Camelot, la patria della cavalleria

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Lady Gwen 09-04-2015 14.15.58

Intensa e struggente questa storia... come tutte le storie che si concludono in tragedia a causa del potere... grazie per questa ennesima perla, Bardo :smile: e` sempre un piacere conoscere la vita di queste fantastiche, seppur sfortunate, donne :)

Altea 09-04-2015 14.53.53

Una storia avvincente, misteriosa e struggente...grazie sir Taliesin per avermi narrato la storia di una donna nata proprio vicino la mia terra e che approdò nella città gigliata..una città che ritengo mi abbia adottata.
E chissà se fosse stato arsenico..

Taliesin 09-04-2015 15.54.56

Grazie Lady Altea per il vostro pensiero nei confronti di una città da me particolarmente amata, spesso come Madre, Sposa ed Amante...

Grazie Lady Gwen per il vostro sensibile pensiero nei confronti di un'altra fortunata "principesssa della storia", come una sorta di perla appesa al crepuscolo di miolioni di perle mai dimenticate...

Dovete sapere che negli anni verdi della mia vita, in un tempo sciocco e spavaldo, ho studiato a lungo la storicità della vicenda spesso infangata e riabilitata dalle convenienti ed ingombranti politiche fiorentine di passaggio...Grazie al mio Apprendista, in qauesto tempo razionale e perfettamente allineato alle tecnologie, voglio narrarvi il suo forse ultimo epilogo...

di Gino Fornaciari e Raffaella Bianucci
Straordinari risultati di una ricerca sui resti del granduca di Toscana: la presenza di Plasmodium falciparum (l’agente della malaria perniciosa) conferma le fonti secondo cui Francesco de' Medici morì di febbre malarica e manda in soffitta la lunga storia dell'avvelenamento
L’ipotesi dell'avvelenamento da arsenico di Francesco I de’ Medici (Firenze 1541 - Poggio a Caiano 1587) e della moglie Bianca Cappello da parte del fratello Ferdinando, cardinale e suo successore al Granducato di Toscana, è stata riproposta tempo fa in un articolo scientifico (Mari F. e coll., The mysterious death of Francesco I de’ Medici and Bianca Cappello: an arsenic murder? «British Medicai Journal, 2006, n. 333), ripreso trionfalmente dai media, e successivamente in ben due vo­lumi a carattere divulgativo (Ma­ri E, Bertol E., Polettini A., La mor­te di Francesco I de' Medici e della sua sposa Bianca Cappello, Le lette­re, Firenze 2007; Ferri M., Lippi D., I Medici. La dinastia dei misteri, Giunti, Firenze 2007). Del pro­blema si occupò anche Archeologia Viva con un'ampia inchiesta (Be­cattini M., Francesco e Bianca: arse­nico e vecchi merletti, AV n.123). In sintesi, i tossicologi Francesco Ma­ri, Elisabetta Berto!, 1}ldo Poletti­ni e la storica della medicina Do­natella Lippi hanno sostenuto di avere le prove dell' avvelenamento. L'ipotesi era basata su analisi con­dotte su alcune formazioni pilife­re ritrovate sull' osso mascellare di Francesco I (i cui resti sono stati riesumati nel 2004 da Gino For­naciari nell'ambito del "Progetto Medici") e su due campioni bio­logici rinvenuti all'interno di un sacello pavimentale della chiesa di S. Maria a Buonistallo, parroc­chiale della villa medicea di Pog­gio a Caiano (Po), dove - secon­do un documento di archivio - fu­rono portati dopo l'autopsia i va­si con le viscere di Francesco I e Bianca Cappello (ricordiamo qui che il corpo di Francesco fu se­polto nella basilica di San Loren­zo a Firenze, mentre il cadavere di Bianca non è mai stato ritrovato). I reperti biologici di Buonistallo, interpretati come frammenti di fegato umano appartenenti a in­dividui di sesso opposto, sono stati attribuiti ai due coniugi an­che grazie alla presenza, nella crip­ta, di frammenti ceramici e di due crocifissi bronzei ritenuti tardo­cinquecenteschi (ma risultati poi del Settecento e dell'Ottocento).
Azzardata dimostrazione di un delitto.
Una prima conside­razione a proposito di questi fortunosi ritrovamenti nella chiesa di S. Maria a Buonistallo è che la cripta, dove nei secoli sono stati collocati centinaia di corpi, non è stata scavata con tecniche ar­cheologiche; inoltre - come di­chiarano gli Autori dello studio ­il recupero dei frammenti di vasi e del materiale organico fu effet­tuato direttamente dai muratori... Ciononostante, gli stessi Autori hanno sostenuto che l’ipotesi dell’avvelenamento poteva essere non solo plausibile, ma anche dimo­strabile. L'analisi chimica ha in­fatti rivelato la presenza, in que­sti resti, di arsenico in dosi tossi­che; al tempo stesso i ricercatori fiorentini affermano - senza pe­raltro rendere nota né la metodologia né i dati molecolari ottenu­ti - che il DNA di uno dei due campioni organici sarebbe compatibile con quello delle formazioni pilifere ritrovate in corrispondenza del mascellare di Francesco I, nella cassetta di zinco dove le ossa del granduca erano state rideposte nel 1955 al termine dello studio antropologico effettuato da Gaetano Pieraccini e Giuseppe Genna. È un dato di fatto però che nella cassetta di zinco di Francesco I, riaperta nel 2004, non c'era traccia di materiali organici, né di cute né di barba, ma solo resti dei tessili che avvolgevano le ossa, peraltro accuratamente ripulite dagli antropologi degli anni Cinquanta per effettuare lo studio antropologico e per ricavare un calco in gesso del cranio del granduca. Quindi appare assai plausibile che il DNA ritrovato - e confrontato con quello dei resti organici della chiesa di Buonistallo non sia il DNA originale di Francesco l, ma sia dovuto - come succede spesso in laboratori non dedicati allo studio del DNA antico - a inquinamento da DNA moderno. Quanto alla presenza di arsenico, era consuetudine dopo l'autopsia trattare i visceri asportati con composti arsenicali, per favorirne la conservazione. In conclusione, già al momento della pubblicazione del lavoro sull'avvelenamento di Francesco I e Bianca Cappello permanevano forti dubbi sull’attendibilità dei risultati (Fornaciari G., The mystery of beard hairs, British Medical Journal, 2006, n. 333).

L’agonia dei granduchi.
La documentazione lasciataci dai medici di corte Pietro Cappelli, Giulio Cini e Baccio Baldini (gli archiatri che assistettero Francesco I) riporta il decorso della malattia. Nei giorni 6, 7 e 8 ottobre 1587 il granduca si strapazzò moltissimo andando a caccia nella tenuta circostante la sua villa di Poggio a Caiano, un’area agricola coltivata a risaia, ambiente malarico per eccellenza. La sera dell’8 Francesco si sentì male: febbre violenta accompagnata da vomito incoercibile, seguiti da insonnia e irrequietezza. La febbre persistette tutto il giorno 9 innalzandosi verso sera. Il 10 i medici diagnosticano una febbre malarica terzana, pertanto Francesco viene sottoposto a un primo salasso. Nella notte tra il 10 e l’11 il granduca si sentì meglio e riprese le sue attività. Il 12, 13 e 14 ottobre Francesco fu nuovamente in preda a violenti brividi causati da febbre elevata, cui si accompagnò un'intensa sudorazione per tutta la notte. Le sue condizioni migliorarono leggermente il giorno dopo. Il 16 e 17 ottobre il granduca si aggravò: ancora febbre alta, sudorazione profusa, vomito incoercibile, secchezza delle fauci, stitichezza e irrequietezza crescente. Miglioramento il 18 e gli vengono praticati due salassi. La mattina del 19 ottobre Francesco I si confessò e dettò le ultime volontà; nel pomeriggio la febbre s'innalzò di nuovo, accompagnata da grande irrequietezza, cui seguirono una forte astenia e la perdita di coscienza due ore prima della morte. Correva l'anno 1587 e Francesco aveva 46 anni. Quasi in contemporanea si era ammalata anche Bianca Cappello e i medici di corte, seppur in modo meno dettagliato, ne descrivono la malattia come molto simile a quella del coniuge: la stessa notte del 9 ottobre la granduchessa si sentì male, colta da un violentissimo attacco di febbre, e da allora fu febbrile con una sintomatologia uguale a quella del marito. Morì il 20 ottobre 1587 a 39 anni.

Malaria o avvelenamento? Attenti ai sintomi.
I tossicologi fiorentini hanno sostenuto che la sintomatologia manifestata da Francesco I (vomito incoercibile, secchezza delle fauci, dolori e bruciori di stomaco, continua irrequietezza, ingrossamento del fegato, lesioni polmonari ed edema diffuso) è tipica dell' avvelenamento da arsenico e ben diversa da quella dell'infezione malarica. A questo proposito è opportuno sottolineare che, nelle popolazioni dei paesi dove la malaria persiste in forma endemica, l’insieme dei sintomi riferiti per la malattia di Francesco I è invece tipico della febbre malarica da Plasmodium falciparum. Infatti, uno degli apparati maggiormente colpiti durante l'attacco malarico acuto è proprio quello gastro-intestinale. Il vomito incoercibile, sempre accompagnato da stato febbrile, è il sintomo principale, solitamente con una frequenza elevata all'insorgere della malattia. La conseguente perdita di liquidi e di elettroliti causa una disidratazione accompagnata da secchezza delle fauci e conduce, infine, al collasso cardio-circolatorio. La malaria acuta, accompagnata o meno dalla sintomatologia gastro-enterica, include anche edema polmonare nonché disturbi di tipo neurologico quali agitazione, turbe del comportamento e perdita di coscienza. Ebbene, l'ingestione orale di triossido di arsenico in elevate concentrazioni è certamente associata a sintomi gastro-intestinali (dolori gastritici acuti, salivazione abbondante, vomito, secchezza delle fauci, sete, difficoltà di parola, diarrea, tenesmo) e neurologici (convulsioni, turbe del comportamento, coma), ma attenzione: non è mai accompagnata da febbre. A parte il vomito incoercibile e la sete inestinguibile, Francesco I nella sua agonia durata undici giorni non manifestò nessun altro sintomo riconducibile ad avvelenamento acuto da arsenico.

Referti medici e voci di popolo.
Su richiesta del cardinale Ferdinando, i corpi di Francesco e Bianca furono sottoposti a esame autoptico e i medici confermarono che una forma perniciosa di malaria (terzana maligna) era stata la causa dell'improvviso e simultaneo decesso della coppia granducale. Tuttavia, subito dopo la morte dei due, cominciarono a diffondersi voci insistenti secondo cui Ferdinando avrebbe assassinato fratello e cognata con l'arsenico. Ma non mancarono altre versioni dell'accaduto. Addirittura si disse che Bianca avrebbe preparato una torta avvelenata da offrire al cognato Ferdinando: per sbaglio ne assaggiò anche Francesco e la donna, disperata, ne mangiò lei stessa per non sopravvivere al suo amato.

Fu il Plasmodium falcipamm il “killer” del granduca.
Recentemente, nel Laboratorio di Parassitologia della Facoltà di Medicina veterinaria dell'Università di Torino, estratti di campioni di osso spugnoso di Francesco I sono stati sottoposti ad analisi, per verificare la presenza di due proteine tipiche del Plasmodium falciparum, la proteina di tipo 2 ricca in istidina (P.f. HRP-2) e la lattato deidrogenasi (pLDH), usando due metodi qualitativi di determinazione tramite anticorpi a elevata sensibilità: il Malaria Antigen RAPYDTEST® e il MalariaDetect™ RAPYDTEST® (DiaSys, Connecticut, USA). Quest'ultimo test viene utilizzato per la diagnosi differenziale fra il P. falciparum e le altre tre specie di Plasmodium (P. vivax, P. ovale e P. malariae). I risultati hanno accertato la presenza della proteina di tipo 2 ricca in istidina di Plasmodium falciparum e della lattato deidrogenasi di P. falciparum non solo nel tessuto osseo spugnoso di Francesco I de’ Medici [MED11], ma anche in quello di altri tre membri della famiglia Medici, cioè il cardinale Giovanni [MED3], don Garzia [MED4] e la loro madre Eleonora di Toledo [MED5], deceduti per “febbre terzana” nel 1562 dopo un viaggio nella Maremma grossetana (Bianucci R. e coll., Immunological Identification of Plasmodium falciparum and Leishmania infantum in the skeletal remains of the Medici family, in Atti del XVIII congresso dell'Associazione Antropologica Italiana, Firenze, 1-4 ottobre 2009). Il Detect™ RAPYDTEST® non ha evidenziato la presenza d’infezioni non-falciparum o miste. Invece i campioni ossei di Cosimo I [MED6], deceduto per polmonite, e di Giovanna d'Austria [MED8], mona di parto, utilizzati come controllo interno, e due campioni esterni di controllo, di epoca medievale, provenienti da aree non malariche della Francia e della Germania, sono risultati negativi per l'infezione malarica.

Quattro secoli di falsità.
La teoria dell'avvelenamento da arsenico di Francesco I e Bianca Cappello ha suscitato un dibattito che dura da oltre quattro secoli. Due anni orsono, come abbiamo visto, lo studio effettuato dal professor Francesco Mari e colleghi aveva rilanciato !'ipotesi. I risultati della ricerca attuale, fornendo la prova sicura della presenza di proteine di Plasmodium falciparum nei resti scheletrici di Francesco I, confermano invece le fonti storiche, secondo le quali il granduca morì di malaria acuta. Ora la teoria dell'avvelenamento dovrà essere ricollocata fra le tante leggende che hanno circondato la dinastia granducale dei Medici, mentre il cardinale Ferdinando viene assolto da un'accusa infamante


Taliesin, il Bardo


elisabeth 09-04-2015 20.33.18

Questo luogo non solo rifiorisce con questa stupenda storia nei suoi tratti piu' disparati.......Amore.....abbandono intrigo......Ma..sorpresa delle sorprese, mi ritrovo in un vero e proprio laboratorio dove la medicina ne fa da padrona.....e ancora una volta...scienza ...e storia...ne diventano il fulcro il fulcro di due anime che anno vissuto una gioia grande come una grande ed immensa sofferenza.......


Ben tornato...Amato Bardo.....

Galgan 10-04-2015 01.28.57

Scienza, storia, amore, tradimento, infamia....Spesso sono i volti della medesima ametista, e il saperli rievocare tutti è un dono del Padre.
A voi il compito di narrare, buon Taliesin, a noi il dovere, e il piacere, di carpire, perché nulla venga condannato all'oblio.

Taliesin 23-04-2015 13.04.21

Amata Elisabetta...
nessun fiore potrebbe rifiorire nella serra dei ricordi e delle emozioni se una mano angelica non ponesse, assieme al calore del suo sole, gocce di rugiada che cadono dagli occhi cristallizzati...

Cavaliere Galgano...
anche in voi è presente quel Padre

Taliesin, il Bardo

Taliesin 23-04-2015 13.07.40

IL PATRONO DEI TROVATORI: MARIA DE VENTADORN

Maria era una di las tres de Torena, "tre Turenne", le tre figlie di visconte Raimondo II di Turenne e di Elise de Séverac. Questi tre, secondo Bertran de Born, possedeva tota beltat terrena, "tutte le bellezze terrene". La sua data di nascita è incerta; lei forse morì nel 1222. Il suo nome è variamente registrata come Marie de Turenne e Marguerite de Turenne. Ha sposato visconte Eble V di Ventadour; avevano un figlio, Eble, che sposò Dauphine de la Tour d'Auvergne, e una figlia, Alix o Alasia.

Il marito di Maria era la nipote di Eble III, e la pronipote di Eble Il cantante, che si ritiene sia stato tra i creatori del genere. Maria è rivolta, o almeno accennato, nel lavoro di diversi trovatori tra cui Gaucelm Faidit, il Monaco di Montaudon, Gausbert de Puicibot, Pons de Capduoill, Guiraut de Calanso, Bertran de Born e Gui d'Ussel. Secondo un commento poetico incluso nelle Biografie des Troubadours, Hugh IX di Lusignano era "cavaliere" di Maria.

Maria de Ventadorn è elencato come trobairitz nel suo pieno diritto sulla forza di un singolo Tenso o dibattito poetico, di cui versi alternativi erano apparentemente composte da lei e da Gui d'Ussel. La questione oggetto del dibattito è stato questo: una volta che un uomo è riuscito a sua richiesta per essere accettato come amante di una donna, egli torna ad essere suo pari, o se egli rimane il suo servo? Maria prende quest'ultimo punto di vista.

Taliesin, il Bardo

Taliesin 23-04-2015 15.12.13

IL TORMENTO E L’ESTASI: CHIARA DA MONTEFALCO.

Seconda figlia di Damiano e di Giacoma, Chiara nacque a Montefalco, in provincia di Perugia, nel 1268. Presa d'amor divino, fin dall'età di quattro anni mostrò una così forte inclinazione all'esercizio della preghiera da trascorrere intere ore immersa nell'orazione, ritirata nei luoghi più riposti della casa paterna. Sin da allora ella ebbe anche una profonda devozione per la Passione di Nostro Signore e la sola vista di un Crocifisso era per lei come un monito di continua mortificazione, a cui si abbandonava volentieri infliggendo al corpo innocente le più dure macerazioni con dolorosi cilici, tanto che sembrava quasi incredibile che una bimba di sei anni potesse avere non già il pensiero, ma la forza di sopportarne il tormento.

Consacratasi interamente a Dio, Chiara volle seguire l'esempio della sorella Giovanna, chiedendo di entrare nel locale reclusorio, dove fu accolta nel 1275. La santità della piccola e le elette virtù di Giovanna fecero accorrere nel reclusorio di Montefalco sempre nuove aspiranti, per cui ben presto si dovette intraprendere la costruzione di uno più grande che, cominciata nel 1282, si protrasse per otto anni tra opposizioni, contrasti e difficoltà di varia natura. A causa delle ristrettezze finanziarie, per qualche tempo durante i lavori Chiara fu incaricata anche di andare alla questua. Nel 1290, allorchè il nuovo reclusorio fu terminato, si pensò che sarebbe stato più opportuno fosse eretto un monastero, affinché la comunità potesse entrare a far parte di qualche religione approvata. Giovanna ne interessò il vescovo Gerardo Artesino che, con decreto del 10 giugno 1290, riconobbe la nuova famiglia religiosa, dando ad essa la regola di s. Agostino e autorizzando in pari tempo l'accettazione di novizie. Il novello monastero fu chiamato "della Croce", su proposta della stessa Giovanna, che ne venne subito eletta badessa.

Alla morte della sorella (22 novembre 1291), Chiara fu chiamata immediatamente a succederle nella carica, contro la sua volontà e nonostante la giovane età. Durante il suo governo, che esercitò sempre con illuminata fermezza, seppe tenere sempre vivo nella comunità, con la parola e con l'esempio, un gran desiderio di perfezione. Ebbe da Dio singolari grazie mistiche, come visioni ed estasi, e doni soprannaturali che profuse dentro e fuori il monastero, venendo,- inoltre, favorita dal Signore col dono della scienza infusa, per cui poté offrire dotte soluzioni alle più ardue questioni propostele da teologi, filosofi e letterati. Alla sua pronta azione, si deve poi la scoperta e l'eliminazione, tra la fine del 1306 e gli inizi del 1307, di una setta eretica chiamata dello "Spirito di libertà", che andava diffondendo per tutta l'Umbria errori quietistici.


Tanta era la fama di sé e delle sue virtù suscitata in vita da Chiara che subito dopo la morte, avvenuta nel suo monastero della Croce in Montefalco il 17 agosto 1308, fu venerata come santa.


Una tradizione leggendaria, fondata su una accesa pietà e su una ingenua nozione dell'anatomia, riferisce che nel cuore di Chiara, di eccezionali dimensioni, si credette di scorgere i simboli della Passione: il Crocifisso, il flagello, la colonna, la corona di spine, i tre chiodi e la lancia, la canna con la spugna. Inoltre nella cistifellea della santa si sarebbero riconosciuti tre globi di uguali dimensioni, peso e colore, disposti in forma di triangolo, come un simbolo della S.ma Trinità.


Erano trascorsi solo dieci mesi dalla morte di Chiara, quando il vescovo di Spoleto, Pietro Paolo Trinci, ordinò il 18 giugno 1309 di iniziare il processo informativo sulla sua vita e sulle virtù; poiché, però, avvenivano sempre nuovi miracoli e aumentava la devozione per la pia suora di Montefalco, molti fecero viva istanza presso la S. Sede per la canonizzazione di Chiara; procuratore della causa fu Berengario di S. Africano, che a tal fine si recò nel 1316 ad Avignone da Giovanni XXII, il quale deputò il cardinale Napoleone Orsini, legato a Perugia, a informarsi e riferire. Il nuovo processo, cominciato il 6 settembre 1318 e dal quale sarebbe dipesa certamente la canonizzazione di Chiara, per cause del tutto esterne non poté tuttavia aver seguito. Fu solo nel 1624 che Urbano VIII concesse, dapprima all'Ordine (14 agosto), poi alla diocesi di Spoleto (28 settembre), di recitare l'Ufficio e la Messa con preghiera propria in onore di Chiara, il cui nome Clemente X fece inserire, il 19 aprile 1673, nel Martirologio Romano. Nel 1736, Clemente XII ordinò la ripresa della causa e l'anno seguente la S. Congregazione dei Riti approvò il culto ab-immemorabili; nel 1738, fu istruito il nuovo processo apostolico sulle virtù e i miracoli, ratificato dalla S. Congregazione dei Riti il 17 settembre 1743. In tal modo si poteva procedere all'approvazione delle virtù eroiche, che si ebbe, tuttavia, solo un secolo più tardi, dopo un ulteriore processo apostolico, incominciato il 22 ottobre 1850, conclusosi il 21 novembre 1851 e approvato dalla S. Congregazione dei Riti il 25 settembre 1852; solo l'8 dicembre 1881, però, la beata Chiara da Montefalco fu solennemente canonizzata da Leone XIII.
Il 17 agosto si commemora la santa, mentre il 30 ottobre si celebra la festa "Impressio Crucifixi in corde s. Clarae".


Taliesin, il Bardo

Tratto da www.santiebeati.it

elisabeth 23-04-2015 15.42.05

E queste pagine ritornano a ricoprire le manchevolezze della mia conoscenza......molto spesso l'ignoranza ci rende ciechi......ma grazie alla Vostra costanza Amato Bardo......anche quando nessuno di noi si accorge che state facendo qualcosa per donarci attimi del vostro tempo,siete lì'......pronto a portare alla luce quelle Donne che hanno costruito la "superbia" delle Donne del nuovo secolo.......

Altea 23-04-2015 17.49.18

Maria de Ventadorn..affascinata da questo personaggio..ora conosciuto tramite voi..e io adoro la conoscenza nuova..e sto pensando al quesito ultimo... "una volta che un uomo è riuscito a sua richiesta per essere accettato come amante di una donna, egli torna ad essere suo pari, o se egli rimane il suo servo?". La risposta di Maria de Ventadorn è audace per quei tempi..è pari un servo...io mi sento di dire..donna di oggi..egli torna ad essere suo pari.

Taliesin 24-04-2015 08.39.26

Madonna Elisabetta...Madonna Altea,
la vostra emozione, nelle distrazioni di massa massacrate dalla superbia maschile e nelle donne senza gonna di questo tempo, le vostre emozioni riflesse nei miei scritti, sono lo specchio di un nuovo Rinascimento Femminile...
Grazie di tutto, soprattutto a nome delle mie Donne, mie care, dolci amiche....

Taliesin, il Bardo

Taliesin 24-04-2015 11.07.54

IL BIANCO SENO DI BRETAGNA: GWEN TEIRBRON

Gwen Teirbron, chiamata anche Wite (in inglese), Blanche (in francese), Blanca, Candida o Alba Trimammis (in latino) (499 – metà del VI secolo), fu una principessa di Bretagna, venerata come santa dalla Chiesa Cattolica.
Nata verso l'inizio del VI secolo, Gwen era una delle figlie di Budic II (anche detto Emyr Llydaw), re di Bretagna. Si sposò con san Fracan (o Fragan), un cugino di re Cador di Dumnonia, da cui ebbe i santi Wethnoc (o Guithern), Iacob o (Jacut) e Winwaloe (o Winwallus). Da questo deriva inoltre anche la leggenda secondo cui avrebbe avuto tre seni, con cui appare nelle iconografie.
Per scampare a una pestilenza (o secondo altre fonti per fuggire ai romani), assieme al marito e ai figli attraversò la Manica e si stabilì a Ploufragan. Qui da Fracan ebbe una figlia, Chreirbia, ed evangelizzò la Bretagna.
Dopo la morte di Fracan, Gwen sposò il bretone Eneas Ledewig, da cui ebbe un quinto figlio, San Cadfan. Venne rapita due volte da pirati anglosassoni e portata in Inghilterra, ma fuggì entrambe le volte ritornando in Bretagna attraversando il Canale - si dice - a piedi. Negli ultimi anni di vita si ritirò a Whitchurch Canonicorum, nel Dorset, dove visse da eremita fino a che i Sassoni non la scovarono e uccisero verso la metà del VI secolo. Un santuario a lei dedicato è situato in una chiesa costruita sopra la sua tomba, e fu uno dei due soli santuari a sopravvivere alla Riforma Protestante. Altre fonti, comunque, identificano la donna vissuta qui non con Gwen Teirbron, ma con un'eremita uccisa dai Danesi nel IX secolo.
Il nome Gwen è la forma femminile di Gwynn, che significa "bianco" o "puro"; i nomi alternativi sono quindi traduzioni letterali del suo nome originale. Teir e bron derivano dalla radici proto-celtiche*tisres, "tre" e *brunda, "seno", in riferimento alla leggenda secondo cui la santa avrebbe avuto tre seni.
La santa è ricordata il 5 luglio, mentre altre fonti indicano al 3 ottobre la sua commemorazione per la Chiesa Cattolica e al 18 luglio per la Chiesa Cattolica. Viene invocata dalle donne per avere figli.

Taliesin, il Bardo

tratto da wikipedia

Lady Gwen 26-04-2015 02.51.31

Una Donna molto affascinante, davvero :) ringrazio il caro e amato Bardo per averla celebrata nel giorno del mio compleanno (uno dei piu` importanti) e per avermi rivolto questo piccolo, seppur profondo pensiero :) grazie :)

Taliesin 28-04-2015 12.15.38

LA PARTE FEMMINILE DELLA MUSICA: MADDALENA DA CASOLE D'ELSA
Nata probabilmente attorno al 1540, Maddalena Casulana, compositrice, liutista, organista e cantatrice, è passata alla storia come Maddalena de Mezari detta “Casulana” o “Casulana Vicentina”. I due appellativi potrebbero derivare rispettivamente dalla provenienza geografica, oggi individuata nel Comune di Casole D’Elsa in provincia di Siena[1]– diversamente da quanto attestato in studi più datati che la fissavano in Brescia, e dal luogo in cui ella svolse parte della sua attività, Vicenza. Il cognome (riportato per i fatti della sua vita posteriori al 1571), invece, potrebbe ricondursi a un matrimonio contratto con tal de Mezari (o Mezari) identificabile con Giacomo Mezari, uno dei partecipanti alla fondazione (Verona, 28 marzo 1556) dell’Accademia alla Vittoria e suo membro ancora nel 1564, anno in cui l’organismo confluisce nell’Accademia Filarmonica (anch’essa operante a Verona).
Nebulosi, quindi, i primi dati biografici e, del resto, poco si conosce con certezza di tutta la sua vita, i termini della quale sono per lo più desumibili dalle dediche contenute nelle sue opere o da riferimenti di altri compositori o scrittori del tardo Rinascimento. Ad ogni modo, si sa che a Casole, centro musicale all’epoca di Maddalena molto fiorente dove qualche anno prima operava il compositore e architetto Fra’ Leonardo Morelli, detto Casulano, si compie la prima formazione musicale di Maddalena che, in seguito, ritroviamo alla corte medicea di Firenze, incoraggiata a perseguire l’attività professionale di compositrice da Isabella de’ Medici, la quale le assicura protezione e le commissiona quella che sarà la prima opera interamente sua, Il primo libro de’ madrigali a quattro voci. Pubblicata nel 1568, la raccolta si apre con una dedica della compositrice alla sua mecenate, molto interessante per la storia femminile considerato che vi si può leggere, tra l’altro, della necessità di

«mostrare al mondo (..in questa profession delle musica) il vano error de gl’huomini, che degli alti doni dell’intelletto tanto si credono patroni che par loro ch’alle Donne non possono medesimamente esser communi».
È una vera e propria rivendicazione del ruolo delle donne nell’arte della musica, questa, che fa il paio con l’essere la Casulana la prima donna ad ottenere la pubblicazione delle proprie composizioni: si tratta dei suoi primi quattro madrigali apparsi nel 1566 raccolti in un’antologia di autori vari intitolata Il Desiderio. Primo libro a quattro voci, cui fanno seguito altre composizioni incluse in ulteriori due antologie (stampate l’anno dopo) intitolate Terzo libro del Desiderio. Madrigali a quattro voci e Il Gaudio. Primo libro de’ madrigali a tre voci, ambedue curate dal compositore e cantante Giulio Bonagiunta e pubblicate dallo stampatore Girolamo Scotto di Venezia. Dotata di notevoli qualità artistiche e diplomatiche, Maddalena riesce a instaurare profondi legami con ambienti veneziani, veronesi, vicentini e padovani, soprattutto nell’ambito di quel genere di rappresentazione che, sorta nel XVI secolo, sarà poi chiamata, nei secoli successivi, commedia dell’arte, avendo modo di confrontarsi con compositori e scrittori dell’epoca che svolgono la propria attività anche, o in alcuni casi esclusivamente, fuori dalla corte medicea, tra i quali Philippe De Monte, Orlando Di Lasso, Stefano Rossetto, Antonio Molino (detto “Burchiella” o “Manoli Blessi”) e Giambattista Maganza il Vecchio. Particolarmente profondo appare il suo legame con Antonio Molino che, già settantenne, apprende da Maddalena l’arte della composizione dichiarandosi suo allievo e definendo i suoi insegnamenti «talmente abili da suscitare ardentemente nuovi desideri di gloria anche nella più vetusta intelligenza»[2].
Oltre al rapporto con Molino, fondamentale per la Casulana è il rapporto con Orlando di Lasso (maestro di cappella alla corte del Duca Alberto V di Baviera) che le consente di acquisire ulteriore notorietà: infatti è proprio di Lasso che, avendola conosciuta nel 1567 a Venezia, la invita l’anno successivo a scrivere una composizione da presentare in occasione del matrimonio di Guglielmo V (figlio del Duca di Baviera) con Renata di Lorena e a partecipare alle stesse celebrazioni nuziali a Monaco in veste di compositrice e cantatrice. In risposta all’invito Maddalena compone il mottetto a cinque voci su testo di Nicolò Stopio Nil mage iucundum
[3], cantato alle celebrazioni nuziali (nel resoconto stilato da Massimo Troiano, compositore, poeta ed annalista di corte, presente all’evento, si possono leggere grandi lodi della Casulana compositrice, dal che si può desumere che ella non avesse partecipato all’evento anche come cantatrice). Ritroviamo poco dopo Maddalena a Vicenza, in contatto con il poeta, pittore e liutista Giambattista Maganza che, nel 1569, con lo pseudonimo di Magagnò, le dedica alcune rime in “lingua rustica” (vernacolo) altamente celebrative ma, al contempo, assai audaci, cantando di lei non solo le abilità artistiche ma anche la bellezza e la forte sensualità. Ormai ben nota negli ambienti di corte e in quelli accademici, nel 1570 Maddalena pubblica (sempre con lo stampatore Scotto di Venezia) la sua seconda raccolta intitolata Il secondo libro de’ madrigali a quattro voci con dedica ad Antonio Londonio (potente ufficiale governativo milanese del quale ella riesce ad assicurarsi i favori con evidente abilità diplomatica).
Le testimonianze del periodo sembrano avvalorare la supposizione che Maddalena si fosse, nel frattempo, stabilita a Milano: il musicista Nicolò Tagliaferro, infatti, descrive nel suo scritto Esercizi Filosofici le esibizioni di Maddalena e di altre due “virtuose” cantatrici di quel periodo, Vittoria Moschella e Sudetta Fumia, affermando con riferimento alla Casulana che «sì come con le sudette di sopra io tenni strettissima conversatione in Napoli, così con costei io la tenni in Milano» e continuando con il dire che Maddalena anziché il canto prediligesse la composizione, arte nella quale «ella si dilettò molto, anzi più di quello che a profession donnesca conviensi». Il soggiorno milanese chiude probabilmente il rapporto di Maddalena con la corte medicea
[4], ma non quello con la corte bavarese come si può desumere dalla sua presenza a Vienna tra l’agosto e il settembre del 1571, in occasione dei festeggiamenti per il matrimonio di Carlo II d’Asburgo (arciduca d’Austria e fratello dell’imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano II) con Maria Anna di Baviera (figlia del Duca Alberto V), oltre che dalla notizia di una sua presenza nel 1572 in Francia, dove ella si reca in visita a Elisabetta d’Austria (figlia dell’imperatore Massimiliano II e, dal 1570, regina di Francia in seguito alle nozze con Carlo IX di Valois) che in tale occasione le elargisce una somma di 500 lire francesi[5].
Dopo questa visita mancano notizie che possano essere reputate certe, ma è ritenuto verosimile che Maddalena abbia trascorso i primi anni Settanta del Cinquecento alla corte viennese dove sarebbe entrata in contatto con altri famosi musicisti dell’epoca tra i quali Mauro Sinibaldi e sua moglie Marta di Mechelen, Andrea e Giovanni Gabrieli, Alessandro Striggio e sua moglie Virginia Vagnuoli, Giovanni Battista della Gostena. Ad ogni modo ritroviamo notizie certe di Maddalena dal 1582, anno in cui ella partecipa a un banchetto a Perugia, dove «La Casolana famosa dopo cena cantò al liuto di musica divinamente»
[6].
Nello stesso anno il tipografo veneziano Angelo Gardano le dedica il Primo libro dei madrigali a tre voci di Philippe de Monte con un verso celebrativo di un poeta dell’epoca che la definisce “Di questa nostra età Musa e Sirena”
[7].
Ormai all’acme della notorietà, nel 1583 Maddalena pubblica la sua ultima opera pervenutaci, Il primo libro de’ madrigali a cinque voci: in esso si legge la dedica al conte Mario Bevilacqua, personaggio di spicco dell’Accademia Filarmonica di Verona, e il ringraziamento per averle consentito di dimostrare le sue qualità artistiche presso la stessa Accademia. Sempre nel 1583, Maddalena è a Verona in un’esibizione all’Accademia Olimpica
[8] che sembra essere stato l’ultimo atto della sua attività artistica, sulla quale non vi sono ulteriori documenti. Le due raccolte di madrigali a quattro voci dal titolo Casulana, spirituali primo & secondo citate in un catalogo pubblicato nel 1591 dall’editore veneziano Giacomo Vincenti, infatti, potrebbero in realtà non essere mai state scritte considerando che nessun’altra fonte dell’epoca cita opere di carattere sacro ascrivibili alla Casulana. Notizie certe della musicista mancano per il seguito della sua vita e per la data della morte, indicata da alcuni studiosi fra il 1586 e il 1590.
Dubbia anche l’iconografia di Maddalena della quale un ritratto era sicuramente conservato in una collezione austriaca di provenienza ferrarese insieme con quelli di Isabetta e Lucietta Pellizzari, musiciste vicentine salariate dal 1582 al 1587 da quella stessa Accademia Olimpica dove nel 1583 avviene l’ultima esibizione nota della Casulana.

NOTE
1. Maddalena è menzionata tra i musicisti di origine senese «che fiorirono con maggior lode» da Giulio Piccolomini in Siena illustre per antichità.
2. Così Molino in Dilettevoli madrigali a quattro voci. Peraltro da un rapporto epistolare tra Molino e la Casulana si può evincere la loro differenza d’età: settantunenne lui, trentenne lei.
3. Del mottetto è stato tramandato il testo nella trascrizione fattane dal Troiano, mentre è andata perduta la musica.
4. È questa un’ipotesi avvalorata dalle mutate condizioni di forza interne al Granducato di Toscana e, soprattutto, in considerazione della perdita di potere che colpisce Isabella de Medici, protettrice della Casulana. A quel tempo, infatti, a Firenze le lotte intestine dilagano senza freno e, del resto, corrono ormai gli ultimi anni di governo del Granduca Cosimo I de Medici, padre di Isabella che di lì a poco, nel 1576, rimarrà uccisa per mano del marito tradito, Paolo Giordano Orsini.
5. Negli atti della Tesoreria Francese conservati presso la Biblioteca Nazionale di Francia (Paris, BNF F-Pn Clairambault 233, pp.3471-3472) si trova la quietanza di questa donazione firmata da Maddalena il 9 agosto 1572: «A damoiselle Magdelaine Casulana de Vincentia l’une des damoiselles de l’imperatrice la somme de cinque cents livres tom[ois]… dont ledit Seigneur luy a faict don en faveur de la Royne et pour luy donner moyen de supporter les fraiz et despences qu’elle a faicte d’allemagne in France estant venu trouver leurdits Majestez de la part de l’empereur et de l’imperatrice».
6.Cronaca di Perugia dal 1578 al 1586 di Giambattista Crispolti.
7. In exergo.
8. Di essa è memoria negli atti della stessa Accademia: Nel genaro pure di quest’anno fu letta in pubblica Accad.a ridottasi per la venuta di due ragguardeuoli soggetti [..]la Pastorale del S.r Fabio Pace. Vi fu gran concerto di stromenti, e, cantò la virtuosa Maddalena Casulana Vicentina, recitando distinta composiz[ion]e il S.r Gio. Batta. Titoni Acc. Ol. e poi vi fu Banchetto. Dalla lettura degli stessi atti si evince che l’esibizione della Casulana fu di altissimo livello.

tratto da: www.enciclopediadelledonne.it

Taliesin, il Bardo

Lady Gwen 28-04-2015 13.19.04

Una grande rivendicazione da parte di questa fantastica Donna e Artista dei diritti delle donne :) un grande esempio da seguire, grazie per avercelo donato :)

Altea 05-05-2015 18.01.57

Vorrei evidenziare quanto sia importante questa sezione e ringraziare sir Taliesin, giorni fa ero in biblioteca e ho visto un libro su Artemisia Gentileschi "La Passione di Artemisia" e mi ricordai proprio di averne letto qui qualcosa e ora lo sto leggendo..un libro coinvolgente..e dove si mette in evidenza una donna "femminista" nel 1600 e forse "condannata" per questo...quanta passione vero sir Taliesin per portare a termine la sua "Giuditta" nonostante le mani martoriate dalla tortura.
E grazie a Voi, caro bardo, ho potuto approfondire la mia cultura.

Taliesin 09-06-2015 16.28.46

LA SPIETATA AMBIZIONE DEL POTERE : FREDEGONDA DI GALLIA.

Nella ex Gallia romana (non ancora Francia), dal V secolo d.C. si riversano a valanga i Franchi, popolazione di derivazione germanica, ben determinati a prevalere nell’inevitabile lotta per il predominio apertosi alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Un territorio fortemente suddiviso in innumerevoli tribù in cerca di spazio e supremazia, con un spiccata tendenza alla ferocia, al saccheggio e alla devastazione. Caratteristiche da cui non sarà estranea Fredegonda, dapprima una semplice dama di compagnia – successivamente regina dei Franchi della Neustria – che dal sangue e dalla spietatezza pescherà il trono della Francia delle origini: “Un’ambizione senza confini e nessuno scrupolo morale, sembra sempre essere l’anima di tutte le azioni più turpi. Le rappresaglie e i sanguinosi regolamenti di conti anche fra parenti stretti fanno parte delle abitudini dei popoli germanici, ma in questo caso sono portate all’estremo da una donna gelida come un serpente, accecata dall’odio, professionista nell’arte dell’insinuarsi e soprattutto totalmente estranea al sentimento del rimorso. Chi la minaccia, chi la infastidisce o contrasta i suoi piani non ha scampo”. M. Minelli, Le regine e le principesse più malvagie della storia, p.18.
Ma perché la storia di una donna apparentemente secondaria? Perché in essa si racchiudono tutte le peculiarità della caotica stirpe dei Merovingi elevata dal condottiero Clodoveo I, agli inizi del 500 d.C., a centro dell’unificazione di tutti i popoli Franchi. Alla sua morte il regno passa nelle mani dei figli che raccolgono in eredità la barbarie del padre ma non anche il genio: “La grande intuizione di Clodoveo fu quella di porsi come vero erede del potere romano in Gallia, ovvero come il garante della sicurezza; ciò gli guadagnò infatti l’adesione dei gallo-romani, concretizzatasi con l’entrata nel suo esercito di soldati che già avevano prestato servizio nelle armate e nelle guarnigioni imperiali. Con l’aggiunta degli ausiliari barbari dei regni che andava man mano conquistando, costituì un esercito potente, dotato anche di un’efficiente cavalleria, con il quale conquistò tutta la Gallia, eccettuate Settimiana, Burgundia e Provenza: la sua opera lo pone a buon diritto come il primo fondatore della nazione francese”. A. Frediani, I grandi condottieri che hanno cambiato la storia, p.150.

Ma i suoi successori, passati alla storia come Re fannulloni, tra delitti, tradimenti e guerre civili metteranno in ginocchio lo Stato: “La stirpe di Clodoveo, i cui meriti furono innegabili, venne tuttavia contraddistinta da un’endemica instabilità politica insita nell’antica tradizione franca assuefatta a suddividere i possedimenti territoriali tra i vari eredi maschi. Seguendo tale consuetudine, nacquero così, sempre nell’ambito della dinastia Merovingia, i modesti regni di Austrasia, Neustria, Borgogna, Parigi, Orléans e Aquitania, mentre furono ricorrenti le lotte fratricide”. L. Gatto, La grande storia del Medioevo – tra la spada e la fede, p.603.

Tra i costumi mantenuti e tramandati dai Merovingi, non solo crudeltà efferata e sete di vendetta, ma anche la poligamia: “Uno stuolo di concubine, spose di secondo rango, favorite, oltre a una regina ufficiale alla quale spetta anche l’ingrato compito di far vivere in relativa pace tutte queste donne che abitano nella dimora reale, occupandosi principalmente dell’educazione dei figli e dei lavori domestici. Non troppo di rado all’interno di questi ginecei scoppiano delle vere e proprie tragedie, come quella che ha per protagonista assoluta la terribile Fredegonda, amante e poi moglie di Chilperico I (re di parte dell’Austrasia e successivamente della Neustria e Aquitania), uno dei nipoti di Clodoveo”. M. Minelli, Cit., pp.11-12.
DAL LETTO AL TRONO
La giovane e bella dama viene delegata al servizio della consorte di Chilperico, Audovera, ma l’obiettivo è entrare nel letto del re. Cosa presto fatta, giacché il sovrano merovingio, sanguinario e implacabile, non si fa certo pregare e ripudia anche la moglie che si chiude in convento.
Ma le trame di Fredegonda non sono pienamente soddisfatte perché Chilperico desidera una sposa di sangue reale e la trova in Galsuinta, principessa visigota. Fredegonda, tuttavia, non si dà per vinta e “indossa la maschera dell’umiltà, della devozione e chiede di poter restare a palazzo, al servizio della nuova sovrana. La donna sa benissimo che la virtù di Chilperico è fragile e i suoi buoni propositi sono facili da smontare. Infatti dopo pochi mesi il re ricade nel letto dell’amante. Galsuinta però è di tutt’altra pasta rispetto alla prima moglie e minaccia di scatenare un putiferio e tornare in Spagna… Un abbandono così umiliante, dopo un matrimonio tanto prestigioso, sarebbe troppo per un uomo orgoglioso come Chilperico, così la regina non fa in tempo a mettere in atto i suoi bellicosi propositi perché una mattina del 567 viene trovata morta… Strangolata nel sonno, non si sa da chi, ma molti immaginano che dietro l’omicidio ci sia la mente se non la mano di Fredegonda. Chilperico mostra per qualche giorno grande dolore, ma qualche tempo dopo sposa la sua amante”. M. Minelli, Cit., pp.15-16.

È la miccia che fa scoppiare la guerra civile con Sigeberto I, re dell’Austrasia e fratello di Chilperico, oltreché marito di Brunechilde sorella di Galsuinta. Uno scontro terribile d’una trentina d’anni che semina morte e rovina e che in una fase di stallo sarà risolto proprio da Fredegonda: “Trova molto più semplice e pratico affidare a due fedelissimi una delicata missione: uccidere Sigeberto, eliminando così il problema alla radice. L’omicidio avviene a Vitry, proprio mentre il re dell’Austrasia sta per essere riconosciuto re di tutti i Franchi. I due uomini trafiggono Sigeberto con la scramassa, il lungo micidiale pugnale franco, al quale – come ulteriore garanzia di successo – è stata avvelenata la lama”. M. Minelli, Cit., p.17.
FIGLI VERSO LA FRANCIA E FIGLIASTRI VERSO LA MORTE
L’Austrasia è allo sbando, l’esercito disperso e Brunechilde imprigionata in convento. Un trionfo apparente per Fredegonda perché Meroveo II, secondogenito di Audovera, si innamora di Brunechilde liberandola e sposandola in segreto. Riprende, dunque, la guerra civile e questa volta Fredegonda – con un Chilperico sempre più soggiogato – rivolgerà la sua ira contro tutti figli di primo letto del re, a vantaggio dei suoi: “Con Meroveo ha gioco facile: il matrimonio con Brunechilde basta a farlo considerare un traditore, quindi è costretto a tagliarsi i capelli (che i Franchi di alto lignaggio portano lunghissimi) e a farsi monaco. Poco dopo cade in una trappola tesagli dalla matrigna e alla fine, disperato, si suicida. Questa la versione ufficiale anche se per molti in effetti è stata la spietata regina a dare l’ordine di ammazzarlo… Nel 578 la regina della Neustria ha in parte completato la sua opera: Meroveo è morto, Teodoberto, l’altro figliastro, è caduto sul campo di battaglia tre anni prima; resta solo un figliastro, Clodoveo che… non solo ha insultato Fredegonda a più riprese, ma ha come amante una strega che, dopo qualche ora in compagnia del boia, confessa tutto.. Chilperico, terrorizzato dalla paura dei complotti e anche totalmente dominato dalla moglie, consegna il figlio nelle mani della matrigna. Ferocemente torturato, Clodoveo non ha più nulla di particolare da raccontare, però viene imprigionato e qualche giorno dopo pugnalato a morte”. M. Minelli, Cit., pp.18-19.

Fredegonda si libera quindi di ogni ostacolo per sé e i suoi figli con l’ambizione un giorno di dominare su tutti i Franchi. E visto che non ha freni, fa uccidere anche Audovera, da anni rinchiusa in convento. Ha le mani libere e Chilperico ormai ininfluente, fin quando egli stesso muore assassinato da “ignoti” mentre torna da una battuta di caccia nel 584. Non sarà una vedovanza allegra per Fredegonda perché sul suo regno tornano a spirare nuovi venti di guerra dal re di Burgundia, Childeberto II, figlio di Brunechilde e Sigeberto, che però viene sconfitto e tre anni dopo avvelenato.
Con questa vittoria Fredegonda non ha più rivali, invade la Borgogna e prende Parigi. Il suo lavoro si conclude e, così, muore nella futura capitale di Francia – a quanto pare non uccisa da nessuno – nel 597 lasciando al figlio Clotario II un regno prospero e la prospettiva di imperare su tutte le tribù Franche dopo essersi liberato, con i buoni insegnamenti della madre, dell’ultima rivale superstite, Brunechilde: “Catturata, imprigionata, sottoposta alle peggiori torture e umiliazioni, viene infine attaccata per un braccio, una gamba e i capelli alla coda di un cavallo selvaggio che, aizzato al galoppo, fa a pezzi il corpo dell’anziana regina”.M. Mineli, p.22
www.testedistoria.it
Taliesin, il Bardo

elisabeth 12-06-2015 20.24.45

Mio Amato Bardo.......ho letto la storia tutta di un fiato......certo una gran donna, ha dato al figlio una bellissima eredità.......il suo impareggiabile insegnamento.....ma nonostante tutto.....non mi piace come donna.....:naughty:.......comunque...la storia e' stata fatta anche da Loro.....Grazie...per il vostro immenso impegno

Taliesin 16-06-2015 17.15.22

Madonna Elisabetta...
In verità sono stato molto combattutto in principio nel presenatre il cinico profilo di questa Donna del Medioevo, così lontano dalle altre mie presentazioni, ma in effetti ho fatto il vostro stesso ragionamento, poichè la Storia, quella Vera e non quella scritto solo dai Vincitori, non finisce quasi mai come le favole antiche "...e vissero felici e contenti", ma molto spesso in mniera obliqua e differente da certi stereotipi scolastici o universitari, per non parlare di quelli religiosi...ma questa è un'altra storia.

Grazie...ora potete riprendere il filo del vostro fiato, che vi ho fatto smarrire...

Taliesin, il bardo

Taliesin 13-07-2015 09.38.30

L'IMPERATRICE DI FERRO: CUNEGONDA DI BAMBERGA.

Le Chiese d’Oriente e d’Occidente in due millenni di cristianesimo hanno attribuito l’aureola della santità quale corona eterna a non poche imperatrici, e talvolta anche ai loro mariti, che sedettero sui troni di Roma, di Costantinopoli e del Sacro Romano Impero. Sfogliando le pagine dell’autorevole Bibliotheca Sanctorum e della Bibliotheca Sanctorum Orientalium possiamo trovare i loro nomi: Adelaide, Alessandra e Serena (presunte mogli di Diocleziano), Ariadne, Basilissa (o Augusta), Cunegonda, Elena, Eudossia, Irene d’Ungheria (moglie di Alessio I Comneno), Irene la Giovane (moglie di Leone IV Chazaro), Marciana, Pulcheria, Placilla, Riccarda, Teodora (moglie di Giustiniano), Teodora (moglie di Teofilo l’Iconoclasta), Teofano. Anche nel XX secolo non sono mancate sante imperatrici: Sant’Alessandra Fedorovna, moglie dell’ultimo zar russo canonizzata dal Patriarcato di Mosca, la Serva di Dio Elena di Savoia, imperatrice d’Etiopia, ed in fama di santità è anche Zita di Borbone, moglie del Beato Carlo I d’Asburgo ed ultima imperatrice d’Austria.

Santa Cunegonda è venerata anche insieme al marito, l’imperatore Enrico II, la cui festa è però celebrata separatamente al 13 luglio. Le fonti relative a questa santa sono purtroppo costituite da notizie sparse, tramandate da alcuni cronisti contemporanei quali Tietmaro di Mersburgo e Rodolfo il Glabro, nonché da una vita composta da un canonico di Bamberga oltre un secolo dopo la morte. I genitori diedero alla figlia, sin dai primi anni, una profonda educazione cristiana. All’età di circa vent’anni, Cunegonda sposò il duca di Baviera, Enrico appunto, che nel 1002 venne incoronato re di Germania e nel 1014 sacro romano imperatore.

Su questo matrimonio, specialmente al principio del XX secolo, sono sorte parecchie polemiche: in alcuni testi antichi infatti, tra i quali la bolla di papa Innocenzo III, si narra che i due coniugi fecero voto di perpetua verginità e si parlò così di “matrimonio di San Giuseppe” e per tale motivo a Cunegonda è stato talvolta attribuito il titolo di “vergine”, ma secondo altri autori moderni una simile qualifica non corrisponderebbe alle narrazioni di contemporanei come Rodolfo il Glabro. Secondo quest’ultimo, I fatti, Enrico si accorse della sterilità della moglie, ma nonostante il matrimoniale germanico ammettesse il ripudio, non volle usare questo diritto per la grande pietà e santità che riscontrava nella consorte e preferì continuare a vivere insieme a lei pur senza speranza di prole. Fu proprio ciò, unitamente alla fama di santità che circondò i due coniugi, a far nascere in seguito la leggenda del cosiddetto “matrimonio di San Giuseppe”.

Nella Vita e nella bolla pontificia di canonizzazione si legge che Cunegonda fu oggetto di una grande calunnia di infedeltà coniugale ed Enrico, per provarne l’innocenza, decise di sottoporla alla prova del fuoco. La moglie accettò e passò miracolosamente indenne a piedi nudi sopra vomeri infuocati. L’imperatore chiese perdono all’augusta consorte per aver dato troppo credito agli accusatori e da quel momento visse in piena stima e fiducia nei suoi confronti. Non ci è dato sapere quale validità storica abbia concretamente questo episodio, resta comunque il suo alto valore simbolico.

Il 10 agosto 1002 a Paderborn Cunegonda fu incoronata regina e nel 1014 si recò a Roma con il marito per ricevere la corona imperiale dalle mani di papa Benedetto VIII, il 14 febbraio di quell’anno. La vita dell’imperatrice costituì un mirabile esempio di carità, umiltà e mortificazione, virtù che la caratterizzarono in molteplici manifestazioni. Assecondata dal pio marito, nel 1007 fece erigere il duomo di Bamberga e nel 1021 il monastero di Kaufungen, fondato in seguito ad un voto fatto durante una gravissima malattia da cui uscì pienamente ristabilita. Proprio in questo monastero benedettino volle ritirarsi nel 1025, addolorata per la perdita del marito. Nel giorno anniversario della morte di Enrico II, Cunegonda convocò parecchi vescovi per la dedicazione della chiesa di Kaufungen, cui donò una reliquia della Santa Croce. Dopo la lettura del Vangelo, si spogliò delle insegne e degli abiti imperiali, si fece tagliare i capelli e vestì il rozzo saio benedettino.

Continuò, come già aveva fatto in precedenza, a spendere il suo patrimonio nell’edificazione di nuovi monasteri, decorando chiese ed aiutando i poveri. Intrapresa dunque la vita monastica, visse in assoluta umiltà come se mai fosse stata addirittura imperatrice. Prese a trascorrere gran parte delle sue giornate in preghiera e nella lettura delle Sacre Scritture, non disdegnando però i lavori manuali ed i servizi più umili. Un compito assegnatole che gradì particolarmente fu la visita alle consorelle ammalate per portare loro conforto ed assistenza.

Si distinse inoltre per la pratica severa della penitenza: asumeva infatti esclusivamente il cibo indispensabile per sopravvivere, rifiutando ciò che poteva solleticare in qualche maniera il palato.
Sino al termine dei suoi giorni Cunegonda condusse questo stile di vita. Morì infine il 3 marzo di un anno imprecisato, generalmente viene preferito il 1033 anziché il 1039. Le sue spoglie mortali trovarono degna sepoltura presso quelle del marito nella cattedrale di Bamberga. Nei primi anni non fu oggetto di grande culto, ma dal XII secolo la venerazione nei suoi confronti crebbe grandemente fino a superare quella tributata già in precedenza ad Enrico.

La causa di canonizzazione fu introdotta sotto il pontificato di Celestino III, ma solo Innocenzo III con bolla del 29 marzo 1200 ne approvò ufficialmente il culto. Nella diocesi di Bamberga nel XV secolo ben quattro solenni celebrazioni erano dedicate alla memoria della santa imperatrice: il 3 marzo (anniversario della morte), il 29 marzo (anniversario della canonizzazione), il 9 settembre (traslazione delle reliquie) ed il 1° agosto (commemorazione del primo miracolo).

Taliesin, il Bardo

tratto da: www.santiebeati.it

Taliesin 06-04-2016 13.03.20

L'INCONSAPEVOLE ICONA DI UN ETERNO SORRISO: LISA GHERARDINI.

“Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Monna Lisa sua moglie; et quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanbleo . . . Et in questo di Leonardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, Et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti".
(Vasari, “Le vite”, vol. III)

Lisa Gherardini, conosciuta anche come Lisa del Giocondo o Monna Lisa, è nata a Firenze il 14 giugno 1479 ed è morta nel capoluogo toscano il 15 luglio 1542, all'età di 63 anni. La donna apparteneva a una nobile e antica famiglia, sin dall'ano Mille si trovano tracce dei Gherardini, aristocratici fiorentini esiliati nel veronese nel periodo delle lotte tra guelfi bianchi e guelfi neri nei primi anni del XIV secolo. Nonostante l'allontanamento dei Gherardini dalla Toscana, un ramo della famiglia rimase sempre a Firenze e quando nacque Lisa, nel 1479, la casata aveva perso gran parte dell'importanza che l'aveva caratterizzata nei secoli precedenti, restando comunque facoltosa. Lo stemma nobiliare dei Gherardini è molto antico, e nella sua forma originaria è 'di rosso, a tre fasce di vaio', anche se numerose rappresentazioni dell'arma, su carta o pietra, presentano sottili varianti.

INFANZIA E GIOVINEZZA. Il padre di Lisa, Antonmaria Gherardini, era un ricco mercante che in terze nozze sposò Lucrezia del Caccia, la madre di Lisa. La famiglia possedeva molte proprietà nelle campagne toscane, oltre ad una casa in città, in via Sguazza, una traversa di via Maggio, dove sembra che avvenne il parto. Primogenita di sette bambini, Lisa aveva tre sorelle e tre fratelli; quando era ancora piccola la famiglia si trasferì nell'attuale via dei Pepi, nei pressi della Basilica di Santa Croce, a pochi passi dalla casa di Piero da Vinci, padre di Leonardo. Alla morte del padre Lisa andò a vivere dal nonno materno, Mariotto Rucellai, che aveva buoni rapporti con la potente famiglia Medici. Alcuni studiosi credono che Giuliano de' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, avesse avuto una relazione amorosa con Lisa Gherardini, ma non è provato.

IL MATRIMONIO. Il 5 marzo 1495 la quindicenne sposò, su decisione del nonno, il trentenne Francesco di Bartolomeo di Zanobi del Giocondo, un facoltoso mercante di seta, divenendo così la sua terza moglie. La dote della ragazza era composta da poco meno di duecento fiorini e da un'azienda agricola vicino alla casa di campagna di famiglia. Francesco e Lisa ebbero cinque figli, Piero, Camilla, Andrea, Giocondo e Marietta, delle due figlie femmine si sa che divennero suore cattoliche: Camilla prese il nome di suor Beatrice ed entrò nel convento di San Domenico di Cafaggio (oggi San Domenico del Maglio), e Marietta prese il nome di suor Ludovica presso il convento francescano di Sant'Orsola. Rimasta vedova ed essendo malata (il marito Francesco muore di peste nel 1538), Lisa trascorrerà l'ultima parte della propria vita nel convento, assistita dalla figlia suor Ludovica fino alla morte, che avverrà all'età di 63 anni, nel 1542.

LA MORTE IN SANT'ORSOLA. A riprova di ciò, vi è un documento di morte e sepoltura rinvenuto dallo storico Giuseppe Pallanti nel registro dei decessi della Basilica di San Lorenzo (che faceva capo al convento femminile di Sant'Orsola), in cui si legge: "Donna fu di Francesco del Giocondo morì addì 15 di luglio 1542 sotterrossi in Sant'Orsola tolse tutto il capitolo". Oltre a ciò sono sttai ritrovate diverse care dell'epoca riguardanti il padre Antonmaria e il marito Francesco. Il ramo toscano dei Gherardini si estinse nel 1743 con la morte di Fabio Gherardini, ultimo gentiluomo della famiglia in Toscana. Un anno prima di morire, nel 1537, il marito di Lisa aveva fatto testamento (siglato tra l'altro da Piero da Vinci, il papà di Leonardo) e aveva stabilito che, alla sua scomparsa, venisse restituita a Lisa la dote, il suo abbigliamento personale e i suoi gioielli. Riguardo alle cure riservate alla moglie, scrisse delle precise disposizioni alla figlia Ludovica e al figlio Bartolomeo: "Dato l'affetto e l'amore del testatore nei confronti di Mona Lisa, la sua amata moglie; in considerazione del fatto che Lisa ha sempre agito con uno spirito nobile e come una moglie fedele; sperando che a lei venga dato tutto ciò di cui ha bisogno."

IL VOLTO PIU' FAMOSO DEL MONDO. Attorno al 1501 o 1502 Francesco del Giocondo chiese a Leonardo da Vinci di ritrarre sua moglie Lisa, almeno secondo quanto riportato da Giorgio Vasari nelle 'Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri', una cinquantina d'anni più tardi: "Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di monna Lisa sua moglie, e quattro anni penatevi, lo lasciò imperfecto, la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanableo". In cinque secoli di storia, inutile sottolinearlo, sulla Gioconda è stato detto di tutto, intere schiere di studiosi hanno tentato di analizzarlo da un punto di vista artistico e non solo. A tutt'oggi è uno di quadri più 'copiati', discussi e amati del mondo. La cosa migliore è affidarsi alle 'lettere antiche' del Vasari, ancora una volta, e lasciarsi accompagnare tra le pieghe del dipinto dalle sue parole appassionate: "Avvenga che gli occhi avevano que' lustri e quelle acquitrine, che di continuo si veggono nel vivo; et intorno a essi erano tutti que' rossigni lividi et i peli, che non senza grandissima sottigliezza si possono fare. Le ciglia per avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne, dove più folti e dove più radi, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere più naturali. Il naso, con tutte quelle belle aperture rossette e tenere, si vedeva essere vivo. La bocca, con quella sua sfenditura con le sue fini unite dal rosso della bocca con l'incarnazione del viso, che non colori, ma carne pareva veramente. Nella fontanella della gola, chi intentissimamente la guardava, vedeva battere i polsi: e nel vero si può dire che questa fussi dipinta d'una maniera da far tremare e temere ogni gagliardo artefice e sia qual si vuole. Usovvi ancora questa arte, che essendo Monna Lisa bellissima, teneva mentre che la ritraeva, chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facessino stare allegra, per levar via quel malinconico, che suol dar spesso la pittura a' ritratti che si fanno. Et in questo di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti".
Taliesin, il Bardo
Liberamente tratto e riadattato da: www.nannimagazine.it

Taliesin 06-04-2016 13.13.13

LA DAMA CON L'ERMELLINO: CECILIA GALLERANI.

Cecilia Gallerani (Milano, 1473 – San Giovanni in Croce, 1536) era di nobile famiglia e fu una delle amanti di Ludovico Sforza “il Moro”; feudataria di Saronno e moglie del conte Ludovico Carminati de’ Brambilla, detto “il Bergamino”, feudatario del castello di San Giovanni in Croce. Figlia di Fazio Gallerani e Margherita de’ Busti, è celebre per aver posato per Leonardo da Vinci per il famoso dipinto “La dama con l’ermellino” (1488). Nacque a Milano nei primi mesi del 1473, molto probabilmente nella casa situata nella parrocchia di S. Simpliciano dove dal 1455 vivevano il padre Fazio e la madre Margherita Busti, figlia di Lorenzo, dottore in legge, e sorella di Bernardino, francescano degli osservanti. Di origini senesi la famiglia Gallerani approdò a Milano agli inizi del Quattrocento quando, il nonno di Cecilia, Sigerio Gallerani, giurista di partito ghibellino a Siena, si vide costretto a rifugiarsi nella capitale viscontea a causa della prevalsa guelfa. Qui iniziò la carriera di funzionario pubblico che il figlio Bartolomeo, zio di Cecilia, seguì a partire dal 1450 e che aprì le porte a Fazio, padre di Cecilia, come referendario della duchessa ormai vedova Bianca Maria nel 1467; I ruoli ricoperti dai Gallerani presso la corte ducale permisero alla famiglia di mantenere un tenore di vita elevato e crearsi un cospicuo patrimonio terriero in Brianza, essendo però forestieri non vengono annoverati fra le liste dei nobili milanesi dell’epoca. Dapprima dimorati sotto la parrocchia di Santa Maria Beltrade in pieno centro, il nonno trasferì l’intera famiglia nel 1437 in quella che sarebbe rimasta la casa di famiglia nei pressi di porta Comasina sotto la parrocchia di San Simpliciano, luogo in cui nacque Cecilia nel 1473 penultima di sette fratelli e una sorella. All’età di sessantasei anni il padre di Cecilia morì e per la famiglia si presentò un periodo economicamente difficoltoso quindi l’istruzione di Cecilia verrà probabilmente curata dalla madre che, figlia di studiosi, incoraggia quel talento che verrà poi lodato dai letterati dell’epoca; Nel 1482 quando presumibilmente Leonardo arriva a Milano Cecilia ha nove anni. Nel 1483 all’età di dieci anni la famiglia Gallerani stipula un accordo matrimoniale fra Cecilia e Stefano Visconti per evitarle la vita monastica, allora normale consuetudine per le figlie femmine che non si sposavano. L’accordo verrà poi annullato nel 1487 a causa dell’impossibilità delle famiglie di far fronte alle doti pattuite. Nel 1489 la firma di Cecilia appare in una petizione depositata a corte nella quale lei e i fratelli chiedono, vista la situazione economica poco stabile dei fratelli, di tornare proprietari delle terre del padre confiscate anni addietro e di cui sono ereditari. Questo documento è fondamentale per ricostruire l’evento principale che conduce il suo volto ai giorni nostri grazie al quadro di Leonardo: l’incontro con Ludovico il Moro; infatti oltre la firma di Cecilia e dei fratelli vi sono registrate le loro dimore e Cecilia non risulta domiciliata come i fratelli presso la casa di famiglia, bensì sotto la Parrocchia del Monastero Nuovo. Cecilia ha sedici anni è nubile e il fatto che viva indipendentemente nella città milanese senza vedersi costretta a rifugiarsi in un convento per proseguire gli studi denota già la presenza del Duca, ad avvalorare questa tesi vi è la datazione del dipinto di Leonardo, il quale riceve la commissione da parte del Moro nello stesso anno. È del 1490 l’ufficiale comparsa alla corte di Cecilia divulgata dall’ambasciatore estense Giacomo Trotti poco dopo il matrimonio di Gian Galeazzo Sforza con Isabella d’Aragona; in una lettera al duca Estense il Trotti dichiara: « si dice che il male del signor Ludovico è causato dal troppo coito di una sua puta che prese presso di sé, molto bella, parecchi di fa, la quale gli va dietro dappertutto, e le vuole tutto il suo ben e gliene fa ogni dimostrazione » (Giacomo Trotti, stralcio di lettera riportato da Daniela Pizzagalli in “La Dama con l’ermellino”) Il termine “puta” utilizzato per i bambini denota così l’età della Gallerani che ai tempi ha 16 anni. Mentre posava per il dipinto, Cecilia ebbe modo di apprezzare Leonardo e di comprenderne le straordinarie doti. Lo invitò a riunioni di studiosi e di intellettuali di Milano, in cui si discuteva di filosofia e di varia cultura. Cecilia stessa presiedeva alcune di queste riunioni. La contessa Gallerani era una donna ricca di cultura, che parlava correntemente latino e che fece del canto e della scrittura i suoi principali interessi. Cecilia ebbe un figlio da Ludovico il Moro, Cesare. Dopo essere rimasta presso gli Sforza anche dopo il matrimonio del Moro con Beatrice d’Este, alla nascita del figlioletto fu allontanata dalla corte degli Sforza dallo stesso Ludovico ricevendo in dono diversi immobili e beni. Tra questi, il Palazzo Carmagnola, dove grazie a lei verrà istituito uno dei primi circoli letterari e nasceranno la moda della conversazione e dei giochi di società. Rifugiatasi per due anni da Isabella d’Este a Mantova, tornò a Milano con gli Sforza. Al 27 luglio 1492 risalgono le sue nozze con il conte Ludovico Carminati “il Bergamino”. Presso la residenza del Bergamino, l’attuale Villa Medici del Vascello in San Giovanni in Croce (Cremona), Dal marito Cecilia ebbe almeno quattro figli e continuò a tenere in Palazzo Carmagnola eleganti salotti con gli intellettuali dell’epoca. Con l’arrivo dei francesi la Gallerani si rifugia a Mantova assieme a Leonardo. Le furono confiscate le terre donatele dal Moro a Saronno e a Pavia che, al ritorno degli Sforza, le vennero restituite. Dopo la morte del marito e del figlio Cesare nel 1514-15, divise il suo tempo tra Milano e le proprietà a S. Giovanni in Croce nel Cremonese. In quest’ultimo luogo ricevette la visita di Matteo Bandello che le dedicò la Novella XXII definendola, insieme all’erudita Camilla Scarampa, “le nostre due Muse”. Come la maggior parte delle donne intellettuali del suo tempo, destinava la sua cultura solo al piacere e alla soddisfazione personale e, a quel che risulta dalle ricerche finora condotte, non pubblicò mai le sue poesie o i suoi saggi. Cecilia tenne numerosi incontri con artisti, poeti e letterati, trasformando il castello del marito in un luogo comunemente aperto a personalità di alta levatura culturale, tra i quali lo stesso Leonardo, in compagnia di un altro grande, Donato Bramante. La data della sua morte non è nota; in proposito il Calvi ha scritto: “pare che Cecilia campasse […] fino verso l’anno 1536”. Cecilia morì probabilmente percio’ all’età di 63 anni e fu probabilmente sepolta nella cappella della famiglia Carminati nella chiesa di San Zavedro a San Giovanni in Croce.

LA DAMA CON L’ ERMELLINO

La Dama con l’ermellino è un dipinto a olio su tavola (54,4×40,3 cm) di Leonardo da Vinci, databile al 1488-1490 e conservato per anni nel Czartoryski Muzeum di Cracovia. Dal maggio 2012 il quadro è esposto al castello del Wawel, sempre a Cracovia. La donna ritratta è quasi sicuramente identificata con Cecilia Gallerani. L’opera è uno dei dipinti simbolo dello straordinario livello artistico raggiunto da Leonardo durante il suo primo soggiorno milanese, tra il 1482 e il 1499. L’opera, della quale si ignorano le circostanze della commissione, viene di solito datata a poco dopo il 1488, quando Ludovico il Moro ricevette il prestigioso titolo onorifico di cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino dal re di Napoli. L’identificazione con la giovane amante del Moro Cecilia Gallerani si basa sul sottile rimando che rappresenterebbe, ancora una volta, l’animale: l’ermellino infatti, oltre che simbolo di purezza e di incorruttibilità (annotava lo stesso Leonardo che “prima si lascia pigliare dai cacciatori che voler fuggire nell’infangata tana, per non maculare la sua gentilezza”, cioè il mantello bianco), si chiama in greco “galé” (γαλή), che alluderebbe al cognome della fanciulla. La scritta apocrifa (“LA BELE FERONIERE / LEONARD D’AWINCI”) ha anche fatto ipotizzare che l’opera raffiguri Madame Ferron, amante di Francesco I di Francia, ipotesi oggi superata. Esiste poi un’interpretazione, poco seguita ma interessante per capire la molteplicità di suggestioni che ha generato il ritratto, secondo cui l’opera sarebbe una memoria della congiura contro Galeazzo Maria Sforza: la donna effigiata sarebbe sua figlia Caterina Sforza, con la collana di perle nere al collo della dama che alludono al lutto, e l’ermellino un richiamo allo stemma araldico di Giovanni Andrea da Lampugnano, sicario e uccisore nel 1476 dello Sforza. Il dipinto, col Ritratto di musico e la cosiddetta Belle Ferronnière del Louvre, rinnovò profondamente l’ambiente artistico milanese, segnando nuovi vertici nella tradizione ritrattistica locale. Dell’opera si sa che ebbe subito un notevole successo. Immortalato da un sonetto di Bernardo Bellincioni (XLV), venne mostrata dalla stessa Cecilia alla marchesa di Mantova Isabella d’Este che cercò di farsi ritrarre a sua volta da Leonardo, pur senza successo (ne resta solo un cartone al Louvre). Le tracce del dipinto nei secoli successivi sono più confuse. Dimenticata l’attribuzione a Leonardo, l’opera venne riassegnata al maestro solo alla fine del XVIII secolo. In quest’opera lo schema del ritratto quattrocentesco, a mezzo busto e di tre quarti, venne superato da Leonardo, che concepì una duplice rotazione, con il busto rivolto a sinistra e la testa a destra. Vi è corrispondenza tra il punto di vista di Cecilia e dell’ermellino; l’animale infatti sembra identificarsi con la fanciulla, per una sottile comunanza di tratti, per gli sguardi dei due, che sono intensi e allo stesso tempo candidi. La figura slanciata di Cecilia trova riscontro armonico nell’animale. La dama sembra volgersi come se stesse osservando qualcuno sopraggiungente nella stanza, e al tempo stesso ha l’imperturbabilità solenne di un’antica statua. Un impercettibile sorriso aleggia sulle sue labbra: per esprimere un sentimento Leonardo preferiva accennare alle emozioni piuttosto che renderle esplicite. Grande risalto è dato alla mano, investita dalla luce, con le dita lunghe ed affusolate che accarezzano l’animale, testimoniando la sua delicatezza e la sua grazia. L’abbigliamento della donna è curatissimo, ma non eccessivamente sfarzoso, per l’assenza di gioielli, a parte la lunga collana di perle scure. Come tipico nei vestiti dell’epoca, le maniche sono la parte più elaborata, in questo caso di due colori diversi, adornate da nastri che, all’occorrenza, potevano essere sciolti per sostituirle. Un laccio nero sulla fronte tiene fermo un velo dello stesso colore dei capelli raccolti. Lo sfondo è scuro, ma dall’analisi ai raggi X emerge che dietro la spalla sinistra della dama era originariamente dipinta una finestra. L’ermellino è dipinto con precisione e vivacità. A un’analisi della morfologia dell’animale, esso appare però più simile a un furetto. Può darsi che Leonardo, sempre indagatore del dato naturale, si ispirasse a un animale catturato, allontanandosi dalla, tutto sommato più realistica, tradizione iconografica (ad esempio si può vedere un ermellino nel Ritratto di cavaliere di Vittore Carpaccio del 1510 circa). Del resto, l’ermellino è un animale selvatico mordace e difficilmente ammaestrabile, di conseguenza sarebbe stato molto difficile poterlo utilizzare come modello, al contrario del furetto che può essere addomesticato quasi alla stregua di un gatto, oltre che relativamente semplice da trovare nelle campagne lombarde dell’epoca. Si consideri inoltre che l’ermellino ha dimensioni molto più ridotte, superando raramente e comunque di poco i 30 cm, mentre il furetto, come nel dipinto, a occhio misura tra i 40 e i 60 cm. Acquistata dal principe Adam Jerzy Czartoryski nel 1800, «La dama con l’ermellino», arrivo’ cosi’ a Cracovia nel Palazzo Reale, oggi Czartoryski Museum, in Polonia.
Il dipinto fu sequestrato dai nazisti nel 1940 e recuperata dall’esercito americano nel 1945
La seconda guerra mondiale non fu soltanto un’ecatombe di vite umane, morte e distruzione sulla vecchia Europa, in buona parte dell’Asia e in Russia, oltre che in Africa. Fu anche una tragedia dal punto di vista della cultura, con la distruzione di importanti centri storici, monumenti, chiese e castelli, oppure di opere di millenaria storia e importanza, come la distruzione dell’Abbazia di Montecassino. Una delle caratteristiche specifiche della stessa guerra, in ambito culturale, fu la spoliazione di musei, case private, chiese e luoghi che presentavano opere d’arte importanti; il Fuhrer, pittore di discreto talento, aveva una personale ossessione per l’arte, voleva ad ogni costo costruire un museo che raccogliesse il meglio di quanto espresso dal talento e dalla genialità umana. Perciò, diede ordine ai suoi generali di spogliare e razziare le capitali europee conquistate, così come dette incarico ai capi delle SS di depredare tutti gli ebrei di ogni nazione dei propri patrimoni artistici. In questo venne coadiuvato con entusiasmo ed energia da Hermann Goering, il suo braccio destro, uomo rozzo e poco colto, che difatti venne truffato per esempio dal grande falsario Van Meegeren, che riuscì a vendergli dei Vermeer perfettamente contraffatti. Fu così che nei sei anni di guerra i paesi europei, principalmente la Francia e in seguito all’armistizio del 1943, anche l’Italia, vennero depredati di migliaia e migliaia di pezzi d’arte: quadri, sculture, arazzi, ma non solo.
Nelle rapaci mani dei tedeschi cadde anche il dipinto “La dama con l’ermellino”. La tela fu sequestrata dai nazisti e recuperata dall’esercito americano nel 1945, quando venne restituita alla famiglia Czartoryski per il suo museo di Cracovia. Durante la seconda guerra mondiale venne nascosto nei sotterranei del castello del Wawel, dove fu trovato dai nazisti che avevano invaso la Polonia; quando fu ritrovato recava nell’angolo inferiore a destra l’impronta di un tallone, a cui venne rimediato con un restauro. Il ritratto, restaurato nel 1956, è stato prestato per la prima volta a Mosca nel 1972 e successivamente a Washington e a Malmo-Stoccolma nel 1992, a Roma-Milano-Firenze nel 1998, a Kyoto-Nagoya-Yokohama nel 2001-02, a Milwaukee-Houston-San Francisco nel 2002-03, a Budapest nel 2009 e a Madrid nel 2011. Attualmente è la star della mostra «Volti del Rinascimento» in corso al Bode Museum di Berlino fino al 20 novembre.
Il sonetto di Bernardo Bellincioni
“Sopra il ritratto di Madonna Cecilia, qual fece Leonardo”. Di che ti adiri? A chi invidia hai Natura Al Vinci che ha ritratto una tua stella: Cecilia! sì bellissima oggi è quella Che a suoi begli occhi el sol par ombra oscura. L’onore è tuo, sebben con sua pittura La fa che par che ascolti e non favella: Pensa quanto sarà più viva e bella, Più a te fia gloria in ogni età futura. Ringraziar dunque Ludovico or puoi E l’ingegno e la man di Leonardo, Che a’ posteri di te voglia far parte. Chi lei vedrà cosi, benché sia tardo, – Vederla viva, dirà: Basti a noi Comprender or quel eh’ è natura et arte. (1493).

Taliesin, il Bardo

tratto da: www.ladamaconl'ermellino.it

Altea 06-04-2016 16.59.04

Donne affascinanti...è un piacere rileggere le storie di molte donne e avete evidenziato due donne famose nella storia e dalla storia misteriosa, sul quale si sa sono state ricamate molte "leggende". Con la gioia della mia piccola artista..la quale già sapeva la storia di Lisa Gherardini ma l'ha riletta con piacere :smile:

Lady Gwen 06-04-2016 17.49.56

Bello rileggere le storie di queste donne così importanti e significative, soprattutto per un'appassionata di arte come me ;) grazie caro Bardo :)

Taliesin 12-04-2016 11.39.57

Buongiorno Signore...
Se il Mondo avesse "Riletto" la Storia dietro alla Storia conosciuta e sacralmente ufficializzata, forse l'Uomo non ricadrebbe sugli stessi immancabili errori, nell'orrore di questo tempo senza Storia...
Grazie per il vostro contributo. Anche la Vostra Storia, con le vostre opere e le vostre emozioni, è già scritta assieme alla loro...

Taliesin, il Bardo

Taliesin 18-04-2016 16.22.11

LA FAMOSA TROVATORE DI ALLEGREZZA E BELTADE: CASTELLOZA DI ALVERNIA.

Castelloza, una delle più note Trovatore, nacque intorno al 1200 e fu originaria dell’Alvernia. La vida dice: «La signora Castelloza fu dell’Alvernia, una nobile signora, moglie di Truc di Mairona. Amò Arman di Brion e compose le sue canzoni per lui. Era una signora molto allegra, assai istruita e bellissima. E qui sono riportate alcune delle sue canzoni» (Margarita Egan, Les vies des troubadours, Union Générale d’Editions, Paris, 1958, pp.64-65).

La personalità di Castelloza è molto diversa da quella della Contessa di Dia: nei suoi versi esuberanti e rigogliosi, nella scioltezza e abbondanza del suo canto Castelloza gioca a tutto campo la propria libertà e signoria. La canzone Amico, se vi trovassi cortese è una lunga e rabbiosa requisitoria poetica, non priva di insulti, contro l’uomo amato, nella quale si alternano suppliche a minacce, un monologo-dialogo conflittuale con l’uomo, in cui i moti interiori e l’interlocuzione sono strettamente intrecciati; il procedere dell’esplicitazione dei sentimenti contrastanti segue un moto apparente, un avanti e indietro che ha l’andamento delle onde del mare e, nelle sue ricorrenti contraddizioni, ha le caratteristiche dell’odi et amo.
Castelloza, col suo comportamento, sa d’essere controcorrente e lo afferma fieramente: non le importa di incorrere nella disapprovazione sociale, ma di affermare il proprio volere e piacere. Nel cantare di Castelloza c’è la profonda consapevolezza, propria di molte altre Trovatore, che l’amore è sempre impregnato di sofferenza e che il sollievo si trova solo nel sonno o nella morte.
Non dovrei più desiderar cantare è una canzone dolente, nella quale la poetessa, abbandonato l’accento aggressivo, si effonde nel lamento per la trascuratezza dell’amato, nel rammarico per la propria inferiorità, nel tormento della gelosia. Al termine vi sono due commiati: Castelloza, nel primo si rivolge a una donna, Madonna Migliore, nella quale ripone fiducia, per confessarle, forse domandando un giudizio, che lei ama sempre chi le procura dolore e un altro a Bel Nome, l’amato, per dirgli che non si pente affatto di amarlo, anche se è indegno, perché lei è comunque cosciente del proprio valore.
Anche Siete stato a lungo lontano è una canzone accorata, dove Castelloza, con toni dolci e appassionati, si duole della lontananza da lei del suo bene, nonostante la propria fedeltà e costanza; viceversa, anche se si è comportato male, il cavaliere, al suo ritorno, troverà sempre buona accoglienza. Sono le incongruenze dell’amore.
Per quante gioie Amor mi possa dare esala il respiro dell’anima; la poetessa dipinge alla perfezione gli stati d’animo contrastanti che caratterizzano l’amore, qualunque amore, di cui lei è conoscitrice indiscussa; qui la passione amorosa di Castelloza trascolora da un estremo all’altro: vuole lasciare l’amato, ma contemporaneamente vuole che le stia vicino, vuole morire, ma prega il cavaliere di tenerla in vita con il suo sguardo! Tanto immenso è il suo amore che accetta che il cavaliere ami anche un’altra, purché non faccia mancare a lei del tutto la sua presenza. Gli ultimi versi prorompono in un grido di passione e si sciolgono in accenti di rara intensità e bellezza.
«Oh Dio voglia che tra le mie braccia posiate,
che solo voi mi potete far ricca.

Ricca sarei, sol che ricordaste
di raggiungermi
laddove io possa baciarvi e stringervi,
e possa rinascere
il cuor mio..»
Taliesin, il Bardo

Altea 18-04-2016 16.45.32

Sir Taliesin,
sono rimasta straordinariamente ammaliata da questa donna.
Avete ragione...il suo era proprio una sorta di odi et amo ed oserei dire nel suo Amare profondamente per poi ripudiare l' Amato stesso e riamarlo...vi è come la rinascita continua di questo Amore. E' così che ho visto le sue canzoni.
Voi sapete se si possono trovare testi riguardanti questa Trovatore? Magari con qualche sua opera.
Grazie per questa bellissima nuova scoperta.

Taliesin 19-04-2016 08.47.16

Milady Altea...
ritrovare la vostra Maraviglia nell'assaporare quest'ennesima scoperta di virtude e beltàde è come il dischiudersi delle rose al primo sole di primavera, e per questo, voglio donarvi quello che voi donate ogni qualvolta quel fiore si apre verso di me...

Taliesin, il Bardo

Per ioi que d’amor m’avegna
Per ioi que d’amor m’avegna
no·m calgra ogan esbaudir,
qu’eu non cre qu’en grat me tegna
cel c’anc non volc hobesir

mos bos motz ni mas chansos;
ni anc no fon la sazsons
qu’ie·m pogues de lui sofrir;
ans tem que·m n’er a morir,
. . . . . . c’ab tal autra regna

don per mi no·s vol partir.
Partir m’en er, mas no·m degna,
que morta m’an li conssir:
e pos no·ill platz que·m retegna,
vueilla·m d’aitant hobesir

c’ab sos avinenz respos
me tegna mon cor ioios;
e ia a sidonz non tir,
s’ie·l fas d’aitan enardir,
qu’ieu no·l prec per mi que·s tegna

de leis amar ni servir.
Leis serva, mas mi·n revegna,
que no·m lais del tot morir,
. . . . . que m’estegna

s’amors, don me fa languir.
Hai! amics valenz e bos,
car es lo meiller c’anc fos,
non vuillaz c’aillors me vir!

Mas no·m volez far ni dir
con eu ia iorn me captegna
de vos amar ni grasir.

Grasisc vos, con que m’en pregna,
tot lo maltrag e·l consir;
e ia cavaliers no·s fegna

de mi, c’u·ssol no·n desir,
bels amics, si faz fort vos,
on tenc los oilz ambedos;
e plaz me can vos remir,

c’anc tan bel non sai chausir.
Dieus, prec c’ab mos bratz vos segna,

c’autre no·m pot enriquir.
Rica soi, ab que·us suvegna
com pogues en luec venir
on eu vos bais e·us estregna,
c’ab aitan pot revenir
mos cor, ques es enveios
de vos mout e cobeitos.
Amics, no·m laissatz morir!

Pueis de vos no·m puesc gandir,
un bel semblan que·m revegna

·m faiz, que m’ausiza·l consir.

Testo: Gambino 2003 (V). – Rialto 3.ii.2005.
Edizioni critiche: Henri-Pascal Rochegude, Le Parnasse occitanien, ou choix de poésies originales des trobadours tirées des manuscrits nationaux, Toulouse 1819, rist. Geneve 1977, p. 387; Oskar Schultz[-Gora], Die provenzalischen Dichterinnen. Biographien und Texte nebst Anmerkungen und einer Einleitung, Leipzig 1888, p. 4; Duc De La Salle de Rochemaure, Les troubadours cantaliens. Texte des oeuvres des troubadours, revus, corrigés, traduits et annotés par René Lavaud, Aurillac 1910, II, pp. 516 e III, p. 89; William D. Paden et alii, «The Poems of the «trobairitz» Na Castelloza», in Romance Philology, XXXV (1981), pp. 158-182, a p. 179; Deborah Perkal-Balinsky, The Minor «Trobairitz»: an Edition with Translation and Commentary, Evanston Illinois 1986, p. 164; Ulrich Mölk, Romanische Frauenlieder, Munich 1989 (Klassische Texte des romanische Mittelalters in zweisprachigen Ausgaben, 28), pp. 58-61 e 197-99; Katharina Städtler, Altprovenzalische Frauendichtung (1150-1250). Historisch-soziologische Untersuchungen und Interpretationen, Heidelberg 1990, p. 214; Angelica Rieger, Trobairitz. Der Beitrag der Frau in der altokzitanischen höfischen Lyrik. Edition des Gesamtkorpus, Tübingen 1991, p. 549; Matilda Tomaryn Bruckner, Laurie Shepard, Sarah White, Songs of the Women Troubadours, New York - London 1995, pp. 26-29; Francesca Gambino, Canzoni anonime di trovatori e «trobairitz», Alessandria 2003 (Scritture e scrittori, 18), p. 67.

Altre edizioni: Carl August Friedrich Mahn, Die Werke der Troubadours in provenzalischer Sprache, Berlin 1846-86, III, p. 378; Pierre Bec, Chants d’amour des femmes-troubadours. Trobairitz et «chansons de femme», Paris 1995, p. 88.

Metrica: a7’ b7 a7’ b7 c7 c7 b7 b7 a7’ b7 (Frank 364:1, unicum). Cinque coblas unissonans capfinidas, senza tornada. Si noti la rima identica revegna 21 : 49.

Note: La canzone, anonima e dall’io lirico femminile, segue il compatto gruppo di Na Castelloza in N e con fondati motivi è stata da più interpreti a questaTrovatore attribuita: a ragioni di ordine metrico, stilistico e di contenuto, si aggiungono considerazioni sul tipo di tradizione testuale del corpus di liriche di Castelloza (tra tutti cfr. François Zufferey, Toward a Delimitation of the «trobairitz» Corpus, in The Voice of the «trobairitz»: Perspectives on the Women Troubadours, edited by William D. Paden, Philadelphia 1989, pp. 31-43, a p. 31 e Rieger pp. 66-67 e p. 555, con altra bibliografia). – Dal v. 5 mas chansos si evince che l’anonima autrice ha composto altre canzoni.

Taliesin 19-04-2016 11.00.25

LA CONTESSA DEI CANZONIERI: GERSENDA DI PROVENZA


Garsenda o Garsende II di Sabran o di Provenza (1180 circa – 1242 circa) è stata Contessa consorte di Provenza, in quanto moglie di Alfonso II dal 1193 al 1209, e Contessa di Forcalquier, titolare per qualche mese, nel 1209, poi governante per conto del figlio, Raimondo Berengario IV, sino al 1222.

Il suo matrimonio col conte di Provenza, appartenente alla Casa di Barcellona portò alla riunificazione della contea di Forcalquier con la contea di Provenza. Garsenda fu anche mecenate della letteratura occitana, specialmente dei trovatori; lei stessa scrisse alcune poesie liriche, annoverata fra le trobairitz come Garsenda de Proensa o Proença. Secondo i suoi più recenti curatori lei fu "nella storia occitana una delle donne più potenti.

Era figlia del Signore di Caylar e d'Ansouis, Raniero († dopo il 1209) appartenente alla famiglia de Sabran e di Garsenda di Forcalquier ( † prima del 1193), l'unca figlia del Conte di Forcalquier, Guglielmo IV d'Urgell e Adelaide di Bezieres, di cui non si conoscono gli ascendenti.
Raniero de Sabran era figlio di Rostaing II de Sabran (1105 - 1180 ) e della sua seconda moglie, Roscie di Caylar[3], figlia di Raniero, signore d'Uzès e di Caylar e della moglie, Beatrice, di cui non si conoscono gli ascendenti.
Il nome Garsenda gli deriva dalla madre, anche lei di nome Garsenda, l'unica figlia ed erede del Conte di Forcalquier, Guglielmo IV d'Urgell, a cui però premorì, quando la figlia è ancora molto giovane.

Aveva appena tredici anni quando, nel 1193, secondo la Histoire générale des Alpes Maritimes ou Cottiènes par Marcellin Fornier, Continuation, Tome I, suo nonno, Guglielmo IV, col trattato di Aix, concordò con il re d'Aragona e conte di Barcellona, Alfonso il Casto il matrimonio tra Garsenda ed il conte di Provenza, anche lui tredicenne, Alfonso Berengario, che secondo l'Ex Gestis Comitum Barcinonensium, era il figlio terzogenito (secondo maschio) dello stesso Alfonso il Casto e della sua seconda moglie Sancha di Castiglia, figlia del re di Castiglia, Alfonso VII e di Richenza di Polonia. Il trattato prevedeva che Garsenda avrebbe ereditato la Contea di Forcalquier mentre Alfonso Berengario sarebbe divenuto conte effettivo di Provenza Il matrimonio fu celebrato, ad Aix-en-Provence nel luglio di quello stesso anno (1193). Il matrimonio è confermato dall'arcivescovo di Toledo, che fu anche storico, Rodrigo di Toledo nel suo De rebus Hispaniæ dove Garsenda è citata come nipote del conte di Forcalquier (neptem comitis Folocalquerii) e dalla Historia Comitum Provinciae. La Chronica Albrici Monachi Trium Fontium, anno 1213, invece cita Garsenda (neptem…comitis de Forcalcarie) attribuendogli erroneamente come marito lo zio di Alfonso II, Sancho.

Nel 1995, suo marito Alfonso Berengario, con la maggior età divenne il conte effettivo di Provenza, Alfonso II.
Suo zio Bertrando II era morto il 13 maggio del 1207, mentre suo nonno, Guglielmo IV, rimasto unico conte, morì circa due anni dopo; secondo l'Obituaire du chapitre de Saint-Mary de Forcalquier, Guglielmo morì morì il 7 ottobre del 1209. Secondo la nota dello stesso Obituaire du chapitre de Saint-Mary de Forcalquier, il conte Guglielmo IV, nel febbraio di quello stesso anno, come risulta dagli archivi del Bouches-du-Rhône, aveva fatto testamento a favore della nipote Garsenda di Sabranl; sempre secondo la nota dello stesso Obituaire du chapitre de Saint-Mary de Forcalquier, a conferma che il conte Guglielmo era morto nel 1209, nel novembre di quello steso anno, come risulta dagli archivi del Bouches-du-Rhône, Garsenda aveva depositato l'atto di rinuncia alla Contea di Forcalquier a favore del figlio, Raimondo Berengario IV, già conte di Provenza.

A Garsenda si contrappose la sorella minore di Guglielmo IV e Bertrando II, la prozia, Alice d'Urgell[14], che pretendeva il titolo per sé e che, con l'aiuto del figlio, Guglielmo di Sabran, contrastò Garsenda per diversi anni.
Nel 1209 anche il marito di Garsenda, Alfonso II, era morto nel mese di febbraio e lei era divenuta tutrice naturale del loro figlio ed erede della contea di Provenza, Raimondo Berengario IV. Inizialmente suo cognato, Pietro II di Aragona, assegnò la reggenza di Provenza a suo zio Sancho, ma quando Pietro morì, nel 1213, Sancho divenne reggente di Aragona e nominò reggente di Provenza e Forcalquier suo figlio Nuño. Scoppiarono dissensi tra i catalani e i partigiani della contessa, la quale accusò Nuño di tentare di prendere il posto di suo nipote nella contea. Dapprincipio, l'aristocrazia provenzale, con le sue mire ambiziose, cercò di trarre vantaggio dalla situazione, ma alla fine si schierò dalla parte di Garsenda rimuovendo Nuño, che ritornò in Aragona. La reggenza passò a Garsenda e venne stabilito un consiglio di reggenza costituito da nobili locali.
Fu probabilmente durante il suo mandato come reggente in Provenza (1209/1213–1217/1220) che Garsenda divenne la figura centrale di un circolo letterario di poeti, sebbene la vida di Elias de Barjols faccia riferimento come suo mecenate ad Alfonso. C'è una tenso tra una bona dompna (gentildonna), identificata in un canzoniere come la contessa de Proessa, e un anonimo trovatore. Le due coblas dello scambio si trovano ordinate diversamente in due canzonieri in cui si trovano conservate, chiamati F e T. Non si riesce a capire chi parla per primo, ma la parte riferita alla donna inizia comunque con il verso Vos q'em semblatz dels corals amadors. Nella poesia la contessa dichiara il suo amore per l'interlocutore, il quale dunque risponde cortesemente, ma con cautela. In base ad alcune interpretazioni, il trovatore sarebbe Gui de Cavaillon, la cui vida riferisce i pettegolezzi del tempo (probabilmente infondati), in merito al fatto che egli fosse stato l'amante della contessa. Gui, tuttavia, si trovava nella corte provenzale tra il 1200 e il 1209, il che sposta un po' avanti la data dello scambio. Elias de Barjols, a quanto sembra, ha una "relazione amorosa" con Garsenda, da vedova, e scrive canzoni per lei "per tutto il resto della sua vita", finché non entra in un monastero. Anche Raimon Vidal ha elogiato il suo rinomato mecenatismo per i trovatori.
Dopo la morte della prozia, Alice, avvenuta tra il 1212 ed il 1219, il di lei figlio, Guglielmo di Sabran, continuò a rivendicare il titolo di Conte di Forcalquier e continuò a contrapporsi a Garsenda ed al figlio, Raimondo Berengario, che, nel 1216, era rientrato in Provenza dal regno d'Aragona, alla cui corte era stato educato.

Guglielmo di Sabran fomentava la rivolta nella regione di Sisteron, ma alla fine fu sconfitto anche per il fatto di essere stato scomunicato (secondo la Gallia Christiana Novissima, Metropole d'Aix, Aix, Arles, Embrun, parte 1 e anche secondo la Gallia Christiana Novissima, tomus I, Guglielmo, citato col titolo di conte di Forcalquier, venne scomunicato per aver sottratto ai monaci di Montmaior, l'abitato di Pertuis. Guglielmo, anche per l'intervento di papa Innocenzo III dovette restituire la proprietà all'abbazia e tra il 1220 ed il 1222 fu sconfitto e rinunciò ad ogni rivendicazione.

Garsenda, che, nel 1217 circa, aveva lasciato le redini del governo a Raimondo Berengario IV, che era già il conte titolare delle due contee e le aveva riunificate, verso il 1222 si ritirò nel monastero di La Celle, dove prese i voti.

Della morte di Garsenda non si hanno notizie precise: la data di morte è da ritenersi verso il 1242; una fonte la accredita verso il 1218, mentre un'altra sostiene che potrebbe essere vissuta fino al 1257, quando una certa donna con questo nome fece una donazione a una certa chiesa di St-Jean a condizione che tre preti fossero tenuti a pregare per la sua anima e per quella di suo marito.

Taliesin, il Bardo

tratto da: wikipedia, l'enciclopedia del sapere

Altea 19-04-2016 14.33.34

Lusingata dalle vostre troppo gentili parole Sir Taliesin....e grazie di questo assaggio di poesia di Castelloza, se non sbaglio in francese provenzale.
E lieta di leggere la vita di un' altra donna di quella Terra che fu fruttifera di Trovatori. La stessa Eleonora di Aquitania, infatti, fu nipote del famoso Guglielmo il Trovatore...e diventò pure regina di Francia, nonostante le critiche..ma questa è un' altra storia..sempre ammaliante ad ogni modo.

elisabeth 19-04-2016 15.02.34

Molto spesso...sembra molto semplice cercare qualcosa che appartiene al passato.....ma non se ne hanno le competenze o quel magnifico senso della cerca......Voi mio Amato Bardo...avete quel dono.........Profumo di Provenza...nel suo poetico......:smile_clap::smile_clap:

Taliesin 27-04-2016 15.58.31

...e voi, mia dolce, immancabile Elisabetta, avete il dono della vista, quel dono che in assenza di luce, non si rifletterebbe nel sole delle mie parole, mentre da meridione una fragranza di Lavanda rischiara l'orizzonte della mia Provenza.

Taliesin, il Bardo

Taliesin 27-04-2016 16.04.53

LA PRIMA COMPOSITRICE DEL MEDIOEVO: XOSROVIDUXT DI ARMENIA

Xosroviduxt, (armeno: խոսրովիդուխթ), chiamata anche Khosrovidukht, fù una poetessa armena.

Quasi nulla si conosce della sua vita, nemmeno la sua data di nascita.

Alcune fonti la danno attiva nel IV secolo mentre altre la collocano nell'VIII. Si dice sia appartenuta ad una famiglia reale ma neanche questo è chiaramente documentato. Alcune fonti riportano che nell'VIII secolo suo fratello venne imprigionato dai Mori a seguito di questo avvenimento ella fu fatta prigioniera e rinchiusa nella fortezza di Ani-Kamakh, ora conosciuta come Kemah (Erzincan), dove rimase per vent'anni.

Secondo altre fonti ella sarebbe stata la sorella del re del IV secolo Tiridates III di Armenia, un nemico del Cristianesimo, che gettò San Gregorio Illuminatore in una fossa di serpenti e cercò di stuprare due monache. A seguito di queste atrocità, il re fu trasformato in un vero selvatico ed il resto dei suoi sudditi fu colpito da follia.

Xosroviduxt parlò al popolo di aver avuto una visione che le aveva detto: "non esiste altra cura per i guai che sono piombati su di voi, che quella di andare nella città di Artašat e riportate qui, sano e salvo, il prigioniero Gregorio. Quando lui sarà qui, vi dirà come guarire la vostra infermità."

Fu così che Tiridates venne salvato e convertito al cristianesimo.

Xosroviduxt è considerata la compositrice di un šarakan, o inno canonicale, intitolato "Zarmanali e Ints" ("Meraviglioso è per me."). Secondo alcune fonti, l'inno è stato scritto in memoria del fratello, ucciso nel 737 per essersi convertito al cristianesimo. Nonostante il soggetto dell'inno non sia di carattere religioso, esso viene utilizzato durante le funzioni nelle chiese armene.

Taliesin, il Bardo

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Taliesin 27-04-2016 16.10.34

LA PRIMA COMPOSITRICE IN NOME DI MARIA: SAHAKDUXT DI ARMENIA.

Sahakduxt (... – floruit VIII secolo) è stata una compositrice, poetessa e insegnante armena, che visse nell'VIII secolo..

Fu una asceta che visse in una grotta nella valle di Garni, vicino all'attuale città di Yerevan; lì ella compose poemi sacri e canti liturgici. Della sua produzione è giunto a noi soltanto uno di essi dal titolo Srt'uhi Mariam ("Santa Maria"), un acrostico in versi composto da nove stanze. Si pensa che molti dei suoi inni fossero dedicati alla vergine Maria. Alcuni di essi, si pensa, abbiano costituito un modello per questo tipo di composizione realizzata nei secoli successivi. Si sa che Sahakduxt insegnò le sue melodie sacre ad innamorati e aspiranti religiosi; questo rimanendo celata dietro una tenda come imponevano le usanze del tempo.

Taliesin, il Bardo

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Taliesin 27-04-2016 16.19.52

LA TROVATRICE OCCITANA DELL'AMORE: ADALASIA DI PORCARAGA.

Azalaïs de Porcairagues, o anche Azalaïs o Alasais de Porcaragues, italianizzato in Adalasia di Porcaraga (Portiragnes, 1140 – 1177), è stata una trobairitz che ha composto in lingua occitana, attiva nel tardo XII secolo.

L'unica fonte dai cui attingere riferimenti biografici è la sua vida

« N'Azlais de porcarages si fo de l'encontrada de Monpeslier, gentils dompna et enseignada. Et enamore se d'En Gui Guerrejat, qu'era fraire d'En Guillem de Monpeslier. E la domna si sabia trobar, e fez de lui mantas bonas cansos. »
« Azalais proveniva dal territorio di Montpellier, donna raffinata e colta. Si innamorò di Gui Guerrejat, fratello di Guglielmo di Montpellier. Una donna che sapeva inventare, e che compose per lui molte sue belle canzoni »

Il Gui di cui parla la "biografia" era forse nato intorno al 1135, si ammalò nei primi mesi del 1178, divenne monaco e morì verso la fine di questo stesso anno. Niente si conosce riguardo alle sue date di nascita e morte. Dal suo nome, e dalle affermazioni contenute nella sua vida, si può supporre che fosse del villaggio di Portiragnes, proprio a est di Béziers e a circa 10 kilometri a sud di Montpellier, vicino ai territori che appartennero a Gui e ai suoi fratelli. Aimo Sakari ipotizza che lei fosse il misterioso joglar ("menestrello") a cui venivano dedicate diverse poesie di Raimbaut d'Orange (vicino e cugino di Gui Guerrejat).
Ad Azalais si attribuisce una poesia (senza notazione musicale) formalmente semplice e intrisa di emotività, costituita da 52 versi, ma il testo varia considerevolmente nei diversi manoscritti, facendo supporre che la composizione non fosse stata scritta di getto, ma rimaneggiata in tempi successivi. La poesia allude alla morte nel 1173 di Raimbaut d'Orange ed è forse stata composta prima di questa data e successivamente rimaneggiata. Il congedo sembra menzionare Ermengarda di Narbona (1143–1197), una rinomata mecenate della poesia trobadorica.

Come fa osservare Sakari, la terza strofa della poesia sembra contribuire a una tenzone poetica iniziata da Guilhem de Saint-Leidier che ha per tema la questione se una donna sia o no disonorata allorché prende come amante un uomo più ricco di lei. Raimbaut d'Orange anche ripropone la disputa nella sua poesia A mon vers dirai chanso. Abbiamo poi un partimen sulla questione dibattuta tra Dalfi d'Alvernha e Perdigon, e infine una tensó tra Guiraut de Bornelh e Alfonso II d'Aragona.

Ecco la prima strofa della canzone “Ar em al freg temps vengut” dedicata al compianto Raimbaut d'Orange

« Ar em al freg temps vengut
quel gels el neus e la fainga
el aucellet estan mut,
c'us de chanter non s'afrainga
e son sec li ram pels plais
que flors ni folha no-i nais
ni rossinhols no-i crida
que am s'en mai me reissida »

« Siamo ai giorni freddi venuti
con neve e ghiaccio e fanga
e fermi gli uccellini e muti:
nessuno a cantar si rinfranca.
E gli alberi e i rami spogli
sono senza fiori e foglie
né l'usignuolo amato grida
quando al maggio mi risveglia »
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Taliesin, il Bardo

Altea 27-04-2016 17.08.48

Così bella questa canzone, sir Taliesin, e così melanconicamente affascinante...struggente.

Taliesin 05-05-2016 12.34.28

LA POETESSA DELL'AMORE OCCITANO: TIBORS DE SARENOM

Tibors de Sarenom o Tiburge de Sarenom (1130 circa – 1198) è stata una poetessa francese e la prima trobairitz attestata, attiva durante il periodo classico della letteratura occitana medievale (XII secolo), all'apogeo della popolarità dei trovatori.

« Na Tibors si era una dompna de proensa dun castel d'En Blancatz que a nom sarrenom. Cortesa fo et enseignada. Auinens e fort maistra e saup trobar. E fo enamorada e fort amada per amor, e per totz los bos homes daquela encontrada fort honrada, e per totas las ualens dompnas mout tensuda e mout obedida. »
“La nobile Tibors era una donna della Provenza, proveniente da un castello del signor Blacatz chiamato Sarenom. Era cortese e raffinata, graziosa e molto colta. E seppe come scrivere poesie. E si innamorò e fu molto amata, e venne onorata tantissimo dagli uomini cortesi di quella regione, e da tutte le notabili signore ammirata e rispettata . . .»
(tratto da: vida di Tibors dal manoscritto trobadorico H, un canzoniere lombardo, adesso Latino 3207 alla Biblioteca Vaticana, Roma)

Tibors è una delle otto trobairitz a possedere una vida (breve biografia scritta in lingua occitana), spesso molto ipotetica più che fattuale. La ricerca sulla vera identità della poetessa Tibors viene ostacolata dalla popolarità del suo nome in Occitania a quel tempo.

Tibors potrebbe essere la figlia di Guilhem d'Omelas e Tibors d'Aurenga, il quale diede in dote a marito il castello di Sarenom, probabilmente Sérignan-du-Comtat in Provenza o forse Sérignan nel Rossiglione. Sfortunatamente per gli storici e gli occitanisti, Tibors e Guilhem ebbe due figlie, entrambe di nome Tibors, come la madre. È possibile, ma inverosimile, che Tibors d'Aurenga possa essere stata lei stessa la trobairitz in questione. Poiché il suo matrimonio avvenne nel 1129 o 1130 e le sue figlie si sposarono entro il 1150, è improbabile che queste fossero nate molto più in là nel tempo.

Se si accetta che fosse sorella maggiore di Raimbaut d'Orange, il famoso trovatore, possiamo collocarla nel tempo. Raimbaut d'Orange, era il più giovane dei figli di Guilhem e Tibors e perciò il fratello minore delle due sorelle Tibors. Nel 1150 la maggiore delle Tibors morì e per sua volornà testamentaria lasciò Raimbaut, allora in minore età, sotto la tutela della figlia maggiore[3] e del suo genero, il secondo marito della trobairitz, Bertran dels Baus.[2] La sorella più giovane, Tiburgette, era la destinataria di un regalo di nozze da parte di loro padre in quell'anno (1150). Nel testamento di suo padre, Guilhem, Tibors viene riferita come autre Tiburge (l'altra Tibors), mentre alla sorella minore viene dato più risalto. Nel 1150 (o 1155 se la datazione del testamento di Tibors d'Aurenga è corretta), Goufroy de Mornas,[4] primo marito di Tibors, era già morto. Non ci sono attestazioni riguardo a figli avuti da lui, ma con Bertrando ne ebbe tre: Uc, padre di Barral di Marsiglia; Bertrando, padre di Raimondo; e Guglielmo, anch'esso trovatore.

Si pensa che Tibors sia morta poco dopo la morte di suo marito (1180) nel 1181 o 1182, ma un documento di suo figlio Uc, recante la data del 13 agosto del 1198, riferisce di "un consiglio di sua madre Tibors".
Dell'opera di Tibors resta solo una stanza di una canso con allegata vida e razo.[5] Tuttavia Tibors viene menzionata in un'anonima ballata, datata tra il 1220 e il 1245, dove lei ha il ruolo di giudice in un gioco poetico.

Questo è l'unico suo componimento che ci resta:

« Bels dous amics, ben vos posc en ver dir
que anc non fo qu'ieu estes ses desir
pos vos conven que.us tene per fin aman;
ni anc no fo qu'ieu non agues talan,
bels dous amics, qu'ieu soven no.us vezes;
ni anc no fo sazons que m'en pentis,
ni anc no fo, se vos n'anes iratz,
qu'ieu agues joi tro que fosetz tornatz;
ni [anc]. . . »


« Bel dolce amico, ben posso invero io dirti
che mai fu ch'io stessi senza desiderio
poiché a te piacque ch'io t'avessi per amante;
neanche fu mai ch'io non avessi voglia,
bel dolce amico, sovente di vederti
né ci fu mai stagion ch'io rimpiansi,
né ci fui mai, se te ne andavi irato,
ch'io ne gioissi, se non al tuo ritorno;
né [mai]. . . »

Taliesin, il Bardo

p.s. idealmente dedicata allo struggente romanticismo di Lady Altea...

Altea 05-05-2016 14.33.23

Mio caro amico Taliesin, quale onore mi rendete e quale gioia nel ricevere questo dono così prezioso scritto da una di queste donne dall' animo così romantico e passionale.

Grazie, ancora una volta, per aver aperto le porte sui profumati e sognanti paesaggi provenzali, fonte di ispirazione per donne così uniche.

elisabeth 05-05-2016 20.09.43

Lady Altea potrebbe essere la persona ideale per ogni Canto.....ella innesca Ogni tipo di ideale...Romantico.....Furente...Melodioso e quindi credo Amato Bardo che in lei abbiate trovato la Donna ideale a cui dedicare questi versi così deliziosi e rari......come sempre Grazie per la delicatezza che avete nel cercare quel mondo che di chiama Donna

Taliesin 06-05-2016 10.04.02

...ed io dico nuovamente grazie a voi Madonna Elisabetta, per la vostra entrata improvvisa nella danza di amorosi sensi come moderna spadaccina che intona ogni canto di provenza, passando da Milady Altea, fino a giungere alle coste del mio cuore..

"Quelle" e "Queste" Donne sopravvivono in me solo grazie a Voi.

Taliesin, il Bardo


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