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LA MECENATE DEI TROVATORI: ERMENGARDA DI NARBONA.
Ermengarda di Narbona, in occitano Ainerma(r)da de Nerbona o Ermengarda de Narbona o Naimermada de Narbona, detta anche Ermeniarda o Nesmengarda o Na Esmeniartz (1127/1129 – Perpignano, 1196/1197[1]), è stata una viscontessa di Narbona dal 1134 al 1192/3 e un'importante figura politica dell'Occitania nella seconda metà del XII secolo. Figlia di Almerico II di Narbona e della sua prima moglie, dalla quale prende il nome, Ermengarda è altrettanto nota per essere stata una trobairitz e mecenate di trovatori, tra i quali Peire Rogier, Giraut de Bornelh, Peire d'Alvergne, Pons d'Ortafas, Salh d'Escola e Azalais de Porcairagues. Almerico II viene ucciso nella Battaglia di Fraga il 17 luglio del 1134, lottando contro gli almoravidi insieme ad Alfonso I d'Aragona, lasciando eredi le sue due figlie: l'infante Ermengarda e la sorellastra più piccola, Ermessinda (figlia avuta con la sua seconda moglie, anche costei con lo stesso nome della madre). Almerico, come risulta da numerosi documenti dell'epoca, aveva almeno un figlio, anche costui chiamato Almerico, morto prima di lui (ca. 1130)[2]. Ermengarda, dunque, a cinque anni o poco più eredita la viscontea di Narbona che, occupando un posto strategico nella politica della Linguadoca, farà gola a diversi pretendenti: i conti di Tolosa, i conti di Barcellona, i Trencavel visconti di Carcassona e i signori di Montpellier. Alfonso I di Tolosa, rivendica per sé i diritti alla reggenza di Narbona durante la minorità di Ermengarda, invadendo la viscontea nel 1139, sostenuto in questo dall'arcivescovo Arnaud de Lévezou. Come attestato in un documento, nello stesso anno, Ermengarda si trova Vallespir nel territorio di suo cugino Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona, presso il quale deve aver trovato rifugio di fronte alla minaccia proveniente da Tolosa. Un "frammento di una cronaca ebraica"[3] redatta verso l'anno 1160 attesta che nel 1142, Alfonso, la cui moglie Faydid di Uzes era morta di recente o forse era stata ripudiata, cerca di sposare l'allora adolescente Ermengarda. Di fronte a questa prospettiva, che avrebbe capovolto l'equilibrio di potere nella regione con l'aggiunta di Narbona sotto il diretto controllo di Tolosa, si viene a formare una coalizione di signori occitani condotta da Ruggero II di Béziers, visconte di Carcassona, Béziers, Albi e Razès. Nel 1143 Ermengarda sposa Bernardo di Anduze, vassallo di Ruggero II. Alfonso, sconfitto dalla coalizione e fatto prigioniero, è costretto prima di essere liberato a fare pace con Narbona restaurando Ermengarda e il suo nuovo marito nella viscontea. Nel 1177 Ermengarda mise insieme una coalizione formata da Gui Guerrejat (l'amante di Azalais de Porcairagues), Bernardo Ato V di Nîmes e Agde (nipote di Gui), Guglielmo VIII di Montpellier e Gui Burgundion, onde opporsi a Raimondo VI di Tolosa, il cui potere improvvisamente s'era accresciuto allorché, rimasto vedovo di Ermessenda di Pelet, era diventato governatore di Melgueil. L'associazione di Narbona con la poesia trobadorica sembra risalire ai primi tempi di questo innovativo movimento, in quanto è una delle sole corti esplicitamente menzionate, unitamente a Poitiers e a Ventadour, da Guglielmo IX di Poitiers (1086-1127), il primo trovatore di cui si sono conservate le canzoni[4][5]. All'epoca in cui Ermengarda governava Narbon, la poesia lirica del fin'amor era al suo apogeo in Occitania. Le numerose allusioni positive a Narbona contenute nelle opere dei trovatori contemporanei sembrano attestare il ruolo di mecenate della viscontessa che la storiografia tradizionale sovente le attribuisce[6][7] Il trovatore, il cui nome viene più spesso associato alla corte della viscontessa di Narbona, è Peire Rogier il quale, secondo la sua vida redatta verso la fine del XIII secolo[8], dopo avere abbandonato il suo stato di canonico a Clairmont si fece menestrello, pervenendo così a Narbona... (OCCITANO) « E venc s’en a Narbona, en la cort de ma domna Ermengarda, qu’era adoncs de gran valor e de gran pretz. Et ella l’acuilli fort e ill fetz grans bens. E s’enamoret d’ella e fetz sos vers e sas cansos d’ella. Et ella los pres en grat. E la clamava « Tort-n’avez ». Lonc temps estet ab ela en cort e si fo crezut qu’el agues joi d’amor d’ella; don ella·n fo blasmada per la gen d’aqella encontrada. E per temor del dit de la gen si·l det comjat e·l parti de se » (IT) « ... alla corte di Ermengarda, all'epoca dama di grande valore e meriti, la quale lo accoglie cordialmente donandogli molti benefici. Lui se ne invaghisce e la canta nei suoi versi e canzoni. Ermengarda apprezza molto Peire Rogier il quale la chiama con il senhal Tort-n’avez (« Avete torto »). Soggiorna molto tempo alla corte narbonese, e si presume fosse corrisposto in amore dalla contessa, la quale, biasimata dalle genti di questa contrada e temendo le dicerie, lo congedò e gli permise di allontanarsi da lei » (Peire Rogier, Vida anonima) È ad Ermengarda che la trobairitz Azalaïs de Porcairagues si rivolge nella tornada della sua canso[9]: (OCCITANO) « ves Narbona portas lai / ma chanson [...] / lei cui iois e iovenz guida » (IT) « verso Narbona, portate la mia canzone [...] presso colei che gioia e giovinezza conduce » (Azalaïs de Porcairagues, Ar em al freg temps vengut) Bernard de Ventadour dedica un'altra canso alla sua (OCCITANO) « midons a Narbona / que tuih sei faih son enter / c'om no·n pot dire folatge » (IT) « dama di Narbona alla quale ogni gesto è sì perfetto che non le si può dir mai male » (Bernard de Ventadour, canso 34, La dousa votz ai auzida, VIII, 58-60) Secondo Linda Paterson[10], Raimon de Miraval sembra evocare la reputata generosità verso i trovatori, allorché manda un sirventès "valente", tramite il suo giullare, dove dice: (OCCITANO) « caval maucut / Ab sela de Carcassona / Et entressenh et escut / De la cort de Narbona » (IT) « un cavallo panciuto, con una sella di Carcassona, e un'insegna e uno scudo della corte di Narbona » (Raimon de Miraval, sirventès XXIX, A Dieu me coman, Bajona, I, 5-8) Secondo la sua vida, il trovatore perigordino Salh d'Escola soggiorna presso « N'Ainermada de Nerbona ». Alla morte della sua protettrice lui "abbandona l'arte « trobadorica » e il canto" per ritirarsi nella sua città natale di Bergerac[11]. I curatori della vida, Jean Boutière e Alexander Schutz, propongono d'identificare la dama in questione con Ermengarda, il cui nome potrebbe essere stato corrotto durante la copia del manoscritto[12]. Nella sua canzone La flors del verjan, il trovatore Giraut de Bornelh propone di consultare « Midons de Narbona » (traducibile sia come « mia signora » che « mio signore » di Narbona) a proposito di una questione di casisitca amorosa[7]. La viscontessa sarebbe stata relazionata anche con un altro dei trovatori, in particolare Peire d'Alvergne[13]. Probabilmente verso il 1190[14], un chierico francese di nome Andrea Cappellano (in latino, Andreas Capellanus) scrisse un "trattato sull'amor cortese" (in latino, De Arte honeste amandi o De Amore), che ebbe un'importante diffusione nel corso del medioevo. Nella seconda parte del trattato, su « come conservare l'amore », l'autore presenta 21 « giudizi d'amore » i quali sarebbero stati pronunciati dalle dame più grandi del regno di Francia; sette di questi giudizi sono attribuiti a Maria di Francia, contessa di Champagne, tre a sua madre, Eleonora d'Aquitania, altri tre a sua cognata, la regina di Francia Adele di Champagne, due a sua cugina, Elisabetta di Vermandois, contessa di Fiandra, uno all'"assemblea delle dame di Guascogna" e cinque a Ermengarda di Narbona (giudizi 8, 9, 10, 11 e 15), l'unica dama designata dall'autore non imparentata con le altre[15]. Nonostante il carattere probabilmente fantasioso di questi giudizi, essi attestano la fama di cui godeva Ermengarda nel campo dell'amor cortese, anche nella cultura e nelle regioni di lingua d'oïl. Si pensa inoltre che Ermengarda avesse accolto nella sua corte Rognvald II di Orkney, un principe, poeta e musicista vichingo, durante il viaggio in terra Terra Santa[16], il quale compose per lei una poesia scaldica.[17] Dopo il 1121 è arcivescovo di Narbona Arnaud de Lévézou, un vecchio amico del conte di Tolosa Alfonso Giordano. Alla sua morte, avvenuta nel 1149, per consolidare il suo dominio sulla viscontea, Ermengarda decide di far nominare arcivescovo suo cognato Pietro II, in modo che i poteri ecclesiastici e laici possano essere uniti nel Narbonese.[18] Nel 1157, la viscontessa Ermengarda dona all'abbazia cistercense di Fontfroide un vasto possedimento di terre. Questa donazione segna l'inizio della potenza territoriale e religiosa del monastero che rapidamente attirerà altre donazioni, affermandosi come santuario della famiglia vicecomitale di Narbona[19]. Non avendo avuto figli, dopo due infelici matrimoni, Ermengarda designa come erede Pedro Manrique de Lara, il secondo e il primo dei figli sopravvissuti della sorellastra Ermessinda (morta nel 1177) avuti dal conte Manrique Pérez de Lara (ucciso in battaglia a Garcianarro il 9 luglio del 1164)[20]. Nel 1192 Ermengarda abdica in favore di Pietro, ritirandosi a Perpignano, dove morirà cinque anni più tardi. Taliesin, il Bardo tratto da wikipedia 1.^ (EN) Toulouse nobility, fmg.ac, agosto 2012. URL consultato il 19 marzo 2013. 2.^ I figli maschi, attestati in più documenti dell'epoca, erano morti prima di lui: il primogenito Almerico, in particolare, appare in tre documenti a fianco di suo padre tra il 1126 e il 1132; un atto del giugno del 1131, mediante il quale il visconte s’impegna con i « suoi figli », prova che essi fossero comunque almeno due a questa data 3.^ « I giorni di Rabbi Todros (Todros II, capo della comunità ebraica di Narbona verso il 1130-1150) furono tempi di grande calamità per la città, poiché il signore di Narbona, Don Aymeric, venne ucciso nel corso della battaglia di Fraga, senza lasciare eredi [che gli sopravvivessero], e il governo della città venne lasciato nelle mani di Donna Esmeineras [Ermengarda], ancora minorenne, terza [dei suoi tre figli]. E i grandi paesi ambivano alla sua eredità, in quanto [la viscontea] è grande e ricca, e la persuasero dunque con tutte le loro forze a sposare il signore di Tolosa, Don Alfonso. Ma il conte di Barcellona, Raimondo Berengario, nemico di questi e parente di Donna Esmeineras persuaderà costei a rifiutarne la mano, consigliandole di sposare Don Bernardo d’Anduze. Si scatena così una guerra che vede la città di visa in due fazioni: una metà appoggia la viscontessa e i suoi consiglieri, mentre l'altra si schiererà con il conte di Tolosa, Don Alfonso. Ora, prima [di questi avvenimenti], vi era a Narbona una grande comunità ebraica di circa duemila unità, tra cui grandi [personaggi] e studiosi di fama mondiale. A causa di queste lotte, essi si disperdettero nel territorio di Anjou, di Poitou e in Francia. Durante questa guerra un pesante tributo fu imposto alla comunità [ebraica] » (Traduzione francese di Aryeh Graboïs dal testo ebraico originale, in Graboïs 1966, p. 24-25) 4.^ Anglade, op. cit., p.737-738 5.^ Ruth Harvey, « Courtly Culture in Medieval Occitania », in Simon Gaunt et Sarah Kay, éd. The Troubadours: An Introduction, Cambridge / New York, Cambridge University Press, 1999, p. 15. 6.^ (FR) Joseph Anglade, Les troubadours à Narbonne, vol. 23, nº 2, Romanische Forschungen, 1907, pp. 737-750, ISSN 0035-8126. URL consultato il 18 marzo 2013. 7.^ a b (EN) Derek E. T. Nicholson, The Poems of the Troubadour Peire Rogier, Manchester / New York, Manchester University Press / Barnes & Noble, 1976, pp. vii-171, ISBN 0-7190-0614-7. 8.^ (FR) Fredric L. Cheyette, Ermengarde de Narbonne et le monde des troubadours, Aude Carlier (traduttore), Paris, Perrin, 2006, p. 538, ISBN 978-2-262-02437-6. URL consultato il 19 marzo 2013. 9.^ (EN) Fredric L. Cheyette, Women, Poets, and Politics in Occitania, in Theodore Evergates (a cura di), Aristocratic Women in Medieval France, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1999, pp. 138-177, ISBN 978-0-8122-1700-1. URL consultato il 19 marzo 2013. 10.^ (EN) Linda Mary Paterson, The World of the Troubadours : Medieval Occitan Society, c. 1100-c. 1300, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p. 384, ISBN 0-521-55832-8. 11.^ Vida anonima di Salh d'Escola, testo originale occitano: « Salh d'Escola si fo de Barjarac, d’un ric borc de Peiregorc, fils d’un mercadier. E fez se joglar e fez de bonas cansonetas. Et estet cum N’Ainermada de Nerbona; e quant ella mori, el se rendet a Bragairac e laisset lo trobar e’l cantar » 12.^ (FR) Jean Boutière et Alexander Herman Schutz, éditeurs, Biographies des troubadours : textes provençaux des XIIIe et XIVe siècles, Paris, A.-G. Nizet, 1973, lvii-641. 13.^ (FR) Jacqueline Caille, Ermengarde, vicomtesse de Narbonne (1127/29-1196/97), une grande figure féminine du Midi aristocratique - La Femme dans l'histoire et la société méridionales (IXe-XIXe siècles). (PDF), 66e congrès de la Fédération historique du Languedoc méditerranéen et du Roussillon (Narbonne, 15-16 octobre 1994), Montpellier, Arceaux 49, 1995, pp. 9-50, ISBN 978-2-900041-19-2. 14.^ Vedi anche verso il 1180, Elisabetta di Vermandois, contessa di Fiandra, e il suo matrimonio nel 1159 con Filippo d'Alsazia, conte di Fiandra quando lei era ancora una bambina, contessa di Vermandois succeduta a suo fratello Raoul II, morta il 28 marzo del 1183; i suoi beni devono passare alla sua sorella, Eleonora, e tramite testamento di costei al re Filippo Augusto, vi sarà la guerra, avendo il conte di Fiandra conservato il Vermandois ingiustamente. 15.^ (EN) John Jay Parry, « Introduction », dans John Jay Parry, traducteur, The Art of Courtly Love by Andreas Capellanus, Columbia University Press, New York, riedizione, 1990 (1941, 1959, 1969), p. 20. 16.^ (FR) Jean Renaud, LXXXVI « la Croisade », in La Saga des Orcadiens, Traduite et présentée par Aubier Paris (1990), Parigi, Aubier, 1990, pp. 195-197, ISBN 978-2-7007-1642-9. 17.^ (EN) Jacqueline Caille, « Une idylle entre la vicomtesse Ermengarde de Narbonne et le prince Rognvald Kali des Orcades au milieu du XIIe siècle ? », dans G. Romestan (dir.), Art et histoire dans le Midi languedocien et rhodanien Xe-XIXe siècle. Hommage à Robert Saint-Jean. Mémoires de la Société archéologique de Montpellier, 21, 1993, p. 229-233 18.^ (FR) Jean-Luc Déjean, Quand chevauchaient les comtes de Toulouse, 1050-1250, Fayard, 1979, pp. 148-149. 19.^ (FR) François Grèzes-Rueff, L'abbaye de Fontfroide et son domaine foncier aux XIIe et XIIIe siècles, in Annales du Midi, vol. 89, 1977, pp. 256-258, ISSN 0003-4398. 20.^ (EN) Spanish nobility, fmg.ac, agosto 2012. URL consultato il 19 marzo 2013. |
Queste lande sono così ricche di passioni, sentimenti, storia e grandi donne idolatrate come dee..Grazie per questa nuova donna che ha preso vita dalla vostra penna.
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Perfino le Dee di perduta memoria omerica sarebbero impallidite difronte alla corposità ed alla carnalità di queste Donne che, nel loro tempo difficile, oltre lo spazio, il luogo e le dogmatiche tradizioni, seppero essere amate generando amore in ogni forma ed in ogni direzione. Quanta bellezza, quanto rispetto che aleggia dietro le loro storie, ma soprattutto quale valore antico e maestoso, schiacciante perfino sulla macabra Danza estrema della Signora Senza Pietà...
Come sempre grazie Lady Altea, vostro eterno debitore... Taliesin, il Bardo |
LA COLOMBA DI RIETI: ANGIOLELLA GUADAGNOLI.
Nata a Rieti nel 1467, Angiolella Guadagnoli fu da subito chiamata Colomba, perché al fonte battesimale le si avvicinò proprio una colomba e ciò fu interpretato come segno di predilezione divina. Fin dall'infanzia, viste le severe penitenze che si infliggeva e la vita di preghiera che conduceva, fu considerata una piccola santa. Come il glorioso Padre Domenico, essa, fin dalla culla, rivolse il cuore a Dio, e iniziò, con passo deciso, l’ascesa verso la santità. Ancora in fasce si privava del latte materno. A tre, a sette, a dieci anni le sue penitenze uguagliarono quelle dei più rigidi anacoreti. Il cielo non solo la favori di altissima contemplazione, ma l’arricchì di doni straordinari, come la profezia, la scrutazione dei cuori e i miracoli. A dieci anni consacrò a Dio la sua verginità, e, per perseverare nel suo proposito e vincere le opposizioni dei genitori, si recise la bella chioma. Promessa in sposa a un nobile quando aveva appena 12 anni, rifiutò risolutamente il matrimonio d'alto lignaggio e sette anni dopo, nonostante l'opposizione della famiglia, vestì l'abito di terziaria domenicana. Si mise, poi, in cammino verso Siena, la patria del suo modello di vita, santa Caterina. Una serie di avversità la bloccò, però, a Perugia, dove rimase e fondò un monastero dedito all'educazione delle fanciulle nobili, chiamato delle "Colombe". Anche fuori del Chiostro svolse un fecondissimo apostolato. Soccorse tutte le miserie dell’anima e del corpo, pacificò gli animi dei cittadini divisi da partiti e da lotte fratricide, stornò con le sue preghiere e con le sue suppliche i divini castighi, pronti a scagliarsi sulla città colpevole. Essa fu per i perugini l’Angelo inviato da Dio, troppo presto, però, tolto a loro, perché volò al premio, il 20 maggio 1501, a soli 33 anni. Dal 1488 al 1501, data della morte, si adoperò per sanare le discordie della città (fu ascoltata consigliera dei potenti Baglioni, i signori di Perugia). E la salvò dalla peste nel 1494. Papa Urbano VIII il 25 febbraio 1627 ha riconosciuto il culto. Taliesin, il Bardo Tratto da www.santiebeati.it |
Che questa donna illuminata dal Signore possa essere in queste vostre parole come una Colomba..messaggera di Pace, in questo mondo ve ne è bisogno.
Una donna la cui via al Signore fu destinata già prima di nascere e chissà..forse davvero un "Angelo" sceso in Terra. |
LA MOGLIE DI FRA’ DOLCINO: MARGHERITA BONINSEGNA DA TRENTO.
Molto poche e controverse sono le notizie circa Margherita da Trento († 1307), al punto che persino la sua identità è in forte dubbio. Ci troviamo dunque di fronte ad un caso storiografico molto particolare: la dimensione mitica della sua figura prevale decisamente su quella effettivamente storica. Di Margherita, indicata non da tutta la storiografia successiva come Margherita da Trento (diversi autori le conferiscono una cittadinanza diversa), si presume che fosse originaria di Arco, la qual cosa torna in alcuni verbali dei processi contro presunti seguaci dolciniani, celebrati nel 1332-33 a Trento. In questa zona Dolcino con alcuni fideles era giunto intorno al 1303, in fuga dall'inquisizione e proveniente dall'Emilia probabilmente attraverso l'altopiano di Asiago, e dunque trent'anni dopo l'inquisizione pensa esista ancora il problema di una severa ricognizione, a fini repressivi, su eventuali superstiti della secta Dulcini. Sempre in Trentino, una precedente tornata di processi contro presunti dolciniani si era avuta nel 1303-4, e proprio a questa lontana vicenda si riferisce Boninsegna di Odorico da Arco, interrogato ancora nel 1332, il quale ricorda che, in quanto fratello di Margherita, "punitus fuit graviter et condemnatus in ccc lib. et plus". Raniero Orioli annota che Boninsegna, il 31 dicembre 1332, riferendosi ai dolciniani, dichiara di fronte all'inquisitore: "Molti li seguivano, tanto che sua sorella Margherita, per altro senza che egli ne fosse al corrente, fuggì insieme con loro con quattro ragazzi ed uomini del posto", e "sentì dire più di vent'anni fa che sua sorella era stata catturata a Novara e con altri messa al rogo". Dunque Margherita, conosciuto Dolcino in quel frangente, quando questi si sposta ancora dal Trentino verso le montagne di Valsesia, lascia la sua terra e lo segue: questo almeno è certo. La Historia fratris Dulcini heresiarche dell'anonimo cronista conosciuto come Anonimo Sincrono parla di Margherita in alcuni passi nella sua parte finale: "... l'eresiarca Dolcino fu preso vivo sui monti di Trivero insieme con Margherita di Trento sua compagna e Longino di Bergamo, della famiglia dei Cattanei da Fedo o da Sacco, che erano dopo Dolcino i personaggi di maggior spicco della setta"; e, riferendosi alla condanna e al rogo: "... Allora il Vescovo, convocati in gran numero prelati, religiosi, chierici e laici esperti in diritto, dopo aver deliberato, secondo la prassi e con avvedutezza, consegnò al braccio secolare Dolcino, Longino e Margherita di Trento e questa fu bruciata per prima su una colonna alta, posta sulla riva del Cervo e lì appositamente collocata perché fosse ben visibile a tutti. Fu arsa alla presenza e sotto gli occhi di Dolcino"; e infine: " ... Tuttavia nessuno di loro, neppure Margherita "la bella", volle mai convertirsi, né pregato o per denaro o in qualunque altro modo, al Signore Gesù Cristo e alla vera fede cattolica. Ma così miserabili e pertinaci nella loro ostinazione e durezza di cuore morirono". Nel De secta illorum qui se dicunt esse de ordine apostolorum, allegato da Bernard Gui alla sua Practica inquisitionis haereticae pravitatis (fondamentale manuale ad uso degli inquisitori dell'"eretica pravità", Margherita viene definita "scellerata compagna di Dolcino ( di delitti e di follia), e l'aggettivo "malefica" utilizzato dall'inquisitore tolosano già fa presagire il nucleo di un'operante streghizzazione, che darà i suoi frutti avvelenati nella caccia alle streghe in particolare nei secoli XVI e XVII. Esponendo i contenuti della epistola ad fideles inviata da Dolcino nel dicembre 1303, Gui dice che Dolcino considerava Margherita "più di tutti a lui carissima (pre ceteris sibi dilectissimam)", e descrivendo la loro esecuzione dice che "le membra di entrambi, insieme con quelle di altri loro complici, furono messe al rogo, come giustamente esigevano i loro delitti". Accenna pure ad uno stato di gravidanza della donna al momento della cattura. Al proposito va però ricordato che le norme impedivano di porre al rogo donne incinte, è dunque presumibile che, se fosse davvero stata incinta al momento della cattura, nei circa tre mesi che intercorsero prima del rogo Margherita abortì, non sappiamo se spontaneamente o coattivamente: circostanza che aggiunge ulteriore drammaticità alla sua personale vicenda. Nella Lettera diretta alle regioni di Spagna contro i seguaci dell'eretico Dolcino che falsamente si dicono e professano apostoli di Cristo, il Gui reitera il giudizio su Margherita "compagna (di Dolcino( nel delitto e nell'errore". Questo è in sostanza ciò che sappiamo dalle principali fonti coeve. Dalle tradizioni successive Benvenuto da Imola, nel suo Commento a Dante, Inferno XXVIII, afferma di Dolcino: "... Catturato insieme a sua moglie Margherita", descritta come dotata di una "pulchritudinem immensam". Ma Benvenuto scrive la sua opera una settantina d'anni dopo la morte di Dolcino e Margherita, è dunque già impossibile considerarlo come una fonte coeva. Qui Margherita è già diventata "moglie" di Dolcino. Con Benvenuto da Imola si inaugura così una tradizione più orientata al mito che alla storia, la quale avrà sviluppi fantasiosi i più mirabolanti, riferibili quasi in egual misura alle due storiografie fortemente ideologiche che per secoli si confronteranno, l'una tesa alla criminalizzazione e demonizzazione degli apostolici, l'altra all'opposto tesa all'idealizzazione positiva. Sul primo versante, un esempio ottocentesco, può bastare a segnare questo mito negativo. Il sacerdote Gerolamo D. Moglia così descrive l'incontro di Dolcino con Margherita in terra trentina: "Non andò molto che il laido uomo seppe che l'orfana Margherita era stata per la sua educazione collocata dai suoi parenti nel Monastero di S. Caterina di quella città. Allo scaltro impostore non ci volle altro e colle maligne sue arti seppe sì bene raggirarsi, che di lì a poco fu ammesso in quello stesso monastero nella qualità di spenditore. Il nuovo suo impiego gli porse il destro di avvicinarsi all'adocchiata preda: confabulò con essa alcuna volta e l'affascinante sua parola non tardò a produrre il suo effetto. Margherita dotata d'animo fiero, penetrante, risoluto e tenace era già sua". Sul secondo versante, può bastare la seguente descrizione operata da Nino Belli e Giuseppe Ubertini in un piccolo libro edito in occasione del VI centenario del martirio di Dolcino e Margherita, nel 1907: "Ma non è più solo. L'accompagna una giovane donna, bella di corpo e bella d'animo, la gagliarda Margherita, sublime creazione di donna, appassionata e fedele come la Eloisa di Abelardo, grande nella sventura e nel martirio...". Il fascino di questi toni leggendari ha ispirato anche una vasta produzione poetica e romanzesca sino ai nostri giorni. La tradizione ci consegna dunque Margherita bella, indomabile, incorruttibile, "munga" cioè monaca. Il termine monaca, passato nella tradizione popolare, può riferirsi non tanto ad un effettivo status monacale della donna prima dell'incontro con l'eretico, quanto alla non-distinzione tra i montanari valsesiani del trecento tra un'identità religiosa - dall'inquisizione definita "eretica" - ed il concreto appartenere ad un ordine ufficialmente costituito. Per i montanari valsesiani che incontrano gli apostolici, essi possono essere stati considerati monaci o addirittura santi proprio a ragione della credibilità del messaggio e dello stile di vita. "Monaca" come parola popolare si contrappone dunque alla definizione "scellerata compagna di delitti e di follia" che si trova in Bernard Gui. Possiamo dire che la memoria popolare conserva un ricordo e giudizio positivo di Margherita, e oppositivo rispetto a quello dell'inquisizione e della cultura interpretativa che ne derivò. Dunque, per restare fedeli alla storia, la vicenda conosciuta di Margherita da Trento è racchiusa in un periodo di tempo di soli tre anni. Incontra Dolcino, abbandona tutto per seguirlo, muore sul rogo senza abiurare la propria scelta-airésis. Una scelta affettiva, religiosa, etica anche di fronte al rogo. Qui sta l'umanità di una donna dalla personalità completa, che emerge dalle cronache insieme a molte altre donne "apostoliche", circa un'ottantina, di estrazione sociale e culturale assai diversa tra loro, ricettatrici o fautrici interne o attigue al movimento sin dal suo sorgere con Gherardino Segalello intorno al 1260 nel parmense. Altre donne apostoliche prima di Margherita avevano conosciuto il rogo, sia a Parma che in Trentino. Altre donne apostoliche avevano incontrato i rigori dell'inquisizione, il carcere e la tortura. Però Margherita, forse proprio per la brevità drammatica del suo apparire e scomparire dal palcoscenico della storia, viene rivestita di quell'alone leggendario che solo a lei è riservato. Perché? Per essere stata amata da Dolcino, perfidus heresiarcha? Forse. Perché affronta il rogo senza l'abiura che l'avrebbe salvata? Forse. Perché in quanto "bella" avrebbe facilmente potuto scegliere altre strade da seguire, ben lontane dai dirupati sentieri della montagna in rivolta? Forse. Ma, insieme a questi motivi, Margherita diviene leggenda proprio in ragione della completezza del suo essere donna: non mistica o scienziata o polemista o "perfetta" nella sua fede. Solo donna, con tutta la sua femminilità. Semplicemente donna, che sceglie e porta sino in fondo la propria scelta. Proprio questa completezza, semplicità e disarmante linearità della sua persona è impensabile allo spiritus inquisitionis, incapace di catalogarla nelle sue categorie interpretative predefinite e autoreferenziali. Il femminile è impensabile per l'inquisizione, e piuttosto che la mulier opera già la malefica, cioè la strega. Nel caso di Margherita e del triennio che la vede protagonista, se ci riflettiamo bene incontriamo la sua figura soltanto in luoghi impervi di montagna. Margherita e la montagna: una donna e la montagna. Il nemico, al contrario: uomini, solo uomini della città. Donna e montagna che resistono contro un universo maschile e cittadino. Margherita aiuta, da questo punto di vista, a spiegare anche, almeno in parte, l'accoglienza e l'ospitalità che i montanari valsesiani riservano ai pochi dolciniani che giungono: gli eretici hanno con sé anche alcune donne, e la figura femminile è prioritaria e carismatica nella società arcaica di montagna, con la sua cultura sciamanica e la sua sapienza antica. Possiamo anche cercare d'immaginare la scena. Pochi uomini e donne laceri, mendicanti volontari, in fuga dall'antico nemico della stessa autonomia e libertà per la quale la gente di montagna aveva spesso combattuto, giungono fra le casupole del piccolo borgo rustico trecentesco di Campertogno, condotti qui da due uomini del posto, dolciniani essi stessi: Milano Sola e Federico Grampa. Sulla piccola piazza malamente lastricata di pietre sconnesse accorrono gli uomini del villaggio, dietro sono le donne vestite di nero, i volti rugosi, scabri, come scavati dalle intemperie, dal sole, dal freddo. Tutti magrissimi, segnati dalla fatica quotidiana e dalla cronica scarsità alimentare. Gli eretici chiedono rifugio. Parlano con gli uomini del villaggio, si aspettano aiuto e salvezza. Le donne del paese ascoltano in silenzio, più defilate. La loro vita è sempre fatta più di silenzio che di parole. Parole ne sanno poche, e quelle che sanno rispondono ad un lessico ancestrale, glossolalico, dialettale, difficilmente comprensibile per chi viene da fuori. Alla fine gli uomini del villaggio si rivolgono alle loro donne: li accogliamo o no? Scelta non facile, anche perché sfamare bocche in più potrebbe essere un azzardo rischioso. Forse non c'è stata neppure una risposta detta, solo un cenno del capo o uno sguardo. La risposta è sì. Le donne del villaggio alla fine prendono la decisione. Qui inizia la storia di una resistenza montanara ed ereticale che assurgerà ad epopea dai tratti apocalittici, oggetto di studio e di scontro ideologico per sette secoli a venire. Le donne del villaggio, prima di annuire, hanno guardato i nuovi venuti e le loro donne. Hanno guardato Margherita e le altre. Hanno visto boni homines e bonae mulieres. E poi hanno annuito. I nuovi venuti, allora, entrano esausti nelle casupole dai tronchi e dai muri a secco anneriti dal fumo, con il fuoco al centro della stanza, con pochi, scheletrici animali lì ad alimentare di calore la grama vita degli umani. Un pezzo di formaggio, un tozzo di pane raffermo che durava anche un anno, acqua e un po' di calore, di riposo. E' la salvezza, almeno momentanea, dal nemico. Una salvezza che in grande misura parla un linguaggio femminile. Linguaggio e carisma femminile Con Margherita, un cristianesimo che a sua volta parla un linguaggio anche femminile, che non riserva alla donna un ruolo subordinato, incontra una società ove la custodia della dimensione spirituale è riservata sostanzialmente alle donne. Questo incontro tra eresia e montagna è il vero pericolo avvertito dal sistema che nutre la sua cultura di spiritus inquisitionis, e dunque decide di utilizzare uno strumento già ampiamente sperimentato: la crociata contro il nemico interno, per troncare questo legame. "Carisma": questa è la parola chiave per capire l'incontro tra dolcinianesimo, dolciniani e montagna, montanari. Non "eresia" o "ortodossia": concetti troppo dotti, parole sconosciute alla fierezza indomabile degli umani delle alte quote. Carisma, che significa credibilità, autorevolezza, rispettabilità offerte e recepite gratuitamente, non in ragione del do ut des che, con il mercato in espansione, il potere, la soggezione, sale dalle città "politiche" verso le terre incolte e selvagge popolate dai miti e riti dell'arcaico che non vuole morire. Le terre alte sono "impolitiche" in quanto storicamente in opposizione alla polis e a tutto il suo sistema. Apollo, il fondatore di città, trova qui l'irriducibile Dioniso, con le sue Baccanti, la sua Sibilla, i suoi Fauni custodi del sogno. Trova la resistenza strutturale di tutto quel variegato popolo che foris stat e rifiuta di entrare non solo all'interno delle mura della città, ma anche all'interno delle sue logiche espansive. Margherita esprime il carisma femminile. E le donne del villaggio lo sanno, lo comprendono. "Com-prendere": e com-prendono gli eretici, li prendono con sé. Perché sentono assonanze tra loro: poveri gli uni e gli altri, visti con ostilità dalla città gli uni e gli altri, comunitari gli uni e gli altri, irriducibili gli uni e gli altri al linguaggio dell'uno. Ma liberi gli uni e gli altri, gli uni in ragione di un cristianesimo della libertà o liberazione immanente e imminente - secondo l'escatologica teologia della storia di Dolcino -, gli altri in ragione della montagna che difende la propria antica identità e autonomia. Poco tempo passerà nella quiete, prima della battaglia. In questo frattempo Margherita segue le donne vestite di nero, nel bosco, al pascolo, alla cucina magica e alle cure sciamaniche per gli ammalati, fatte di sapienza e di erbe, di parole e invocazioni ad altri sconosciute. Impara, ascolta, racconta specie la sera intorno al fuoco. Come si può rescindere un legame umano e affettivo di questo genere, che si fonda sulla gratitudine per la salvezza raggiunta? Quando il nemico giungerà, uomini e donne della montagna prenderanno i loro arnesi da lavoro e da caccia e combatteranno, e con loro Dolcino, Margherita e gli altri "ereticati". Il legame tra loro s'è fatto indistruttibile: è la fraternitas di chi resiste per sé e per un'idea di libertà. Il prezzo dell'accoglienza Il prezzo che sarà fatto pagare ai montanari per l'accoglienza riservata gli eretici è dei più pesanti: molti moriranno combattendo, anche donne, molti altri saranno costretti, e tra questi i soggetti femminili più deboli evidentemente, ad abbandonare la propria terra e a raggiungere terre lontane mendicando quivi una nuova, derelitta esistenza: "... Itaque in illa contrata fere per decem miliaria pauci vel nulli habitabant et remansit contrata illa derelicta et gentes illius contrate discurrebant per alienas patrias mendicando". Non è difficile immaginare che proprio di donne si trattasse, in prevalenza, quelle più deboli, anziane o con figli piccoli per mano. Portano lontano dalla loro terra la propria disperazione, il cupo sentimento della distruzione, del lutto e della sconfitta, il ricordo del tempo perduto e dei luoghi natii dai quali mai prima si erano allontanate, e forse il sogno di una rivincita e di una vendetta. Communitas Dolciniani e montagna hanno un sistema di valori in comune che può essere sintetizzato nel concetto di "comunità carismatica": quella apostolica, a cui la teologia della storia di Dolcino ha affidato un compito storico universale vissuto nell'ansia dell'imminenza, quella rustica originaria che racchiude lo spirito ancestrale della natura animata. Qui risiede la condizione storica dell'incontro possibile tra un cristianesimo anti-cattolico e la società arcaica delle alte quote. Fenomeno non nuovo nella storia, se si riflette per esempio sulla vicenda valdese, sulla vicenda catara tragicamente conclusasi a Montségur, su quella dei giovannali di Corsica, successiva di mezzo secolo alla vicenda dolciniana. Forse, più di altre analisi, può bastare a dimostrazione dell'analogia tra epilogo della vicenda catara ed epilogo della vicenda dolciniana, accostare le immagini del Monte Sicuro (figura 7) e del Monte Rubello (figura 8), le cui somiglianze morfologiche appaiono veramente impressionanti, entrambi teatro di tragiche sconfitte eretiche e conseguenti massacri, in battaglia (al Monte Rubello) o in rogo collettivo (a Montségur). Gli eretici (o meglio: ereticati) vengono progressivamente cacciati dalle città e spinti sulle montagne, ultime terre di rifugio, ultime terre di libertà. E qui, infine, sconfitti e trucidati. La comunità, dicevamo: ma può esistere una comunità concreta e "totale" nel suo spiritus libertatis senza o contro il femminile storico e spirituale? No, se per "totale" s'intende il rifiuto di qualsiasi dimensione legata al possesso. Può esistere un monastero, ma esso è già possesso, spazio conclusus, e in quanto tale elemento - secondo i dolciniani - non cristiano, cioè non fedele alla sequela Christi. Coloro che effettivamente interpretano e attuano nella loro concreta esistenza l'esempio di Gesù, rinunciano a tutto per la libertà, e pertanto diventano vagabundi, o meglio vagamundi, per incontrare il dio della libertà, il dio di Gesù non al di fuori o contro il mondo, ma sporcandosi le mani nei mali del mondo. Dalla convinzione che tutti sono uguali di fronte a dio deriva pertanto l'affermazione di uguaglianza tra maschile e femminile. Ecco il valore fondante del femminile nel dolcinianesimo, così distintivo rispetto ad altre forme di spiritualità cristiana medievale, valore fondante che la cultura e lo spiritus inquisitionis immediatamente ri-definisce come aberrazione morale, depravazione sessuale e persino reale presenza diabolica che trasforma questi cristiani in streghe e stregoni strumenti di Satana. L'amore Stando alle fonti coeve, si potrebbe addirittura dubitare che tra Dolcino e Margherita si fosse realizzato un incontro d'amore. Le fonti coeve non ce ne danno una prova sufficiente. Ma ammettendolo, questo sentimento e questo legame ci riporta, ancora una volta, alla dimensione pienamente umana di quella che è diventata un'epopea eroica ed apocalittica. L'amore tra un uomo e una donna è cosa normale, per gli apostolici, sin dall'epoca di Gherardino Segalello e della sua prova del nudus cum nuda. Un amore libero, sincero, che non rinnega la pienezza dell'eros e che tra uomo e donna instaura un vincolo spirituale, non contrattuale ove - sembra di capire nel pensiero "apostolico" - vi è un'aprioristica limitazione di libertà reciproca. Tra gli "errori" addebitati dal Gui a Dolcino vi sono i seguenti: "E' lecito ad un uomo giacere nudo insieme ad una donna nuda nello stesso letto ed essere stimolato carnalmente finché cessi la tentazione: questo non è peccato. Giacere con una donna e non unirsi carnalmente con lei è cosa più grande che risuscitare un morto". Non così nell'elaborazione etica, giuridica e soprattutto politica che emana dalla chiesa di Roma, che viene progressivamente a concepire la liceità dell'amore unicamente all'interno del vincolo della "famiglia cattolica" e della finalità della procreazione, e perciò tende a ribaltare proprio sui movimenti ereticali più portati alla castità l'accusa opposta, di devianze sessuali di vario genere. Basterà al proposito ricordare che uno dei princìpi elaborati dal Malleus maleficarum di Sprenger e Institor al volgere del Quattrocento, su cui si baserà la sistematica caccia alle streghe in Europa, è la definizione e la condanna dell'"amore eretico", quello che si realizza fuori dal vincolo familiare e il cui scopo non è unicamente la procreazione. Opera diabolica, maleficium di streghe, l'amore liberamente inteso è un terribile pericolo sociale in quanto provoca disordine, e dunque agisce, in questo impulso o sentimento "disordinato", il nuovo padrone del mondo, Satana in persona mediante gli esseri che con lui hanno stretto un patto di morte contro gli uomini, le streghe. La memoria Una piazza a Biella è, da pochi anni, dedicata a Margherita da Trento. Tutta la bibliografia sugli apostolici, di qualunque orientamento, ovviamente la ricorda. Non così la toponomastica di varie città e paesi, ove molte vie sono dedicate a Dolcino, non a lei. Soprattutto, è ricordato il suo coraggio di fronte al rogo, quando un universo tutto maschile vorrebbe imporle l'abiura che Margherita rifiuta. Viene cioè ricordata più per la sua morte che per la sua vita. Noi, non per sentimentalismo ma per un atto di rispetto che possa corrispondere a un tentativo possibilmente onesto di pur parziale ricostruzione storica, riteniamo più giusto immaginarla - solo immaginarla, purtroppo - sulle verdi montagne di Valsesia, libera tra le foreste e i luoghi impervi che furono provvisorio rifugio suo e dei suoi compagni. Forse in quel breve periodo ha avuto anche qualche momento felice, con Dolcino, con gli apostolici con cui condivideva, senza conoscerlo, il destino finale. Forse, per un momento, ha corso sorridente con i capelli sciolti al vento del Monte Rosa, la "montagna madre" dai ghiacciai scintillanti. Noi possiamo per un breve attimo immaginarla nel sole del mattino, come Euripide immagina le Baccanti: “Andate, andate Baccanti orgoglio del Tmolo dai fiumi dorati, cantate Diòniso al suono profondo dei timpani, celebrate con inni di gioia il dio della gioia, tra voci e clamori di Frigia, quando il flauto sacro diffonde sonoro sacre melodie e i canti accompagnano le donne furiose sul monte, sul monte. Felice, come una puledra al pascolo con la madre, con balzi veloci corre la Baccante.” E possiamo, immaginandola così, ricordare un antico proverbio di genti di montagna: “Finché esisteranno le Alpi da qui scenderà un soffio di libertà…” Taliesin, il Bardo |
Una donna davvero carismatica e un mistero Margherita, che ha portato una sua verità nella morte, comunque ingiusta.
Sapete sir Taliesin, dalle mie parti nell' estremo nord est, è proprio dalle Alpi, dalla montagna che provengono le storie più note su stregoneria e altri riti...di cui ne ho parlato qui a Camelot, storie che mia mamma da bambina sentiva tramandate pure dalla sua famiglia. Ricordiamoci uno scrittore contemporaneo che della "sua e nostra montagna e tradizioni" ha tratto ispirazione..Mauro Corona. Permettetemi questa parentesi, magari fuori luogo, ma è per simboleggiare proprio i misteri delle Alpi, come ben menzionate alla fine. |
Milady Altea...
Quando le "parentesi" pennellano i lineamenti e le sfumature di un Dipinto con arricchimenti ed emozioni crescenti, possono collocarsi in qualsiasi sorta di spazio e di tempo, intersecandosi come antichi pezzi di puzzle...Grazie per esserci sempre e per avere citato un Uomo di questo tempo, che, per una sorta di strana magia, un pò mi somiglia... Taliesin, il Bardo "Un pò l'ho assorbita. L'amore-odio in realtà nasce dalla consapevolezza che la donna è molto più forte dell'uomo. Tiene la prole nel suo ventre poi la cresce e la protegge: è una tigre la donna. E mantiene l'istinto primordiale anche quando non ha piccoli. L'uomo checché ne dicano i fighetti è svantaggiato. Osserviamo la natura: i camosci maschi si spaccano le ossa a forza di cornate e i galli cedroni si strappano le penne a vicenda mentre le femmine se ne stanno a lato ad assistere. Nelle mie sculture il sublime del femminile non lo trovo nella forma fine a se stessa ma piuttosto nel disegno di Dio di affidare il misterioso dono della maternità alla donna..." Mauro Corona |
IL PRETESTO DEL PRIMO MEDIOEVO: GIUSTA GRATA ONORARIA.
Giusta Grata Onoria (latino: Iusta Grata Honoria; Ravenna, 417 o 418 – Roma, prima del 455) è stata augusta dell'Impero romano. Fu il pretesto dell'invasione di Attila del 451 e 452. Figlia di Flavio Costanzo, futuro imperatore Costanzo III (421), e Galla Placidia, fu la sorella maggiore dell'imperatore Valentiniano III, che salì al trono nel 425. Fu obbligata dal fratello a non sposarsi, ma nel 449 ebbe una relazione con il custode delle sue proprietà, Eugenio, probabilmente volta a ottenere il potere per Onoria: scoperti, Eugenio fu mandato a morte e Onoria in esilio a Costantinopoli. Obbligata a fidanzarsi con il senatore Flavio Basso Ercolano, Onoria nella primavera del 450 aveva inviato al re degli Unni una richiesta d'aiuto, insieme al proprio anello, per sottrarsi a questo matrimonio: la sua non era una proposta di matrimonio, ma Attila interpretò il messaggio in questo senso, ed accettò pretendendo in dote metà dell'Impero d'Occidente. Quando Valentiniano scoprì l'intrigo, fu solo l'intervento della madre Galla Placidia a convincerlo a mandare in esilio Onoria piuttosto che ucciderla e ad inviare un messaggio ad Attila, in cui disconosceva assolutamente la legittimità della presunta proposta matrimoniale. Attila, per nulla persuaso, inviò un'ambasciata a Ravenna per affermare che Onoria non aveva alcuna colpa, che la proposta era valida dal punto di vista legale e che sarebbe venuto per esigere ciò che era un suo diritto. Quando la sua richiesta fu rifiutata, invase l'impero nel 451 e 452. Tratto da wikipedia, l’enciclopedia del sapere. Taliesin, il Bardo |
Davvero interessante...possiamo dunque paragonare Onoria in una Elena?
Chissà... |
L'IMMORTALE RITRATTO DI UNA GAZZA DI SVENTURA: BATTISTA SFORZA
Scarse sono le notizie su Battista Sforza Montefeltro. L’ultima biografia, breve ma sistematica, risale al 1795, realizzata da Nicola Ratti all’interno del volume Della Famiglia Sforza. Quel poco che si sa di Battista, frutto più di leggenda che di ricerca storica, è un destino comune a tante “principesse” del Rinascimento italiano. I documenti rivelano il loro ruolo nella conquista e gestione del potere, accanto ai loro mariti. Come afferma la Mazzanti, alle “principesse”, durante le lunghe assenze dei rispettivi mariti, è demandato il compito del buon governo dei popoli. Infatti, su una situazione di pace interna, di corretta amministrazione della giustizia, di una tassazione meno gravosa possibile, di grandi opere edilizie, il principe fonda il mantenimento del potere, mentre la fama della sua forza economica, politica e militare diventa elemento indispensabile di sopravvivenza. Si cerca di garantire il successo raggiunto con alleanze politiche importanti e un’attenta politica matrimoniale che lega casate da un capo all’altro della penisola. L’intreccio di parentele diventa spesso così stretto da rendere a volte necessarie, come nel caso di Battista e Federico, dispense papali per rimuovere l’ostacolo della consanguineità. Su questo panorama, si staglia la personalità singolare di Battista Sforza, donna intelligente, colta, atta al governo. Alla grande cultura della contessa va ricollegata la formazione della grandiosa biblioteca del palazzo urbinate, che trova degna collocazione nel salone appositamente costruito per ospitare codici rari e preziosi. Battista è creatura viva e vivace, con la convinzione che la cultura sia a servizio della vita attiva, posizione nella quale si ritrova una giustificazione della cultura umanistica femminile che perdura nel tempo. Figlia di Alessandro Sforza e Costanza Varano, nasce a Pesaro nel 1446. In tenera età, è condotta a Milano presso lo zio Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, e qui entra a contatto con un circolo di giovani letterati. Moglie di Federico da Montefeltro dal 1460, sa conciliare la cultura umanistica con la sua condizione di donna del tempo, apprezzata fortemente per le sue virtù e per la capacità di occuparsi con ottimi risultati, durante le assenze del marito, dell’amministrazione dei suoi possedimenti. Nel 1461 è accolta a Roma dal pontefice Pio II, davanti al quale la contessa recita un’elegante orazione, da cui emerge la sua cultura e in particolare l’insegnamento di Martino Filetico, che nelle Iocundissimae Disputationes riporta la dissertazione di Battista con il fratello Costanzo sulla superiorità della lingua greca rispetto a quella latina. Le Disputationes danno un ritratto vivo della duchessa, segnato anche dalla presenza di alcuni toni colloquiali e di garbata ironia; si riferiscono poi all’esercizio di funzioni pubbliche e rivelano l’interessamento della duchessa ai preparativi militari. Battista è erede di una tradizione al femminile che inizia con la bisnonna Battista Montefeltro, la figlia di lei Elisabetta Malatesti Varano e la nipote Costanza Varano Sforza. Sono donne note in campo letterario e politico che, nonostante l’inferiorità femminile sancita dalle dottrine del tempo, sono parte attiva nella conquista e mantenimento del potere dei mariti. La cultura di queste donne è usata anche politicamente in orazioni rivolte a imperatori o a pontefici, nelle quali rivendicano i diritti della propria casata: a contatto con i maggiori letterati del tempo, sanno utilizzare il latino e il volgare. Lo studioso Guido Arbizzoni delinea la figura di Costanza da Varano, madre di Battista e Costanzo, morta ventunenne nel 1447. Battista, nella sua breve esistenza, sembra reincarnare la madre, donna straordinariamente colta e letterata, in relazione con illustri umanisti. Costanza era stata in grado di fronteggiare, con iniziative politiche personali, le avversità che avevano colpito la sua famiglia, come quando, ancora sedicenne, pronunciò un’orazione davanti a Francesco Sforza per ottenere la restituzione della signoria al fratello Rodolfo. Della madre Costanza si avverte la mancanza nell’indipendenza un po’ indisciplinata di Battista, la sua abitudine al comando, dovuta forse al senso di superiorità nei confronti delle altre donne, inferiori per educazione e cultura, o per il fatto di essere sola a prendere decisioni sulla sua vita. La zia Bianca Maria sarà il modello dell’esistenza di Battista; simile è il carattere e il destino di entrambe: hanno mariti più anziani di loro di cui sono innamorate e da cui sono riamate, sono donne energiche, atte al governo, che affiancano i coniugi, non solo nella scalata al potere, ma anche sui campi di battaglia. Non sono riconducibili a stereotipi, perché troppo colte per l’immagine di donna sposata, reggono lo Stato senza rinunciare alla loro femminilità, non mettono la loro cultura all’esclusivo servizio di Dio e, anche se mogli e madri felici, svolgono attività politiche, culturali, legislative, suscitando l’ammirazione dei contemporanei. Nicola Ratti nel secondo volume Della famiglia Sforza, nel capitolo relativo a Battista Sforza, afferma “Potrà trovarsi donna più diligente ed attenta nell’amministrazione delle cose domestiche di Battista? Eppure fu lei stessa che si applicò insieme alle buone lettere e con tanto successo. Si dica, ora, che lo studio delle medesime non è per le donne. Noi non pretendiamo già che debba esser questo un punto fisso e indispensabile per la loro educazione. Si applichi ognuno a ciò che è coerente alla sua nascita, alla propria condizione, al sesso e giacché delle donne parliamo, siano le loro principali occupazioni i lavori muliebri, la cura dei figli. Ma se talvolta si fanno ad esse apprendere altre cose ancora che accrescano il numero delle loro qualità ed ornamenti, non sappiamo persuaderci perché abbiano a scegliere quelle che atte sono unicamente ad ammollire i costumi, e non piuttosto le umane lettere che istruiscono e formano la persona.” Battista inizia a rendersi conto di cosa significhi nel suo mondo essere nata donna; questa nuova consapevolezza fa sì che non ci “fu donna veramente in Pesaro che in lavori di tela, d’ago, d’oro, di seta fosse eccellente ch’ella non la volesse per maestra. Quindi al governo et alla cura famigliare si rivolse tanto che in breve operò sì che nel regimento della casa d’Alessandro pareva che Costanza fosse resuscitata”. Diventata contessa di Urbino, pretende la stessa abilità dalle “donne ch’ella aveva in casa, che erano con una bellissima disciplina governate et non erano mai lasciate otiose; né solamente voleva che sapessero lavori delicati, ma filare ancora et governar la famiglia, facendole essere al far del pane et del bucato; dicendo loro che se fossero per andar a marito voleva che sapessero tutto quello che al governo della casa era necessario”. Tutto questo “accanto allo studio delle lettere non mai dimenticato”. Tutti gli autori del tempo scrivono delle nozze di Federico e Battista, delle feste grandiose a Pesaro e a Urbino, in particolare Ser Gaugello de la Pergola ne parla nelle sue opere De vita et morte del 1472 e Il Pellegrino del 1464. Nel De vita egli narra l’addio di Battista alla sua città natale e la gioia degli urbinati al suo arrivo. L’arrivo della nuova duchessa nei territori del consorte assume una tipologia che esalta la stirpe della sposa e le virtù che la rendono degna moglie del principe. Legata alla cerimonia cavalleresca dell’investitura, la sposa è accolta da un corteo che, muovendo dai confini del suo nuovo Stato, la accompagna fino alla capitale, mentre tutti sono in festa. Ser Gaugello ne Il Pellegrino dedica un capitolo intero alla descrizione delle nozze, soffermandosi sugli addobbi delle sale della residenza del conte di Urbino. Gli ospiti di riguardo sono accolti nelle stanze riscaldate, in strutture confortevoli, ambienti appositamente e provvisoriamente edificati nella piazza davanti all’abitazione del conte. Il matrimonio è un’occasione importante di incontro di uomini politici che discutono dei loro interessi e della situazione generale. Le lettere dell’oratore milanese e tutte quelle in partenza da Pesaro e da Urbino danno ampie informazioni sugli ospiti d’eccezione, tra i quali si intrecciano fitti colloqui sul difficile momento politico e sui provvedimenti da prendere per la guerra nel regno di Napoli. Le nozze sono comunque un’occasione di festa e allegria, unite ai festeggiamenti per il carnevale. La stessa Battista Sforza viene ricordata da molti biografi per i motti spiritosi che dimostrano la sua notevole arguzia. Così, nemmeno due mesi dopo le nozze, Battista, già in attesa del primo figlio, rimane a reggere lo Stato durante una delle più lunghe attese del marito, impegnato lontano in una guerra difficile. “Baptista, sposa illustre, deponendo ogni mollicia, come cupida de vera gloria, aiutava cum omne sollecitudine l’andata del marito, fin ad aiutarlo cum le proprie mane armare. Et in questo principio remase al guberno cum tanta prudencia et animo che facea de maraviglia stupire altrui; per il che tutti li suoi populi ne haveano grandissimo conforto”. Battista dà subito prova di una forza d’animo senza cedimenti, che le consente di svolgere il suo nuovo ruolo, aiutando addirittura il marito ad indossare l’armatura, desiderosa solo di sostenerlo con il conforto della forza del suo carattere. Quando i mariti sono assenti, spetta alle mogli anche questo compito. Il vescovo Campano riferisce come Battista “si rivolse alla cura dei confini, ricostruendo le rocche, fabbricando magnanimamente e Federico la gloria non mai sì grande avrebbe conseguito se non avesse potuto lasciare a casa questa Padrona di tutto e certamente nata per comandare.” Quella del vescovo è un’orazione funebre letta pubblicamente alla presenza dei potenti d’Italia, a Urbino per commemorare Battista. La formazione della parte più cospicua della biblioteca di Federico è datata tra gli anni 60 e 70 del XV secolo. Proprio nella seconda fase dei lavori a palazzo, coincidenti con l’età in cui Battista è contessa, viene costruito il salone per ospitare i preziosi codici che il conte fa venire da ogni dove, avvalendosi del libraio fiorentino Vespasiano da Bisticci. Accanto ai grandi volumi di rappresentanza, vi sono anche i piccoli, maneggevoli, fatti per essere letti, trasportati, come i Paradoxa di Cicerone, che Battista tiene sul suo altarino, in camera da letto. Piero della Francesca dà un’iconografia insolita della contessa, che testimonia come l’interesse per i testi sacri e profani sia uno dei motivi portanti della sua esistenza e come questa cultura umana possa essere il tramite con la cultura divina, tanto che è inimmaginabile anche nell’aldilà che Battista non legga. Federico, seppur non ami i libri stampati, fa stampare l’orazione funebre del vescovo Campano riguardante Battista, perché sia diffusa in tutte le corti, per far conoscere la vita attiva della moglie. Nell’intensa attività di Federico Veterani risalta un volume miscellaneo che l’autore dedica al suo principe, in cui sono raccolti tutti i componimenti inviati a Federico in occasione della morte dell’amata seconda moglie. Un volume, anteriore al 1474, ha come sua particolarità la presenza dell’anello sforzesco dipinto, al centro del margine superiore del frontespizio. Questo indizio consente di collegare il libro alla giovane e colta moglie di Federico. Tale anello compare solo in un altro codice urbinate, quello madrileno dei Trionfi di Petrarca: qui ricorre sia all’interno della ricca ornamentazione del frontespizio, sia nella decorazione sovrastante il Trionfo di Amore, e questo secondo particolare può essere un omaggio del duca alla moglie defunta. Si tratta inoltre di una raccolta di testi metrici e retorici che sembra rispondere alla richiesta che Battista rivolge all’umanista Martino Filetico suo maestro, all’inizio delle Iocundissimae Disputationes. Il testo si apre con la richiesta di Battista di apprendere “la quantità delle sillabe” per apprezzare a pieno i grandi poeti antichi. Battista sapeva leggere e apprezzare queste opere ed è probabile che si sia adoperata per procurarle e farle copiare a Urbino. Buona parte di manoscritti arrivarono a Urbino prima della sua morte e le sue scelte orientarono lo sviluppo della collezione libraria. Il precoce acquisto di testi grammaticali e retorici suggerisce l’influenza della donna e di Martino Filetico; oltre a quelli più classici e diffusi, ci sono anche autori minori in miscellanee copiate o assemblate a Urbino. In un passo delle Iocundissimae Disputationes, Battista domanda alla sua ancella di portarle i Paradoxa Stoicorum che sta analizzando e il codice che contiene l’opera è stato confezionato a Firenze tra il 1460 e il 1470, quando Battista è a Urbino. Il De Saturnalibus di Macrobio, citato nelle Iocundissimae Disputationes, è stato prodotto dallo scriptorium urbinate prima della morte di Battista. L’alta frequenza nella biblioteca federiciana dei Codici miniati da Francesco Rosselli, con la pagina rosselliana che costruisce fregi metallici o orafi, che somigliano a gioielli, crea un paragone tra i clipei del titolo, cinti da file di perle intercalate a pietre preziose e il collare al collo di Battista nel dittico, così i preziosi castoni e le broche che fermano i capelli della contessa, disseminati nelle pagine urbinati. La biblioteca dei duchi di Urbino, traslata a Roma nel 1657, è custodita tuttora presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Ben prima del trasferimento definitivo, a cominciare dal sacco del Valentino, nel 1502, la biblioteca subì traslochi e traversie che furono occasione per la dispersione di un numero non irrilevante di libri: la perdita di gran lunga più grave, tuttavia, fu quella del suo ordine originario, ordine in parte recuperabile a cominciare dal cosiddetto Indice vecchio. Dopo la nascita del tanto atteso erede maschio Guidobaldo nel 1472, Battista si ammala e muore. Il 17 agosto si tiene la solenne commemorazione, l’orazione del Campano e i Threnos panegyricos di Martino Filetico in onore dell’allieva. Il Filetico, in una nota marginale ai Threnos panegyricos, dirà che Battista ha lasciato molte lettere, epigrammi molto belli ed una elegantissima traduzione latina dal testo greco dell’orazione di Isocrate a Demonico. Il vanto del Filetico di aver proprio lui guidato l’educazione di Battista, diventerà esplicito quando ricorderà anche l’attività letteraria e l’orazione pronunciata a Roma nel 1461 dinanzi a Pio II “Glorior hanc tecum plures docuisse per annos teque probasse meas, Calliopea, manus; me duce Parnassi studiosa cacumina montis scanderat, et colles Cirrha benigna, tuos; permessi sacro biberat de fonte liquores, Hippocrineas, me duce, novit aquas. Scripserat hinc quaedam teneris, nec fallor, ab annis, docta fuit prosa, carmine docta fuit et potuit rerum dubias conoscere causas: non modo grammaticam novit et historias. Hac orante patres sacri Hupuere senatus, obstupuit praeses maximus ecclesiae.” La morte di Battista è un evento che permette di misurare il prestigio politico di Federico, in base alle attestazioni di cordoglio e alla vastissima partecipazione alle esequie, sontuose “quanto mai se facessero per alcuno dignissimo principo o principessa”, e consente anche di riconoscere il personale profondo coinvolgimento di Federico sul piano degli affetti. Sulla via del ritorno, dopo l’espugnazione di Volterra, appreso dell’infermità e del pericolo di vita di Battista, accorre a Gubbio appena in tempo per accoglierne le ultime parole e, dopo la morte di lei, dichiara all’ambasciatore dei Gonzaga la sua intenzione di non prendere più moglie. Le due commemorazioni ufficiali sono affidate al Campano ad Urbino e al Collenuccio a Pesaro, mentre il Codice Urb. Lat. 1193 contiene, oltre a queste, le ulteriori testimonianze di condoglianza di principi e letterati. Da questi testi nasce la fissazione dei tratti biografici essenziali che andranno a costituire la leggenda di Battista. Giovanni Antonio Campano più volte dimora a Urbino, sempre accolto da Federico con segni di affetto e stima e a lui tocca, nell’estate del ’72, la mesta incombenza di pronunciare l’elogio funebre sul feretro di Battista Sforza. L’ambiente dei poeti e dei artisti vive quella perdita con grande partecipazione, i poeti italiani ricambiano l’accoglienza e le attenzioni che Urbino riserva loro. Giovanni Santi definisce il giorno della morte della duchessa “giorno da bestemmiare”, non riuscendo a sopportare la violenza e l’ingiustizia con la quale la signora è stata portata via. Il cardinale Bessarione, fedele amico e spirito guida di Federico, coglie perfettamente il dolore del duca. Molti altri scrivono poemi, lettere, carmi, discorsi: Federico Veterani raccoglie tutto in un volume di più di 110 fogli; Porcelio Pandoni, devoto a Battista, sublima il dolore e la dedizione narrando del dolce legame d’amore che ha unito Battista a Federico.In tutte queste opere sono descritte le virtù di Battista che rendono così grave il lutto e le motivazioni consolatorie. La profonda unione di Federico e Battista, durata dodici anni, dalla quale nascono otto figlie e un erede maschio, è sottolineata anche dal posto d’onore che Federico le concede nel dittico di Piero della Francesca, che immortala i due coniugi e che è considerabile un omaggio postumo all’adorata moglie. Post mortem sono anche la maggior parte delle raffigurazioni di Battista. Il celebre dittico mostra i due conti di profilo. La rappresentazione dignitosa e monumentale della contessa, riccamente abbigliata e ornata da gioielli, è caratterizzata dall’espressione di profonda calma e assoluta pace. Sul retro ci sono i due carri trionfali dei coniugi: Battista è raffigurata mentre è intenta a leggere e l’iscrizione sotto il trionfo la celebra come “Colei che mantenne la moderazione nelle circostanze favorevoli vola su tutte le bocche degli uomini adorna della lode delle gesta del grande marito”. Le figure allegoriche sembrerebbero indicare le virtù dei ritrattati. Piero della Francesca trae ispirazione dal busto della contessa realizzato da Francesco Laurana, ora al Bargello. Il busto deriva da una maschera funebre di Battista, al Louvre, modellata sul calco preso alla sua morte. La scultura di Laurana è idealizzata e priva di drammaticità; la geometria e la nitidezza delle forme donano al ritratto un forte senso di solidità e di armonia. I pittori e gli scultori legati a Battista non sono da meno: Domenico Rosselli ne scolpisce il busto con una tale immediatezza d’impressioni da far sembrare vivo e palpitante quel marmo; Piero della Francesca, colpito nel profondo, riversa in un dittico con i ritratti dei due coniugi tutta l’ammirazione e il rispetto che ha per Battista. Piero dipinge il retto e il verso di due piccole tavole, perché Federico possa sempre averle vicine a sé: sul retto ci sono i ritratti dei duchi e Battista ha il lato sinistro di chi guarda, il lato d’onore. Piero non ha mai dipinto la contessa da viva: lavora al ritratto del dittico, confidando inoltre sull’esempio di un bassorilievo, che il giovane Francesco di Giorgio Martini ha scolpito qualche tempo prima, e sul ricordo e sulle emozioni che la giovane gli ha trasmesso. L’osservazione di Eugenio Battisti che il ritratto di Piero, come quello di Laurana, si basa su una maschera funeraria del soggetto, è corretta, e si potrebbe perciò datare il dittico degli Uffizi a dopo il 1472. Il confronto del dipinto di Piero con il busto di Laurana è decisivo. Se la versione di Laurana precede cronologicamente il ritratto di Piero, allora è ragionevole supporre che il pittore tenga presente la scultura per la sua versione di Battista. Alcune specifiche osservazioni di carattere stilistico potrebbero indurre a ritenere che Piero abbia tratto ispirazione proprio da Laurana. Dal punto di vista estetico, il ritratto di Piero incarna stilizzazioni tipiche del suo linguaggio, come la forma della fronte, degli occhi e del collo, volutamente impiegate per assicurare una rappresentazione dignitosa e monumentale della contessa, caratterizzata dall’espressione di profonda calma e assoluta pace. Una tale immagine comunicava pienamente, secondo la sensibilità del tempo, la dignità spirituale della persona. La scultura di Battista Sforza di Laurana riesce a illustrare con successo lo stesso complesso di valori. Inoltre ho avanzato l’ipotesi che, tra le varie rappresentazioni post mortem della contessa, omaggi di Federico da Montefeltro alla memoria della consorte, ci possa essere anche la Natività di Piero della Francesca dove, nelle vesti di Maria, può celarsi Battista e, nei personaggi che la circondano, suoi familiari e membri della corte urbinate. Nella Natività, Battista Sforza è individuabile nelle sembianze di Maria, per il volto, che ricorda molto il dittico di Piero della Francesca, il busto di Laurana e il ritratto giovanile nel Trittico Sforza, eper il vezzo della contessa di ornarsi di perle e pietre preziose. Mi baso anche sulle testimonianze storiche circa le caratteristiche fisiche di Battista, quali risultano tra gli altri, dal De Baptista di Sabadino degli Arienti, Historia de’ fatti di Federico di Montefeltro Duca d’Urbino di Gerolamo Muzio, Feltria di Porcelio Pandoni. Dell’atteggiamento regale del volto e di tutto il corpo, della dignità solenne, parla Pandolfo Collenuccio nel Codice urbinate latino 1193. Il poeta Porcelio Pandoni nel Feltria descrive i capelli biondi dono di Venere “crine venus flavo et forma decoravit et ore”. Nei personaggi che circondano la Madonna, identifico, nei volti dei pastori, Luca Pacioli e Piero della Francesca, alle spalle dei quali si scorge una veduta di Sansepolcro, luogo natio di entrambi. Nel pastore sulla destra ravviso, attraverso le somiglianze fisionomiche, il frate francescano e noto matematico Luca Pacioli, secondo Pier Gabriele Molari, precettore di Guidobaldo, figlio di Battista. Il Molari evince ciò dall’inventario dei beni più pregiati dell’eredità di Vittoria della Rovere, dove si dice che il quadro di Jacopo de’ Barbari, Ritratto di Luca Pacioli, raffigura i precettori di Guidobaldo, Luca Pacioli e Piero della Francesca. Il frate matematico Luca Pacioli, introdotto a Urbino da Piero della Francesca, dedica la Summa de aritmetica geometria proportioni et proportionalità a Guidobaldo, figlio di Battista e Federico. Negli angeli, ipotizzo di individuare alcuni figli della coppia, alla luce del confronto iconografico con gli angeli della Pala di Brera, che Molariidentifica con alcuni figli di Federico e Battista, riferendosi alla testimonianza del manoscritto urbinate latino 1204, nel quale i figli dei conti sono elencati in base alla rilevanza che avevano a corte. Giuseppe, con lo sguardo rivolto fuori dalla scena, a contemplare un paesaggio individuabile come quello di Montecopiolo, dove sorgeva anticamente il castello dei Montefeltro, sembra alludere a Federico. Il Bambino non è tenuto tra le braccia della donna, ma giace a terra, a significare l'impossibilità per lei di sostenere il tanto atteso erede maschio Guidobaldo, perché deceduta pochi mesi dopo la sua nascita, in seguito alle complicanze del parto, nel 1472. Il dipinto è pertanto un tributo a Battista, morta prematuramente dopo la nascita del figlio, sventura di cui è presagio la gazza che si trova sul tetto della capanna. Taliesin, il Bardo tratto da: www.bta.it |
Che personaggio carismatico ..una donna che è emersa da sola a quella epoca per le sue virtù.
È proprio vero..dietro un uomo vi sta una grande donna in questo caso. Grazie Sir Taliesin...sempre lieta di leggere qualcosa di veramente coinvolgente. |
LE QUATTRO MARIE: LA BALLATA DI MARY HAMILTON.
Mary Hamilton" o "The four Maries" è una ballata scozzese del 1500 riportata anche in Child # 173 (27 versioni). La melodia è stata attribuita a David Rizzio musicista e compositore piemontese alla corte di Maria Stuarda, diventato segretario personale della Regina. Il tema della ballata, l'infanticidio per mano di Mary del figlio illegittimo, richiama un fattaccio realmente accaduto durante il regno di Maria Stuarda nel 1563: una damigella francese arrivata ad Edimburgo al seguito della Regina ebbe una tresca con il farmacista reale e venne impiccata per aver annegato il bambino appena nato. Lo scandalo dietro al fatto è che il figlio poteva essere di Lord Darnley, pretendente e futuro marito di Mary Stuart. "La leggenda narra che David Rizzio, intimo amico di Darney, conoscesse bene esistenza e retroscena della tresca, perciò ne scrisse la musica e ne compose i versi. Lord Darnley se l’ebbe a male o, come si suol dire, se la legò al dito. Si dice che l’averne scritto una ballata presto molto popolare, contribuì al deterioramento della loro amicizia che porterà poi a ben più gravi intrighi di palazzo e all’omicidio di Rizzio." La Maria dell'omicidio non era una delle quattro dame di compagnia della regina anche se la ballata è anche intitolata "The four Maries", il nome della damigella di corte potrebbe essere stato modificato in epoca successiva a seguito di un fatto di cronaca altrettanto scandaloso avvenuto però nientemeno che in Russia: Mary Hamilton di origini scozzesi era diventata la dama di compagnia di Caterina I di Russia: per la sua bellezza ebbe alcuni amanti tra cui anche lo Zar. Mary fu uccisa per decapitazione nel 1719 per aver annegato il bambino partorito in segreto. La ricerca della Mary Hamilton storica si è rivelata appassionante, ma non ha portato ad alcun risultato concreto. Esisteva in effetti un gruppo di ancelle di Maria Stuarda, chiamato popolarmente "Le quattro Marie", ma non ne faceva parte alcuna Mary Hamilton. Il suo delitto ed il suo castigo, tuttavia, sembrano ricalcare uno scandalo avvenuto durante il regno di Maria Stuarda, che coinvolse una servitrice francese giustiziata per aver ucciso suo figlio appena nato. Non fu Darnley, il principe consorte (ovvero "il più nobile di tutti gli Stuart"), bensì il farmacista di corte (ovvero il capo della servitù) ad essere complice della francese, sia nell'amore che nel crimine. Il fatto accadde nel 1563. Nel 1719 una bella damigella d'onore alla corte di Pietro il Grande, scozzese di nascita e chiamata appunto Mary Hamilton, fu decapitata per infanticidio. Altre circostanze di questo fatto, oltre al nome, si rispecchiano nella ballata: ad esempio, la ragazza si rifiutò di salire sul patibolo vestita in modo sobrio. Il suo amante, poi, era anch'egli un nobile cortigiano. Saremmo tentati di considerare la ballata nient'altro che una rielaborazione degli avvenimenti russi del 1719, se non fosse per il non trascurabile fatto che essa era già stata udita in Scozia ben prima di quell'anno. Tale versione attribuiva probabilmente il delitto alla servitrice francese ad una delle "quattro Marie"; forse qui può aver giocato anche il fatto che, in Scozia, il termine mary indica genericamente una servitrice o una dama di compagnia. In effetti, esiste una versione di Mary Hamilton (Child, IV, 509) in cui la ragazza è chiamata semplicemente Marie ed il suo amante è un "erborista", ovvero il farmacista di corte degli annali criminali. Verosimilmente, le notizie provenienti da San Pietroburgo e l'intrepido comportamento dell'autentica Mary Hamilton sul patibolo della lontana Russia "catturarono" talmente l'immaginazione degli scozzesi, che l'antica ballata fu rimessa in auge ed adattata alla nuova eroina. Una versione più tarda della ballata, consistente nel solo "ultimo discorso" sul patibolo, è una delle più note "Last Goodnight Ballads". L'aria autentica è stata conservata da Greig, p. 109, ed è stata naturalmente utilizzata da Joan Baez per la sua versione (in The Joan Baez Ballad Book, II) nonché ripresa da Angelo Branduardi per il suo adattamento italiano (intitolato "Ninna Nanna"), nella quale però il nome della protagonista non è menzionato. Trattandosi di una ballata molto antica inevitabilmente si riscontrano numerose varianti testuali. La versione più diffusa oggigiorno è quella più tarda dell'ultimo discorso sul patibolo in cui Mary chiede il perdono e la grazia: il testo è più inglesizzato rispetto alle stesure più antiche in scozzese. Tra le versioni testuali più estese quella riportata da Cecil Sharpe: qui Mary è data per essere una delle quattro Marie, dame di compagnia della Regina e amante di Lord Darnley. Il bambino viene annegato dalla madre accusata d'infanticidio, processata e impiccata. Eppure ella non rinuncia alla vanità e per non sminuire la sua bellezza indossa l'abito più bello e soprattutto bianco a indicare la sua innocenza: si insinua che il vero colpevole sia l'uomo che, dall'alto della sua posizione sociale l'ha sedotta o più probabilmente violentata; lei però ha abbandonato il neonato al destino lasciandolo in balia del mare e pagherà per tutti e due! NINNA NANNA ("Cogli la Prima Mela" -1979) Il testo tradotto e riscritto dalla moglie Luisa Zappa riprende poeticamente in parte la versione ottocentesca riportata da Cecil Sharpe. "L'ho addormentato nella culla e l'ho affidato al mare, che lui si salvi o vada perduto e mai più non ritorni da me". L'hanno detto giù nelle cucine; la voce ha risalito le scale e tutta la casa ora lo sa: ieri notte piangeva un bambino. L'hanno detto giù nelle cucine e tutta la casa lo sa che ieri lei aveva un bambino e che oggi lei non l'ha più. "Adesso alzati e dillo a me, lo so che avevi un bambino, tutta la notte ha pianto e perché ora tu non l'hai più con te". "L'ho addormentato nella culla e l'ho affidato al mare, che lui si salvi o vada perduto e mai più non ritorni da me". "Adesso alzati, vieni con me questa sera andremo in città, lava le mani, lavati il viso, metti l'abito grigio che hai". L'abito grigio non indossò quella sera per andare in città, vestita di bianco la gente la vide davanti a se passare (1) "La scorsa notte dalla mia padrona le ho pettinato i capelli poi mio figlio ho addormentato e l'ho affidato al mare"... Non lo sapeva certo mia madre quando a sè lei mi stringeva delle terre che avrei viaggiato, della sorte che avrei avuta. "L'ho addormentato nella culla e l'ho affidato al mare, che lui si salvi o vada perduto e mai più non ritorni da me". Taliesin, il Bardo |
Sir Taliesin..solo il mare sa la verità..quel mare a cui lei lo ha affidato..forse inconsapevole di ciò che stava facendo o forse a mente lucida.
Un mistero, questo di Mary Hamilton, da scoprire e che mette in risalto il libertinaggio di certe Corti. P.s. Per una sorta di strana empatia che sempre ci unisce..la mia principessa maggiore indosserà sabato il vestito scozzese per ballare proprio una ballata scozzese sulle punte..ma certo meno drammatica. Grazie come sempre mio caro amico bardo..... |
...e sempre per quella sorta di empatia che sovrasta gli spazi di luogo e di tempo, la mia Musica sarà presente in un' antica villa etrusca dove verrà apparecchiato un Convivio per due giovani sposi. Nell'euforia dei festeggiamenti quando il vino della leggiadria e della spensieratezza lascerà spazio a momenti di riflessione e cupa malinconia, intonerò per il vostro Gioiello "Ninna Nanna"...
Taliesin, il Bardio |
Citazione:
Qual più bel regalo potreste fare..quella "ninna nanna" la cullera' proprio del sogno appena vissuto sul palco..Lei a cui ho dato, sempre per quella strana empatia, un nome etrusco. Grazie Sir Taliesin.... |
LA COSTRUTTRICE DI MONASTERI: BERTA DI BLANGY.
Sembra un destino già stabilito, ma tutte le sei sante o beate di nome Berta, destinatarie di un culto ufficiale, vissero buona parte della loro vita e fino alla loro morte, come badesse di monasteri e quasi tutte nel XII secolo. La santa Berta di cui parliamo, nacque invece in Francia nel 640 ca. da Rigoberto, conte palatino sotto il regno carolingio di Clodoveo II (638-656) e da Ursona; a vent’anni sposò un parente del re di nome Sigfrido, dal matrimonio nacquero cinque figlie. Vent’anni dopo nel 680, rimasta vedova, poté a 40 anni seguire la sua personale vocazione monastica, a cui aveva dovuto rinunciare per i soliti motivi di Stato. Si narra che costruì ben due case di preghiera, ma entrambe crollarono dopo un po’ di tempo, a questo punto le apparve un angelo che indicò il luogo adatto per la costruzione e qui sorse nel 686 il monastero di Blangy nell’Artois (regione storica della Francia, compresa nel dipartimento del Pas-de Calais). In questo monastero si ritirò insieme alle due figlie maggiori Deotila e Gertrude; ricoprendo la carica di badessa per alcuni anni, poi lasciò la carica per vivere come semplice reclusa in una piccola cella prospiciente la chiesa del monastero. Visse così praticamente sepolta viva per molti anni in preghiera e penitenza; morì nel 725 a circa 85 anni. Le sue reliquie furono trasportate nell’825 ad Erstein presso Strasburgo, per salvarle dalle invasioni dei Normanni; poi nel 1032 furono riportate a Blangy, divenuto nel frattempo monastero benedettino. Nella diocesi di Arras (capoluogo dell’Artois) la festa di s. Berta si celebra il 4 luglio, giorno riportato anche dal ‘Martirologio Romano’. Taliesin, il Bardo Tratto da: www.santiebeati.it di Antonio Borrelli |
Interessante questo legame con queste donne di nome "Berta"..grazie come sempre per farci conoscere donne che ancora sopravvivono nella storia :smile:
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L'IMMORTALE SEGRETO DI BOCCACCIO: MARIA D'AQUINO.
La donna amata da Giovanni Boccaccio, nonché sua ispiratrice, fu Fiammetta d’Aquino. Ovviamente tale nome non fu quello vero ma di “schermo”. Il giorno del sabato santo del 1324, nella chiesa di s. Lorenzo maggiore di Napoli, lo scrittore toscano incontrò per la prima volta “colei che sola sarebbe stata donna della sua mente”. Fiammetta - che nel Filocolo[1] il Boccaccio fa intendere di chiamarsi Maria - nacque da un d’Aquino e da una gentildonna francese[2] la quale, durante un banchetto a corte, accese il cuore del re Roberto d’Angiò e, non sapendo resistere ai desideri del sovrano, concepì con lui, appunto Fiammetta, che così confessa: ”onde che violato il ventre, o da questo inganno o dal proprio marito quello medesimo giorno seme prendesse, io fui nel debito tempo frutto della matura pregnanza”[3]. In sostanza, la nobildonna francese, lo stesso giorno che era stata del re fu anche sollecitata dal marito, per cui Fiammetta, pur essendo il frutto di un adultero amplesso, fu allevata come figlia dal d’Aquino. Morta la madre, essa fu affidata “ancora piccioletta” ad alcune monache sue congiunte. All’età di 15 anni (1336) sposò “uno dei più nobili giovani della terra là dove nacque”[4] e quando il Boccaccio allacciò con lei la relazione amorosa, durata oltre due anni, essa era sposata “da più anni”. Come detto all’inizio, Fiammetta fu l’ispiratrice del grande scrittore[5] il quale si guardò bene dal fornire indicazioni identificative sia della gentildonna francese che ebbe l’incontro amoroso con il re, sia del vero nome di Fiammetta e sia di quello del padre putativo o di altri da far sospettare, intendere o dire il nome della sua amata. La qualcosa generò, fra gli studiosi di Boccaccio, un certo mistero e fascino che è perdurato fino agli inizi del 1800. Sappiamo di certo che Fiammetta, “bellissima figliuola”, ebbe per padre (vero o putativo) un d’Aquino, giacchè essa stessa dice che un discendente della famiglia romana dei Frangipane o degli Annibaldi, lasciata Roma dopo il saccheggio dei Vandali (455), “di Giovenale lo oppido antico (Aquino) si sottomise, e, quello signoreggiando, a sé ed a’ suoi discendenti, che a lei furono primi, diede cognome”[6]. Continuando a raccontare la sua vita, così prosegue a proposito della sua paternità: “di padre incerto figliuola, due ne tenni per padre”[7] e cioè re Roberto e il d’Aquino. Queste semplici e scarne indicazioni molto incomplete - ma certamente volute ad arte dall’Autore - suscitarono, come si è detto, molta curiosità fra storici, genealogisti e letterati i quali si arrovellarono per circa cinque secoli sulla vera identità di Fiammetta. Per identificarla, quindi, gli studiosi si soffermarono sui suoi genitori che avrebbero dovuto essere - come essa stessa riferisce - un d’Aquino sposato ad una francese o quanto meno ad una dama di discendenza francese e che ebbero una figlia di nome Maria. La cosa, però, non si presentava facile perché diversi appartenenti ai d’Aquino si sposarono con donne di origini francesi; per cui la loro identificazione non si presentava agevole. Il primo a cimentarsi fu lo storico e genealogista Scipione Ammirato[8], sul finire del Cinquecento, il quale indicò i genitori della giovane in Tommaso d’Acerra, figlio di Adenolfo IV d’Aquino[9], e Sibilia di Sabran, figlia di Ermengardo, conte di Ariano, venuto dalla Francia con Carlo I d’Angiò[10]. Questa identificazione, seppure non pienamente certa, perdurò fino alla metà del 1800 tanto da essere condivisa, nel 1860, dallo storico napoletano Matteo Camera[11]. Completamente contro ogni indicazione boccaccesca andò, invece, il genealogista dei d’Aquino per antonomasia Francesco Scandone. Nella continuazione dell’opera di Pompeo Litta[12], Scandone vi collaborò con 41 tavole genealogiche, riportando i vari rami del casato d’Aquino. Egli, forse per non aver letto attentamente le allusioni biografiche di Fiammetta contenute nell’Ameto, affermò che fu la madre e non il padre ad appartenere alla famiglia di san Tommaso[13] ed indicò due probabili madri: una sarebbe stata Margherita d’Aquino, figlia dell’Adenolfo IV d’Acerra, del quale si è accennato prima; l’altra, un’altra Margherita, cioè la figlia di Cristoforo II conte di Ascoli, anche se su quest’ultima ebbe alcune perplessità[14]. Ma le due identificazioni di Scandone sono completamente infondate: il Boccaccio, per bocca di Fiammetta, scrive che la madre proveniva da una famiglia francese, mentre il padre (vero o putativo) dai d’Aquino[15]. Nel 1908 lo storico Giuseppe De Blasiis[16], trascurando del tutto le identificazioni fornite da Scandone, riprese l’ «indagine» da dove l’aveva lasciata l’Ammirato e dimostrò che - all’epoca del banchetto reale, durante il quale il re si era invaghito della nobildonna francese - questa (cioè Sibilia de Sabran) era tutt’altro che giovane[17] e, quindi, i misteriosi genitori di Fiammetta erano da rintracciare in un’altra coppia. Il De Blasiis stesso indica come padre di Fiammetta Adenolfo III d’Aquino di Castiglione Cosentino[18] che fu, prima, valletto e scudiero e, poi, familiare di Roberto d’Angiò all’epoca in cui quest’ultimo era duca di Calabria[19] e al quale il d’Aquino fu sempre carissimo sin dal tempo in cui Adenolfo si dimostrò valido comandante di una compagnia di balestrieri nel Marchesato crotonese, durante la guerra del Vespro. Infatti, nel 1306, Roberto gli diede la baronia di Castiglione Cosentino; nel 1312 lo creò suo familiare e l’anno dopo lo nominò giustiziere di Val di Crati e Terra Giordana[20]; nello stesso anno fu nominato anche regio vicario della città di Ferrara. Questo Adenolfo, nel 1304, aveva sposato Stefania di Montefalcione che - afferma il De Blasiis - “sicuramente era di nazione francese”, poiché un suo fratello nel 1314 si dichiarava vivente iure Francorum. Ma, l’affermazione del De Blasiis risultò infondata perché Adenolfo III premorì alla moglie[21], mentre Fiammetta ci dice che fu la madre a premorire al marito, il quale “ancora piccioletta” l’affidò alle suore del convento benedettino di S. Arcangelo a Baiano[22] “acciocchè quelle di costume e d’arte, inviolata servandola, ornassero la sua giovinezza”[23]. Come si può notare, l’identificazione di Fiammetta non era cosa facile e chiara, anche perché, al tempo di re Roberto - come si è detto - le donne oriunde francesi maritate ai d’Aquino furono diverse e, quindi, facilmente si poteva cadere nell’intreccio della confusione anche perché le fonti in proposito sono abbastanza lacunose. Ma, alla fine del 1800, Guglielmo Volpi[24] in una nota di pagina, con molto intuito, fornì un’identificazione completamente diversa da quelle seguite fino allora. Si è detto che il Boccaccio fa intuire che il vero nome di Fiammetta sia stato Maria, per cui tutti gli studiosi che se ne occuparono avevano indirizzato le loro ricerche verso una Maria d’Aquino, figlia o oriunda di madre francese; ma ciò - come si è visto - non approdò a nulla. Il Volpi, infatti, accorgendosi che in un passo della lettera - con la quale Boccaccio aveva inviato a Fiammetta l’operetta Filostrato - il nome della donna appariva designato come “di grazia pieno”[25], intuì che lo scrittore, riferendosi ad una etimologia allora divulgatissima, volesse intendere il nome Giovanna. Lo studioso, però, non sviluppò ulteriormente la sua intuizione; anzi, nell’edizione successiva della sua opera[26], eliminò del tutto la nota di pagina. La cosa fu ripresa invece, nel 1912, da Aldo Francesco Manassera[27], studioso delle opere di Boccaccio. Egli, tenendo conto dell’intuizione del Volpi, avanzò l’ipotesi di un doppio nome di Fiammetta, dal momento che donne con doppio nome apparivano già dal Duecento, sia per evitare omonimie con consanguinee precedenti sia perché si incominciava, nell’uso familiare, ad adoperare un nome diverso da quello di battesimo. Di conseguenza, arguiva il Manassera, poiché Fiammetta è indicata dal Boccaccio sia con l’allusione al nome di Maria e sia a quello di Giovanna, è verosimile che il personaggio abbia avuto appunto un doppio nome. Di fronte a tale possibilità, poiché le ricerche su una Maria d’Aquino concordanti con le date e gli accadimenti particolari cui faceva riferimento il Boccaccio si erano dimostrati inconsistenti, il Manassera si concentrò sulle Giovanne d’Aquino che, “per fortuna, son poche assai” e la sua arguzia si concentrò sulla figlia di Tommaso II, conte di Belcastro. Succeduto al padre Tommaso I nel 1304, divenne uno dei più validi collaboratori di Roberto d’Angiò con il quale, ancora giovane, aveva combattuto nella guerra del Vespro in Calabria, sotto il comando dello zio Adenolfo nel 1314. Nel 1310 aveva fatto parte del corteo che andò ad incontrare Roberto d’Angiò, divenuto re e proveniente dalla Provenza; nel 1318 fu nominato vicario generale del principato d’Acaia[28] e due anni dopo divenne familiare e ciambellano del re: quest’ultima carica gli consentiva di abitare nella regia con tutta la famiglia. Nello stesso anno, il d’Aquino successe allo zio Adenolfo nel comando della compagnia di balestrieri[29] che operava nel Marchesato durante la guerra del Vespro, manifestando spiccate doti di comandante fino al 1322; per il suo valore fu nominato, nel 1331, consigliere personale del re che gli confermò ufficialmente la contea di Belcastro. Nel 1326 accompagnò Carlo, figlio del re, a Firenze e l’anno dopo seguì Giovanni, principe d’Acaia e fratello del re, a Roma, combattendo contro le truppe di Ludovico il Bavero. Il 2 dicembre dello stesso anno fu inviato nel Principato citra e ultra con il compito di estirpare il banditismo con successo. Nel 1332 fu nominato giustiziere del Principato citra con pieni poteri, reprimendo aspramente il brigantaggio che aveva nuovamente preso piede. Il 16 maggio 1339 era già defunto. Tommaso II ebbe due mogli, ambedue nate da famiglie oriunde francesi. La prima fu Caterina, figlia di Lodovico del Mons (italianizzato in de Montibus), che fu uno dei più importanti ufficiali del Regno sotto Carlo I e Carlo II d’Angiò. La seconda moglie di Tommaso II d’Aquino fu Ilaria, figlia di Americo de Sus, regio consigliere di Carlo I d’Angiò e signore di Trivento, Boiano e Montefusco. Il d’Aquino ebbe due maschi e due femmine: Adenolfo, premorto al padre e Cristoforo conte di Ascoli; Flora, monacatasi nel convento di santa Chiara di Napoli e Giovanna, andata in sposa a Ruggero Sanseverino conte di Mileto. Ora, tutte le allusioni del Boccaccio e gli scarni riferimenti storici riportati nelle sue opere conducono proprio alla figlia di Tommaso II, Giovanna. Il primo particolare riferito da Fiammetta è il vincolo di parentela molto stretto con la famiglia di san Tommaso[30]: il bisnonno paterno (Adenolfo) e la bisnonna materna (Adelasia) di Giovanna, figlia di Tommaso II, furono fratello e sorella del Santo, del quale un’altra sorella (Teodora) era stata bisnonna di Ruggero Sanseverino. Un altro particolare è rappresentato dal fatto che la madre di Fiammetta proveniva dalla “togata Gallia”: Caterina de Mons fu figlia - come si è detto - di uno dei più influenti cavalieri francesi venuti al seguito di Carlo I d’Angiò. Un altro elemento a favore di Giovanna è la narrazione di un finto sogno di Fiammetta raccontato al marito, nel quale sono accennate alcune immagini violente e sanguinose riguardanti un suo fratello: in effetti il fratello maggiore di Giovanna, Adenolfo, morì di morte violenta, forse ucciso. Fiammetta – come si è visto precedentemente – dice che, “ancor piccioletta”, il padre l’affidò a “vestali vergini a lui di sangue congiunte: la sorella di Giovanna, suor Flora, fu in effetti monaca. Nel suo racconto, la bella amante del Boccaccio riferisce che dopo la morte della madre, avvenuta nel 1322-23, suo padre l’affidò al convento perché “disposto a seguire” la moglie, il che non significa che egli volesse seguirla nella tomba, ma che si sentisse in pericolo di morte, dal momento che la sua attività fu quella di uomo d’armi: il 13 settembre 1326, Tommaso II d’Aquino, mentre si trovava a Firenze - dove aveva accompagnato il duca di Calabria Carlo, figlio de re - eseguì alcune disposizioni testamentarie dove è detto chiaramente che Tommaso II “suum diebus proximis legittime condidit testamentum et ultra illud certos codicillos adiecit”[31]. Riguardo le sue nozze, Fiammetta dice di essersi congiunta con “uno dei più nobili giovani … di fortune grazioso … e chiaro di sangue”[32]: Ruggero Sanseverino apparteneva ad una delle più antiche, nobili e potenti famiglie del Regno. Tutti questi particolari e la loro coincidenza con la figlia di Tommaso II d’Aquino, citati dal Manassera lo indussero ad identificare la misteriosa Fiammetta proprio con Giovanna d’Aquino, figlia del conte di Belcastro. Le nozze avvennero intorno al 1330, prima che Ruggero Sanseverino fosse insignito del titolo di conte di Mileto, come è riferito in un documento angioino riportato dal Manassera: “Priusquam insigniretur .. tituli comitatibus”[33]. Da questo matrimonio nacquero: il primogenito Enrico che ereditò per via femminile, cioè dalla madre Giovanna-Fiammetta, la contea di Belcastro alla morte del cugino Tommasello III (1376); Ilaria andata in sposa, nel 1345, a Filippo di Sangineto, conte di Altomonte; Giovanni, morto prematuramente prima del 16 gennaio 1349, ed infine, Margherita sposatasi con Ludovico de Sabran, conte di Ariano. Giovanna-Fiammetta, alla morte del fratello Cristoforo, subentrò nel tutorato del nipote Tomasello III il 5 dicembre 1342. Tre anni più tardi, ancora molto giovane, avendo da poco superata la trentina, la donna tanto amata e celebrata da Giovanni Boccaccio moriva il 6 aprile 1345. Fu sepolta nella cappella di s. Tommaso nella chiesa di s. Domenico Maggiore di Napoli con i seguente epitaffio: “HIC IACET CORPUS GENEROSE ET DEO DEVOTE DOMINE DOMINE IOHANNE DE AQUINO COMITISSE MILETI ET TERRENOVE QUE OBIIT ANNO DOMINI MCCCXLV DIE APRILIS XIII INDICTIONIS CUIUS ANIMA REQUIESCAT IN PACE. AMEN”. Taliesin, il Bardo [1] G. BOCCACCIO, Filocolo, in: Tutte le opere, a c. di V. Branca Filocolo, Brescia 1969, p. 3: “lei (Fiammetta) nomò del nome di colei che in sé contenne la redenzione del misero perdimento”, vale a dire Maria madre di Gesù. [2] A. DELLA TORRE, nella sua opera La giovinezza di Giovanni Boccaccio (1313 – 1341). Proposta di una nuova cronologia, Città di Castello 1905, p. 185, traendo spunto da un passo del Ninfale fiesolano, deduce la nascita di Fiammetta tra il finire del 1313 e l’inizio del 1314. [3] G. BOCCACCIO, Ninfale d’Ameto, Milano 1997, p. 222. [4] Ibdem, pp. 223-4. [5] Le dame ispiratrici dei tre più grandi scrittori della nostra letteratura furono tre: Beatrice per Dante Alighieri, Laura per Francesco Petrarca e Fiammetta per Giovanni Boccaccio. [6] G. BOCCACCIO, Ninfale …, cit., p. 221. [7] G. Ibdem, p. 223. [8] S. AMMIRATO, Delle Famiglie Nobili napoletane, Firenze 1580, I, pp. 145-146. [9] Questo Adenolfo IV fu il 3° conte di Acerra e regio consigliere di Carlo I d’Angiò; ma fu condannato al rogo per l’accusa di sodomia, nel novembre del 1293. [10] Ermengardo era anche conte di Laudune d’Aube de Roquemartin, in Provenza. [11] M. CAMERA, Annali delle Due Sicilie. Dell’origine e fondazione della Monarchia, II, Napoli 1860, p. 470. [12] F. SCANDONE, D’Aquino di Capua, in: P. LITTA, Famiglie celebri italiane, serie II, Napoli 1902 – 1923. [13] Ibdem, tavola XV: “Questi (il Boccaccio) fa dal lato materno discendere l’amata da una grande famiglia, che aveva dato un gran santo alla chiesa”. [14] Ibdem, tavola XVIII: “Non pare che la identificazione di Margherita (contessa di Ascoli) con la madre di Fiammetta, e di questa con Maria de Marzano sia possibile”. [15] G. BOCCACCIO, Ninfale …, cit., p. 221: “Egli - Mida, ossia re Roberto - e i’ suoi predecessori venuti dalla Gallia togata, molto onorando costoro - il casato d’Aquino - una nobile giovine venuta da quelle parti … per isposa si congiunse al padre mio”. [16] G. DE BLASIIS, Racconti di storia napoletana, Napoli 1908, pp. 168-171. [17] Sibilia andò sposa nel 1292: cfr. F. SCANDONE, D’Aquino di Capua, cit., tavola XV. [18] Era figlio di Adenolfo II che fu barone di Belcastro, prima di ricevere dal re la baronia di Castiglione ed altre importanti cariche. [19] I futuri re angioini e aragonesi, prima di cingere la corona reale, avevano il titolo di duca di Calabria. [20] La Terra Giordana comprendeva il Marchesato e la parte orientale del territorio catanzarese e, quindi, anche Belcastro. [21] Nell’agosto del 1334 Adenolfo era già defunto, mentre la moglie nel 1335 viveva ancora. [22] Cfr. A. DELLA TORRE, La giovinezza …, cit., pp. 185-186. [23] G. BOCCACCIO, Ninfale …, cit., p. 223. [24] G. VOLPI, Il Trecento, Milano [1898], p. 264, nota 93. [25] Nella lettera citata dal Volpi è così scritto: “ …E similmente le mie voci …s’udirono sempre poi chiamare il vostro nome di grazia pieno …”: Ibdem. [26] G. VOLPI, Il Trecento, cit. [27] F. A. MANASSERA, Studi boccacceschi, in: «Zeitschrift für romanische Philologie», Berlin 1912, p. 36 e ss. [28] Signoria feudale formatasi nel Peloponneso (1205-1432), costituita dai cavalieri della IV crociata e ritornata ai bizantini nel 1432. [29] Era composta da 150 armati. [30] Per la famiglia di san Tommaso vedi la genealogia dei d’Aquino in questo Sito. [31] F. A. MANASSERA, Studi…, cit. [32] G. BOCCACCIO, Ninfale …, cit., p. 223. [33] F. A. MANASSERA, Studi…, cit. www.belcastro.com |
LA PRIORA DI DIO: BEATRICE DA NAZARETH
Nei monasteri femminili belgi del secolo XI venivano ammesse per il servizio del coro quasi esclusivamente giovani di elevata condizione sociale, mentre le altre, più incolte e rozze, rimanevano in qualità di converse. Nel secolo XII la nascita di una borghesia cittadina molto devota fece avvertire l'esigenza di ricercare nuove possibilità per le vocazioni femminili. Nascevano così i beghinaggi, nei quali sarebbero sbocciate non poche anime mistiche. La necessità di fondare nuovi monasteri femminili in periferia fu ben compresa dai Cistercensi: nel Brabante, essi furono aiutati finanziariamente da Bartolomeo di Tirlemont. La figliola di questi, Beatrice, nata verso il 1200, dopo aver vissuto un certo tempo fra le beghine di Léau, preferì andare come novizia, intorno al 1218, a Florival, nei pressi di Archennes, dove un convento già esistente era stato restaurato a spese del padre e trasformato in monastero cistercense. Altri conventi cistercensi furono fatti costruire dallo stesso Bartolomeo a Maagdendaal, nelle vicinanze di Oplinter, nel 1222 circa, e a Nazareth, appena fuori le mura di Lierre, nel 1235. B. fu sempre tra le fondatrici, e a Nazareth, dove mori il 29 agosto 1268, ebbe anche l'ufficio di priora. A lei si deve, oltre l'autobiografia in latino, che si legge nel codice 4459-70 della Biblioteca Reale di Bruxelles, un trattato mistico scritto in fiammingo medioevale, dal titolo "Van seven manieren van heiligher minnen", cioè le sette maniere di amare santamente, una descrizione sperimentale dell'ascensione di un'anima verso Dio. Alle esperienze attive dei tre primi modi, amore purificante, amore elevante, amore sempre più divorante, seguono le passive degli ultimi quattro, amore infuso, amore vulnerato, amore trionfante e, finalmente, amore eterno. Beatrice scrisse anche altre opere, oggi perdute. Nel suo fervore mistico la beata usava sottoporsi alla flagellazione e alle penitenze corporali, attraverso le quali mirava alla compartecipazione della passione di Cristo. Le sue letture preferite erano la S. Scrittura e i trattati sulla S.ma Trinità. Il suo esempio, la diffusione dell'autobiografia e dei suoi scritti contribuirono a una fioritura di sante, scrittrici e mistiche fra le monache cistercensi belghe medievali. La festa di Beatrice si celebra il 29 agosto. Il suo corpo, sepolto nel chiostro di Nazareth, fu nascosto nel 1578 in un luogo sconosciuto, per sottrarlo alle profanazioni calviniste. Taliesin, il Bardo tratto da www.santiebeati.it |
Grazie sir Taliesin per questa storia di un' altra donna mistica e santa...interessante il fatto sia stata sepolta a Nazareth, e poi mai più ritornata nella Terra natia.
Grazie a voi, possiamo allargare le nostre conoscenze. |
LA DOMATRICE DEI FUOCHI: ANGADRISMA DI THEROUANNE.
Santa Angadrisma visse nel VII secolo nella diocesi di Thérouanne, nella Francia settentrionale. La sua educazione subì il positivo influsso del vescovo Sant’Omero e del cugino San Lamberto di Lione, in quel periodo monaco a Fontanelle. Da essi sostenuta nella vocazione alla vita religiosa, dovette però contrastare l’opposizione di suo padre, che l’aveva promessa in sposa ad un giovane signore, il futuro vescovo di Rouen Sant’Ansberto. Onde evitare le indesiderate nozze, Angadrisma pregò di poter divenire fisicamente meno attraente, ma la sua preghiera ebbe effetti persino esagerati e si ammalò di lebbra. Ciò le permise almeno di essere libera di ricevere l’abito religioso per mano di Sant’Audoeno. Ma da quel giorno la malattia scomparve miracolosamente di colpo. La sua vita monacale fu a dir poco esemplare ed in seguito divenne badessa di un convento nei pressi di Beauvais. Parecchi miracoli furono attribuiti alla sua intercessione quando era ancora in vita, tra i quali l’estinzione di un incendio che minacciava il monastero contrastandolo con l’esposizione delle reliquie del fondatore, Sant’Ebrulfo. Angadrisma morì più che ottantenne nel 695 circa. Invocata subito come santa, fu annoverata tra i patroni di Beauvais ed invocata contro gli incendi, la siccità e le pubbliche calamità. Ripetutamente traslate a causa della distruzione del convento e poi della Rivoluzione Francese, le sue reliquie riposano oggi nella cattedrale. Taliesin, il Bardo tratto da: www.santiebeati.it |
Grazie ancora per aver fatto "rinascere" una nuova donna dal mondo antico..continuate sempre a farlo, Sir Taliesin..finchè qualcuno ricorderà la storia manterremo in vita ciò che fu.
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LA VERGINE DELLA CARITA’: CELINA DI MEAUX
Nata da nobile famiglia, desiderò consacrarsi a Dio, malgrado l'ambiente che la circondava. L'occasione di abbracciare la vita religiosa le fu offerta dall'incontro con s. Genoveffa, che era di passaggio nella sua città, Meaux. Celina, opposta resistenza al suo fidanzato che tentava di trattenerla. si rifugiò con s. Genoveffa nella cattedrale, le cui porte miracolosamente si aprirono e si richiusero dietro di loro. Da allora Celina, preso l'abito delle vergini, si consacrò interamente alle opere di carità. Nessun documento contemporaneo, però, ci permette di verificare l'autenticità di questi episodi biografici che furono dapprima raccolti da Usuardo, ripresi poi da Fulcanio di Meaux nel sec. XI e, infine, citati dal Tillemont. Morì dopo il 480 e fu sepolta presso Meaux; le sue reliquie, che durante la Rivoluzione furono nascoste al riparo, si trovano attualmente nella cattedrale di Meaux. La festa della santa Celina è celebrata il 21 ottobre, giorno nel quale è ricordata anche l'omonima s. Celina, madre di s. Remigio; la coincidenza di questa data e l'imprecisione delle fonti non permettono di decidere se il culto di Celina, localizzato a Meaux e risalente lontano nel tempo, sia tributato a Celina, amica di s. Genoveffa, o alla sua omonima, madre del santo vescovo di Reims. Taliesin, il Bardo Tratto da www.santiebeati.it |
Sir Taliesin,
finalmente ho scoperto l' origine, forse, del nome di una signora a cui sono molto affezionata. E grazie per averci narrato di un' altra grande donna. |
LA SANTA DELLE OCHE: FARAILDE DI GAND.
Santa Farailde è una delle antiche patrone della città belga di Gand, ma nonostante ciò sul suo conto sono state tramandate esclusivamente notizie leggendarie. Nativa appunto di Gand, fu data in sposa contro la sua volontà ad un ricco pretendente che la trattò brutalmente, forse perché ella, che aveva consacrato a Dio la sua verginità, preferiva trascorrere le notti in preghiera nelle chiese della città piuttosto che nel letto nuziale. Farailde rimase ben presto vedova, titolo col quale è commemorata dal Martyrologium Romanum, nonostante la tradizione l’abbia da sempre considerata vergine. Il nome di questa santa, popolarissimo nelle Fiandre, varia secondo i vari dialetti locali: Varelde, Verylde o Veerle. Sovente viene raffigurata insieme ad un’oca, in quanto il nome della sua città natia in fiammingo ed in tedesco significa proprio oca. Viene inoltre raffigurata con un pane, in ricordo di un suo miracolo, quando mutò in pietre i pani che una donna avara aveva rifiutato di dare ad un mendicante. E’ inoltre invocata dalle madri preoccupate per la salute del loro bambini e contro il mal di denti. Una leggenda vuole che per abbeverare dei mietitori assetati, fece sgorgare una sorgente, le cui acque furono considerate terapeutiche. Morì attorno all'ano 745. Taliesin, il Bardo tratto da: www.santiebeati.it |
Davvero interessante questa storia di questa donna e santa..alquanto singolare. Grazie per averci narrato di lei.
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LA MONACA ED IL PITTORE: LUCREZIA BUTI.
Lucrezia figlia di Francesco Buti e di Caterina Ciacchi, nacque a Firenze nell'anno 1435. Diventò monaca nel monastero di Santa Caterina di Prato, dove, secondo Vasari, fu incontrata da Filippo Lippi che lavorava in città su la tavola della Madonna dà la Cintola a san Tommaso. Lucrezia Buti fece probabilmente il modello per Santa Margherita. Filippo si innamorò di lei e con grande scandalo la rapì in occasione della processione della Sacra Cintola, facendola stabilire nella propria casa. Lei, come il Lippi, era stata vittima della monacazione forzata per la povertà della sua famiglia e dovette essere ben lieta di , venendo in primo momento seguita anche dalla sorella Spinetta e da tre consorelle, le quali però, a differenza di Lucrezia, tornarono presto in monastero per placare lo scandalo suscitato. Dall'unione dei due nacque Filippino Lippi nel 1457 e nel 1465 la figlia Alessandra Lippi. La relazione tra il frate Filippo e la monaca Lucrezia destò molto scandalo all'epoca e venne osteggiata in tutti i modi dalla curia. Solo grazie all'interessamento di Cosimo il Vecchio la coppia ottenne una dispensa dai voti da Pio II per potersi sposare, ma, come riporta Vasari, i due non si sposarono mai, perché Filippo preferiva fare "di sé e dell'appetito suo" come gli pareva. I due convissero in una casa in piazza del Duomo, vicino a dove il Lippi era impegnato nella realizzazione degli affreschi della cappella maggiore. Lucrezia fu forse il modello della sinuosa Salomè e il suo volto idealizzato si trova anche in altri capolavori del pittore, come la celeberrima Lippina degli Uffizi. Se la tormentata storia d’amore del Lippi darà scandalo senza precedenti tra i contemporanei, la grandezza della sua arte non sarà mai messa in dubbio, come testimonia l¹apprezzamento del Vasari: ³Fece in questo lavoro le figure maggiori del vivo dove introdusse poi agli altri artefici moderni il modo di dare grandezza alla maniera d’oggi. Fra tutti i committenti, Cosimo il Vecchio sarà senz'altro il suo più grande estimatore, pronto a sopportare per amore dell'arte le intemperanze sentimentali del frate scapestrato. Narra sempre il Vasari (Vite, 1568) che un giorno Cosimo spazientito per i suoi continui ritardi, chiudesse il frate nel Palazzo di via Larga con l¹intento di fargli finire un lavoro. Ma dopo due giorni il Lippi spinto da furore amoroso, anzi bestiale, una sera con un paio di forbici fece alcune liste de’ lenzuoli del letto, e da una finestra calatosi, attese per molti giorni a' suoi piaceri. Taliesin, il Bardo |
IL GEORDIE FIORENTINO E LA FANCIULLA: DIODORA DE' BARDI.
La famosa menzione "Fuccio mi feci" (e non "mi fece") si sarebbe riferita a una curiosa vicenda narrata, tra gli altri, dal Preposto Lastri dell'antica chiesa Santa Maria De Bardi a Firenze. Un certo Ippolito Buondelmonti era innamorato, ricambiato, di una fanciulla chiamata Dianora de' Bardi; i due erano però impossibilitati a sposarsi per via della rivalità tra le loro famiglie. Una notte, con l'intenzione di introdursi nella finestra di lei, il Buondelmonti se ne andò in strada portandosi appresso, nascosta, una scaletta di corda: ma, scoperto dagli ufficiali di Guardia e interrogato, piuttosto che intaccare l'onore della ragazza, confessò che la scala la portava appresso per rubare. Condannato quindi a morte, chiese e ottenne che il corteo verso la forca venisse a passare sotto le case dei Bardi (che sorgevano dove oggi si trova palazzo Tempi). La fanciulla, riconosciutolo, testimoniò le sue vere intenzioni ottenendone la liberazione e riuscendo in seguito a sposarlo. La targa sarebbe stata quindi messa a ricordo dallo stesso Ippolito Buondelmonti, alludendo a come si fosse fatto "Fucci", cioè ladro come il Vanni Fucci, citato anche nell'Inferno di Dante. Tuttavia nel 1229 l'Inferno non era ancora stato scritto, né era avvenuto il furto di Vanni Fucci, che è del 1293. Taliesin, il Bardo |
IL CONTE ED IL POETA: LA BALLATA DI GEORDIE
Geordie è un'antica ballata britannica nata intorno al XVI secolo, numero 209 delle Child Ballads, ed esiste in molte varianti. In Italia è piuttosto conosciuta la versione cantata da Fabrizio De André. Il protagonista della canzone, di nome Geordie, è un giovane che si è reso colpevole di un crimine e pertanto sarebbe condannato all'impiccagione; il crimine può essere una ribellione, un omicidio o un furto di animali come cavalli o cervi, a seconda della versione. La moglie (o fidanzata) implora per la vita di Geordie; spesso la ragazza ha già dei figli, dei quali uno ancora in grembo. In molte versioni c'è un lieto fine: è fissato un riscatto che lei, grazie all'aiuto dei popolani impietositi, riesce a pagare. Nelle versioni inglesi dal XVIII secolo in poi, dalle quali le versioni moderne sono derivate, Geordie è un bracconiere ed il lieto fine è eliminato. Il bracconaggio nell'Inghilterra del periodo era punito in modo estremamente duro, in particolare nelle tenute e nelle riserve reali. Al giovane Geordie, evidentemente per le sue origini aristocratiche, viene riservato il raro "privilegio" di essere impiccato con una corda (o una catena) d'oro. La giovane fidanzata cavalca fino a Londra per chiedere di risparmiare la vita dell'amato, ma invano. La vicenda di Geordie sembra avere un fondamento storico: si tratta, secondo un'ipotesi, della storia di George Gordon, conte di Huntly, che fu condannato a morte come traditore nel 1589 per essersi ribellato contro Giacomo VI, re di Scozia. Per intercessione della famiglia fu liberato previa consegna di un riscatto; è probabile che Giacomo VI attraverso tale concessione abbia voluto evitare lo scontro con la famiglia di George, da sempre potente alleata della Corona. tratto da wikpedia Taliesin, il Bardo |
Che piacevole lettura è questa che ci offrite, caro bardo, dal sapore antico e dalle atmosfere tipiche di un mondo passato, fatto di Religiosità, arte e comune umanità.
E poi, come già vi dissi tempo fa, i vostri scritti recano spesso quelle ambientazioni a me così tanto care di una terra che sovente visita ed ispira i miei sogni :smile: |
Mi associo pure io..storie affascinanti. .la storia del frate Lippi e Lucrezia e poi la sua Madonna col Bambino e i due Angeli presa in iconografia a Firenze e si trova sopra al mio letto. .quando incontrai quel misterioso frate proveniente dal nulla e sparito nel nulla proprio in quel di Firenze che divenne così la mia seconda città.
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Cavaliere dell'Intelletto oramai conosco il vostro cuore ed i vostri pensieri che spesso si fondano con la mie atmosfere e con quella sacralità che spesso respirate nei vostri passaggi di tempo...Grazie per essere venuto a farmi visita nelle vostre ronde notturne...
Lady Altea, che quegli Angeli incastonati sopra la vostra testa che riposa nella braccia di Morfeo, possano sempre vegliare sui vostri passi e sulla vostra Discendenza...Grazie per avermi fatto visita... Taliesin, il Bardo |
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