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LA MISTICA DELLE ANIME DEL PURGATORIO: LUTGARDA DI TONGRES.
Nata a Tongres nel 1182, in Belgio, Lutgarda a dodici anni entrò fra le Benedettine di Santa Caterina a Saint-Trond. Eletta priora, nel giorno stesso della nomina lasciò il suo monastero per raggiungere la comunità cistercense di lingua francese a Aywières in Brabante dove Lutgarda si ostinò a parlare fiammingo. Appartenendo al gruppo di pie donne del XIII secolo che condussero un'intesa vita mistica, Lutgarda fu devota dal Sacro Cuore che le concesse apparizioni e incontri commoventi. Si sottopose a un regime di austerità per la conversione degli albigesi, di alcuni signori della regione e dei poveri peccatori dei dintorni. Avrebbe ottenuto guarigioni miracolose per intercessione delle anime del Purgatorio. Divenuta cieca, visse ancora per undici anni esercitando un forte influsso sui devoti del suo tempo. Morì il 16 giugno 1246. Il 4 dicembre 1796 la comunità, per sfuggire alle conseguenze della Rivoluzione francese, si rifugiò a Ittre con le reliquie della santa. Nel 1870 le preziose spoglie divennero proprietà della chiesa parrocchiale per passare, sette anni dopo, a Bas-Ittre dove sono custodite tuttora. È patrona dei fiamminghi. (Avvenire.) La Vita Lutgardis fu compilata in meno di due anni dopo il trapasso della santa; l'autore era uno dei suoi familiari la cui testimonianza è, quindi, importante per quanto vada considerata con prudenza e spirito critico. D'altra parte, egli modificò il suo racconto dopo il 1254, per l'intervento di un altro familiare di Lutgarda, fra Bernardo, penitenziere di Innocenzo IV. Questa Vita ebbe un certo successo, a giudicare dalle versioni popolari, in lingua fiamminga, che fiorirono ad intervalli regolari; citiamo in proposito quelle di Guglielmo d'Afflighem e di Gerardo. Nata a Tongres, Lutgarda a ca. dodici anni (?) entrò fra le Benedettine di s. Caterina a Saint-Trond. Eletta priora, nel giorno stesso della nomina lasciò il suo monastero per raggiungere infine, certamente dopo soste nelle comunità di Awirs (presso Liegi) e di Lillois, Aywières, comunità di lingua francese, dove Lutgarda si ostinò a parlare fiammingo. Appartenendo a quel gruppo di pie donne del XIII sec. che condussero una vita mistica piuttosto eccezionale, come Cristina di Saint-Trond, Giuliana di Cornillon, Ida di Nivelles ecc., Lutgarda fu particolarmente privilegiata dal Sacro Cuore che le concesse apparizioni e incontri commoventi; si sottopose a un regime di eccessiva austerità per la conversione degli albigesi, di alcuni signori della regione e dei poveri peccatori dei dintorni. Avrebbe ottenuto guarigioni miracolose per intercessione delle anime del Purgatorio e beneficiato di premonizioni specialmente relative alla duchessa di Brabante e alla propria morte. Divenuta cieca, visse ancora per undici anni esercitando un certo influsso benefico sui devoti del suo tempo. Fu beatificata "modo antiquo" e la sua tomba, nel coro di Aywières sul lato destro, fu oggetto di viva devozione. Il 4 dicembre 1796 la comunità, per sfuggire alle conseguenze della Rivoluzione, si rifugiò a Ittre con le reliquie della santa, esumate nel sec. XVI. Nel 1870 queste preziose spoglie divennero proprietà della chiesa parrocchiale per passare, sette anni dopo, a Bas-Ittre dove sono custodite tuttora. La festa della santa si celebra il 16 giugno. Le non numerose rappresentazioni della santa, se si eccettua qualche figura generica, in abito monacale, con un libro e un rosario in mano, fanno riferimento alle sue mistiche visioni. Mentre scambia il suo cuore con quello di Gesú (cor mutuans corde); in atto di accogliere sulle labbra un lungo filo di sangue che parte dal costato di Gesú (una scena che riprende il motivo dell'allattamento mistico di s. Bernardo); infine mentre morente si accosta alla croce da cui Gesú stacca il braccio destro per stringersela al petto. Tra le varie opere d'arte, tutte del sec. XVII, ricordanti questi episodi sono: il gruppo marmoreo di Matthias Brun sul ponte Carlo IV di Praga; una xilografia di Teresa Pruner; il dipinto di Pierre Bradl nella chiesa di Sedlec in Boemia;quello del Goetz nella chiesa di Birnau in Svezia. tratto da: www.santiebeati.it Taliesin, il Bardo |
L'AMMIRABILE MORTIFICAZIONE DEL CORPO: CRISTINA DA SAINT TROND.
La Vita di Cristina, scritta da Tommaso di Cantimpré verso il 1232, è molto contestata nel suo valore storico, malgrado certe concordanze con testimonianze di Giacomo di Vitry (ed. in Acta SS. Iulii, V, Venezia 1748, pp. 650-60). Semplice pastorella, verso il 1182, dopo una crisi di catalessi, la santa decise di consacrarsi a Dio per una vita di penitenza. Non sembra abbia fatto parte di una comunità di beghine: era una di quelle pie donne che vivevano isolate e che si incontrano spesso all'inizio del sec. XIII. Si ritirò dapprima nel castello di Looz, poi a Saint-Trond, dove morì nel convento di Santa Caterina. La Vita le attribuisce una serie di azioni straordinarie, specialmente casi di levitazione che superano tutti gli altri conosciuti; ma se queste azioni avessero avuto veramente luogo, testimonierebbero piuttosto di una certa morbosità. Le sue reliquie, conservate già a Nonnemielen, si trovano attualmente nella chiesa dei Redentoristi di Saint-Trond. tratto da: www.santiebeati.com Taliesin, il Bardo |
LA NASCITA DEL CORPUS DOMINI: GIULIANA DI CORNILLON.
Nasce al tempo in cui Liegi è la capitale (famosa per le sue scuole) di una delle signorie che poi formeranno il regno dei Belgi. Perde i genitori da piccola e viene affidata alle monache di Mont-Cornillon, lì vicino, dove c’è anche una comunità di “beghine”, donne che fanno vita comune sotto una regola, ma senza essere monache: lavorano, pregano, assistono i malati di lebbra. Giuliana si fa invece monaca (ca. 1207) e dopo qualche tempo si comincia a parlare di sue visioni, di rivelazioni. Ne scriverà la vita un chierico di Liegi, senza però averla conosciuta, dando scarsa importanza alle date e non distinguendo bene le vicende comuni dalle soprannaturali. Però fa emergere un fatto certo: l’influenza di Giuliana sulla Chiesa del tempo (e di sempre).Ecco una delle sue visioni: di notte, vede splendere in cielo la luna, ma attraversata da una misteriosa striscia buia. Secondo lei, questa “luna incompleta” raffigura la liturgia, al cui pieno splendore manca l’essenziale: una festa che onori il Corpo di Cristo sacrificato per l’umanità. Questa visione lei la tiene vent’anni per sé, e infine la confiderà solo alla romita Eva e alla beghina Isabella, infermiera dei lebbrosi. Un’alleanza a tre, per dare forma precisa a una religiosità eucaristica già ben presente in Liegi, nei sodalizi religiosi, nella predicazione e negli scritti di sacerdoti famosi, a cominciare dal X secolo col grande Raterio, futuro vescovo di Verona.Le tre donne coinvolgono preti e frati, comunità, parrocchie. Vengono a parlare con Giuliana i vescovi di Cambrai e di Liegi. A quest’ultimo, Roberto di Thourotte, lei chiede di istituire subito in diocesi quella festa, che si chiamerà del Corpus Domini. Molti però sono contrari, il vescovo esita. Ma Giuliana va giù per conto suo, facendo già preparare in latino l’Ufficio (preghiere, letture, canti) per la nuova celebrazione. Quando si conosce in giro quel testo (che comincia con le parole Animarum cibus) se ne appassionano un po’ tutti: è letto, spiegato, cantato. Così sospinto, nel 1246 il vescovo istituisce la festa diocesana del Corpus Domini. Sosteneva l’iniziativa anche l’arcidiacono di Liegi, Giacomo Pantaléon, di Troyes (Francia). E proprio lui nel 1261 diventa Papa, col nome di Urbano IV. Come se avesse ancora Giuliana lì a spingerlo, nel 1264, con la bolla Transiturus, egli istituisce la festa del Corpus Domini per l’intera Chiesa. Giuliana non vedrà queste cose. Priora del monastero di Mont-Cornillon nel 1230, instaura una disciplina rigorosa che non piace a tutti: nel 1248 lascia la carica, e si ritira in clausura a Fosses, presso Namur, dove muore dieci anni dopo. Il corpo viene poi sepolto nell’abbazia cistercense di Villers. Ma lei ha fatto in tempo a sapere che, dopo Liegi, anche la Germania occidentale (1252) già festeggiava il Corpus Domini. tratto da: www.santiebeati.it Taliesin, il Bardo |
FIGLIA DI SUA FIGLIA: IDA DI NIVELLES.
Il nome “Ida” compare già nella mitologia greca, ove designa un monte dell’isola di Creta nel quale secondo il mito, Gea, la dea terra, avrebbe nascosto il piccolo Giove, per sottrarlo al padre Saturno, il tempo, vorace divoratore di ogni cosa ed addirittura dei propri figli. In realtà alla santa venerata oggi fu conferito il nome germanico “Itta”, che solamente in un secondo momento fu assimilato ad “Ida”. Itta apparteneva al popolo dei Franchi, che a quel tempo era ancora un popolo di rudi guerrieri. Figlia del conte di Aquitania, ancora alquanto giovane sposò il beato Pipino di Landen, maestro di palazzo del re Dagoberto II d’Austrasia e dunque uno dei maggiori dignitari del regno. Dopo il primogenito Grimoldo, che successe al padre Pipino, nacquero due figlie Begga e Gertrude, che furono rispettivamente badesse di Andenne-sur-Meuse e di Nivelles e sono venerate anch’esse come sante.La cura della famiglia non distolsero però Itta dalle sue devozioni religiose e dai suoi impegni spirituali. Cresciuti i figli, Itta e Pipino, anziché investire le loro ricchezze in beni da trasmettere agli eredi, preferirono dedicarsi alla fondazione di un grande monastero benedettino investendo così le loro risorse. Vide così la luce il monastero femminile di Nivelles nel Brabante, cioè nell’attuale Belgio, tra Bruxelles e Charleroi. Tra le prime ad entrarvi per vivere secondo la Regola di San Benedetto vi fu Gertrude, loro giovanissima figlia, che dichiarò dinnanzi alla corte franca di scegliere la vita religiosa e di preferire l’obbedienza al Creatore piuttosto che l’autorità regia. Pare infatti che il re Dagoberto stesse ipotizzando un matrimonio con lei. Entrata nel monastero, ne venne eletta badessa all’età di appena vent’anni per le sue eccezionali qualità. Alla morte di Pipino, anche sua madre Itta si congedò dalla vita del mondo e si ritirò come semplice monaca nel monastero di Nivelles.Deposte le vesti di fondatrice, Itta divenne esempio vivente di come la santità si possa trasmettere non solo con il sangue, da genitori a figli, ma anche nel verso contrario a quello naturale, dai figli ai genitori. Così a Nivelles, in una clima di profonda spiritualità, si invertirono i normali rapporti tra genitori e figli. La madre, anziana e sapiente, si trovò a doversi sottomettere umilmente e silenziosamente alla figlia e la giovane fanciulla, investita di una autorità trascendente dalla sua giovane età, divenne guida saggia e discreta di colei che l’aveva generata nella carne. Questo incredibile cammino le portò a santificarsi entrambe vicendevolmente.Quando Ida morì, l’8 maggio 652, il monastero di Nivelles perse non solo la sua fondatrice, ma soprattutto la più modesta tra le sue religiose e la badessa Gertrude perse, oltre che la propria madre, la più obbediente delle sue figlie spirituali. tratto da: www.santiebeati.it Taliesin, il Bardo |
Ricordo nuovamente il seguente punti del regolamento.
Citazione:
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Amo leggere tutto ciò che riesco a reperire.....in questo momento di silenzio .....Ringrazio Sir Guisgard per le sue poesie e Gdr...e ringrazio il nostro Bardo che nonostante tutto...ci illumina su fatti e persornaggi storici che non conosco.....
Mi chiedo...l'ammonimento a che pro e' stato fatto se le fonti da cui sono presi gli scritti sono sempre evidenziate ?.... Se voi Sir Hastatus mi spiegaste.....eviterò in futuro di fare errori... Grazie.... |
Mi permetto di unirmi alle perplessità di lady Elisabeth, noto che sir Taliesin cita sempre le fonti..chiedo ai Cavalieri di questo regno di poter dare una spiegazione di tale ammonimento agli abitanti di Camelot.
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Sir Hastatus ha riportato il punto 4 del nostro regolamento che disciplina l'utilizzo di fonti esterne inserite nelle varie discussioni.
In realtà si tratta di una precisazione che il nostro regolamento richiede qualora si usino appunto fonti esterne al forum. Come il mettere ben in evidenza il link della fonte e ricordarsi di inserire commenti al materiale citato, distinguendolo così nella discussione. L'intervento di Sir Hastatus è dunque nell'interesse della stessa discussione del nostro Taliesin, così da renderla più precisa, esauriente e facilmente consultabile da chi legge. Insomma, per rendere il più efficace possibile un lavoro così interessante ed importante come quello prodotto dal nostro bardo :smile: |
Citazione:
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concordo sul consiglio...comprendo.......ma l'ammonimento non ha alcuna fonte di collocamento....mi spiace ...ma il punto 4 nel caso specifico non vi rientra......
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Signore, vi rispondo privatamente perché siamo in OT.
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Povera Sofonisba...
Nonostante la sua vita agiata nelle corti prestigiose del suo tempo e la sua arte che ha sfiorato i secoli dell'oblio, così pacata nell'animo e così minuta nel corpo, avesse solamente potuto immaginare che, attraverso piccole gocce di biografia riportate da un Bardo di passaggio, avrebbe potuto scatenare una moderna inquisizione in proposito, mi avrebbe sicuramente maledetto nei secoli dei secoli. Chiedo dunque venia a questa gentilissima Madonna per averla trascinata, suo malgrado, dinanzi a un tribunale che non potrà mai condannarla poichè è già assolta da coloro che hanno saputo vedere "oltre". Grazie alla mia Lady Elisabeth, appassionata adulatrice dei miei sconclusionati scritti secolari e impersonificazione stessa delle emozioni contenute in quelle vite delle mie "Donne del Medioevo". Grazie a Lady Altea, costante, dirompente e chiassosa voce dell'anima nel rispetto e nella cordialità, in un giardino sempre più silente e distaccato dall'essenza primeva di quell'impolverata Tavola Rotonda. Grazie al Cavaliere dell'Intelletto per la sua garbata, amorevole ed amichevole puntualizzazione, che, nonostante non sia stata recepita in pieno dalla mia oramai inevitabile mente diroccata, ha sucitato una piacevole conferma di grande altruismo e bontà d'animo, raramente riscontrabili in questo e in quell'altro mondo... Taliesin, il Bardo http://upload.wikimedia.org/wikipedi...issola_002.jpg Autoritratto, 1554, olio su tela - Vienna Kunsthistorisches Museum |
UNA VOCE SQUILLANTE NEL SILENZIO: ROSVITA DI GANDERSHEIM.
Rosvita, il cui nome latinizzato, come spiega lei stessa, assume il significato di Clamor Validus (voce squillante) , deriva probabilmente dall’antico alto tedesco hruod-suind o dall’antico sassone hrot-swith. La nostra è una canonichessa vissuta nel decimo secolo, si ritiene sia nata intorno al 935 e morta dopo il 973; data della morte di Ottone I alla quale lei stessa accenna nella prefazione di una sua opera. Rosvita non ebbe grande successo nel medioevo e per questo i manoscritti che hanno tramandato le sue opere sono molto rari. Proprio per questo problema nell’800 viene sollevata una vera e propria “questione Rosvitana”. Alcuni studiosi sostennero che la scrittrice non fosse mai esistita realmente, ma fosse stata creata dal suo scopritore Conrad Celtis, che nel ‘500 trovò il primo manoscritto delle opere di Rosvita. Fortunatamente la disputa filologica si è conclusa nel 1922 con il ritrovamento da parte di Goswin Frenken di un altro codice contenente gli scritti di Rosvita. Rosvita visse quindi nel cosiddetto “secolo di ferro” nel particolare monastero di Gandersheim. Il cenobio fu fondato nel 852 dal duca di Sassonia Liudolfo, trisavolo di Ottone I. Già il titolo del suo fondatore può essere una prima spia per capire che fin dall’ inizio fu un istituto altamente aristocratico; le sue badesse appartenevano infatti alla famiglia imperiale e, dal 947, divenne a tutti gli effetti un principato autonomo. Sebbene ci sia chi sostiene che Rosvita sia entrata in convento relativamente tardi, ma la maggioranza della critica ritiene che Rosvita sia entrata in convento almeno da adolescente. A favore di questa tesi sta la sua ottima preparazione; acquisibile solo in ambito monastico e in lunghi anni. La sua formazione fu merito prima della consorella Rikkardis che l’avviò allo studio delle discipline del quadrivio (musica, astronomia, matematica e geometria), successivamente della nuova badessa Gerberga, nipote dell’imperatore Ottone I che la indirizzò allo studio della retorica, dialettica e grammatica (discipline del trivio). Ella lesse direttamente Terenzio Virgilio e Ovidio, ma conobbe anche Lucano e Orazio. Tra gli autori tardo antichi e medioevali conosciuti dalla poetessa vanno citati almeno Agostino, Boezio ed Alcuino. Le “aspirazioni intellettuali” delle suore di Gandersheim frutto dell’ottima preparazione conseguita all’interno del monastero erano soprattutto “coltivare lo spirito, studiare i maggiori autori pagani e cristiani, e avere scambi con uomini colti”. Quest’ultimo punto implicava anche un ideale sociale che per le canonichesse non era irraggiungibile. In Gandersheim, infatti, come anche in altri cenobi del tempo, vivevano sia monache che canonichesse. Le ancillae dei canonicaeo virgines non velatae si distinguevano dalle monache esteriormente, perché non portavano il velo e sostanzialmente, perché erano meno soggette alla regola benedettina: dovevano rispettare i voti di castità e di obbedienza, e partecipare ai sette uffici di preghiera giornalieri, ma al contempo godevano di forti libertà poiché non erano tenute a prendere voti di povertà e di clausura. Questa condizione privilegiata, poco gradita alla chiesa di Roma, risultava invece una soluzione ottimale per la sistemazione delle figlie dell’alta aristocrazia. Questa precisazione risulta di notevole importanza per comprendere il personaggio Rosvita come “donna del suo tempo” e tanto più importante per comprendere la natura del suo lavoro come scrittrice. L’essere canonichessa infatti le consentiva di frequentare liberamente la corte imperiale. Diversi indizi ci parlano della frequentazione della corte da parte di Rosvita. Primo fra tutti è il brano in cui parla delle fonti adoperate per le sue leggende, dove dice di aver ricostruito la vicenda del martirio di Pelagio grazie al racconto di un testimone oculare originario di Cordova (luogo del martirio). Testimone che presumibilmente faceva parte di un’ambasceria inviata Abd ar-Rahman III a Ottone I. Oltre questo evento particolare c’è chisostiene la possibilità che Rosvita avesse avuto contatti anche con Raterio da Verona che avrebbe influenzato lo stile della sua prosa rimata. Altro indice dei rapporti con la vita culturale di palazzo sono le lettere stesse che la canonichessa indirizza agli intellettuali interlocutori delle sue commedie. Queste lettere-premessa sono molto importanti per il corpus delle commedie dal punto di vista programmatico e saranno affrontate più avanti. Le opere Le maggiori fonti di ispirazione per la nostra autrice sono i vangeli apocrifi e le agiografie. Le vite delle vergini martiri cristiane sono per lei il modello degli ideali di vita cristiana e da essi troverà il maggiore spunto per esaltare il potere della fede delle donne nelle sue opere. L’opera di Rosvita si divide in tre libri. Nel I libro si trova la dedica a Gerberga e la prefazione in cui si scusa con i lettori per i numerosi difetti della sua scrittura, seguono le otto leggende sacre dette anche poemetti agiografici. Maria, Ascensione, Gongolfo, Pelagio, Teofilo, Basilio, Dionigi, Agnese, tutte scritte in esametri leonini ad eccezione del Gongolfo scritto in distici elegiaci. Il II libro comprende le commedie in prosa ritmata precedute da una prefazione in cui motiva la composizione dei drammi e si scusa per i suoi errori. A questi seguono alcuni versi che l’autrice scrisse sull’apocalisse a commento degli affreschi che la raffiguravano. In conclusione il III libro contiene i Gesta Ottonis e i Primordia cenobii Gandeshemensis; due poemetti storici scritti in esametri leonini. Il primo parla della vita di Ottone I fino alla sua incoronazione ad imperatore, mentre il secondo parla della storia del convento di Gandersheim, fin dai primi prodigi avvenuti sul luogo di fondazione; quest’ opera fu probabilmente scritta con l’intento di far tornare il convento in “voga” mentre il cenobio viveva quel periodo di crisi che ne precedeva il declino. I drammi Volendo ora analizzare più nello specifico i drammi, converrà illustrare l’opera nella sua struttura e nei suoi intenti, facendo riferimento anche alle prefazioni. Per capire la struttura tematica dei drammi conviene introdurre prima i poemetti, poiché il raffronto dei due cicli è utile alla comprensione del progetto dell’autrice. Le leggende o poemetti agiografici sono la prima opera in cui l’autrice afferma la sua forte volontà di scrivere. Rosvita è un caso eccezionale come letterata in quanto donna e per di più religiosa. Infatti già nella prefazione ai poemetti si nota la sua estrema professione di umiltà. Lei sa di essere molto preparata e molto intelligente, ma non perde occasione per scusarsi dei suoi errori e chiedere perdono ai suoi lettori. Quasi in contrasto con le sue umili cerimonie, Rosvita sa anche difendere molto bene la sua scelta di dedicarsi alla letteratura; scrive infatti di dover scrivere per celebrare Dio attraverso il talento che egli le ha donato. L’autrice inoltre difende la particolarissima scelta di usare come fonti i vangeli apocrifi affermando in proposito che “quod videtur falsitas forsan probabitur esse veritas”. Questo atteggiamento ambivalente nella premessa sembra quasi essere una “dissimulazione onesta” dell’autrice, che con queste professioni di modestia e umiltà cerca di evitare gli attacchi dei suoi contemporanei. Rosvita infatti poteva essere criticata sia perché donna sia perché religiosa e soprattutto a causa degli argomenti da lei trattati. Inizia così a mostrarsi a noi, una figura sempre più originale di donna decisa e sapiente, che non esita (o meglio fa finta di esitare) ma afferma validamente le sue scelte. Chissà se dietro tutte queste professioni di umiltà, non si nasconda il timore di un eccessivo autocompiacimento, unito ovviamente alla più comprensibile “captatio benevolentiae”, dovuta alla sua condizione di donna e canonichessa. Per concludere l’analisi sul personaggio che emerge da queste formule rituali nelle premesse potrebbe essere utile citare Vinay che sottolinea il tentativo di riscatto di Rosvita come donna monaca e letterata. Veicolo di questa rivalsa sono i suoi personaggi femminili vincenti nella fede e nel confronto con il sesso opposto. Dopo le leggende agiografiche Rosvita scrive le commedie. I due cicli, se raffrontati, rivelano l’intento di formare un solo grande lavoro con elaborate simmetrie interne. Cercherò di sintetizzare le corrispondenze più importanti. Leggende Drammi Maria / Ascensione Gallicano I-II Gongolfo Agape, Chionia e Irene Pelagio Drusiana e Callimaco Teofilo Maria la nipote di Abramo Basilio La conversione di Taide Dionigi La passione delle sante vergini. Agnese Apocalisse I parallelismi sono soprattutto tematici. Tra tutte risaltano le composizioni centrali; “Teofilo” e “Basilio” per le leggende e “la conversione di Taide” e “Maria la nipote di Abramo” per le commedie. L’importanza data alla parabola esistenziale-religiosa dei personaggi che rinunciano a Dio per poi pentirsi e redimersi, sembra stare particolarmente a cuore alla nostra autrice che tratta la questione in quattro modi diversi. Inoltre converrà sottolineare che le prime due commedie (Gallicano I – II) e le prime due leggende (Maria e Ascensione) formano un dittico strutturato da una prima parte più lunga e un’appendice più breve. Una piccola nota sulle prime due leggende è la centralità della figura di Maria (la cui infanzia è tratta dai vangeli apocrifi). La madre di Gesù sarà un personaggio importante anche nell’ascensione di Cristo per il discorso che egli le rivolge promettendole la sua ascensione al cielo. Il Gongolfo e Agape, Chionia e Irene sono accomunati dalla commistione di elementi tragici e comici, mentre nucleo tematico del Pelagio e di Drusiana e Callimaco è l’ amore illecito. Altre storie di martirio sono trattate nel Dionigi e nel Sapienza (detto anche La passione delle sante vergini) , con la particolarità che i martiri sono sapienti - il primo è un filosofo e la seconda è la personificazione stessa della sapienza. L’ ultimo parallelismo è il più complesso: Agnese è una santa martire che rifiuta il matrimonio per la fede; il tema della verginità e del rifiuto del matrimonio chiude il cerchio rimandando ai temi di Maria e del Gallicano ( la protagonista Costanza rifiuta di consumare il matrimonio). Il collegamento ben più sottile, avanzato dal Kuhn per chiudere il ciclo, suggerisce prima il rimando al tema della verginità con l’incipit dell’Apocalisse “Il vergine Giovanni vide il cielo aperto” e aggiunge che l’argomento dell’apocalisse chiude idealmente il doppio ciclo di opere iniziato con l’infanzia di Maria fino all’ ascensione di Cristo. Questo lavoro così strutturato ha suggerito che Rosvita possa aver tratto ispirazione da qualche modello iconografico. Era possibile infatti che nei suoi soggiorni a corte abbia potuto ammirare dei cicli di affreschi come quelli della chiesa di palazzo contenenti scene dell’antico e del nuovo testamento. Nella storia dell’arte medievale infatti questi parallelismi sono molto frequenti poiché si riteneva che nel vecchio testamento ci fossero costanti richiami profetici al vangelo. Finora è stato analizzato il contenuto del doppio ciclo, ma non la sua “forma”. Perché Rosvita scrive drammi? Perché decide di imitare uno scrittore pagano come Terenzio? A queste domande risponde lei stessa nella prefazione. Rosvita dichiara nella lettera di presentazione del suo lavoro, indirizzata agli intellettuali di corte, di voler scrivere drammi al modo di Terenzio, ma con contenuti cristiani a causa del successo che l’autore pagano riscuoteva all’epoca. Ella infatti dichiara che “vi sono molti cattolici [..], che per la raffinata eleganza della lingua antepongono la frivolezza dei libri pagani all’utilità delle Sacre Scritture” o che anche attenendosi ad esse non, disdegnano, per il piacere della lettura la “dolcezza della sua lingua (Terenzio)”,rendendosi comunque soggetti alla contaminazione delle nefandezze pagane. Suo intento è quindi quello di usare la forma terenziana che risultava di maggior presa sul pubblico, ma modificandone i contenuti. L’ argomento dei suoi drammi sostituirà alle “oscene sconcezze di donne senza pudore […] l’ encomiabile illibatezza di sante vergini cristiane”. Rosvita quindi opera, nei confronti del commediografo pagano, una “riscrittura antifrastico – emulativa” (Cit. Giovini). Il succitato studioso inoltre analizza il rapporto tra Rosvita e il classico Terenzio attraverso il principio del “furto sacro”; un concetto diffuso nella cultura cristiana medioevale attraverso il De doctrina Christiana di Agostino. Egli si rifà ad un passo dell’ esodo che narra di come gli ebrei in fuga dall’egitto rubarono (per volere di Dio) dei vasi precedentemente prestati agli egiziani. Spiega così, in modo figurato, il comportamento da adottare dagli scrittori cristiani rispetto al sapere classico proprio per recuperare le verità contenute nei testi classici e destinarle ad un uso migliore. In conclusione, un’altra cifra caratteristica del lavoro di Rosvita è, come precedentemente accennato, la centralità della figura positiva della donna. La donna nei drammi di Rosvita vince con la forza della fede sugli uomini e le loro debolezze, cercando così un riscatto dalla mentalità misogina medioevale. Taliesin, il Bardo Testi di Riferimento: E. D'Angelo, Storia della letteratura mediolatina. Rosvita - Dialoghi drammatici a cura di Ferruccio Bertini Peter Dronke, Donne e cultura nel medioevo Maria Pasqualina Pillola, Introduzione a - Gesta Ottonis imperatoris, Hrotsvitha Gandeshemensis Gustavo Vinay - "Rosvita: una canonichessa acora da scoprire?" in Alto medioevo latino Marco Giovini - Rosvita e l'imitari dictando Terenziano tratto da: www.italiamedioevale.org |
LA TRAGHETTATRICE DI ANIME E DI POPOLI: OLGA DI KIEV
Olga è tra i primi santi russi-slavi inseriti nel Calendario cattolico bizantino; è considerata l’anello di congiunzione tra l’epoca pagana e quella cristiana, nella storia dei popoli russi. Le fonti che parlano di lei sono numerose e tutte di rilevanza storica, da esse apprendiamo che Olga nacque nell’890 nel villaggio Vybuti a pochi km da Pskov, sul fiume Velika. Bellissima popolana era addetta al traghettamento delle persone sul fiume stesso; nel 903 fu vista dal principe Igor Rjurikovic che volle sposarla sebbene giovanissima. In realtà Olga o Helga era figlia di un capo variago, tribù normanna di origine scandinava, che proveniente dal Nord si occupavano di traffici e commerci lungo la via del Volga, del Mar Nero e del Caucaso; sicuramente il padre era sorvegliante e responsabile di qualche punto strategico di questo percorso. Il loro matrimonio fu il simbolo concreto della fusione del popolo russo-slavo con quello variago, che alla fine del secolo IX cominciava ad attuarsi sotto il benefico influsso del Cristianesimo. Nell’anno 945 il principe Igor, marito di Olga, fu ucciso dai Drevljani ed ella con un temperamento retto ma violento, vendicò con fermezza l’assassinio, mandando a morte molti capi nemici e imponendo ai superstiti tributi e tasse di ogni genere. Divenne reggente del principato di Kiev, per il figlio Svjatoslav di tre anni, governò con saggezza politica, riuscendo a far diventare tributaria di Kiev la stessa importante provincia di Novgorod; amata dal popolo che le riconosceva il merito di essere giusta e misericordiosa, ma anche inflessibile, educò rettamente il figlio, anche se non ebbe la gioia di saperlo cristiano, dopo che lei verso il 957, si era convertita al cristianesimo.Sarà uno dei nipoti Vladimiro a darle questa soddisfazione, infatti non solo diventò cristiano e battezzato, ma diventerà "battezzatore della Rus’", "nuovo apostolo" e santo della Chiesa. La prima conversione del popolo russo-variago fu nell’862 attraverso i bizantini, poi ci fu l’opera di apostolato dei santi Cirillo e Metodio e pur attraversando un periodo di persecuzione da parte dei refrattari Variaghi, il cristianesimo si andò affermando in tutto lo Stato, di pari passo con la diffusione della lingua slava e già al tempo del governo del principe Igor, esisteva a Kiev una chiesa dedicata al profeta Elia. Olga con la sua conversione e con la sua opera contribuì attivamente all’evangelizzazione del regno " Rus’". Tentò di stringere legami solidi con l’Impero di Bisanzio, desiderando di sposare il figlio Svjatoslav con una principessa bizantina; nel 957 si recò personalmente a Costantinopoli, ma il viaggio risultò infruttuoso fra la delusione dei cristiani e la soddisfazione dei pagani. Allora i cristiani si appoggiarono all’imperatore Ottone I di Sassonia e nel 959 gli chiesero di inviare un vescovo per la Russia, che purtroppo nel 962 fu scacciato da una rivolta pagana. Olga pregava giorno e notte per la conversione del figlio e per il bene dei sudditi, al termine della reggenza, secondo le leggi di allora, si ritirò nei suoi possedimenti privati, dove continuò nella sua opera di apostolato e missionaria, costruì alcune chiese fra cui quella in legno di S. Sofia a Kiev. Visse piamente e morì a circa 80 anni l’11 luglio 969. Dice il suo biografo Giacomo: prima del Battesimo la sua vita fu macchiata da debolezze e peccati, crudeltà e sensualità; ella ciononostante divenne santa non certo per suo merito, ma per un disegno speciale di Dio sul popolo russo. La venerazione per Olga cominciò sotto il governo del nipote s. Vladimiro, che nel 996 fece trasportare il corpo nella chiesa da lui fatta costruire. La festa fu fissata all’11 luglio, venerazione che fu poi confermata dal Concilio Russo del 1574. I mongoli, nel 1240 invasero e distrussero completamente Kiev, 400 anni dopo il metropolita della città Pietro Moghila, fece restaurare le antiche chiese distrutte e le reliquie di s. Olga sembra che siano state ritrovate, ma dal 1700 non si hanno più notizie di dove siano. Taliesin, il Bardo tratto da www.santiebeati.it di antonio borrelli |
Amato Bardo.......la ricerca sulle Donne di un tempo.......ha il sapore di donne vissute nel mondo moderno.........vi sono grata per la vostra ricerca.....
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L'ALTRA DONNA DEL RE: MARIA BOLENA.
Poco si sa della vita di Mary Boulen:la sua memoria nella storia è legata a due fattori che sono indipendenti dal suo essere donna e persona. Il primo è che era la sorella di Anna,seconda moglie di Henrico VIII, Re d'inghilterra e donna che ,con la sua relazione con il sovrano ,portò il paese allo scisma.Il secondo fattore è che Mary,prima di Anna,fu amante del re e ,probabimente,ebbe da lui due figli mai riconosciuti. Leggendo invece il percorso esistenziale di Mary ci si rende conto che fu donna intelligente ed abile nelle relazioni a corte e che tra le tre ragazze Bolena-Howard fu l'unica,che dopo aver condiviso il letto con il re,salvò la testa,ebbe un'ottima sistemazione matrimoniale e visse a lungo.Sia Anna che Katerina Howard,loro prima cugina e quarta moglie di Henry,furono decapitate e i loro vessili ed insegne cancellate a disperderne la memoria. Maria nasce nel castelo di Hever da una nobile famiglia con qualche problema economic,suo padre è un Boulen,legato ai Tudore,ma la madre che appartiene ai grandi e potenti Howard,lega la famiglia anche agli York:per i tempi due alleanze di simile fatta non erano male. Le due ragazze(c'è anche un fratello George che avrà un drammatico ruolo nella caduta di Anna),compiono il percorso di tutte le nobili giovinette inglesi del tempo,compreso un soggiorno alla raffinata corte di Francia. La corte francese era un pò come un collegio svizzero di oggi,o un soggirno di studio negli states:dava accrediti e insegnava le buone maniere,non specifiche della rude corte Tudor,ma apprezzatissime.Indubbiamente lo scopo della famiglia era "sistemare"le due fanciulle con nobili di corte,tenendo conto solo della loro grazia,perchè la dote scrseggiava.Il destino aiutò Maria che appena tornata dalla Francia colpì il re.In quel momento Enrico era annoiato della moglie Caterina,donna severa di educazione spagnola(era figlia di Isabella d'Aragona e Ferdinando di Castiglia),ma era sopratutto deluso dal fatto che l'Aragona non riuscisse a partorire figli maschi.La regina era inoltre più vecchia di lui e non proprio una bellezza. Maria era sposata,a quel momento,con William Cary,nobile della camera da letto del re,ma il fatto non costituì impedimento e forse il più contento fu William che si prese una serie inaspettata di benefici. Maria Bolena diviene amante ufficiale del Tudor un anno esatto dopo il matrimonio nel 1521 e rimane al suo fianco per sei anni.Partorisce due figli,indubbiamente di Enrico,ma non ne chiede,nè ottiene il riconoscimento di bastardi del re per i suoi figli.Maria non chiede nulla,si gode quel periodo di grossi privilegi e aspetta.Da donna intelligente comprende di essere una meteora e comprende anche che il suo silenzio e la sua discrezione le consentiranno di salvarsi.Il re detesta le complicazioni e c'è inoltre una regina ed un'altra amante ufficiale con un figlio riconosciuto. Alle complicazioni ci penserà inatti la sorella Anna. Si sa che nel 1527 la passione del re è finita e le sue attenzioni si rivolgono ora alla capricciosa Anna. Maria capisce di essere di imbarazzo alla famiglia(le mire con Anna sono alte)alla sorella e,più pericoloso,al sovrano. William Carey è morto nel 1528 e Maria accetta la corte e la proposta di matrimonio di William Stafford soldato privo di ogni nobiltà. Un buon modo per allontanarsi dalla corte e farsi dimenticare.Maria e William si ritirano nella tenuta di lei a Rochford,Essex.Non comparirà mai più a corte e non si farà vedere nè nell'apice della gloria di Anna,nè nella sua rapida caduta. Sarà la sua salvezza:muore di morte naturale(probabilmente di influenza inglese)il19 luglio 1543. tratto da: www.perstorie.it Taliesin, il Bardo |
LA FAVORITA DEL RE: ANNA BOLENA
Anna Bolena (italianizzazione del nome inglese di Anne Boleyn) nasce nel 1507, benché la data non sia certa, nel castello di Hever nel Kent, Inghilterra sud-orientale. La sua famiglia è di origini nobili, il padre Thomas Boleyn è conte del Wiltshire, mentre la madre è figlia di Thomas Howard, secondo duca di Norfolk. Anna ha una sorella e un fratello e cresce in una famiglia agiata ma che non ricopre ancora incarichi a corte, anche se il potente zio, il duca di Norfolk, è uno dei consiglieri del re. Thomas Boleyn è però un uomo abile e diplomatico e riesce a far educare entrambe le figlie alla corte del re di Francia, prima quella di Luigi XII e poi quella di Francesco I. Anna in particolare manterrà per diversi anni un forte rapporto con la corte di Francesco I e così farà sua sorella. Al suo ritorno in patria, Anna Bolena diventa dama di corte della regina Caterina d'Aragona. La regina è una donna forte, dalla fede incrollabile con una forte consapevolezza del suo ruolo e del suo destino, ma ha una debolezza: non riesce a dare un figlio maschio al re, che desidera un erede più di ogni altra cosa. Il re è Enrico VIII un uomo illuminato, dalla forte cultura umanistica e con una particolare predisposizione e predilezione per le arti e la cultura. E' un uomo giovane quando sposa Caterina, ha 18 anni e la sua responsabilità di re, da poco salito al trono dopo la morte del padre e del fratello, lo opprime come un peso enorme e tuttavia se la cava bene e probabilmente ama Caterina, che non è solo la zia di Carlo V imperatore ma anche una donna amata dal popolo e rispettata da tutti. Enrico diventa un re a tutti gli effetti e vive le ansie di un'eredità e di una continuità della sua famiglia, i Tudor, saliti al trono grazie a suo padre che ha vinto la "guerra delle due Rose". Quando Anna Bolena giunge a corte il matrimonio con Caterina è già minato e Anna ne diviene una delle sue cortigiane, facendosi notare dal re. Quasi subito inizia una relazione fra i due, che anche se tenuta nascosta, viene conosciuta da tutti, compresa la regina. Anche il principale consigliere del re, Thomas Wolsey, arcivescovo e uomo di stato, ne viene a conoscenza e osteggia Anna e la sua famiglia, ma nulla può di fronte all'amore del re, che perde interesse e fiducia nel suo consigliere. La figura di Anna a questo punto diventa più ambigua, perché sono molti i suoi nemici e perché il fatto di essersi infilata nel letto del re la mostra come una ruba mariti agli occhi non solo dei notabili ma anche del popolo. Sia il padre che lo zio la proteggono e la aiutano a crescere all'interno dei delicati equilibri della corte inglese. Nel frattempo il re perde la testa completamente e decide di sposarla. Nel 1533 sposa Anna Bolena mentre i suoi consiglieri cercano tutti gli appigli legali e teologici per far invalidare il matrimonio con Caterina. Quando il matrimonio viene reso ufficiale, la sovrana lo impugna davanti alla legge ma perde la causa e cade in disgrazia e pertanto dove lasciare il palazzo reale. Anna è già incinta quando si sposa e da alla luce la futura Elisabetta I d'Inghilterra. Enrico decide di farla incoronare nel maggio del 1533 ma il popolo non le riconosce quel rispetto che aveva tributato a Caterina. Nel frattempo il papa Clemente VII decide di scomunicare il re non riconoscendo il matrimonio e dando inizio allo scisma che porta alla nascita della Chiesa Anglicana, tutt'ora esistente. Negli anni seguenti, questo matrimonio e lo scisma fra le due Chiese comporta una serie di conseguenze deflagranti sia nella politica che nelle istituzioni religiose. La sua influenza nei confronti del re cresce e nei tre anni successivi al matrimonio la famiglia Bolena viene, in particolare il padre e il fratello, arricchita dal re ricevendo terreni, titoli e incarichi diplomatici. Durante questi tre anni i coniugi reali tentano di avere altri figli, ma senza successo: Anna subisce tre diversi aborti spontanei e la nascita di un bambino morto. Il re nel frattempo attraversa un periodo di forte instabilità, il suo regno ha problemi con la Francia e con la Spagna, l'economia soffre e le congiure di palazzo lo ossessionano. La mancanza di un erede diventa quindi un problema di Stato e Anna comincia a cadere in disgrazia. Il re decide di sbarazzarsene e così fa accusare la regina di stregoneria e di averlo sottoposto a una magia per indurlo a sposarla; inoltre grazie all'astuzia di Thomas Cromwell, ex alleato di Anna e della sua famiglia, imbastisce un processo in cui cinque uomini dichiarano di aver avuto dei rapporti sessuali con la regina, fra questi anche il fratello di lei. Tutti vengono condannanti a morte, compresa Anna Bolena che per un periodo risiede nella Torre di Londra con la speranza che il re la grazi. Questo però non succede, e il 19 maggio 1536 Anna Bolena viene giustiziata con il taglio della testa e così avviene per gli altri cinque condannati. Thomas Boleyn assiste impotente alla morte della figlia e del figlio perché graziato dal re che gli intima di lasciare la corte. La regina Anna Bolena è una figura sulla quale in anni recenti si è fatta un po' più di luce, rilevando doti che sono sempre state trascurate dalla storiografia, come ad esempio la sua attenzione per l'umanesimo e per una riforma della chiesa non in chiave eretica bensì teologica. tratto da: www.biografieonline.it Taliesin, il Bardo |
Sir Taliesin avete narrato la storia di due sorelle che mi hanno sempre affascinato..ho letto con passione il libro "l'altra donna del re"..ho ammirato Maria..pedina della sua famiglia poi spiazzata e spodestata dal suo ruolo di..favorita..dalla stessa sorella.
A volte mi sono chiesta se Maria Bolena amasse davvero Enrico VIII.. Grazie per questo contributo.:smile: |
Milady Altea...
Sapevo, visti i vostri passati interventi a proposito di questo argomento e del personaggio femminile in questione, caduti oramai in quegli scaffali polverosi e risucchiati nei silenti corridoi di un giardino appassito, che sareste accorsa in aiuto della povera Maria Bolena, ridonando lustro al suo spirito, magistralmente presentato nel libro che avete citato. Per rispondere alla vostra domanda Milady, io credo, senza ombra di dubbio, che nonostante i tradimenti, le sofferenze, gli strazianti dolori fisici e dell'anima, Maria abbia veramente amato quel Re, come il primo uomo che abbia fisicamente incontrato, come un padre che non mai avuto, come una madre, come una sorella, come una Libertà. Grazie Milady, anche per Lei...grazie di cuore per avere soffermato su di Lei, come sempre, il vostro cuore. Taliesin, il Bardo |
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LA MACCHINA DI DIO: ROSA DA VITERBO.
Nata da famiglia di modeste condizioni, a 17 anni entrò nell’ordine delle terziarie dopo aver avuto una visione. In questo periodo fece diversi pellegrinaggi e soprattutto una dura penitenza. Mentre si faceva intensa la guerra tra Guelfi e Ghibellini insieme alla famiglia fu esiliata: tornò in patria dopo la morte di Federico II, ma la sua vita fu assai breve. Sulla sua morte non si sa praticamente nulla solo che alcuni anni più tardi il suo corpo è stato ritrovato intatto. Nel 1252 papa Innocenzo IV pensa di farla santa, e ordina un processo canonico, che forse non comincia mai. La sua fama di santità cresce ugualmente, e nel 1457 Callisto III ordina un nuovo processo, regolarmente svolto: ma nel frattempo muore, e Rosa non verrà mai canonizzata col solito rito solenne. Ma il suo nome è già elencato tra i santi nell’edizione 1583 del Martirologio romano. Via via si dedicano a lei chiese, cappelle e scuole in tutta Italia, e anche in America Latina. Vita breve, la sua. Nasce dai coniugi Giovanni e Caterina, forse agricoltori nella contrada di Santa Maria in Poggio. Sui 16-17 anni, gravemente malata, ottiene di entrare subito fra le terziarie di san Francesco, che ne seguono la regola vivendo in famiglia. Guarita, si mette a percorrere Viterbo portando una piccola croce o un’immagine sacra: prega ad alta voce ed esorta tutti all’amore per Gesù e Maria, alla fedeltà verso la Chiesa. Nessuno le ha dato questo incarico. Viterbo intanto è coinvolta in una crisi fra la Santa Sede e Federico II imperatore. Occupata da quest’ultimo nel 1240, nel 1247 si è “data” accettandolo come sovrano. Rosa inizia la campagna per rafforzare la fede cattolica, contro l’opera di vivaci gruppi del dissenso religioso, nella città dove comandano i ghibellini, ligi all’imperatore e nemici del papa. Un’iniziativa spirituale, ma collegata alla situazione politica. Per questo, il podestà manda Rosa e famiglia in domicilio coatto a Soriano del Cimino. Un breve esilio, perché nel 1250 muore Federico II e Viterbo passa nuovamente alla Chiesa. Ma non sentirà più la voce di Rosa nelle strade. La giovane muore il 6 giugno probabilmente del 1251 (altri pongono gli estremi della sua vita tra il 1234 e il 1252). Viene sepolta senza cassa, nella nuda terra, presso la chiesa di Santa Maria in Poggio. Nel novembre 1252 papa Innocenzo IV promuove il primo processo canonico (quello mai visto) e fa inumare la salma dentro la chiesa. Nel 1257 papa Alessandro IV ne ordina la traslazione nel monastero delle Clarisse. E forse vi assiste di persona, perché trasferitosi a Viterbo dall’insicura Roma (a Viterbo risiederanno i suoi successori fino al 1281). La morte di Rosa si commemora il 6 marzo. Ma le feste più note in suo onore sono quelle di settembre, che ricordano la traslazione del corpo nell’attuale santuario a lei dedicato. Notissimo è il trasporto della “macchina” per le vie cittadine: è una sorta di torre in legno e tela, rinnovata ogni anno, col simulacro della santa, portata a spalle da 62 uomini. Si ricorda nel 1868 anche l’iniziativa del conte Mario Fani che col circolo Santa Rosa, a Viterbo, anticipava la Società della Gioventù Cattolica, promossa poi dai cattolici bolognesi con Giovanni Acquaderni. Nel 1922 Benedetto XV ha proclamato Rosa patrona della Gioventù Femminile di Azione Cattolica. A Viterbo, di cui è patrona della città e compatrona della diocesi, è ricordata il 4 settembre, giorno della traslazione. Tratto da: www.santiebeati.it di Domenico Agasso Taliesin, il Bardo |
CONSCRATA A CRISTO: CRISTINA DA BOLSENA.
Cristina fa parte di quel gruppo di sante martiri, la cui morte o i supplizi subiti si imputano ai padri, talmente snaturati e privi di amore, da infliggere a queste loro figlie i più crudeli tormenti e dando loro la morte, essi che l’avevano generate alla vita. Da scavi archeologici eseguiti fra il 1880 e il 1881 nella grotta situata sotto la Basilica di Santa Cristina a Bolsena, si è accertato che il culto per la martire era già esistente nel IV secolo; dal fondo della grotta-oratorio si apre l’ingresso alle catacombe, che contengono una sua statua giacente in terracotta dipinta e il sarcofago dove furono ritrovate le reliquie del corpo della santa. Al tempo dell’imperatore Diocleziano (243-312) la fanciulla di nome Cristina, figlia del ‘magister militum’ di Bolsena, Urbano, era stata rinchiusa dal padre insieme con altre dodici fanciulle, in una torre affinché venerasse i simulacri degli dei come se fosse una vestale. Ma l’undicenne Cristina in cuor suo aveva già conosciuto ed aderito alla fede cristiana, si rifiutò di venerare le statue e dopo una visione di angeli le spezzò. Invano supplicata di tornare alla fede tradizionale, fu arrestata e flagellata dal padre magistrato, che poi la deferì al suo tribunale che la condannò ad una serie di supplizi, tra cui quello della ruota sotto la quale ardevano le fiamme. Dopo di ciò fu ricondotta in carcere piena di lividi e piaghe; qui la giovane Cristina venne consolata e guarita miracolosamente da tre angeli scesi dal cielo. Risultato vano anche questo tentativo, lo snaturato ed ostinato padre la condannò all’annegamento, facendola gettare nel lago di Bolsena con una mola legata al collo. Prodigiosamente la grossa pietra si mise a galleggiare invece di andare a fondo e riportò alla riva la fanciulla, la quale calpestando la pietra una volta giunta, lasciò (altro prodigio) impresse le impronte dei suoi piedi; questa pietra fu poi trasformata in mensa d’altare. Di fronte a questo miracolo, il padre scosso e affranto morì, ma le pene di Cristina non finirono, perché il successore di Urbano, il magistrato Dione, infierì ancora di più. La fece flagellare ma inutilmente, poi gettare in una caldaia bollente piena di pece, resina e olio, da cui Cristina uscì incolume, la fece tagliare i capelli e trascinare nuda per le strade della cittadina lagunare, infine trascinatala nel tempio di Apollo, gli intimò di adorare il dio, ma la fanciulla con uno sguardo fulminante fece cadere l’idolo riducendolo in polvere. Anche Dione morì e fu sostituito dal magistrato Giuliano, che seguendo i suoi predecessori continuò l’ostinata opera d’intimidazione di Cristina, gettandola in una fornace da cui uscì ancora una volta illesa; questa fornace chiamata dal bolsenesi ‘Fornacella’, si trova a circa due km a sud della città; in un appezzamento di terreno situato fra la Cassia e il lago di Bolsena, nel Medioevo fu inglobata in un oratorio campestre. Cristina fu indomabile nella sua fede, allora Giuliano la espose ai morsi dei serpenti, portati da un serparo marsicano, i quali invece di morderla, presero a leccarle il sudore, la tradizione meno realistica della leggenda, vuole che i serpenti si rivoltarono contro il serparo mordendolo, ma Cristina mossa a pietà, lo guarì. Seguendo le ‘passio’ di martiri celebri come s. Agata, la leggendaria ‘Passio’ dice che Giuliano le fece tagliare le mammelle e mozzare la lingua, che la fanciulla scagliò contro il suo persecutore accecandolo. Infine gli arcieri, come a s. Sebastiano, la trafissero mortalmente con due frecce. Questo il racconto leggendario della ‘Passio’ redatta non anteriore al IX secolo, il cui valore storico è quasi nullo, precedenti ‘passio’ greche sostenevano che Cristina, il cui nome latino significa “consacrata a Cristo”, fosse nata a Tiro in Fenicia, ma si tratta di un errore dovuto al fatto che la prima ‘passio’ fu redatta in Egitto e che per indicare la terra degli Etruschi chiamati Tirreni dai Greci, si usava l’abbreviazione ‘Tyr’ interpretata erroneamente come Tiro. Le reliquie ebbero anche loro un destino avventuroso, furono ritrovate nel 1880 nel sarcofago dentro le catacombe poste sotto la basilica dei Santi Giorgio e Cristina, chiesa risalente all’XI secolo e consacrata da papa Gregorio VII nel 1077. Le reliquie del corpo, anzi di parte di esso sono conservate in una teca, parte furono trafugate nel 1098 da due pellegrini diretti in Terrasanta, ma essi giunti a Sepino, cittadina molisana in provincia di Campobasso, non riuscirono più a lasciare la città con il loro prezioso carico, per cui le donarono agli abitanti. Questo l’inizio del culto della santa molto vivo a Sepino, le reliquie costituite oggi solo da un braccio, sono conservate nella chiesa a lei dedicata; le altre reliquie furono traslate tra il 1154 e 1166 a Palermo, che proclamò la martire sua patrona celeste, festeggiandola il 24 luglio e il 7 maggio; la devozione durò almeno fino a quando non furono “scoperte” nel secolo XVII le reliquie di santa Rosalia, diventata poi patrona principale. A Sepino, s. Cristina viene ricordata dai fedeli ben quattro giorni durante l’anno A Bolsena, s. Cristina viene festeggiata con una grande manifestazione religiosa, la vigilia della festa il 23 luglio sera, nella oscurata piazza antistante la basilica, viene portato in processione il simulacro della santa posto su una ‘macchina’ a forma di tempietto, contemporaneamente sulla destra del sagrato si apre il sipario di un palchetto illuminato, dove un quadro vivente rappresenta in silenzio una scena del martirio e ciò si ripete in ogni piazza e su altrettanti piccoli palchi dove giunge la processione; la manifestazione è chiamata “I Misteri di s. Cristina”. La processione cui partecipa una folla di fedeli, si svolge per strade e piazze di Bolsena, finché arriva in cima al paese nella Chiesa del Santissimo Salvatore, lì la statua si ferma tutta la notte e la mattina del 24, giorno della festa liturgica di s. Cristina, si riprende la processione di ritorno con le stesse modalità e giungendo infine di nuovo nella Basilica a lei dedicata. I “Misteri” sono una manifestazione religiosa che sin dal Medioevo, onora alcuni santi patroni in varie città d’Italia specie del Centro. Bisogna infine qui ricordare che la Basilica di S. Cristina possiede l’altare che come già detto è formato dalla pietra del supplizio della martire e che proprio su quest’altare nel 1263 un sacerdote boemo, che nutriva dubbi sulla verità della presenza reale del Corpo e Sangue di Gesù nell’Eucaristia, mentre celebrava la Messa, vide delle gocce di sangue sgorgare dall’ostia consacrata, che si posarono sul corporale e sul pavimento, l’evento fu riferito al papa Urbano IV, che si trovava ad Orvieto, il quale istituì l’anno dopo la festa del Corpus Domini. La ‘passione’ di santa Cristina ha costituito un soggetto privilegiato da parte degli artisti di ogni tempo, come Signorelli, Cranach, Veronese, Dalla Robbia, i quali non solo la rappresentarono in scene del suo martirio con i suoi simboli, la mola, i serpenti, le frecce, ma arricchirono con le loro opere di pittura, scultura e architettura, la basilica a lei dedicata, maggiormente dopo avvenuto il miracolo eucaristico. tratto da:www.santiebeati.it di Antonio Borrelli Taliesin, il Bardo |
Amato Bardo.....avete riportato tra queste mura la vita di donne che hanno cercato di donare se stesse a chi ne aveva bisogno......lo hanno fatto attraverso la sofferenza, la rinuncia...la preghiera...e il loro stesso esempio nel quotidiano.......cresce la conoscenza....
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Lady Elisabeth...
Nelle vostre parole c'è il disegno preciso della Conoscenza poichè attraverso la vostra Missione quotidiana in Loro vi siete compiaciuta e rispecchiata, come un riflesso d'inverno in uno specchio d'acuqa calma. Grazie... Taliesin, il Bardo |
Ancora una volta ho avuto modo di conoscere donne coraggiose nel nome del Signore, essendo se stesse e mai rinnegando ciò che erano..grazie sir Taliesin
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Milady Altea...
Grazie come sempre a voi, per essere transitata attraverso queste antiche teche dove sono racchiusi dipinti di cuori che, nel loro pulsare e nel loro essere, sono giunti fino alle pendici del vostro. Taliesin, il Bardo |
Così, senza pretese, ho pensato di riportare all'attenzione questo angolo di Camelot così significativo, e bisognoso di essere contemplato.
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Margherita Porete
Beghina teologa. Di Margherita Porete, originaria della contea dell’Hainaut, nelle Fiandre, vicina al Brabante e nata forse verso il 1250/1260, sappiamo molto poco: l’unico dato certo sulla sua vita è la sua condanna al rogo per eresia (pro convicta et confessa ac pro lapsa in heresim seu pro heretica), eseguita il 1° giugno 1310 in Place de Grève a Parigi. I cronisti del tempo la definiscono pseudomulier e quindi beghina, e anche beguine clergesse e beghine en clergrie mult suffissant, ovvero una beghina colta, facendo notare anche che essa aveva tradotto le Sacre Scritture in volgare, e suggerendoci in tal modo quale dovesse essere la sua cultura e la sua grande conoscenza della teologia, come del resto possiamo capire anche dal livello della sua riflessione ad un tempo mistica e spiccatamente filosofica. La storia del processo a Margherita e al suo libro, il Miroir des simples âmes, può essere scandito essenzialmente in due momenti. Una prima volta il Miroir fu bruciato a Valenciennes, in sua presenza, al termine di un processo diocesano fatto istituire da Guido da Colmieu, vescovo di Cambrai, in un anno imprecisato del suo episcopato (1296-1306). In questa occasione il vescovo diffidò inoltre Margherita dal dare pubblica lettura del suo libro in presenza di altre persone o dal farlo leggere da altri; ella invece continuò a far circolare il proprio libro dopo averlo probabilmente riscritto. Questa grande circolazione della sua opera (nonostante la condanna per eresia, il Miroir ci è giunto in tredici mss. completi, attestanti per lo meno quattro diverse traduzioni di un leggendario ma del tutto ignoto originale piccardo, forse già tradotto dalla stessa Margherita in latino), il fatto che comunque è attestata l’esistenza di proseliti della beghina, come vedremo nel secondo momento della sua avventura giudiziaria, possono far pensare che Margherita fosse un personaggio di spicco del movimento del Libero Spirito. Il processo. Margherita non solo aveva continuato a diffondere il suo libro negli anni successivi alla prima condanna, ma addirittura aveva presentato il Miroir a Giovanni di Chateau-Villain, vescovo di Chalons-sur-Marne, forte del fatto che nel frattempo aveva ottenuto l’approbatio di tre religiosi, presente solo nelle antiche traduzioni latina e italiana. I tre religiosi sono: un certo “frater minor magni nominis, vitae et sanctitatis, qui frater Johannes vocabatur”, presumibilmente (come suggerisce R. Guarnieri) Giovanni Duns Scoto, Dom Franco di Villers, monaco cisterciense appartenente all’abbazia di Villers, della cui biblioteca Margherita era probabilmente frequentatrice; il magister in theologia Goffredo di Fontaines. Giovanni di Chateau-Villain, nonostante il Miroir avesse ottenuto l’approbatio dei tre chierici, denunciò il fatto a Filippo di Marigny, amico del re Filippo il Bello, invischiato nel processo dei Templari, il quale, nel frattempo, era divenuto vescovo di Cambrai. Margherita venne consegnata nelle mani del Grande Inquisitore di Francia, a Parigi, nel 1308. La Porete non presta giuramento di lealtà, e addirittura l’Inquisitore tenterà per più di un anno e mezzo di far parlare Margherita che non mostra alcun segno di cedimento. Il processo di Margherita è strettamente legato a quello di Guiard de Cressonessart, un begardo della diocesi di Beauvais, che si definiva l’Angelo di Filadelfia ed era legato al movimento gioachimita. L'Inquisitore Guglielmo di Parigi tentò in ogni modo di concludere il processo con l’abiura della beghina, ma infine fu costretto a consultare ventuno teologi dell’Università di Parigi per fornire un fondamento credibile all’accusa di eresia. Fra questi ventuno teologi nove si erano già espressi nel processo ai Templari e sei saranno protagonisti del Concilio di Vienne (1311-1312), con cui si sancirà la condanna di beghine e begardi. Nella condanna è riportato il testo di due delle quindici proposizioni che i teologi estrapolarono dal testo e indicarono come eretiche. Una terza proposizione è riportata dall’anonimo continuatore del Chronicon di Guglielmo di Nangis. Dopo il giudizio dei teologi, Margherita ebbe, secondo la prassi, un anno per pentirsi, che trascorse all’interno del convento parigino di Saint-Jacques. Mentre Guiard de Cressonessart confessò e fu condannato al carcere a vita, Margherita perseverò nel suo silenzio e fu condannata al rogo il 31 maggio 1310; la sentenza fu eseguita il 1 giugno 1310. La Porete andò al rogo mostrando segni tanto grandi della propria dignità da commuovere fino alle lacrime molti dei presenti. (Università di Siena - Manuale di Filosofia on-line) E' una donna particolare ...che ha portato via molto del mio tempo nei miei studi medievali....Dedicato All' Amato Bardo perchè rientri a riempire queste stanze..... |
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Condivido poi la speranza di un ritorno di lord Taliesin. |
Beata Ludovica Albertoni
Della beata Ludovica degli Albertoni, esiste una pregevolissima statua, opera tutta di sue mani, del grande scultore Gian Lorenzo Bernini, che la raffigura coricata in estasi e posta sul suo sepolcro nella chiesa di S. Francesco a Ripa in Roma; questa bellissima scultura perpetua attraverso la storia dell’arte e del flusso turistico specializzato, la figura della beata romana. Ludovica nacque nel 1474 a Roma dalla nobile famiglia degli Albertoni, orfana del padre in tenera età, fu allevata dalla nonna materna e da alcune zie, perché la madre si era risposata. A venti anni, contro i suoi desideri, fu data in sposa al nobile Giacomo della Cetera, che comunque amò devotamente e dal quale ebbe tre figlie. Nel 1506 a 32 anni, rimase vedova ed allora entrò nel Terz’Ordine Francescano, prendendo a vivere una vita tutta dedicata alla preghiera, meditazione, penitenza e opere di misericordia, come quelle di dare una dote per maritare le ragazze povere e la visita ai poveri ammalati nei loro miseri tuguri. Con la sua generosità diede fondo a tutti i suoi beni, fra la contrarietà dei parenti per tanta liberalità. Il Signore le diede il dono dell’estasi, che all’epoca dovevano essere molto note, se dopo la sua morte, avvenuta il 31 gennaio 1533, lo scultore Bernini la raffigura proprio nell’atto di una estasi. La beata Ludovica ebbe subito un culto pubblico dopo la morte, culto che fu definitivamente confermato da papa Clemente X il 28 gennaio 1671. Una ricognizione delle reliquie fu fatta il 17 gennaio 1674 quando le sue spoglie furono deposte nel magnifico sepolcro marmoreo di S. Francesco a Ripa, dove sono tuttora. tratto dal sito "Santi e beati" Autore: Antonio Borrelli http://i61.tinypic.com/166qtc.jpg |
L'avidità, e l'accumulare beni materiali, visti come principi da mettere completamente in discussione, a favore della generosità e del coraggio (niente affatto scontato) di aiutare il prossimo.
Davvero notevole, lady Altea. |
“E' una donna particolare ...che ha portato via molto del mio tempo nei miei studi medievali....Dedicato All' Amato Bardo perchè rientri a riempire queste stanze...”.
“E qual è mai una terra così priva di Te che Ti si debba cercare in cielo? In pubblico li vedi che Ti guardano, ma non Ti scorgono perché sono ciechi.” (tratto da: “Lo Specchio delle Anime Semplici”di Margherita Porete) Si narra che nel momento in cui il Fuoco coprì con il suo manto scarlatto le morbide spalle di Margherita, una folla mormorante nella preghiera e nella frustrazione, satura di civilissime cariche ecclesiastiche, rappresentanti reali, nobili e contadini, miseri e straccioni, si inchinasse di fronte al rogo poiché, dietro quella torcia di morte, apparve Cristo inchiodato sul legno della Croce discendere dal supplizio e prendere in braccio il corpo della sventurata per portarla fuori da quell’inferno che gli uomini avevano apparecchiato per lavarsi la coscienza dalle parole di un libro. Grazie Madonna Elisabetta… Per avere riportato nell’attualità di questo tempo scellerato di inquisiti ed inquisitori questa mia “Donna nel Medioevo”, già narrata nel mese delle ciliegie dell’anno di grazia duemilatredici, ma rinfrescata dalla vostra straziante umanità di Donna, Scienziata e Guerriera. Oggi, nella Sua Passione, il Bardo è tornato. Si narra che quando il Bernini mosse il primo colpo di scalpello sul pregiatissimo marmo bianco proveniente dal cuore delle Apuane, una luce surreale entrasse dal vicino finestrone che sovrastava il vuoto triclino e proprio sul punto in cui l’intersecazione dello strumento si abbraccia alla durezza della pietra, accidentalmente l’artista sfiorò il pollice della sua mano sinistra, procurandosi una piccola abrasione che fece sortire un piccolo rivolo di sangue rosso rubino. In quel preciso istante fu come vedere di fronte ai suoi occhi increduli vedere realizzato il momento sublime del trapasso della Santa, come se quella pietra marmorea contenesse da sempre il suo corpo e aspettasse, in rispettoso e secolare silenzio, di essere svelata al mondo intero… Grazie Milady Altea… per avere preservato, con amorevole cura e innata devozione, dalle intemperie di passaggio e dai furiosi elementi di questo tempo inquieto, le mie “Donne nel Medioevo”. Oggi, nella Sua Passione, il Bardo è tornato… Grazie Cavaliere Galgano… per avere saputo reggere il peso del mio Seggio Periglioso, accarezzando il cuore di quelle Fanciulle e di quegli Uomini che altrimenti si sarebbero smarriti nella leggenda del mio nome, mentre altri, infanti viaggiatori di novelli viaggi, avrebbero pensato, senza i vostri scritti in mio ricordo, che il Bardo, come il suo Re d’Inverno, non fosse mai esistito… Oggi, nella Sua Passione, il Bardo è tornato. Taliesin, il Bardo |
Quale mistero divino deve aver avuto quel marmo per divenire poi immagine di pura devozione...grazie Sir Taliesin.
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Grazie per averci resi partecipi di questa sublime, seppur tangibile, epifania, caro Bardo :)
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Grazie principalmente di essere quello che siete, lord Taliesin.
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E' un periodo di rinascita questo........stasera avverrà ancora quel Miracolo che e' la nuova vita.......
Amato Bardo....e' vero quando voi avete scritto di Margherita per uno strano legame di studi appresi di lei proprio da voi.....e ho approfondito la conoscenza di questa Donna..........Mi avete fatto perdere il sonno per Lei...... Vi ringrazio...di essere tornato ad accoglierci in queste vostre stanze..... |
I VELENI DEL RINASCIMENTO FIORENTINO: LA STORIA DI BIANCA CAPPELLO.
Bianca nacque Venezia nel 1548 dal potente Bartolomeo e da Pellegrina Morosini. A soli quindici anni sposò il fiorentino Pietro Bonaventuri, dipendente del Banco dei Salviati: le nozze riparatrici furono officiate dopo una romantica fuga, quando ella, abbagliata dalla presunta ricchezza dell’uomo, gli aveva già affidato i prestigiosi gioielli dotali. L’ignara famiglia sollecitò il Governo della Repubblica a esigerne il rimpatrio forzato, ma il Granduca Cosimo I si oppose alla richiesta ed ella restò a Firenze. Era già madre della piccola Virginia, quando conobbe Francesco de’ Medici, di fatto asceso al soglio ducale per abdicazione paterna. Nel gennaio del 1565, pur avendo contratto matrimonio dinastico con la sgraziata arciDuchessa Giovanna d’Austria, figlia dell’imperatore Ferdinando I, si innamorò perdutamente della avvenente Veneziana. Entrambi condivisero l’infelicità del reciproco disagio coniugale e, se egli visse la frustrazione d’aver avuto sei figlie femmine e non l’agognato erede, ella era delusa dalla modestia del tenore di vita offertole dal marito. La relazione divenne importante: gioielli, abiti e l’assunzione di Bianca tra le Dame di Corte rimossero anche le remore del Bonaventuri che, assunto come dipendente del Granducato e compensato dalla raffinata dimora contigua a Palazzo Itti e donata dal Duca all’amata, nel 1572 fu assassinato a margine di una misteriosa rissa. Francesco non fu ritenuto estraneo al fatto di sangue, ma le voci si attenuarono quando, nel 1574, morto il padre, egli s’insediò ufficialmente nella carica granducale. Tre anni dopo, Giovanna mise al mondo l’atteso figlio maschio Filippo che, a soli otto anni, sarebbe poi mancato. Quella nascita fece vacillare la posizione di Bianca: disprezzata dai Fiorentini e duramente osteggiata dal potente cognato Cardinale Ferdinando, ella era ben consapevole che, in mancanza di un erede e in conseguenza della eventuale morte di Francesco, sarebbe stata bandita dalla Corte. Ricorse, pertanto ad un espediente: con una falsa gravidanza, tentò di far passare un neonato come frutto della relazione sentimentale col Duca. Il bambino: Antonio, in effetti era stato messo al mondo proprio da una scappatella del Duca con una serva. La sua reale origine non fu mai chiarita e fu oggetto di fitte maldicenze. Sta di fatto che, volendolo escludere dalla successione, malgrado Francesco lo avesse legittimato come figlio il 19 ottobre del 1583, Ferdinando lo fece passare per illegittimo e gli cedette, in cambio della rinuncia a qualsiasi rivendicazione, un appannaggio mensile e numerosi possedimenti terrieri. Nel 1578, intanto, a causa di una caduta, era deceduta Giovanna d'Austria. Bianca ed il Duca, già segretamente sposati, ufficializzarono il loro legame il 10 giugno del 1579. La loro storia, tuttavia, si concluse tragicamente: la sera dell’8 ottobre del 1587, dopo una battuta di caccia col Cardinale Ferdinando e una cena alla villa di Poggio a Caiano, furono entrambi colpiti da vomiti e altissime febbri. Si volle che fossero stati avvelenati proprio dal Porporato che, amante della bella vita ed avido di potere, in quel periodo egli aveva perso la testa per Clelia Farnese e aspirava a ricoprire il ruolo di Granduca. Francesco e Bianca morirono dopo undici giorni di agonia, a distanza di sole dieci ore l’uno dall’altra e senza che l'uno conoscesse la sorte dell'altro. Ferdinando ascese al trono toscano e negò alla cognata, definita la pessima Bianca, la sepoltura accanto al legittimo consorte e nelle tombe medicee. Quattro Docenti dell'Università di Firenze hanno recentemente analizzato frammenti del fegato delle vittime, custodito nella chiesa di Santa Maria a Bonistallo assieme alle loro viscere. Sono state rinvenute tracce di arsenico in quantità letale. Taliesin, il Bardo Tratto da: D. Lippi: Illacrimate sepolture. Curiosità e ricerca scientifica nella storia delle riesumazioni dei Medici G. Fornaciari, R. Bianucci: Francesco e Bianca: non fu arsenico - Ecco le prove! |
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