che le ossa potevano appartenere a più corpi e poi nessuno dei tre teschi trovati, sembrava appartenere ad una donna.
Il cardinale non convinto, nominò una seconda commissione; intanto Palermo fu colpita dalla peste nell’estate del 1624 mietendo migliaia di vittime (la stessa epidemia che colpì Milano e descritta dal Manzoni nei ‘Promessi sposi’). Il cardinale radunò nella cattedrale popolo e autorità e tutti insieme chiesero aiuto alla Madonna, facendo voto di difendere il privilegio dell’Immacolata Concezione di Maria, che era argomento contrastante nella Chiesa di allora e nel contempo di dichiarare s. Rosalia patrona principale di Palermo, venerando le sue reliquie, quando si sarebbero riconosciute.

A tutto ciò si aggiunge la scoperta di due muratori palermitani, che lavorando nel convento dei Domenicani di S. Stefano, trovarono in una grotta di Quisquinia, il 25 aprile 1624, un’iscrizione latina a tutti ignota, che si credette incisa dalla stessa s. Rosalia, quando vi aveva abitato e che diceva: “Io Rosalia, figlia di Sinibaldo, signore della Quisquina e (del Monte) delle Rose, per amore del Signore mio Gesù Cristo, stabilii di abitare in questa grotta”; che confermava il precedente eremitaggio, seguito poi da quello sul Monte Pellegrino.

L’11 febbraio 1625 la nuova commissione, stabilì che le ossa erano di una sola persona chiaramente femminile, dei tre crani, si scoprì che due erano un orciolo di terracotta e un ciottolone, mentre il terzo che sembrava molto grande, era invece ingrossato da depositi calcarei, che una volta tolti rivelarono un cranio femminile; anche la prima commissione ne riesaminò i resti e concordò con il risultato della seconda commissione.

A ciò si aggiunse un prodigio, un uomo Vincenzo Bonelli essendogli morta la moglie di peste e non avendolo denunziato, fuggì sul Monte Pellegrino e qui gli apparve la “Santuzza” predicendogli la morte per peste e ingiungendogli, se voleva la sua protezione per l’anima, di dire al cardinale che non dubitasse più dell’autenticità delle reliquie e le portasse in processione per la città, solo così la peste sarebbe finita.
Tornato in città, effettivamente si ammalò di peste e prima di morire confessò ciò che gli era stato rivelato. Il 9 giugno del 1625, l’urna costruita apposta per le reliquie, fu portata in processione con la partecipazione di tutta la popolazione e con grande solennità; la peste cominciò a regredire e il 15 luglio quando si fece il pellegrinaggio sul Monte Pellegrino, nell’anniversario del ritrovamento delle reliquie, non comparve più nessun caso di appestato.
Il cardinale fece costruire nella cattedrale un magnifico altare, dove venne sistemata la fastosa urna d’argento massiccio con le reliquie della santa, il cui nome fu per tradizione interpretato come composto da ‘rosa’ e ‘lilia’, rosa e gigli, simboli di purezza e di unione mistica; per questo la ‘Santuzza’ è rappresentata con il capo cinto di rose.

Da quel 1625 il culto fu autorizzato e rinverdito dalla Chiesa palermitana per la vergine eremita orante e contemplante sul Monte Pellegrino, quale testimonianza di eccezionale ascesi cristiana, che nei secoli non è stato mai dimenticata dal popolo palermitano. Da 350 anni i pellegrini salgono sul monte, definito da Goethe nel suo ‘Viaggio in Italia’, il promontorio più bello del mondo.

Si saliva a piedi faticosamente, finché il Senato palermitano fece costruire nel 1725 un’ardita strada fra pini ed eucalipti. Palermo ha sempre onorato s. Rosalia, secondo le due festività stabilite nel 1630 da papa Urbano VIII, che le inserì nel ‘Martirologio Romano’, cioè il 15 luglio anniversario del ritrovamento delle reliquie e il 4 settembre giorno della morte della ‘Santuzza’; le feste specie quella di luglio durano una settimana, con la partecipazione di tutto il popolo e di tanti emigranti che ritornano per l’occasione.

La statua della ‘Santuzza’ circondata da altre statue, troneggia sulla cima della cosiddetta ‘macchina’ che è un carro a forma di nave, sul quale vi è anche una banda musicale, che viene trasportato per la città, il tutto viene chiamato “U Fistinu”.

La seconda festa del 4 settembre si svolge come un pellegrinaggio al santuario sul Monte Pellegrino, dove conglobando la grotta, si costruì un Santuario, la cui pittoresca facciata risale al XVII secolo, all’interno si sono accumulate tante opere d’arte dei vari secoli successivi; una parte è ancora a cielo aperto, le pareti sono coperte di ex voto e lapidi lasciate da illustri visitatori.
Una cancellata divide questa prima parte del santuario, dalla grotta nella quale sono presenti altari e opere d’arte singolari, che ricordano la presenza della santa; di fronte al luogo dove furono trovate le reliquie della ‘Santuzza’ sorge lo stupendo altare coperto da un baldacchino, con un sontuoso tabernacolo sormontato da una statua d’argento della santa, donati dal Senato di Palermo nel 1667. Sotto l’altare si venera la statua del 1625, che rappresenta s. Rosalia giacente in atto di esalare l’ultimo respiro e che fu rivestita d’oro per disposizione del re Carlo III di Borbone (1716-1788).

Alla grotta sul monte, insieme agli anonimi pellegrini, salirono a venerare la santa eremita, anche tanti illustri visitatori; autorità ecclesiastiche, principi, re, imperatori, letterati, poeti, musicisti, artisti.

Le reliquie deposte nell’artistica e massiccia urna d’argento, sono conservate nel Duomo di Palermo.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it di Antonio Borrelli

p.s. dedicato alla terra di meraviglie, di Milady Elisabeth, che ha cullato le grandi civiltà del mondo antico e moderno, sospesa tra il profumo di petali di rose e ghirlande di agrumi, di genti genuine che di torri si coronano il capo, di letteratura e poesia scondinata all'ombra di sospirosi cipressi...

Taliesin 20-06-2012 10.06.45

LA SIGNORA DI TURINGIA: ELISABETTA D'UNGHERIA

A quattro anni di età è già fidanzata. Suo padre, il re Andrea II d’Ungheria e la regina Gertrude sua madre l’hanno promessa in sposa a Ludovico, figlio ed erede del sovrano di Turingia (all’epoca, questa regione tedesca è una signoria indipendente, il cui sovrano ha il titolo di Landgraf, langravio). E subito viene condotta nel regno del futuro marito, per vivere e crescere lì, tra la città di Marburgo e Wartburg il castello presso Eisenach.

Nel 1217 muore il langravio``di Turingia, Ermanno I. Muore scomunicato per i contrasti politici con l’arcivescovo di Magonza, che è anche signore laico, principe dell’Impero. Gli succede il figlio Ludovico, che nel 1221 sposa solennemente la quattordicenne Elisabetta. Ora i sovrani sono loro due. Lei viene chiamata “Elisabetta di Turingia”. Nel 1222 nasce il loro primo figlio, Ermanno. Seguono due bambine: nel 1224 Sofia e nel 1227 Gertrude. Ma quest’ultima viene al mondo già orfana di padre.

Ludovico di Turingia si è adoperato per organizzare la sesta crociata in Terrasanta , perché papa Onorio III gli ha promesso di liberarlo dalle intromissioni dell’arcivescovo di Magonza. Parte al comando dell’imperatore Federico II.``Ma non vedrà la Palestina: lo uccide un male contagioso a Otranto.

Vedova a vent’anni con tre figli, Elisabetta riceve indietro la dote, e c’è chi fa progetti per lei: può risposarsi, a quell’età , oppure entrare in un monastero come altre regine , per viverci da regina, o anche da penitente in preghiera , a scelta. Questo le suggerisce il confessore. Ma lei dà retta a voci francescane che si fanno sentire in Turingia , per dire da che parte si può trovare la “perfetta letizia”. E per i poveri offre il denaro della sua dote (si costruirà un ospedale). Ma soprattutto ai poveri offre l’intera sua vita. Questo per lei è realizzarsi: facendosi come loro. Visita gli ammalati due volte al giorno, e poi raccoglie aiuti facendosi mendicante. E tutto questo rimanendo nella sua condizione di vedova, di laica.

Dopo la sua morte, il confessore rivelerà che, ancora vivente il marito, lei si dedicava ai malati, anche a quelli ripugnanti: "Nutrì alcuni, ad altri procurò un letto, altri portò sulle proprie spalle, prodigandosi sempre, senza mettersi tuttavia in contrasto con suo marito".

Collocava la sua dedizione in una cornice di normalità, che includeva anche piccoli gesti “esteriori”, ispirati non a semplice benevolenza, ma a rispetto vero per gli “inferiori”: come il farsi dare del tu dalle donne di servizio. Ed era poi attenta a non eccedere con le penitenze personali ,che potessero indebolirla e renderla meno pronta all’aiuto. Vive da povera e da povera si ammala, rinunciando pure al ritorno in Ungheria, come vorrebbero i suoi genitori, re e regina.

Muore in Marburgo a 24 anni, subito “gridata santa” da molte voci, che inducono papa Gregorio IX a ordinare l’inchiesta``sui prodigi che le si attribuiscono. Un lavoro reso difficile da complicazioni anche tragiche: muore assassinato il confessore di lei; l’arcivescovo di Magonza cerca di sabotare le indagini. Ma Roma le fa riprendere.

E si arriva alla canonizzazione nel 1235 sempre a opera di papa Gregorio. I suoi resti, trafugati da Marburgo durante i conflitti al tempo della Riforma protestante, sono ora custoditi in parte a Vienna. E’ compatrona dell’Ordine Francescano secolare assieme a S. Ludovico.


Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it di Domenico Agasso

Taliesin 20-06-2012 12.20.31

MARIA, MATER GRATIAE: ELISABETTA DEL PORTOGALLO

Elisabetta nacque a Saragozza (Spagna) nel 1271 da Pietro III d'Aragona, e da Costanza, figlia di Manfredi, successo al padre, l'imperatore Federico II, nel regno di Sicilia. Al fonte battesimale le fu imposto il nome della santa prozia, regina d'Ungheria. Dopo la sua nascita si riconciliarono tra loro il padre e il nonno, Giacomo I il Conquistatore che, fino alla morte (1276), volle prendersi cura della educazione di lei. A otto anni, Elisabetta aveva già imparato a recitare ogni giorno l'ufficio divino, a soccorrere i poveri e a praticare rigorosi digiuni. La sua infanzia fu di corta durata perché, a dodici anni fu data in sposa a Dionisio il Liberale, re di Portogallo, fondatore dell'università di Coimbra e dell'ordine del Cristo.

Alla corte della casa reale di Portogallo, Elisabetta non tralasciò le buone abitudini prese pur non trascurando i nuovi doveri di regina e di sposa. Continuò a levarsi di buon mattino per andare in cappella ad ascoltare la Messa in ginocchio, fare sovente la comunione, e dire l'ufficio della SS. Vergine e dei morti. Dopo pranzo ritornava in cappella per terminare l'ufficio divino, fare letture spirituali e abbandonarsi a svariate orazioni tra un profluvio di lacrime. Il tempo libero lo impegnava a confezionare suppellettili per le chiese povere, con l'aiuto delle dame di corte.

A queste buone opere altre ne aggiunse di mano in mano che veniva a conoscenza delle pubbliche necessità. Non ci furono difatti chiese, ospedali o monasteri alla cui costruzione ella non contribuisse con regale generosità. Alcuni ne fece costruire, ella stessa, a Santarém e a Coimbra.
La sua ultima fondazione fu una cappella in onore della SS. Vergine nel convento della Trinità, a Lisbona. Essa fu il primo santuario in cui si sia venerata l'Immacolata Concezione. Prima di morire volle pure istituire una confraternita intitolata alla SS. Trinità.

Perché il suo spirito fosse sempre pronto alla contemplazione, Elisabetta digiunava abitualmente tre volte alla settimana, tutta la quaresima, tutto l'avvento e dalla festa di S. Giovanni Battista all'Assunta. I venerdì e i sabati che precedevano le feste della SS. Vergine si cibava soltanto di pane e acqua. Nella sua sete di penitenza, ella si sarebbe data ad altre austerità, se il marito glielo avesse permesso. I medici le ordinarono, per un certo tempo almeno, di abbandonare le mortificazione di gola, ma ella continuò a bere dell'acqua. Un giorno però Iddio intervenne a favore dei discepoli di Esculapio, mutando in vino una brocca d'acqua che le era stata portata.

Anche la carità di Elisabetta per i poveri e i nobili decaduti fu incomparabile. Al suo elemosiniere aveva dato ordine di non mandare mai via nessun bisognoso a mani vuote. Ella fece inviare dei viveri a monasteri poveri e a regioni colpite dalle avversità; protesse gli orfani; soccorse le giovani pericolanti; tutti i venerdì di quaresima, dopo aver lavato e baciato i piedi a tredici poveri, li faceva vestire di abiti nuovi; il giovedì santo compiva la medesima opera buona a favore di tredici donne. A contatto delle sue mani e delle sue labbra, una malata guarì da una piaga al piede e uno storpio lebbroso, da entrambe le infermità.

Nel 1290 Elisabetta diede alla luce una figlia, Costanza, che in seguito fu maritata a Ferdinando IV di Castiglia. L'anno dopo partorì l'erede al trono, Alfonso IV il Valoroso. Per la sua famiglia Elisabetta fu un vero angelo tutelare. Ella non si accontentò di dare dei buoni consigli ai figli, ma esortò anche il marito a governare i sudditi con giustizia e mitezza senza dare ascolto ai vani discorsi degli adulatori o ai falsi rapporti degli invidiosi. Tuttavia, dopo qualche anno passato nella concordia e nella più dolce intimità con lui, Dio permise che cominciasse, per Elisabetta, un vero calvario a causa degli illeciti amori ai quali il re, a poco a poco, si abbandonò. Elisabetta se ne afflisse più per l'offesa fatta a Dio che per l'affronto fatto a lei. Con dolcezza cercò di ricondurlo sul retto cammino e, senza uscire in amari lamenti, spinse il suo eroismo fino a curare l'educazione dei figli naturali di lui come se fossero propri. La nobiltà, temendo che i bastardi del re acquistassero troppo ascendente nel paese, eccitarono alla rivolta il figlio ereditario. Alfonso prese difatti le armi contro il padre, con immenso dolore di Elisabetta, la quale si schierò dalla parte del sovrano e cercò ripetutamente di rappacificare i due avversari. Siccome erano sordi alle sue esortazioni, ella moltiplicò le preghiere, i digiuni e anche le lettere di rimprovero al figlio.

Ciononostante cortigiani mal intenzionati giunsero a far credere al re che la sua consorte aiutava segretamente il figlio ribelle. La calunnia fu creduta dal sovrano, il quale privò Elisabetta della signoria di Leiria, che le apparteneva e la confinò nella fortezza di Alemquer. Parecchi grandi del regno andarono ad offrirle i loro servigi, ma la Santa preferì affidarsi alle mani della divina Provvidenza anziché permettere di venire reintegrata nei suoi diritti con le armi. Il re riconobbe al fine il suo torto, richiamò Elisabetta e le diede in appannaggio la città di Torres-Vedras.

La regina continuò ad adoperarsi affinchè nella sua famiglia ritornasse la pace. Al tempo dell'assedio di Coimbra (1319), da parte di suo figlio, la madre si portò a cavallo in mezzo ai soldati delle opposte fazioni, con un crocifisso in mano, e riuscì a riconciliare padre e figlio. La guerra ricominciò più violenta poco tempo dopo a Lisbona. Elisabetta, che preferiva la pace a tutto l'oro del mondo, montò sopra una mula e si slanciò tra i due eserciti per scongiurarli, con le parole e con le lacrime, a scendere a patti. In quelle circostanze la Santa riuscì a pacificare per sempre i due contendenti.

Elisabetta aveva iniziato il suo compito di pacificatrice in occasione delle contese sorte tra suo marito e suo cognato, il turbolento Alfonso di Portalegre, a motivo di qualche possedimento. La santa aveva evitato che venissero alle mani cedendo a Dionisio parte delle sue rendite, per risarcirlo delle terre che era stato costretto a cedere al fratello. Anche presso il rè di Spagna l'intrepida regina svolse opera di pace affinchè potessero fare blocco nella lotta contro i mori. Impedì difatti una guerra tra suo marito e il genero, Ferdinando IV di Castiglia.

Dionisio, alla preghiera della sposa, si convertì e passò accanto a lei gli ultimi anni di vita. Al tempo dei suoi disordini, la regina si serviva di un paggio di fiducia per far giungere le elemosine ai bisognosi. Un paggio del re, geloso di quella preferenza, decise di perderlo, accusandolo al sovrano di illecite relazioni con la regina . Dionisio gli prestò fede, se ne adombrò e decise segretamente di far morire il favorito. Un giorno, uscito a cavallo, s'imbatté in una fornace di calce. Si avvicinò agli operai e diede ad essi l'ordine di gettare subito nel fuoco il paggio che si sarebbe presentato a chiedere loro se fosse già stato eseguito il comando del sovrano.

L'indomani vi mandò il paggio della regina, ma costui, passando davanti ad una chiesa, sentì suonare la campanella e vi entrò per ascoltare la Messa.
Dopo un po' di tempo il re, che smaniava di sapere che fine avesse fatto il paggio, chiamò il calunniatore e lo mandò a chiedere ai fochisti della fornace se il comando del re era stato eseguito. Gli operai, credendo che quello fosse il paggio di cui il re aveva parlato loro, lo presero e lo buttarono vivo nel fuoco. Poco dopo si presentò pure il paggio votato alla morte. Appena seppe che l'ordine del re era stato eseguito, ritornò a darne notizia a chi lo aveva mandato. Il re, constatato con stupore che la sua macchinazione, per disposizione divina, aveva avuto un esito diverso da quello che si era proposto, cominciò da allora a rinsavire.

Dopo la morte del marito (1325), Elisabetta rinunciò al mondo, si tagliò i capelli, vestì l'abito del terz'ordine Francescano e andò pellegrina a San Giacomo de Compostela. In suffragio del re defunto, offrì al santuario la corona d'oro che aveva portato il giorno del matrimonio, con altri ricchissimi doni. Il vescovo della città le diede in cambio un bastone di pellegrino e una borsa che la santa volle portare con sé nella tomba.

Appena rientrò a corte fece fondere le sue argenterie a favore delle chiese, divise i diademi e le altre insegne regali tra la sovrana Beatrice e le sue nipoti e, a Coimbra, fece terminare la costruzione del monastero di Santa Chiara. In esso intendeva terminare la vita, ma ne fu distolta da savi sacerdoti, per ragioni di stato e per non privare tanti poveretti dei suoi aiuti. Elisabetta si accontentò di portare sempre l'abito della penitenza e di fare costruire presso il monastero un appartamento che le consentisse, con il permesso della Santa Sede, di ritirarvisi sovente a pregare, a conversare e a pranzare con le religiose. Abitualmente ne teneva cinque con sé per la recita corale dell'ufficio e la vita in comune.
Nel pomeriggio Elisabetta dava udienza con una pazienza e una bontà illimitata, ai poveri, ai malati, ai peccatori che ricorrevano a lei. Per tutti aveva una parola di consolazione, un'abbondante elemosina. Nel 1333 gli abitanti di Coimbra furono ridotti, dalla carestia, a cibarsi di sorci.

Elisabetta, senza prestare ascolto agli amministratori dei suoi beni che le raccomandavano la parsimonia, fece comperare per loro grandi quantità di cibarie e provvide persino che fossero seppelliti i morti, abbandonati nelle case per la grande desolazione. Quando era libera dalle opere di carità e nella notte, ella si ritirava in una stanzetta segreta. Lontana dagli sguardi indiscreti dava libero sfogo alle sue preghiere e alle sue contemplazioni. Altre volte andava a visitare i degenti nell'ospedale che aveva fatto costruire in onore di S. Elisabetta d'Ungheria e a curarli con le sue stesse mani.

L'ultimo anno di vita Elisabetta pellegrinò, una seconda volta, a San Giacomo de Compostela, con due donne. Volle fare a piedi il lungo viaggio nonostante i suoi 64 anni e mendicare di porta in porta il vitto quotidiano.

Al ritorno le fu annunziato che suo figlio, Alfonso re del Portogallo, e suo nipote Alfonso, re di Castiglia, si erano dichiarati guerra. Elisabetta si portò a Estremoz nella speranza di strappare parole di pace dalla bocca del figlio da portare al nipote in Castiglia, ma una violenta febbre non le lasciò nessuna speranza di vita. Si mise a letto, fece testamento alla presenza del figlio e della nuora, e ricevette il Viatico tra sospiri e lacrime, rivestita del suo abito di penitenza, inginocchiata, nonostante l'estrema debolezza, davanti all'altare eretto nel suo appartamento. Alla regina Bianca, che l'assisteva e che era stata la compagna delle sue visite ai poveri e ai malati, ella chiese che avvicinasse al suo letto una sedia per Maria SS. la quale le era apparsa radiosa, vestita di bianco, in compagnia di S. Chiara e di altre sante. Morì il 4-7-1336 dopo aver recitato il Credo e mormorato: Maria, mater gratiae.

Il corpo di Elisabetta fu trasportato a Coimbra e seppellito nella chiesa delle Clarisse dove si è conservato incorrotto. Urbano VIII la canonizzò il 24 giugno 1626

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it di Guido Pettinati

Taliesin 20-06-2012 12.30.19

AI CONFINI DEL MEDIOEVO: BEATRICE DEL PORTOGALLO

E' una santa del Portogallo, vissuta in quel periodo di grande movimento politico, storico, culturale e religioso che precedette e fu contemporaneo dell’impresa di Cristoforo Colombo e della scoperta dell’America, avvenuta nel 1492.

Beatrice nacque a Campo Mayor nel 1424 in una famiglia nobile, sorella del beato Amedeo de Silva e imparentata con la famiglia reale portoghese. Accompagnò l’Infante Isabella del Portogallo come dama di onore, quando questa nel 1447 sposò Giovanni II di Castiglia; la sua bellezza e la sua virtù, attirò i nobili castigliani, che si contesero la sua amicizia e il suo amore; ciò suscitò la gelosia della regina Isabella che la maltrattò, fino a chiuderla per tre giorni in una cassapanca, mettendola a rischio di perdere la vita.

Una volta liberata, fece voto di castità e di nascosto, partì diretta a Toledo; la tradizione dice che l’accompagnarono nel viaggio le apparizioni di s. Francesco d’Assisi e di s. Antonio di Padova; giunta a Toledo entrò nel monastero domenicano di S. Domenico "El Real", dove visse per circa 30 anni.

Ma in lei già da tempo vi era il desiderio di fondare un nuovo Ordine religioso in onore dell’Immacolata Concezione, per questo scopo ottenne l’appoggio di Isabella la Cattolica (1451-1504), figlia di Giovanni II e dal 1474 regina di Castiglia e poi regina di Spagna nel 1479, dopo l’unione dei due regni di Castiglia e d’Aragona; la regina le donò il suo palazzo di Galiana in Toledo, con l’annessa chiesa di Santa Fè.

Beatrice nel 1484 si trasferì nella nuova residenza con dodici compagne, dando così inizio ad una nuova Famiglia monastica, l'Ordine della Immacolata Concezione, la cui Regola venne scritta da lei stessa. L'Ordine fu approvato da papa Innocenzo VIII il 30 aprile 1489.

Dopo aver ricevuto l’abito ed emesso i voti religiosi, morì a Toledo il 1° settembre 1490, alla vigilia della professione religiosa del primo gruppo del nuovo Ordine; precursore del culto e della teologia del dogma dell’Immacolata Concezione, che sarà proclamato circa 400 anni dopo da Pio IX.

Il suo culto instauratosi spontaneamente nel mondo francescano e iberico, fu confermato con il titolo di beata il 28 luglio 1926; papa Paolo VI l’ha canonizzata il 3 ottobre 1976.

Proclamandola santa nel 1976, PaoloVI ricordava ancora: «Nessuna parola di questa santa è pervenuta a noi nelle sue sillabe testuali, nessuna eco della sua voce»; ma la sua opera è viva nella«nuova e tuttora fiorentissima famiglia religiosa da lei fondata».

Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it di Antonio Borrelli


Taliesin 20-06-2012 12.37.43

AGLI ALBORI DEL MEDIOEVO: GENOVEFFA DALLE BIANCHE GUANCE

La vita della vergine parigina Genèvieve è narrata nella Vita Genovefae, scritta circa venti anni dopo la sua morte. Il documento, seppur non scritto da uno storico e contenente aspetti leggendari, è considerato attendibile.

Genèvieve o Genoveffa è nata a Nanterre, nei dintorni di Parigi, intorno al 422. A sei anni fu consacrata a Dio da san Germano di Auxerre, in transito per recarsi in Inghilterra, dove dilagava l'eresia pelagiana. A 15 anni Genoveffa si consacrò definitivamente a Dio, entrando a far parte di un gruppo di vergini votate a Dio che, pur vestendo un abito che le distingueva dalle altre donne, non vivevano in convento, ma nelle loro case, dedicandosi ad opere di carità e penitenze.

Genoveffa faceva molto sul serio: prendeva cibo solo il giovedì e la domenica e dalla sera dell'Epifania al giovedì santo non usciva mai dalla sua cameretta. Nel 451 Parigi era sotto la minaccia degli Unni di Attila ed i parigini si apprestavano alla fuga. Genoveffa li convinse a restare in città, confidando nella protezione del cielo. Non tutti erano però daccordo con Genoveffa, al punto che la vergine rischiò di essere linciata, ma la minaccia degli Unni passò, lasciando però un altro problema serio, quello della carestia. Genoveffa, salì allora su un battello, risalì la Senna e procurò le granaglie presso i contadini, distribuendole poi generosamente.

Entrata in amicizia con i re Childerico e Clodoveo, sfruttò la sua posizione per ottenere la grazia per numerosi prigionieri politici.
Morì intorno al 502.

Sulla sua tomba venne eretto un modesto oratorio di legno, che fu il primo nucleo di una celebre abbazia, trasformata in basilica da re Luigi XV. Genoveffa era particolarmente invocata in occasione di gravi calamità, come la peste, per implorare la pioggia e contro le inondazioni della Senna.

Durante la rivoluzione francese i giacobini trasformarono la basilica di S. Genoveffa nel mausoleo dei francesi illustri, con il classico nome di Pantheon, distruggendone parzialmente le reliquie. Il culto a santa Genoveffa continuò nella vicina chiesa di Saint-Etienne-du-Mont e rimase molto popolari in tutta la Francia e in particolarmente a Parigi, città di cui la santa è patrona.

Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it di Maurizio Masinato

Taliesin 20-06-2012 12.56.33

ORGOGLIO DI FAMIGLIA: CESARIA DI ARLES

Nata nei dintorni di Chalon-sur-Saone intorno al 465, C. visse per un certo tempo in un chiostro di Marsiglia; il fratello s. Cesario, creato vescovo di Arles nel 502, pensò a lei come alla futura superiora della comunità monastica femminile che intendeva introdurre nella sua città.

Il primo monastero di religiose, però, costruito nei pressi di Arles, non era ancora ultimato che fu distrutto nella guerra tra Franchi e Burgundi (508) Cesario non si perse di coraggio e, terminate le lotte, fece costruire un secondo edificio nella stessa località del primo: dedicato a s. Giovanni, il monastero fu inaugurato il 26 agosto 512 e la sua direzione venne affidata a Cesaria, chiamata da Marsiglia.

Per questa comunità Cesario redasse un'eccellente regola, i cui cardini sono la rinunzia a ogni proprietà personale, la perpetua clausura, I'esenzione dalla giurisdizione episcopale, I'ubbidienza alla superiora, detta matèr.

Cesaria ebbe: molte discepole e molte discepole e governò la comunità per oltre dieci anni: morì, infatti, poco ternpo dopo la dedicazione: della basilica di S. Maria (524), forse nel 525, e fu sepolta presso il sarcofago che il fratello si era riservato.

Onorata come santa già ai tempi di Venanzio Fortunato, che ne associa il nome a quello di Agnese, Cesaria è ricordata nel Martirologio Romano al 12 gennaio.


Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it di Gilbert Bataille

Taliesin 20-06-2012 13.08.03

LE CAMPANE DI CASTELFIORENTINO: VERIDIANA ATTAVANTI

S. Verdiana (o Veridiana e Viridiana) è personaggio ben diverso da quello immortalato da Luis Bunuel in uno dei suoi film più caratteristici.

La santa nacque a Castelfiorentino nel 1182, ed è perciò coetanea di S. Francesco d'Assisi, che secondo la tradizione le fece visita nel 1221, ammettendola al Terz'ordine Francescano.

Benchè decaduta, la nobile famiglia degli Attavanti da cui ella nacque a Castelfiorentino godeva ancora di un certo prestigio. Un ricco parente la volle perciò accanto come amministratrice. Dedita però fin dall'infanzia all'orazione e all'astinenza, ella non poteva concepire questo suo incarico che come un'accresciuta possibilità di esercitare la carità.

Qualche volta la Provvidenza dovette intervenire con dei prodigi. Si racconta che un giorno suo zio aveva accumulato e rivenduto una certa quantità di derrate, il cui prezzo era salito alle stelle a causa di una grave carestia. Ma quando il compratore si presentò a ritirare il materiale acquistato, il magazzino risultò vuoto, perché nel frattempo Verdiana aveva donato tutto ai poveri. L'irritata reazione dello zio ebbe come unica risposta l'invito ad attendere ventiquattr'ore: effettivamente il giorno dopo Dio premiava la carità e la confidenza della fanciulla facendo ritrovare intatto il raccolto così generosamente donato.

Verdiana si recò poi in pellegrinaggio a Compostella, presso la tomba di S. Giacomo, che insieme a Roma era la grande meta dei pellegrini, specie dopo la perdita definitiva della Terrasanta. Ritornata a Castelfiorentino e sentendo vivo desiderio di solitudine e di penitenza, i suoi paesani, per trattenerla vicino, le edificarono in riva all'Elsa, attigua all'oratorio di S. Antonio, una celletta nella quale S. Verdiana rimase reclusa per 34 anni.

Da una finestrella assisteva alla Messa, parlava con i visitatori e riceveva lo scarso cibo di cui si nutriva. Attraverso questo spiraglio, secondo una tradizione raccolta pure dai pittori, penetrarono negli ultimi anni della sua vita due serpenti, che tormentarono la santa, la quale, ad accrescimento delle sue mortificazioni, mai ne rivelò la presenza.

Si racconta che la sua pia morte, avvenuta il 1° febbraio 1242, venne annunciata dal suono improvviso e simultaneo delle campane di Castelfiorentino non mosse da mano umana.

Il culto di S. Verdiana, rappresentata con gli abiti della congregazione Vallombrosana, venne approvato da Clemente VII nel 1533 ed è tuttora popolare in Toscana.


Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it di Piero Bargellini

Taliesin 20-06-2012 13.12.39

I DIALOGHI DI UNA COLOMBA: SCOLASTICA DA NORCIA

Il nome di Scolastica, sorella di Benedetto da Norcia, richiama al femminile gli inizi del monachesimo occidentale, fondato sulla stabilità della vita in comune. Benedetto invita a servire Dio non già "fuggendo dal mondo" verso la solitudine o la penitenza itinerante, ma vivendo in comunità durature e organizzate, e dividendo rigorosamente il proprio tempo fra preghiera, lavoro o studio e riposo.

Da giovanissima, Scolastica si è consacrata al Signore col voto di castità. Più tardi, quando già Benedetto vive a Montecassino con i suoi monaci, in un altro monastero della zona lei fa vita comune con un gruppetto di donne consacrate.

La Chiesa ricorda Scolastica come santa, ma di lei sappiamo ben poco. L’unico testo quasi contemporaneo che ne parla è il secondo libro dei Dialoghi di papa Gregorio Magno (590-604). Ma i Dialoghi sono soprattutto composizioni esortative, edificanti, che propongono esempi di santità all’imitazione dei fedeli mirando ad appassionare e a commuovere, senza ricercare il dato esatto e la sicura referenza storica. Inoltre, Gregorio parla di lei solo in riferimento a Benedetto, solo all’ombra del grande fratello, padre del monachesimo occidentale.

Ecco la pagina in cui li troviamo insieme.
Tra loro è stato convenuto di incontrarsi solo una volta all’anno. E Gregorio ce li mostra appunto nella Quaresima (forse) del 542, fuori dai rispettivi monasteri, in una casetta sotto Montecassino. Un colloquio che non finirebbe più, su tante cose del cielo e anche della terra. L’Italia del tempo è una preda contesa tra i Bizantini del generale Belisario e i Goti del re Totila, devastata dagli uni e dagli altri. Roma s’è arresa ai Goti per fame dopo due anni di assedio, in Italia centrale gli affamati masticano erbe e radici. A Montecassino passano vincitori e vinti; passa Totila attratto dalla fama di Benedetto, e passano le vittime della violenza, i portatori di tutte le disperazioni, gli assetati di speranza...

Viene l’ora di separarsi. Scolastica vorrebbe prolungare il colloquio, ma Benedetto rifiuta: la Regola non s’infrange, ciascuno torni a casa sua. Allora Scolastica si raccoglie intensamente in preghiera, ed ecco scoppiare un temporale violentissimo che blocca tutti nella casetta. Così il colloquio può continuare per un po’ ancora. Infine, fratello e sorella con i loro accompagnatori e accompagnatrici si separano; e questo sarà il loro ultimo incontro.

Tre giorni dopo, leggiamo nei Dialoghi, Benedetto apprende la morte della sorella vedendo la sua anima salire verso l’alto in forma di colomba. I monaci scendono allora a prendere il suo corpo, dandogli sepoltura nella tomba che Benedetto ha fatto preparare per sé a Montecassino; e dove sarà deposto anche lui, morto in piedi sorretto dai suoi monaci, intorno all’anno 547.

Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it di Domenico Agasso

Taliesin 20-06-2012 13.21.25

L'IMPERATRICE DI FERRO: CUNEGONDA DI BAVIERA
Le Chiese d’Oriente e d’Occidente in due millenni di cristianesimo hanno attribuito l’aureola della santità quale corona eterna a non poche imperatrici, e talvolta anche ai loro mariti, che sedettero sui troni di Roma, di Costantinopoli e del Sacro Romano Impero.

Sfogliando le pagine dell’autorevole Bibliotheca Sanctorum e della Bibliotheca Sanctorum Orientalium possiamo trovare i loro nomi: Adelaide, Alessandra e Serena (presunte mogli di Diocleziano), Ariadne, Basilissa (o Augusta), Cunegonda, Elena, Eudossia, Irene d’Ungheria (moglie di Alessio I Comneno), Irene la Giovane (moglie di Leone IV Chazaro), Marciana, Pulcheria, Placilla, Riccarda, Teodora (moglie di Giustiniano), Teodora (moglie di Teofilo l’Iconoclasta), Teofano. Anche nel XX secolo non sono mancate sante imperatrici: Sant’Alessandra Fedorovna, moglie dell’ultimo zar russo canonizzata dal Patriarcato di Mosca, la Serva di Dio Elena di Savoia, imperatrice d’Etiopia, ed in fama di santità è anche Zita di Borbone, moglie del Beato Carlo I d’Asburgo ed ultima imperatrice d’Austria.

Santa Cunegonda, oggi festeggiata, è venerata anche insieme al marito, l’imperatore Enrico II, la cui festa è però celebrata separatamente al 13 luglio. Le fonti relative a questa santa sono purtroppo costituite da notizie sparse, tramandate da alcuni cronisti contemporanei quali Tietmaro di Mersburgo e Rodolfo il Glabro, nonché da una vita composta da un canonico di Bamberga oltre un secolo dopo la morte.

I genitori diedero alla figlia, sin dai primi anni, una profonda educazione cristiana. All’età di circa vent’anni, Cunegonda sposò il duca di Baviera, Enrico appunto, che nel 1002 venne incoronato re di Germania e nel 1014 sacro romano imperatore.
Su questo matrimonio, specialmente al principio del XX secolo, sono sorte parecchie polemiche: in alcuni testi antichi infatti, tra i quali la bolla di papa Innocenzo III, si narra che i due coniugi fecero voto di perpetua verginità e si parlò così di “matrimonio di San Giuseppe” e per tale motivo a Cunegonda è stato talvolta attribuito il titolo di “vergine”, ma secondo altri autori moderni una simile qualifica non corrisponderebbe alle narrazioni di contemporanei come Rodolfo il Glabro. Secondo quest’ultimo, I fatti, Enrico si accorse della sterilità della moglie, ma nonostante il matrimoniale germanico ammettesse il ripudio, non volle usare questo diritto per la grande pietà e santità che riscontrava nella consorte e preferì continuare a vivere insieme a lei pur senza speranza di prole.

Fu proprio ciò, unitamente alla fama di santità che circondò i due coniugi, a far nascere in seguito la leggenda del cosiddetto “matrimonio di San Giuseppe”.

Nella Vita e nella bolla pontificia di canonizzazione si legge che Cunegonda fu oggetto di una grande calunnia di infedeltà coniugale ed Enrico, per provarne l’innocenza, decise di sottoporla alla prova del fuoco. La moglie accettò e passò miracolosamente indenne a piedi nudi sopra vomeri infuocati. L’imperatore chiese perdono all’augusta consorte per aver dato troppo credito agli accusatori e da quel momento visse in piena stima e fiducia nei suoi confronti. Non ci è dato sapere quale validità storica abbia concretamente questo episodio, resta comunque il suo alto valore simbolico.

Il 10 agosto 1002 a Paderborn Cunegonda fu incoronata regina e nel 1014 si recò a Roma con il marito per ricevere la corona imperiale dalle mani di papa Benedetto VIII, il 14 febbraio di quell’anno.

La vita dell’imperatrice costituì un mirabile esempio di carità, umiltà e mortificazione, virtù che la caratterizzarono in molteplici manifestazioni. Assecondata dal pio marito, nel 1007 fece erigere il duomo di Bamberga e nel 1021 il monastero di Kaufungen, fondato in seguito ad un voto fatto durante una gravissima malattia da cui uscì pienamente ristabilita.

Proprio in questo monastero benedettino volle ritirarsi nel 1025, addolorata per la perdita del marito. Nel giorno anniversario della morte di Enrico II, Cunegonda convocò parecchi vescovi per la dedicazione della chiesa di Kaufungen, cui donò una reliquia della Santa Croce. Dopo la lettura del Vangelo, si spogliò delle insegne e degli abiti imperiali, si fece tagliare i capelli e vestì il rozzo saio benedettino. Continuò, come già aveva fatto in precedenza, a spendere il suo patrimonio nell’edificazione di nuovi monasteri, decorando chiese ed aiutando i poveri. Intrapresa dunque la vita monastica, visse in assoluta umiltà come se mai fosse stata addirittura imperatrice. Prese a trascorrere gran parte delle sue giornate in preghiera e nella lettura delle Sacre Scritture, non disdegnando però i lavori manuali ed i servizi più umili. Un compito assegnatole che gradì particolarmente fu la visita alle consorelle ammalate per portare loro conforto ed assistenza.
Si distinse inoltre per la pratica severa della penitenza: asumeva infatti esclusivamente il cibo indispensabile per sopravvivere, rifiutando ciò che poteva solleticare in qualche maniera il palato.
Sino al termine dei suoi giorni Cunegonda condusse questo stile di vita.

Morì infine il 3 marzo di un anno imprecisato, generalmente viene preferito il 1033 anziché il 1039. Le sue spoglie mortali trovarono degna sepoltura presso quelle del marito nella cattedrale di Bamberga. Nei primi anni non fu oggetto di grande culto, ma dal XII secolo la venerazione nei suoi confronti crebbe grandemente fino a superare quella tributata già in precedenza ad Enrico.

La causa di canonizzazione fu introdotta sotto il pontificato di Celestino III, ma solo Innocenzo III con bolla del 29 marzo 1200 ne approvò ufficialmente il culto. Nella diocesi di Bamberga nel XV secolo ben quattro solenni celebrazioni erano dedicate alla memoria della santa imperatrice: il 3 marzo (anniversario della morte), il 29 marzo (anniversario della canonizzazione), il 9 settembre (traslazione delle reliquie) ed il 1° agosto (commemorazione del primo miracolo).


Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it di Fabio Arduino

Taliesin 20-06-2012 14.07.40

LA FANCIULLA DEGLI ANGELI: COLETTA DI CORBIE
Chiamata Nicoletta (familiarmente Colette) in onore di Nicola di Bari, intraprende la sua particolare esperienza religiosa a 18 anni, dopo la morte dei genitori. E la conclude a 25 su consiglio del francescano Enrico di Baume, tornando fra le clarisse, dopo essere stata tra le beghine e le terziarie francescane e aver tentato anche una esperienza da eremita, perché si sente chiamata alla riforma degli ordini religiosi istituiti da san Francesco e santa Chiara.

Questa santa francescana, fu per molti aspetti una bambina prodigiosa e dotata di straordinari carismi: della vita di questa suora, che con eroica fede compì le richieste di Dio, sono note le estasi, levitazioni, profezie, sguardo al cuore e rivelazioni sulla vita dei defunti nell’aldilà nonché sorprendenti miracoli, fra cui anche resurrezioni.

Fu anche nota la sua straordinaria volontà nel rispettare le originali leggi severe dell’ordine delle clarisse. Non può quindi stupire il fatto che, in tale esistenza, si siano verificate diverse volte interventi da parte degli angeli.

Questa santa fu regalata ai suoi genitori, in quanto sua madre la ebbe quando aveva già 60 anni, nonostante il suo desiderio di un figlio e anni di preghiera per averlo, non era mai stato mai esaudito. Dopo l’intercessione dell’allora tanto venerato S. Nicola di Bari, l’anziana signora il 13 gennaio 1381 concepì la bambina, che chiamò, per ricordare il Santo, Nicoletta, abbreviata con Coletta.

Il luogo di nascita della santa Coletta fu Corbie nelle Fiandre, dove suo padre Roberto Boellet lavorava come carpentiere nel monastero benedettino.

Già da bambina, Coletta fu particolarmente seria e si impegnava in opere di carità e mortificazione. La ragazza, dopo varie esperienze religiose, entrò, dopo la morte dei genitori, nel terzo ordine di S. Francesco, conducendo, in seguito, una vita di ancora maggiore abnegazione e penitenza. Dalla divina provvidenza le venne assegnato il compito di riformare l’ordine delle clarisse, la cui disciplina lasciava in alcune parti a desiderare. Per questo scopo passò all’ordine delle clarisse e fece nel 1406 a Nizza, davanti a Papa Benedetto XIII (Petrus de Luma), la professione dei voti. Da egli ottenne tutti i permessi per le necessarie riforme dell’ordine. Noncurante di tutti gli ostacoli, riuscì a realizzarle, riportando molti monasteri alla originale severità delle regole dell’ordine. Fondò inoltre 17 nuovi monasteri, le cui religiose si chiamano da allora ‘le colette’.

Il francescano Pietro de Vaux, che la conosceva personalmente molto bene e che fu presente al momento della sua morte, il 6 marzo del 1447 a Gent (Belgio) racconta anche, oltre a tanti altri miracolosi eventi della vita di S. Coletta, di diverse apparizioni angeliche: diversi benefattori di S. Coletta, attaccati nel peggior dei modi da persone di animo cattivo, furono, in seguito alle preghiere di S. Coletta, protetti e tutelati dagli angeli.

Anche lei stessa ricevette più di una volta l’aiuto e la protezione, tangibili e vistosi, degli angeli durante difficili prove ed afflizioni, soprattutto in momenti un cui fu perseguitata da spiriti maligni.

Durante la morte di S. Coletta si sentì nei monasteri riformati e da lei particolarmente amati un canto meraviglioso degli angeli, durante il quale uno di loro diffuse il messaggio: ”la venerabile suora Coletta è tornata dal Signore.” Una suora, avente anch’essa particolari virtù e carismi, vide, al momento della morte della S. Coletta, una grande schiera celeste, nel cui centro l’anima della defunta venne portata con meravigliose melodie alla beatitudine di Dio.

Papa Pio VII santificò Coletta, che giustamente viene chiamata la seconda madre delle clarisse, il 24 maggio del 1807.
Il suo corpo riposa a Poligny.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it di Don Marcello Stanzione

Taliesin 20-06-2012 14.14.42

LA PRINCIPESSA POVERA: AGNESE DI BOEMIA

Giovanni Paolo II, durante il suo lungo pontificato, se da un lato non ha mancato di proporre agli uomini di oggi dei modelli di santità a loro vicini nel tempo, non ha però disdegnato anche di elevare agli onori degli altari alcune significative figure visute nei primi secoli del secondo millenio, tra le quali la principessa Sant’Agense di Boemia.

Figlia del sovrano boemo Premysl Otakar I e della regina Costanza, sorella di Andrea II re d'Ungheria, Agnese nacque a Praga nel 1211.

Sin dall’infanzia fu oggetto di svariati progetti di fidanzamento
indipendentemente dalla sua volontà, cosa comune a quel tempo meramente per speculazioni politiche e convenienze dinastiche. All’età di tre anni fu affidata alle cure della duchessa di Slesia, la celebre Santa Edvige, che l’accolse nel monastero cistercense di Trzebnica e le insegnò i primi elementi della fede cristiana. Tre anni dopo fece ritorno a Praga e venne poi affidata alle monache premonstratensi di Doksany ove ricevette un’adeguata istruzione.

Nel 1220, essendo promessa sposa di Enrico VII, figlio dell'imperatore Federico II Barbarossa, Agnese fu condotta a Vienna presso la corte del duca d’Austria: qui visse sino al 1225 rimanendo sempre fedele ai principi e ai doveri della morale cristiana. Rescisso infine il patto di fidanzamento, ritornò a Praga ove poté dedicarsi ad una più intensa vita di preghiere e di opere caritative. Dopo una matura riflessione, decise di consacrare a Dio la sua verginità. Pervennero alla corte di Praga nuove proposte nuziali per la giovane principessa boema: quella del re inglese Enrico III, che svanì, e quella del Barbarossa presentata prima a re Otakar nel 1228 ed una seconda volta a re Venceslao nel 1231.

Papa Gregorio IX, cui Agnese aveva chiesto protezione, intervenne riconoscendo il voto di castità della principessa, che in tal modo acquistò la libertà e la felicità di consacrarsi a Dio libera dai sotterfugi del mondo secolare. In quel periodo giungevano a Praga quali predicatori i Frati Minori, grazie ai quali venne a conoscenza della vita spirituale che conduceva in Assisi la vergine Santa Chiara secondo lo spirito francescano. Rimase affascinata da questo modello e decise di imitarne ad ogni costo l’esempio: usufruendo dei propri beni fondò tra il 1232 ed il 1233 a Praga l’ospedale di San Francesco e per dirigerlo l’Ordine dei Crocigeri della Stella Rossa. Allo stesso tempo fondò il monastero di San Francesco per le “Sorelle Povere o Damianite”, ove lei stessa entrò l’11 giugno 1234, giorno di Pentecoste.

Agnese professò duqnue solennemente i voti solenni di castità, povertà ed obbedienza, pienamente consapevole del valore eterno di questi consigli evangelici, e si cimentò nel praticarli con esemplare fedeltà per tutti i suoi giorni. La verginità finalizzata al regno dei cieli costituì l’elemento fondamentale della sua spiritualità. Lo spirito di povertà, che già in precedenza l’aveva indotta a distribuire ai poveri i suoi beni, la spinse a rinunciare totalmente ad ogni proprietà per seguire Cristo povero ed ottenne inoltre che nel suo monastero si praticasse addirittura l’esproprio collettivo.

Lo spirito di obbedienza la condusse a conformare sempre più la sua volontà a quella divina che scopriva nella lettura del Vangelo e nella Regola di vita che la Chiesa le aveva donato. Insieme a Santa Chiara si adoperò per ottenere l’approvazione di una nuova ed apposita Regola che, dopo fiduciosa attesa, ricevette e professò con estrema fedeltà.

Poco dopo la professione Agnese divenne badessa del monastero, ufficio che dovette conservare per tutta la vita, esercitandolo con umiltà e carità, con saggezza e zelo, considerandosi sempre come “sorella maggiore” delle monache sottoposte alla sua autorità. La notizia dell’ingresso di Agnese in monastero suscitò ammirazione in tutta ammirazione Europa e tutti coloro che ebbero modo di entrare in contatto con lei poterono testimoniare le sue virtù, come concordemente attestano anche le memorie biografiche: specialmente ammirato era l’ardore della sua carità verso Dio e verso il prossimo, “la fiamma viva dell’amore divino che ardeva continuamente nell'altare del cuore di Agnese, la spingeva tanto in alto, per mezzo dell'inesauribile fede, da farle ininterrottamente cercare il suo Diletto” e si esprimeva in modo peculiare nel fervore con cui adorava i misteri dell’Eucaristia e della Croce del Signore, nonché nella devozione filiale alla Madonna contemplata nel mistero dell’Annunciazione.

L’amore del prossimo, continuò anche dopo la fondazione dell’ospedale a tenere spalancato il suo cuore generoso ad ogni forma di aiuto cristiano. Amò la Chiesa implorando dalla bontà di Dio per i suoi figli i doni della perseveranza nella fede e della solidarietà cristiana. Collaborò con i papi del sue tempo, che per il bene della Chiesa non mancavano di sollecitare le sue preghiere e le sue mediazioni presso i sovrani boemi, suoi familiari.

Nutrì sempre un profondo amore per la sua patria, che beneficiò con opere caritative individuali e sociali, nonché con la saggezza dei suoi consigli sempre volti ad evitare conflitti di ogni sorta ed a promuovere la fedeltà alla religione cattolica dei suoi padri.

Negli ultimi anni di vita Agnese sopportò con immutata pazienza i molteplici dolori che afflissero lei e l’intera famiglia reale, il monastero e la Boemia, causati da un infausto conflitto e dalla conseguente anarchia, nonché dalle calamità naturali che si abbatterono sulla regione e la conseguente carestia. Morì infine santamente nel suo monastero il 2 marzo 1282.

Numerosi miracoli furono attribuiti all’intercessione della principessa defunta, ma il culto tributatole sin dalla morte ebbe il riconoscimento papale solo il 28 novembre 1874 con decreto del Beato Pio IX.

Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, il Papa del Secolo, ha infine canonizzato Agnese di Boemia il 12 novembre 1989 nella Basilica Vaticana.


Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it di Fabio Arduino


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