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LA FANCIULLA DEI FIORI: IOSEFINA CIARDI DA SAN GIMIGNANO.
Nata nel 1238 a San Gimignano dai Ciardi, nobili decaduti, nella casa ancora esistente nel vicolo che porta il suo nome, Fina (abbreviazione di Iosefina) a dieci anni fu colpita da una malattia che la paralizzò completamente. Già orfana di padre, Fina perse anche la madre e rimase in assoluta povertà, aiutata solo da un'amica di nome Beldia. Dopo cinque anni di indicibili sofferenze sopportate con serenità e devozione, Fina si spense il 12 marzo 1253, festa di San Gregorio Magno, di cui era devota e dal quale avrebbe avuto l'annuncio della morte. Secondo la leggenda, trascritta nel Trecento dal domenicano Giovanni del Coppo, al momento del suo trapasso le campane di San Gimignano suonarono a festa senza che mano alcuna toccasse le corde, e quando il suo corpo fu sollevato dall'asse di quercia che era stato il suo giaciglio, questo si coprì di fiori. Contemporaneamente, torri e mura si ornarono di migliaia di viole gialle, e ancor oggi questa fioritura si ripete ogni anno, per quanto rigido sia l'inverno. Il culto della Santa fu molto vivo fin dagli inizi, tanto che grazie alle offerte lasciate sul suo sepolcro già nel 1258 si poté costruire uno spedale. Nel 1457 il Consiglio del Popolo deliberò la costruzione di una magnifica cappella nella collegiata, realizzata da Giuliano da Maiano e ornata di sculture di Benedetto da Maiano ed affreschi del Ghirlandaio. La città volle la piccola Fina come propria protettrice al fianco del patrono ufficiale, Geminiano, e a lei ricorse nella calamità con fiducia e devozione. Le feste annuali in suo onore sono due. La prima cade il 12 marzo - anniversario della sua dipartita; la seconda si celebra la prima domenica d'agosto, per ricordare che nel 1479 Fina salvò la città dalla peste e dalla guerra. tratto da www.santitoscani.it Taliesin, il Bardo |
LA CONTESSA DEI PAPI: MAROZIA, LA CORTIGIANA.
Una donna che con astuzia,seduzione e intelligenza riuscì a manovrare politici e re,papi e cardinali. E’ la storia di Marozia,figlia di una nobildonna sorella di Adalberto di Toscana e di un gentiluomo di nobiltà tedesca. Marozia nacque a Roma presumibilmente nel 892. Sin da ragazzina mostrò immediatamente un carattere volitivo,a cui aggiungeva la consapevolezza di essere una gran bella ragazza;l’intelligenza la unì alle sue indubbie doti di avvenenza,e le sfruttò al meglio,tanto che a sedici anni era già l’amante di un papa,Sergio III, che tra l’altro era un suo primo cugino. Una relazione scandalosa,ma non per quei tempi,in cui la chiesa versava in una crisi morale profonda;una crisi che coinvolgeva comunque tutte le sfere della società,priva di una guida morale autorevole. Marozia era scaltra e ambiziosa. A 28 anni,dopo 12 anni passati all’ombra del papa,restò incinta. Con furbizia combinò,grazie all’aiuto del potente papa, un matrimonio di convenienza con Alberico I di Spoleto, che riconobbe il figlio nato dalla relazione adultera. Nel 910,con l’aiuto di alcuni sicari,fece uccidere il papa,e iniziò la sua personale scalata alle vette della società. Con Alberico,uomo ambizioso quanto lei,costituì una coppia affiatata e spietata. Il passo successivo che fecero fu quello di entrare nell’entourage di papa Giovanni X. Una mossa intelligente,visto che Alberico,messo a capo dell’esercito pontificio,sconfisse in battaglia i saraceni e divenne console. La via per il successo sembrava spianata,quando all’improvviso,per cause incerte,Alberico morì. Marozia reagì immediatamente,e in breve tempo combinò un altro matrimonio,naturalmente con un nobile,il marchese Guido di Toscana,fiero avversario del papa Giovanni. La volitiva Marozia seguì il marito in una congiura antipapale,che si concluse con un assalto alla residenza del papa,che venne fatto prigioniero e morì poco dopo,pare strangolato da qualche sicario. Da questo momento la via per la gloria è spalancata;Marozia riesce a pilotare le elezioni successive,quelle di Leone VI e Stefano VIII,prima di compiere il suo capolavoro,l’elezione al trono di Pietro di Giovanni XI,il figlio nato dalla relazione con Sergio III. Con questa mossa Marozia raggiungeva il suo scopo,diventare la donna più potente d’Italia;e ancora una volta il caso (forse pilotato abilmente dalla diabolica donna) le venne incontro. Poco dopo l’elezione di Giovanni XI moriva Guido,suo marito. In breve tempo Marozia compì il suo capolavoro politico,sposando Ugo di Provenza,re d’Italia e fratello di Guido. Una situazione paradossale,ai limiti dell’incesto,e assolutamente vietata dai codici civili e morali. Naturalmente non poteva esserci un freno all’ambizione dei due amanti;a Ugo serviva la donna come trampolino di lancio per controllare il papato,a Marozia serviva il titolo di regina d’Italia. Così scandalizzando tutti,Ugo giurò di non essere fratello di sangue di Guido,ma suo fratellastro,in quanto nato da una relazione adulterina del padre. Tutto sembrava pronto,quindi,per la logica conclusione,l’incoronazione di Ugo a imperatore. Ma i piani tanto accurati di Marozia erano destinati a essere cancellati proprio dalla persona alla quale meno pensava,suo figlio Alberico II,nato dal matrimonio con Alberico,fratellastro di papa Giovanni XI. Alberico II,difatti,con quello che oggi definiremmo un golpe,spiazzò tutti facendo arrestare Ugo,deporre papa Giovanni e confinando la sua terribile madre in un convento,e restando in pratica dominatore incontrastato di Roma. Marozia,chiusa in un convento,sorvegliata a vista,priva di appoggi esterni,visse da reclusa ben 22 anni. Che saranno sembrati,alla grande tessitrice di inganni,un tormento ed un’eternità. Si spense nel 955,a 63 anni.Era l’ombra della donna che aveva tramato e tessuto intrighi a corte e nell’entourage papale. La sua vicenda ispirò la popolare leggenda della papessa Giovanna. tratto da:www.paultemplar.it Taliesin, il Bardo |
I VANITOSI FAZUOLI DEI VESPRI: LE ANONIME MESSINESI.
Triste fu il tramonto del XIII secolo in Sicilia. Il lamento del popolo sofferente non tardò a divenire grido di ribellione. Così se i francesi portarono nuove maniere di vivere non riuscirono ad abbagliare con lo splendore del fasto quel popolo presso il quale erano ancora fiorenti le mirabili manifestazioni del lusso orientale. Prima della dominazione francese i mercanti erano forniti di merci straniere e mentre a Palermo i Veneti godevano d'ogni franchigia per le gemme, le seterie e gli ermellini, a Messina ogni mercé preziosa poteva essere acquistata e lo smeraldo della Nubia, i velluti, i zendadi di Costantinopoli, i gingilli artistici niellati di Damasco facevano bella mostra sulle donne di quei tempi. I Francesi favorirono forse il commercio dei tessuti d'occidente, e con gli sciamiti lucchesi e veneziani introdussero in Sicilia quelle stoffe di lana di pecora inglese fabbricate in Francia, stoffe preziose, che non tardavano ad essere adottate dalle donne siciliane e specialmente da quelle messinesi. Ad esempio fulgida appariva la ricchezza degli ornamenti femminili ed in particolare si rammenta che le donne di Messina usavano fra l'altro coprire le acconciature del capo con ghirlande d'oro o d'argento adorne di perle, e portavano "fazzuoli" trapunti d'oro filato, usavano stringere al busto, per somiglianzà delle donne francesi, con cinti preziosi e arricchivano di perle il nastro con la quale chiudevano i loro mantelli. I regali costosissimi che si davano alle spose erano messi in mostra quasi incoraggiamento per i donatori a gareggiare nel valore degli oggetti offerti, e quest'usanza si riscontra tanto nelle classi umili, quanto nelle classi elevate. Generalmente ogni nuova maniera di vestire, ogni esotica manifestazione del lusso era adottata a Messina prima che in ogni altra città dell'isola, e ciò per i maggiori traffici che quella città aveva con le nazioni straniere. Ovunque le donne camminavano per le vie con zone dorate, con mantelli di camelotto foderati di cendato, ovunque esse facevano mostra di vesti dai colori vivi come il rosso o il verde, con larghe frangie le quali furono anche oggetto della severità del legislatore. Chi non aveva veli di seta li aveva di lino, chi non poteva avere cintura di metallo prezioso la portava di stoffa con fili d'oro, ma la vanità appariscente del vestire si era innescata in ogni classe sociale, dalle castellane alle fruttivendole. Quando si trattò di reprimere le fogge eccessivamente costose delle vesti, le donne di Messina protestarono tanto energicamente da costringere Carlo D'Angiò ad annullare lo statuto suntuario emesso da magistrato messinese e da lui confermato nel 1272, e permettere che esse potessero portare in quella quantità che "lor piacesse aurum, perlas atque aurifrigie etc...". Se però quelle donne si ribellarono alle imposizioni della legge, non esitarono a deporre i "soperchii ornamenti" quando la patria richiese sacrifici e privazioni. Allora le donne eleganti si videro per le vie di Messina andare con la tunica succinta, con i piedi nudi, i cofanetti in cui avevano tenuti i loro monili furono pieni di pane e di viveri. I cronisti dell'epoca ci raccontano di slanci sublimi e il Gregorio ci narra che quando la città fu aspramente combattuta da Carlo d'Angiò, proprio quelle donne "vanitose" diedero l'aiuto a rifar le mura. La difesa di Messina oltre d'essere uno degli episodi più gloriosi della guerra del Vespro è una delle pagine più belle nella storia dell'abnegazione femminile. Tutto si trasforma ma nulla cambia, ora e sempre. di Claudio Calabrò Taliesin, il Bardo |
IL SOGNO DELL'ETERNA GIOVINEZZA: MARIA, LA GIUDEA.
Nel mondo dei nostri antichi sapienti che credevano e basavano i loro studi esperenziali sul potere della trasformazione attraverso il fuoco con la realizzazione del grande sogno: l’immortalità e l’eterna giovinezza. E’ in questo universo antico che troviamo una delle poche, forse l’unica, donna alchimista ricordata, Maria la Giudea . Maria visse forse nel XIII secolo a.C. e fu sorella di Mosè ma più probabilmente la sua esistenza si svolse intorno al III secolo d.C. periodo in cui gli studi alchemici erano al massimo del loro fulgore. Ed ecco apparire Maria nella nostra mente… bellissima donna dai lunghi capelli rossi e dai grandi occhi verdi…. Maria in grado di incantare l’universo maschile grazie a capacità dialettiche e percezioni magiche che la rendevano in grado prevedere il futuro. Dal fuoco dei suoi esperimenti nuvole di fumo si elevavano e in essi Maria coglieva messaggi ben più sottili. Dalla logica maschile di sfruttamento lei leggeva il deprecabile egoismo e l'intenzione di sfruttare la natura per piegarla secondo una volontà utilitaristica; il sogno alchemico di trasformare il metallo in oro e tutto il tempo speso dai suoi colleghi per questo scopo era per lei svilimento del creato. Maria invece lavorava per riuscire ad entrare in sintonia con questo stesso creato e per ogni singola pianta, pietra, frutto, fiore, metallo ne coglieva la parte magica, liberandola a beneficio di tutti. Recita di Maria la famosa frase ermetica: “il risultato atteso non ci sarà se non impareremo a rendere incorporei i corpi e corporee le cose prive di corpo…” Nasce la Magia alchemica improntata sul corpo femminile che può dar vita e rendere corporea attraverso l’incarnazione l’anima umana, nasce lo strumento alchemico del “bagnomaria”. Tutti conosciamo il bagnomaria in quanto normalmente utilizzato come tecnica di cottura; (sfruttare il calore rilasciato dall’acqua in ebollizione per evitare di sottoporre l’alimento a sbalzi termici), ma non tutti sanno che il pensiero di Maria e la Sua grande invenzione si ispirarono proprio al calore dolce e tiepido di trasformazione generato all’interno dell’utero femminile che determina la crescita e lo sviluppo miracoloso del feto. Ed è a giugno in questo momento dell’anno che richiamiamo alla mente questa metodologia alchemica ben sintonizzata con l’energia del sole in cancro. Il Cancro, la grande madre, l’avvolgenza del ventre materno, il segno d’acqua che è l’acqua del liquido amniotico che protegge e dà nutrimento. Ed è in sintonia con l’essenza del mese del Cancro che penseremo ad un rito magico in onore di Maria la Giudea e di tutte le donne a cui il periodo dominato dal pianeta Luna è dedicato, integrando assieme anche il grande sogno alchemico dell’eterna giovinezza. Nel Basso Medioevo altre donne iniziate alla rinascennte alchimia, usarono il nome dimenticato ed oscuro di Maria, la Giudea per nuovi riti legati al suddetto sogno alchemico, ma, tra le incomprensioni degli Uomini, le sentenze e condanne dei Puritani, queste donne furono chiamate "semplicemente" Streghe, ma questa, come sappimo bene, è certamente un'altra storia... tratto da: www.ilcerchiodellaluna.it Taliesin, il Bardo |
In voi ritrovo sempre ....la vaglia di far conoscere la vita delle donne...quando gli uomini amavano farne dimenticare l'esistenza.........
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Madonna...ringrazio la vostra innata sensibilità che si unice alla mia estrema comprensione per l'universo femminile...ma uno dei motivi che mi ha spinto a ricercare di queste Donne e di queste mie canzoni, è che i cosiddetti Secoli Bui sono tornati prepotentemente in quest'epoca nefasta e violenta, dove certi Uomini continuano a cancellare l'esistenza stessa della Donna che in altri termini sarebbe l'unica ancora di salvezza per l'Uomo, inteso come Umanità.
Taliesin, il Bardo |
LA GIUDICHESSA DI SARDEGNA: ELEONORA D'ARBOREA. Quella che da tutti è ricordata come la “giudichessa” nacque in Catalogna intorno al 1340 da Mariano de Bas – Serra e da Timbra di Roccabertì ed ebbe due fratelli, Ugone e Beatrice. La sua vita si svolse e riguardò la Sardegna dove nel 1347 il padre Mariano venne nominato giudice dalla Corona de Logu, assemblea dei notabili, prelati e funzionari delle città e dei villaggi dell’isola.Esile nella corporatura quanto energica e vigorosa nel carattere, EleonoraD’Arborea, nobildonna sarda, portò con la storia di cui lei stessa si volle rendere protagonista, un vero e proprio cono di luce sulla capacità delle donne di essere strateghe. Prima della morte del padre, Eleonora aveva sposato Brancaleone Doria, un matrimonio dettato dall’esigenza di creare un’alleanza tra gli Arborea e i Doria da frapporre agli Aragonesi. Dal matrimonio nacquero due figli: Federico e Mariano. Nel 1382 Eleonora prestò 4000 fiorini d’oro a Nicolò Guarco, doge della Repubblica di Genova, il quale si impegnò a restituirli entro dieci anni; in caso contrario il doge avrebbe dovuto non solo pagare il doppio della somma che gli era stata prestata ma anche concedere sua figlia Bianchina al figlio di Eleonora, Federico. Il prestito di una tale ed ingente somma di denaro ad una delle più potenti famiglie di Genova e le clausole del contratto, erano già segni del disegno dinastico che la futura giudichessa aveva in mente. Inoltre, accordando quel credito, Eleonora intendeva mantenere alto il prestigio della sua famiglia, riconoscere l'importanza degli interessi liguri e assicurarsi un collegamento, mediante la rete delle loro navi, con tutti i porti del mediterraneo. In sostanza Eleonora D’Arborea con questo passo entrò alla pari nel gioco della politica europea. Quando il fratello Ugone III, che era a capo del giudicato, si ammalò si profilò il problema della successione ed Eleonora si rivolse al re d’Aragona perché sostenesse suo figlio piuttosto che il visconte di Barbona, vedovo di sua sorella Beatrice. A trattare con il re inviò il marito Brancaleone, il quale però venne trattenuto dal re che ne fece un ostaggio e uno strumento di pressione contro Eleonora. Il disegno di Eleonora, che gli spagnoli avevano intuito, era quello di riunire nelle mani del figlio due terzi della Sardegna che Ugone aveva occupato. Così il re non ritenendo opportuno avere una famiglia tanto potente nel suo regno, tanto più che non essendoci erede diretto maschio di Ugone quei possedimenti, secondo la "iuxta morem italicum", avrebbero dovuto essere incamerati dal fisco, trattenne Brancaleone col pretesto di farlo rientrare in Sardegna non appena una flotta fosse stata pronta. Ma la risposta di Eleonora non si fece attendere. La donna punì i congiurati e si proclamò giudichessa di Arborea secondo l'antico diritto regio sardo, per cui le donne possono succedere sul trono al loro padre o al loro fratello. Nella prassi e negli orientamenti di governo la giudichessa si riallacciò direttamente all'esperienza del padre abbandonando definitivamente la politica antiautoritaria del fratello Ugone III. Punti nevralgici della suo governo furono la difesa della sovranità e dei confini territoriali del giudicato e, infine, l'opera di riordino e di sistemazione definitiva degli ordinamenti e degli istituti giuridici locali che diede vita alla Carta de Logu. La Carta de Logu fu il fiore all’occhiello della politica di Eleonora d’Arborea e fu definita come un distillato di modernità e saggezza. Nel reagire ai tentativi di infeudazione aragonese, Eleonora emanò, infatti, una nuova disciplina giuridica nei propri territori, i quali erano in uno stato di perenne agitazione politica. Tale legislazione non era episodica o sporadica ma era la componente di una più vasta politica intesa allo sviluppo dello stato degli Arborea. Tra le norme più importanti sono da citare quelle che salvavano dalla confisca “i beni della moglie e dei figli, incolpevoli, del traditore” , i quali secondo quanto disposto dal parlamento aragonese del 1355, diventavano servi del signore della terra. Inoltre la giudichessa inserì anche una norma che permetteva il matrimonio riparatore alla violenza carnale subita da una nubile solo qualora la giovane fosse stata consenziente. Altri esempi della portata innovativa della carta sono la contemplazione del reato di omissione di atti d'ufficio, la parità del trattamento dello straniero a condizione di reciprocità, ed il controllo, attraverso "boni homines" delle successioni"ab intestatio" in presenza di minori. Dopo essere riuscita a completare il progetto del padre di riunire quasi tutta l'isola sotto il suo scettro di giudichessa reggente, tenendo in scacco e ricacciando ai margini dell'Isola, in alcune fortezze sulla costa, gli aragonesi, Eleonora vide crollare il suo progetto per un’imprevedibile incognita della sorte: la peste, che consegnò, senza combattere, la Sardegna agli Aragonesi. tratto da: "Una Donna stratega a capo della Sardegna" di Tiziana Bagnato. Taliesin, il Bardo |
E come sempre amato Bardo...avete aggiunto il nome di altra Donna.....e lo avete dedicato ad una popolazione che sta soffrendo......la vita e' una strana cosa.....si piange sulla morte ma con le mani vuote si ricostruisce una nuova vita..........
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Madonna Elisabetta...
La Vostra Perla di Speranza e di Saggeza ha solcano i confini degli uomini, ormeggiando nel mare delle solituidni e degli abissi ignoti, posandosi sulle coscenze e sui cuori di ogni spazio temporale... Grazie per esserci stata, là, dove osano in pochi, per sempre...sempre. Taliesin, il Bardo |
LA MADRE DEL SUFISMO: RABI'A AL-'ADAWIYYA AL -'QAYSIYYA.
ابعة العدوية القيسية, Quarta figlia di una famiglia molto povera (da cui il suo nome proprio, che significa "quarta"), secondo alcuni sarebbe stata una suonatrice di flauto (nay), quindi dai più bigotti considerata una peccatrice. Il poeta medievale Attar scrisse nel XIII secolo le Storie e detti di Rabi‘a, sottolineando la sua autorità tra i mistici e la sua santità. Nonostante ciò, quanto sappiamo di lei è semplice leggenda, quindi per lo più inattendibile, ma che dà comunque un’idea della sua personalità e della stima di cui godeva. Secondo ʿAṭṭārʿ la sua vita fu segnata fin dall’inizio da eventi miracolosi La notte della sua nascita non c’era una lampada in casa, né fasce in cui avvolgere la neonata. La madre chiese al marito di andare a chiedere petrolio per la lampada al loro vicino, ma egli aveva promesso a se stesso che non avrebbe mai chiesto aiuto a nessuno, quindi tornò a mani vuote. Si addormentò turbato per non aver provveduto alla figlia. Il profeta Muhammad gli apparve in sogno e gli disse: «Non dispiacerti poiché questa figlia appena nata è una grande santa, la cui intercessione sarà desiderata da settantamila persone della mia Umma». Aggiunse poi di mandare una lettera ad ʿĪsā Zadhan, emiro di Basra, «ricordagli che ogni notte è solito dedicarmi cento preghiere e quattrocento il venerdì, ma questo venerdì mi ha negletto e come penitenza dovrà darti quattrocento dinar». Il padre di Rābiʿa si svegliò in lacrime e subito scrisse e mandò la lettera all’emiro, che dopo averla letta ordinò di dare quattrocento dīnār al povero padre e volle incontrarlo. Divenne presto orfana, e la carestia costrinse le sue sorelle a separarsi. Mentre se ne andava errando senza meta, fu catturata da un mercante di schiavi che la vendette per poche monete (sei dirham) a un ricco signore che le impose lavori pesanti. Digiunava per tutto il giorno, dedicando la notte alla preghiera. La sua devozione per Dio era fortissima. Il suo padrone percepì la sua illuminazione vedendola pregare una notte, avvolta di luce. Trasalì vedendo quella luce meravigliosa e restò a pensare tutta la notte. La mattina dopo decise di liberarla affinché perseguisse il suo percorso spirituale. Rābiʿa allora si diresse nel profondo deserto dove iniziò la sua vita solitaria e ascetica. La sua scelta dell’Assoluto era così totale da implicare perfino la verginità (cosa malvista dall’Islam). Rimase nubile nonostante le svariate richieste di matrimonio (tra cui quella di Muḥammad b. Sulaymān al-Hāshimī, emiro di Baṣra). Rābiʿa era già spiritualmente "sposata" con Dio, e a chi le chiedeva il motivo di tale celibato rispondeva: «Non ne ho il tempo». Dovendosi occupare della purezza della sua fede, delle opere da presentare a Dio, e della sua salvezza nel giorno della risurrezione, il matrimonio l’avrebbe semplicemente distratta da Dio. Fu un simbolo di purezza ed ascetismo. Visse e portò alle estreme conseguenze l’esigenza di radicalità propria del Corano. Scelse volontariamente la povertà e l’abbracciò con fervore per tutta la vita. Si vergognava di chiedere qualcosa dei beni di questo mondo perché «questi non appartengono a nessuno, chi li ha in mano li ha soltanto in prestito». Confidava unicamente in Dio per il proprio sostentamento. Visse come reclusa, ma dalla sua misera capanna si diffuse dovunque il suo insegnamento. I sapienti del suo tempo si consideravano privilegiati di parlare con lei dei misteri di Dio. Nel suo rifugio si dedicò inoltre ad opere pietistiche. ʿAṭṭār racconta che una notte al-Hasan al-Basn e alcuni suoi compagni andarono da Rābiʿa. Non essendoci lampade, Rābiʿa si mise in bocca la punta delle dita e quando le trasse fuori queste irraggiarono luce fino all’alba. Si dice che pregasse migliaia di volte al giorno e che dormisse pochissimo. «Pregava tutta la notte, e quando cominciava ad albeggiare faceva un breve sonno sul suo tappeto per la preghiera fino al sorgere dell’aurora». Non ebbe alcun maestro spirituale, rivolgendosi direttamente a Dio. Rinunciò a tutti i beni del mondo e a qualunque desiderio, dedicando la sua intera vita alla devozione per Dio, al Suo servizio, alla Sua contemplazione e all’estasi: «Strappai dal mio cuore ogni attaccamento alle cose del mondo e distolsi il mio sguardo da ogni realtà mondana». Affermava che perfino i desideri più puri fossero distrazione ed ostacolo, perché «Dio solo dev’essere cercato, e tutto ciò che non è Dio è mondo, è idolo e vano… L’amore per il creatore mi ha distolto dall’amore per le creature… La continenza nelle cose del mondo è riposo del corpo, il desiderarle procura afflizione e tristezza… L’Inviato di Dio ha detto che chi ama una cosa la ricorda di continuo, il ricordare il mondo mostra la vanità dei cuori. Se foste immersi in Chi è altro da esso non lo ricordereste». Considerava perfino la redazione dei libri di hadith come "cosa del mondo", e vanità la Ka'ba: “La Casa è un idolo adorato sulla terra, è pietra». Anche l’amore per Maometto era da lei considerato una distrazione: «L’amore di Dio ha riempito il mio cuore a tal punto che non c’è restato posto per amare o detestare un altro»... «Il paradiso stesso non è nulla rispetto a Colui che lo abita… Il vicino prima della casa» (detto divenuto comune tra gli Arabi). Disse: «Io custodisco il cuore perché non permetto che esca nulla di ciò che è dentro di me né che entri nulla di ciò che è fuori». Le sue preghiere non erano finalizzate all’intercessione ma alla comunione con l’ Amato, la Sua visione e la Sua conoscenza. Bramava l’incontro con Dio, l’unico desiderio e l’unica pena che le rimaneva e che l'assillava e la faceva disperare. Si dice che gemesse di continuo perché affetta da una malattia la cui unica medicina era la Sua visione. «Ciò che mi aiuta a sopportare questa malattia è la speranza di realizzare i miei desideri nell’aldilà». Affermava che Dio non dovesse essere adorato per timore di essere puniti o nella speranza di ottenere un riconoscimento ma per un amore fine a sé stesso. «Per la potenza tua, io non ti ho servito desiderando il tuo paradiso. Non è questo il fine a cui ho rivolto tutta la mia vita». Avrebbe voluto andare "in cielo, per gettare il fuoco nel paradiso e versare l’acqua nell’inferno", in modo che lo sguardo potesse rivolgersi soltanto a Dio "senza speranza né timore". Diceva che il pentimento poteva esserci solo se Dio concedeva prima il perdono "Tu ti pentirai se Dio ti perdona". La sua preoccupazione perenne era di conformarsi alla volontà di Dio in tutto ciò che capita, attraverso un totale annientamento di sé stessa. «Sono del mio Signore e vivo all’ombra dei suoi comandi. La mia persona non ha alcun valore». Si dice iperbolicamente restasse quarant’anni senza alzare la testa tanto si vergognava di fronte a Dio. Le fu chiesto "Donde sei venuta?" |Dall’altro mondo". "E dove sei diretta?" "All’altro mondo". "E cosa fai in questo mondo?" "Me ne prendo gioco. Mangio del suo pane e compio l’opera dell’altro mondo". Morì ad ottant’anni. La sua morte fu semplicissima. Una tradizione riferisce che fu sepolta a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, luogo privilegiato di sepoltura per i pii musulmani, e che la sua tomba divenne meta di devoti pellegrinaggi. Taliesin, il Bardo tratto da: wikipedia, l'enciclopedia del sapere. |
Questa storia mi ha veramente affascinata...una grande donna di luce..un grande insegnamento..del distaccamento delle cose materiale e superflue, cosa assai difficile di cui solo una donna altamente miracolata come lei è forse riuscita a fare.
Grazie sir Taliesin... |
Grazie per la vostra luce che si è fatta emozione lady Aldea...
Taliesin, il Bardo |
Il Sufismo e' opera altamente spirituale.....se si guarda danzare un sufi egli lo fa, con un braccio rivolto verso l'alto e l'altro verso il basso...per indicare il cielo la terra l'unità delle cose.......Un'altra donna.......di cui ho preso consapevolezza....
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Madonna Elisabetta...
la vostra consapevolezza è insita in voi dal giorno della creazione, e se questa Donna, nella sua danza, ha risvegliato in voi ricordi ancestrali, è solo perchè appartenete a quel tipo di creato. Il resto, come sempre, è solo silenzio Grazie... Taliesin, il Bardo |
UNA GRECA SUPERBA: ANNA COMNEA.
Nata a Costantinopoli il 2 dicembre 1083 dall’imperatore Alessio I Comneno e Irene Ducaena, Anna, oltre che per la vivace intelligenza e la ponderosa preparazione culturale, si segnalò anche per il carattere ambizioso e incline all’intrigo che la portò a vivere giorni tempestosi quando, alla morte del padre cercò di impedire l’ascesa al trono dell’odiato fratello Giovanni. La piccola Anna, infatti, poco dopo la nascita, era stata promessa sposa a Costantino Ducas, adottato da Alessio e proclamato co-imperatore e suo diretto successore, poiché la coppia reale non aveva alcun figlio maschio. Con la nascita di Giovanni II Comneo (1087), non fu più necessario far continuare il prematuro fidanzamento di Anna e Costantino, che venne sciolto. Alessio I aveva ora il suo legittimo erede, e Anna aveva soltanto potuto assaporare quella posizione di potere, che vagheggerà per tutta la vita. All’indomani della morte del padre Anna iniziò a ordine trame oscure alle spalle del fratello, appoggiata dalla madre, e trascinò nella congiura il marito Niceforo Briennio. Pur di arrivare al trono, era disposta a uccidere Giovanni. Aveva sete di potere, Anna. Le cose non andarono però come aveva sperato. Il marito, stratega e uomo di grande cultura, non osò uccidere il cognato. Così Giovanni, venne eletto imperatore il 15 agosto 1118. Egli decise di non punire la sorella cospiratrice: Anna fu spedita in un convento. Nonostante questo il matrimonio con Niceforo fu felice e dalla loro unione nacquero quattro figli. Alla morte di Niceforo, Anna si assunse l’incarico di colmare la lacuna lasciata dal consorte: stava infatti lavorando all’opera “Materiali per una storia”, dedicata al suocero Alessio, quando la morte lo colse nel 1137. Dopo la morte del marito Anna si dedicò sempre più intensamente all’Alessiade, che con i suoi toni epici e con la sua monumentalità è una delle opere più pregevoli della letteratura bizantina. In quindici libri, narra della vita e del regno di Alessio I Comneno. Si può ben dire che Anna eresse con mano maestra un monumento perenne al padre. L’opera termina nel 1148 con la morte della principessa Comnena. Sono molti i motivi per i quali vale la pena sottolineare il posto di rilievo assunto dall’Alessiade. Ci offre preziose informazioni sul regno di Alessio I (1081-1118). Dall’infanzia prodigio del futuro imperatore, alle imprese militari nelle quali si cimentò, alla fermezza e determinazione con la quale riuscì a sconfiggere l’eresia dei Bogomili. È sbagliato considerare quest’opera solo come un elogio tra retorico e patetico dell’imperatore. È indubbio il valore dello sguardo che Anna ci consente di rivolgere al mondo bizantino del suo tempo. Era infatti un personaggio di rilievo a corte, e disponeva di testimonianze e documenti originali, in qualsiasi momento. Nonostante ciò, bisogna tenere presente come talvolta Anna manchi di l’obiettività, celando avvenimenti che metterebbero in cattiva luce il padre. Ma che sia una delle fonti storiche più preziose dell’epoca è una certezza, fatto proclamato all’uninsono dagli storici moderni. Per esempio per le vicende inerenti alla Prima Crociata, di cui ci offre il punto di vista bizantino. Quest’opera è poi uno specchio per poter comprendere la profonda formazione culturale della principessa cresciuta tra il mondo greco di Omero, Eschilo e Euripide e quello latino di Achille Tazio che tanto la influenzò nel tratteggiare il carattere dei protagonisti della sua Alessiade. Non dimentica mai, Anna, di sottolineare la vastità della sua erudizione, tendendo così talvolta alla vanagloria. Ma era parte di quel carattere passionale che emerse anche per il costante e sincero attaccamento alla coppia reale, lodata sovente, addirittura per il bell’aspetto. “Straordinario, davvero incomparabile, era l’aspetto fisico della coppia imperiale, Alessio e Irene. Nessun pittore potrebbe riprodurre questo modello di assoluta bellezza, nessuno scultore riuscirebbe a infondere tanta armonia alla nuda pietra.” (Alessiade III, 3, 1-4) E continua Anna narrando come mai mancò di rispetto ai genitori. Ci dice che il padre Alessio I era impegnato in una spedizione, quando Irene capì che era giunto il momento di mettere alla luce Anna. Ma la donna pregò la nascitura affinché attendesse il ritorno del padre per venire al mondo. Anna ci spiega che ascoltò l’ordine materno dimostrando chiaramente, fin da quando era nel seno materno, il docile affetto che in seguito avrebbe nutrito per i genitori. Questa era veramente Anna: una tempesta di sentimenti contrastanti e ambizioni spregiudicate, una donna dall’alterigia schiacciante. Una smania di potere indice di forza e sicurezza interiore da un lato, e di fragilità estrema dall’altro. Anna era un “greca superba”, “avida”, che non vedeva niente al di fuori della propria opera: questo il filo rosso dal quale Kavafis si sentì legato alla principessa comnena. tratto da:www.instoria.it «Nel preambolo all’Alessiade, Anna Comnena lamenta la sua vedovanza. L’anima ha le vertigini. “Da fiumi Di lacrime” essa ci dice “gli occhi sono sommersi… Ah, che tempeste” in vita, “ah, che sommosse!” La bruciante pena “al midollo” la strugge, “fino a spezzarmi l’anima”. La verità è un po’ diversa, pare che un solo acerbo dolore conobbe questa donna avida, una sola pena profonda ebbe (benché ce lo nasconda) questa greca superba, di non aver saputo, lei così capace, mettere le mani sulla corona-che le soffiò, per così dire, quell’insolente di Giovanni.» Così, in una delle sue poesie, il poeta e giornalista alessandrino Constantinos Kavafis (1863-1933), ci descrive Anna Comnena Taliesin, il Bardo |
IL RICAMO DI DIO: MARIA DI GIRONA.
Alcune artiste ricamatrici vollero lasciare il loro nome alla storia. In Catalogna si sono conservate due memorabili opere ricamate firmate da donne: la cosiddetta “Stola di San Narciso”, tessuta e ricamata da Maria, e “L’insegna o stendardo di San Ottone”, di Elisava. E' sembrata molto suggestiva l’ipotesi di identificazione della ricamatrice Maria con la badessa María di Santa Maria de les Puelles di Girona. Dell’antico monastero abbiamo ben poca informazione, ma i pochi riferimenti sono estremamente interessanti. Sappiamo che la viscontessa di Narbona, Riquilda, figlia dei conti di Barcellona Wifredo II e Garsenda, nel suo testamento, lasciava parte dei beni perché il vescovo di Girona costruisse entro due anni un monastero davanti alla città, in onore di Santa Maria, anche se non specificava che fosse di monache. Il conte Borrell II, suo cugino primo, nel testamento faceva donazione di alcuni beni allodiali (cioè senza vincoli feudali) alla casa di Santa Maria de les Puelles di Girona, che nel 992 aveva una comunità femminile. Degli avvenimenti di questo monastero restano poche tracce documentali, cosicché queste donne sarebbero quasi perdute per la storia; ma una lapide sepolcrale, datata alla fine del X secolo, ci permette di identificare una religiosa che voleva essere ricordata, come se lei e le sue compagne temessero che il silenzio si portasse via per sempre il suo ricordo. Sul sepolcro si parla di ricordo e di memoria: “Maria di venerabile ricordo, che si è impegnata ogni giorno della sua vita in sante opere e nei comandamenti; perseverante, assolutamente, nelle elemosine, molto devota alle memorie e orazioni dei santi, conservando con cura estrema la regola del monastero, rimane nella verginità di Dio.” Maria voleva lasciare traccia e lo fece nel modo che conosceva. Nella parrocchia di Sant Feliu di Girona si conserva una stola magnificamente tessuta e ricamata, conosciuta come “la stola di San Narciso”, sulla quale appaiono delle parole che identificano Maria come l’autrice del lavoro. Sono state fatte diverse ipotesi sulla datazione del ricamo e del tessuto della stola. Noi abbiamo trovato estremamente interessante quella pubblicata da Mundò, che identifica l’artista del telaio e del ricamo con la badessa Maria citata nella lapide sepolcrale, cioè con un’artista della fine del X secolo. Con la stola Maria realizzerebbe il desiderio di essere ricordata firmando il lavoro, e darebbe validità a ciò che si dice nell’epitaffio: “impegnata in sante opere e nella devozione alla memoria dei santi”. Cosicché la stola fu prodotta da Maria forse per il nuovo sepolcro di Sant Feliu, costruito all’epoca del vescovo Miró Bonfill, morto nel 984, o per quello di San Narciso, con cui popolarmente si identifica la stola. Il lavoro della monaca artista non è solo di grande bellezza, ma mostra anche una notevole erudizione. Tra le frasi che si possono leggere nel tessuto c’è un frammento appartenente alle “Laudi” che si cantavano all’incoronazione dei re carolingi. Inoltre contiene la benedizione episcopale che si dava alla fine della messa. Comunque vorremmo mettere in evidenza una delle frasi del tessuto che orla la stola: “[Ricorda,] amico, Maria mi fece, chi porterà questa stola su di sé, interceda per me affiché Dio mi aiuti”. Benché la parola “sappi” o “ricorda” risulti lacunosa nel tessuto, possiamo permetterci di interpretarla in questo modo; Maria voleva essere ricordata, era consapevole di aver fatto un lavoro elaborato e bello. Sarebbe anche da commentare la parola “amice”, l’espressione del sentimento dell’amicizia usata al vocativo, che ci sembra tanto grafico, con cui questa donna del X secolo si rivolgeva affettuosamente a chi avrebbe portato la stola, e a noi che più di mille anni dopo la contempliamo. Quando nel 1018 la contessa Ermesenda fondò Sant Daniel di Girona non sembra restasse traccia dell’antico monastero femminile di Santa Maria; è come se la preoccupazione di Maria di non essere dimenticata avesse un fondamento, come se lei sapesse che la sua comunità aveva i giorni contati. A parte le lettere che adornano, su tessuto rosso, il contorno della stola, in mezzo e alle due estremità figurano dei magnifici ricami a colori forti e caldi, alcuni fatti in filo d’oro. A una delle estremità c’era un san Lorenzo, molto malconcio, nell’altra il battesimo di Cristo, e in mezzo c’è quello che consideriamo il più bel ricamo, con l’immagine della Madre di Dio con il vestito dorato e con il lemma “Santa Maria ora pro nobis”. tratto da:www.ub.edu.it Taliesin, il Bardo |
LO STENDARDO DI DIO: ELISEVA DA BARCELLONA.
Il ricamo di Maria non è l’unica opera d’arte firmata da una donna. Eliseva firmò il cosiddetto stendardo di San Ottone, che, proveniente dalla Cattedrale di Urgell, si conserva presso il Museo dell’abbigliamento di Barcellona. Qualche storico dell’arte considera Elisava una committente dell’opera, noi non condividiamo questa teoria, pensiamo che la recisa affermazione “Elisava me fecit” abbia a che vedere con il lavoro reale, non solo con il pagare o patrocinare l’opera. Lo stendardo ricamato, in toni rossicci e dorati, di seta su un tessuto di lino, conservato presso il Museo dell’abbigliamento di Barcellona, potremmo datarlo intorno al XII secolo. L’opera è incentrata sulla figura del Salvatore dentro la mandorla mistica avvolta nei simboli degli evangelisti e ornata da un bordo di motivi vegetali. Dallo stendardo pendono tre strisce della medesima stoffa, anch’esse ricamate con figure oranti od offerenti, che sono evidenti figure femminili, cosa che ha fatto pensare a qualcuno che la figura centrale potrebbe rappresentare Elisava, committente del ricamo; ma è solo un’ipotesi, che non condividiamo. Per noi Elisava è la ricamatrice; in ogni caso, se l’esperta e delicata ricamatrice non fosse questa donna di cui conosciamo solo il nome ma non il lignaggio, sarebbe un’altra donna, più anonima, ad aver realizzato il magnifico lavoro. Comunque sia, l’unità e la bellezza dell’opera ci fanno pensare a una grande compenetrazione tra chi la ordinò e chi la realizzò. Potrebbe essere stata Elisava l’artista e la committente allo stesso tempo? Un’altra ipotesi: se identifichiamo il destinatario dello stendardo in San Ottone vescovo di Urgell, figlio di Lucía de la Marca e del conte Artau I de Pallars Sobirà, morto nel 1122, possiamo dire che proprio l’immagine offerente che figura in mezzo allo stendardo ci ricorda il dipinto in cui appare Lucia, madre di sant’Ottone, che offre il murale del monastero di Sant Pere del Brugal. tratto da:www.ud.ebu.it Taliesin, il Bardo |
L'AMORE OLTRE L'AMORE: KASSIA DA COSTANTINOPOLI.
Nata probabilmente attorno all'anno 810 a Costantinopoli da una famiglia aristocratica greco-bizantina, è stata una delle prime compositrici medioevali di cui ci siano pervenute un numero notevole di opere, tanto che i musicologi ed i musicisti hanno avuto modo di poter studiare le sue composizioni. Il complesso della sua opera è costituito da circa cinquanta inni, di cui ventitré fanno parte della liturgia della chiesa ortodossa. Il numero esatto dei suoi lavori è comunque imprecisato visto che diversi inni vengono ascritti a diversi autori, in manoscritti diversi, e sono spesso identificati come anonimi. Oltre agli inni, ci sono pervenuti 261 versi di carattere profano, molti dei quali sono degli eppigrammi e degli aforismi chiamati versi gnomici. Indichiamo di seguito un esempio: "Odio l'uomo ricco che si lamenta come se fosse povero."Tre cronisti bizantini dell'epoca, Simeone il logotete, Giorgio il monaco (anche detto Giorgio il peccatore) e Leo il grammatico, sostengono che ella partecipò ad un ricevimento in cui l'imperatore Teofilo di Bisanzio avrebbe dovuto scegliere la sua sposa, consegnando alla prescelta, come d'uso, una mela d'oro. Affascinato dalla bellezza di Kassia, il giovane imperatore l'avvicinò e le disse: "Attraverso una donna si distillano le passioni più vili (riferendosi al peccato originale di Eva)". Kassia gli rispose dicendogli: "Ma attraverso una donna giungono le cose migliori (riferendosi alla nascita di Gesù)." Per orgoglio Teofilo scelse un'altra sposa, Teodora. Dopo questo episodio, ella fondò un monastero ad ovest di Costantinopoli di cui divenne la badessa. Nonostante molti studiosi attribuiscono questo suo comportamento all'amarezza per il mancato matrimonio con l'imperatore, una lettera di Teodoro Studita indica che ella aveva altre motivazioni per scegliere una vita monastica. Queste erano in stretta relazione con il vicino Monatero di Studion che giocò un ruolo centrale nella riedizione della liturgia bizantina fra il IX e il X secolo. Questa situazione ha contribuito a che le opere di Kassia siano giunte intatte sino ai nostri giorni. Ella scrisse molti inni per la liturgia cristiana, il più famoso dei quali è Inno di Kassiani che viene cantato il martedì santo. La tradizione dice che l'imperatore Teofilo, che era innamorato di Kassia, chiese di vederla ancora una volta prima di morire. Si recò pertanto al monastero di Kassia. Ella stava scrivendo il suo Inno quando udì che l'imperatore voleva vederla. Ella era ancora innamorata di Teofilo ma ormai aveva dedicato la sua vita a Dio e scacciò dalla sua mente questo pensiero per evitare che lo stesso potesse sovrastare il suo sentimento religioso. Lasciò così il suo inno incompiuto sul tavolo e si nascose dietro una porta. Teofilo entrò da solo nella cella ma non trovò Kassia. La cercò nella cella ma lei non era lì; nascosta lo guardava. Teofilo era molto triste, pianse e rimpianse di aver, in un moto di orgoglio, respinto una si bella ed intellettuale donna. Poi notò l'inno incompiuto giacente sul tavolo e lo lesse. Quando lo ebbe letto si sedette al tavolo e terminò l'inno che Kassia aveva lasciato incompleto. La leggenda dice che mentre stava per andar via intravide Kassia ma non le parlò. Ella entrò nella stanza dopo che Teofilo era andato via, lesse quanto egli aveva scritto e pianse accoratamente. Taliesin, il Bardo tratto da:www.wikipedia.it |
Una storia bellissima....e in Amore l'orgoglio non paga mai....L'Imperatore ha pagato a caro prezzo il suo conto.....rendendo infelice un'altro essere umano...
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UNA VITTIMA DIMENTICATA : IPAZIA DA ALESSANDRIA.
Un giorno per le strade di Alessandria d'Egitto, nel corso dell'anno 415 o 416, una folla di fanatici cristiani guidati da Pietro il Lettore ha catturato una donna, l'ha trascinata in una chiesa, dove è stata spogliata e picchiata a morte con delle tegole. Hanno poi fatto a pezzi il suo corpo e l'hanno bruciato. Chi era questa donna e qual'era il suo crimine? Ipazia è stata, nell'antica Alessandria, una delle prime donne a studiare e insegnare la matematica, l'astronomia e la filosofia. Anche se viene ricordata più per la sua morte violenta, la sua vita drammatica è un obiettivo affascinante attraverso cui si può visualizzare la situazione della scienza in un'epoca di conflitti religiosi e settari. Fondata da Alessandro Magno nel 331 a.C., la città di Alessandria crebbe rapidamente e fu un centro di cultura per tutto il mondo antico. Il suo cuore è stata la biblioteca- museo, una sorta di università, che conservava più di mezzo milione di rotoli e manoscritti racchiusi diligentemente nei loro astucci. Alessandria ha subito un lento declino a partire dal 48 a.C., quando Giulio Cesare conquistò la città e, accidentalmente, bruciò la biblioteca che fu ricostruita. Nel 364, a seguito della scissione dell'Impero Romano, Alessandria divenne parte della metà orientale e fu luogo di combattimenti tra cristiani, ebrei e pagani. Ulteriori guerre civili hanno distrutto gran parte del contenuto della biblioteca. Gli ultimi resti devono la loro scomparsa probabilmente, insieme con il Museo, nel 391, quando l'arcivescovo Teofilo contribuì, agendo su ordine dell'imperatore romano, alla distruzione di tutti i templi pagani. Teofilo buttato giù il tempio di Serapide costruì sul luogo una chiesa. L'ultimo membro conosciuto del museo è stato il matematico e astronomo Teone padre di Ipazia. Alcuni scritti di Teone sono stati salvati; Il suo commento (una copia di un'opera classica che incorpora note esplicative) su Elementi di Euclide era l'unica versione conosciuta di quel lavoro sulla geometria cardinale fino al 19° secolo. Ma poco si conosce della sua vita e di quella di sua figlia. Anche la data di nascita di Ipazia è controversa; gli studiosi hanno a lungo sostenuto che era nata nel 370, ma gli storici moderni credono che il 350 possa essere l'anno di nascita più probabile. L'identità della madre è un mistero e Ipazia può aver avuto un fratello, Epifanio, anche se può essere stato solo l'allievo prediletto di Teone. Teone ha insegnato matematica e astronomia a sua figlia, e ha collaborato in alcuni dei suoi commenti. Si pensa che il libro III della versione di Teone di Tolomeo, Almagesto, Il trattato che ha istituito il modello Terra-centrico per l'universo che non sarebbe capovolto fino ai tempi di Copernico e Galileo, era in realtà il lavoro di Ipazia. Lei è stata una matematica e astronoma ed insegnava tali materie. Lettere di uno dei suoi studenti, Sinesio, indicano che queste lezioni includevano anche come progettare un astrolabio, una sorta di calcolatrice portatile astronomica che sarebbe stato utilizzato fino al diciannovesimo secolo. Oltre le materie di competenza di suo padre, Ipazia s'è affermata come un filosofo in quella che oggi è conosciuta come la scuola neoplatonica, un sistema di credenze in cui tutto ciò che emana proviene dall'Uno. (Sinesio, il suo studente, sarebbe diventato un vescovo nella chiesa cristiana integrando i principi neoplatonici nella dottrina della Trinità.) Le sue conferenze, aperte al pubblico, sono state popolari e attiravano le folle. Il filosofo Damascio ha scritto di lei: "La donna era solita indossare il mantello del filosofo ed andare nel centro della città. Commentava pubblicamente Platone, Aristotele, o i lavori di qualche altro filosofo per tutti coloro che desiderassero ascoltarla. Oltre alla sua esperienza nell'insegnare riuscì a elevarsi al vertice della virtù civica." Ipazia non si sposò mai e probabilmente conduceva una vita da celibe, che forse è stata in linea con le idee di Platone, relativa alla soppressione del sistema familiare. Il lessico Susa, un'enciclopedia del X secolo del mondo mediterraneo, la descrive come "molto belle e di forma. . . nel discorso articolato e logico, le sue azioni prudenti ". Tra i suoi ammiratori vi era anche Oreste, il governatore di Alessandria. A Teofilo, l'arcivescovo che ha distrutto l'ultima grande biblioteca di Alessandria, nel 412 era succeduto il nipote, Cirillo, che ha continuato la tradizione di suo zio: ostilità verso altre fedi. (Uno dei suoi primi atti fu quello di chiudere e saccheggiare le chiese appartenenti alla setta di Novaziano cristiana.) Tra Cirillo, il capo del principale gruppo religioso della città, e Oreste, responsabile del governo civile, iniziò una lotta su chi doveva controllare Alessandria. Oreste era un cristiano, ma lui non voleva cedere il potere alla chiesa. La lotta per il potere ha raggiunto il suo picco a seguito di un massacro di cristiani da parte di estremisti ebrei, quando Cirillo ha portato una folla che tutti gli ebrei espulsi dalla città e saccheggiato le loro case e templi. Oreste ha protestato con il governo romano a Costantinopoli. Quando Oreste e Cirillo hanno rifiutato i tentativi di riconciliazione, i monaci di Cirillo hanno cercato senza successo di assassinarlo. In questo clima, maturò l'omicidio di Ipazia, poiché, riferisce lo storico della Chiesa Socrate Scolastico, «s'incontrava alquanto di frequente con Oreste, l'invidia mise in giro una calunnia su di lei presso il popolo della chiesa, e cioè che fosse lei a non permettere che Oreste si riconciliasse con il vescovo». Ipazia, era un obiettivo più facile. Era una pagana che aveva pubblicamente parlato di una non-filosofia cristiana, il neoplatonismo, ed aveva meno probabilità di essere protetta dalle guardie di Oreste. Il ruolo di Cirillo nella morte di Ipazia non è mai stato chiaro. Ipazia è diventata un simbolo per le femministe, una martire per i pagani e gli atei. Voltaire ha usato la sua morte come spunto per condannare la Chiesa e la religione.Né il paganesimo, né lo studio scientifico sono morti ad Alessandria con Ipazia, ma certamente hanno subito un brutto colpo. "Quasi da sola, praticamente l'ultima accademica, si affermò per i valori intellettuali, per la matematica rigorosa, il neoplatonismo ascetico, il ruolo cruciale della mente, la voce della temperanza e la moderazione nella vita civile", ha scritto Deakin. Vittima del fanatismo religioso, Ipazia rimane una fonte d'ispirazione anche in tempi moderni. Taliesin, il bardo |
Amato Bardo.......Ipazia e' una Danna di scienza......che e' spesso citata nel mondo femminile.......crudele la sua morte per mano dell'ignoranza....
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IL TESORO DI BOLSENA: AMALASUNTA DA RAVENNA
Amalasunta, in gotico Amalaswintha, nacque a Ravenna, tra il 495 e il 500, da Teodorico e dalla franca Audofleda o Audefleda, figlia del re Clodoveo I. Alla morte del re Teodorico, nel 526, il figlio di Amalasunta, Atalarico, succedette al trono del regno ostrogoto in Italia, con a fianco la madre come reggente. Amalasunta viene descritta da Procopio e Cassiodoro, suo magister officiorum, come una donna colta e raffinata, profonda conoscitrice della cultura romana e delle lingue latina e greca. Seguendo la politica di pace di suo padre Teodorico, perseguì buoni rapporti tra Goti, Romani e Bizantini, restituendo i beni già confiscati ai figli di Boezio e di Simmaco, e favorendo la nomina di elementi moderati alle maggiori cariche dello Stato. Sorsero tuttavia conflitti con una parte della nobiltà ostrogota, che riuscì a sottrarle la cura dell'educazione del figlio, allo scopo di farne un futuro re che potesse governare secondo le tradizioni degli antenati. Alla morte del figlio, avvenuta il 2 ottobre 534, Amalasunta divenne regina a tutti gli effetti, associando al trono il cugino Teodato, influente duca di Tuscia, con l'intento di rafforzare la propria posizione. Negli auspici di Amalasunta, Teodato avrebbe dovuto essere un elemento di equilibrio tra gli elementi intransigenti goti sul fronte interno e l'Impero d'Oriente sul fronte esterno. Avvenne invece che Teodato, forse con l’appoggio dell’imperatore Giustiniano, imprigionò la regina sull'isola Martana, nel lago di Bolsena, dove nel giugno 535 Amalasunta venne trovata strangolata. L'assassinio di Amalasunta diede il pretesto all’imperatore Giustiniano di intervenire in Italia ed ebbe così inizio la lunga guerra greco-gotica. Miti e leggende vivono ancora oggi su Amalasunta e sulla sua tragica fine: dal suo tesoro mai ritrovato, alla storia con il pescatore Martano, “Tomao”, che nottetempo andava a trovarla portandogli cibo ed amore. tratta da una storia informale del Lago di Bolsena Taliesin, il Bardo |
LA CORTIGIANA DELLA POESIA: VERONICA FRANCO.
«Io sono tanta vaga, e con tanto mio diletto converso con coloro che sanno per avere occasione ancora d’imparare, che, se la mia fortuna il comportasse, io farei tutta la mia vita e spenderei tutto ‘l mio tempo dolcemente nell’academie degli uomini virtuosi…». (Lettere familiari a diversi, Venezia, 1580) Poetessa, sì. Ma prima di tutto cortigiana. Veronica Franco viene quindi estromessa dalla storia ufficiale. Eppure a Venezia, nel 1509, secondo i Diarii del cronista dell’epoca Marin Sanudo, c’erano 11.654 prostitute su una popolazione di circa 150mila persone. Il 10% circa della popolazione. Anche a Roma, nella città dei Papi, erano circa il 10%: 6.800 nel 1490 e 4.900 nel 1526. Le prostitute non erano solo numerose: erano anche molto visibili. E su di loro si accaniva non solo il disprezzo pubblico, ma anche la legge: tra Quattrocento e Cinquecento, la Serenissima e il Papa (a cominciare dal feroce san Pio V) emisero un numero impressionante di norme per regolare, contenere, sfruttare, punire, utilizzare la prostituzione. Si diceva già all’epoca che, grazie alle tasse pagate dalle cortigiane, i Papi avessero messo a posto mezza Roma ed edificato quasi l’altra metà. Benché le misure riguardassero tutte le prostitute, il loro mondo era molto variegato. Veronica Franco, in particolare, fu un’intellettuale completa: scrittrice, musicista, curatrice di raccolte poetiche, saggista. Non fu un caso isolato, anzi. Ma la sua è una storia esemplare. Veronica nacque nella città lagunare, allora una potenza mondiale. Era l’unica figlia femmina di Paola e Francesco Franco e aveva tre fratelli, Jeronimo, Horatio e Serafino. Questo le permise di condividere la loro educazione e di partecipare alle loro lezioni private. All’epoca, non si usava andare a scuola: la frequentavano soltanto il 4% delle ragazze e il 26% dei ragazzi, secondo dati del 1587. L’educazione dei ragazzi, laddove era prevista, era affidata a insegnanti privati, e soltanto il 10-12% delle donne sapeva leggere e scrivere. Veronica raggiunse un ottimo livello culturale: segno che dovette continuare a studiare per proprio conto e far tesoro di tutto quello che apprese nei circoli culturali veneziani nei quali fu ammessa. A cominciare da quello, importantissimo, di Domenico Venier, suo pigmalione e mecenate. La famiglia di Veronica apparteneva alla classe dei “cittadini originari”, un livello sociale a metà strada tra i nobili e il popolo. Ma lei faceva la cortigiana: era il mestiere della madre ed era stata istruita da lei. Non era una prostituta qualsiasi: in teoria aveva una clientela selezionata. Eppure, nelle sue Lettere, nel rispondere a una madre che intendeva avviare la figlia alla prostituzione, scrisse: «S’ella diventasse femina del mondo, voi diventereste sua messaggiera col mondo e sareste da punir acerbamente, dove forse il fallo di lei sarebbe non del tutto incapace di scusa, fondata sopra le vostre colpe». Il che fa pensare che nutrisse rancore verso sua madre: si cominciava da bambine a prostituirsi e non doveva essere una bella esperienza. Secondo la prassi, Veronica fu data in sposa, quasi adolescente, a un medico, Paolo Panizza. Si separò da lui a 18 anni, quando partorì il figlio avuto da Iacomo o Giacomo di Baballi, il più ricco mercante di Ragusa, oggi Dubrovnik. Sappiamo della separazione perché nel primo testamento, che le donne usavano fare prima del parto, chiese alla madre di riprendersi la dote. I clienti di Veronica erano nobili, prelati, intellettuali e artisti. Nel 1574 vi si aggiunse Enrico di Valois, che dalla Polonia, di cui era re, stava andando a Parigi, per salire sul trono di Francia con il nome di Enrico III. La Serenissima lo accolse con 11 giorni di festeggiamenti, organizzati da artisti come Andrea Palladio, Andrea Gabrieli, Paolo Veronese e il Tintoretto. La Franco non fu soltanto il “regalo” di una notte offerto dalla Repubblica a un prezioso alleato, ma anche, visto il suo acceso nazionalismo, una spia virtuale: le cortigiane potevano approfittare dell’intimità per carpire segreti di Stato a clienti e stranieri di passaggio. Benché Veronica Franco non si sia quasi mai mossa dalla sua città, se non per un pellegrinaggio a Roma, in occasione del Giubileo del 1575, e per qualche viaggio di “affari” in Veneto, la sua vita è stata ricca di eventi e colpi di scena. In particolare: la sfida con Maffio Venier; il processo davanti all’Inquisizione e la proposta di aprire un istituto per le ex-prostitute. La sfida con Venier è piuttosto singolare. Venier, poeta vernacolare di antica e potente famiglia, ma uomo inquieto e impulsivo, insultò Veronica in alcuni versi anonimi. La accusò di essere marcia di sifilide - in realtà fu lui a morirne nel 1586. In principio Veronica pensò che l’insulto venisse dal cugino di Maffio, Marco, il suo più celebre (e celebrato) amante che poi sarebbe diventato bailo, ossia ambasciatore, di Venezia a Costantinopoli. Scoperto il vero autore dei versi ingiuriosi Veronica lo sfidò prima a un duello d’armi e poi in una gara di versi. Maffio non accettò la sfida e quindi a noi rimane solo il ritratto di un uomo di sorprendente volgarità (Veronica attribuiva il suo odio per le donne all’omosessualità), che invece la critica letteraria continua a esaltare come grande poeta. Nel processo davanti all’Inquisizione, che si aprì nell’ottobre del 1580, Veronica fu accusata dalla servitù, che forse cercava così di coprire alcuni furti, di praticare la stregoneria, di mangiare pollastri, uova e formaggi nei giorni di magro e di tenere una bisca in casa. Accuse così potevano condurre al patibolo. Veronica si difese da sola e fu assolta. Noi conserviamo gli atti del processo che oggi ci appaiono invece come un’accusa contro una società misogina e bigotta, che non considerava né peccato né reato, per esempio, che Maffio Venier si comprasse la carica di vescovo di Corfù e la sfruttasse per arricchirsi, o che Marco Venier fosse incaricato di uccidere un presunto traditore della Serenissima, senza sottoporlo a giudizio. Né che i nobili struprassero in gruppo le cortigiane. Ma trovava meritevole di morte una donna che mangiasse carne di venerdì. Quanto alla fondazione di un Ospizio del soccorso per ex prostitute, Veronica avrebbe voluto utilizzare parte dei patrimoni delle cortigiane più ricche, morte senza fare testamento, soprattutto durante la grande peste del 1575-76. L’ospizio di Veronica non si fece. Se ne crearono altri in cui le ex cortigiane furono di fatto recluse: per “salvarle” occorreva punirle. Ripescata dalla critica letteraria da oltre un secolo e apprezzata da Benedetto Croce, Veronica Franco sconta però ancora una condanna all’oblio che cancella non soltanto i suoi meriti artistici. Ma anche le sue moderne intuizioni: per esempio Veronica rivendicava la dignità di qualsiasi persona, perfino di chi vende il proprio corpo. «La vergogna - diceva - è nell’alterigia di chi compra». Taliesin, il Bardo tratto da www.enciclopediadelledonne.it |
LA MUSA DEL RINASCIMENTO FIORENTINO: GINEVRA DE' BENCI.
Figlia di Amerigo, nacque nell'agosto 1457 e andò sposa giovanissima nel 1474, quando il padre era già morto, a Luigi di Bernardo Niccolini, di quindici anni più anziano di lei, portando in dote 1400 fiorini. Risulta da un protocollo del notaio Simone Grazzini da Staggia che il contratto nuziale fu stipulato a Firenze il 15 gennaio 1473: ma questa data, che segue lo stile fiorentino dell'incarnazione, corrisponde in realtà al 1474 (Camesecchi, p. 283): non è quindi la B. la "donna" di Luigi Niccolini morta il 17 agosto 1473, bensì la prima moglie di lui. Cade così la tesi del Ridolfi (p. 455) contraria all'identificazione dei ritratti di Ginevra eseguiti, secondo il Vasari, da Leonardo e dal Ghirlandaio. Luigi Niccolini, nel 1478 priore e nel 1480 gonfaloniere, aveva ricevuto in eredità dal padre nel 1470, insieme con i fratelli, una drapperia (Möller, p. 198); nel 1480 egli lamentava - ma è probabile che la dichiarazione sia senza valore specifico, dato che si tratta di una denuncia al Catasto - le sue cattive condizioni economiche, ricordando anche le spese che doveva sostenere per la moglie inferma. Egli, nel testamento del 31 marzo 15o5, scritto poco prima della morte, dava ordine che venisse restituita alla moglie la dote, clausola non eseguita, se non in minima parte con un'ipoteca sulla drapperia. Della questione si ha ancora notizia fino al 1521, anno in cui Ginevra era morta (Möller, p. 199). Una fonte ampia ed eloquente riguardo alla personalità di Ginevra è costituita da una lettera (ed. Carnesecchi, pp. 293-296), scritta da Roma in data 12 agosto 149o da un suonatore di viola che si sottoscrive "G. + H."; egli, che aveva conosciuto Ginevra molti anni prima a Firenze e che aveva mantenuto con lei una quasi regolare corrispondenza, racconta che in una conversazione con un gruppo di nobili dame, intorno a "quello che fa amare una donna", aveva portato ad esempio delle virtuose donne fiorentine proprio Ginevra, fra la generale approvazione. Ella era quindi ancora molto nota e apprezzata negli ambienti culturali e altolocati, non soltanto di Firenze, ma anche di Roma; era, oltre che bella ed attraente, notevolmente istruita, amante della musica e della poesia. Che fosse ella stessa autrice di versi, come alcuni vogliono ricavare da un passo della lettera, è dubbio; è più probabile che si faccia riferimento a versi scritti per lei (Carnesecchi, p. 286). Dalla lettera risulta che non aveva avuto figliuoli. "Alla Ginevra Benci" sono dedicati due sonetti di Lorenzo il Magnifico, "Segui, anima devota" e "Fuggendo Lot", che trattano entrambi il tema delle sue virtù. Il Möller mette la loro composizione in rapporto alla relazione di Lorenzo con Bartolomea Benci, moglie di Donato, zio di Ginevra, motivo di scandalo per tutta la città: il Magnifico avrebbe scritto i versi per calmare lo sdegno della virtuosa dama. Ginevra Benci fu inoltre cantata da Bernardo Bembo, al tempo della sua prima ambasceria a Firenze negli anni 1475-1476. Ella aveva allora solamente 18 anni ed era da poco tempo andata sposa a Luigi Niccolini; anche Bernardo Bembo era sposato (per la seconda volta) ed aveva condotto con sé a Firenze il figliolo Pietro, già adolescente. Ma il sentimento che legò Bernardo alla Ginevra era un tipico esempio di "amor platonico", come si legge nella dedicatoria di Cristoforo Landino alla Xandra e nelle elegie in Appendice dei suo Canzoniere, nonché nelle elegie di Alessandro Bracci, il quale dice di lei: "Pulchrior hac tota non cernitur urbe puella / altera nec maior ulla pudicitia" (Epistola IV, ed. A. Perosa). Una Ginevra Benci, detta la Bencina, compare anche in un aneddoto del Poliziano, da riferirsi al 1478, che la ricorda presente ai giochi di Piero di Lorenzo de' Medici: l'identificazione con la nostra Ginevra, negata dal Wesselski (p. XVIII), è sostenuta dal Möller (p. 200). Secondo questi dati, non vi sono ragioni ] "cronologiche" che contraddicano le notizie del Vasari a proposito dei ritratti eseguiti dal Ghirlandaio e da Leonardo. Del Ghirlandaio dice il Vasari (Vite, II, p. 116o) che riprodusse la B. nell'affresco della Visitazione della cappella del coro a S. Maria Novella: la sua figura non è oggi identificabileva tuttavia sottolineato che, poiché l'affresco fu eseguito dal Ghirlandaio intorno al 1488-90, è certamente inesatta la notizia del Vasari riguardo a una Ginevra "fanciulla". Quanto al ritratto di Leonardo, il Vasari (Vite, II, p. 16: "ritrasse la Ginevra d'Amerigo Benci, cosa bellissima") trae la notizia dall'Anonimo Gaddiano, che la riprende a sua volta da Antonio Billi: lo si è voluto identificare con il ritratto femminile della galleria Liechtenstein di Vienna per il quale non è certa né 11dentificazione del personaggio né la mano di Leonardo (per le diverse attribuzioni cfr. Möller, p. 209). Oltre che per l'identificazione dell'autore e del soggetto, anche per la datazione del quadro vi è discussione fra i critici: coloro che lo attribuiscono a Leonardo lo ritengono opera giovanile e lo considerano il ritratto di nozze di Ginevra, datandolo al 1474; il Castelfranco (p. 450) sposterebbe a più tardi la datazione; in questo caso Leonardo avrebbe dipinto Ginevra al tempo della sua lunga malattia negli anni 1478-1480. Si spiegherebbe in tale modo il "pathos" malinconico che si sprigiona da questo commovente ritratto. Taliesin, il Bardo tratto da: enciclopediatreccani |
Ho letto con molto interesse la storia di questa donna..Veronica..di un mondo a me quasi vicino in fatto geografico.
Venezia..era una città particolare, a sè...io la vedo come una dama capricciosa, allegra apparentemente ma dall'animo triste. |
Milady Altea...
La vostra sensibilità ha colto la sfumatura della tristezza racchiusa nello sguardo di Veronica. Una tristezza comune a molte "fortunate dame" che abitavano castelli ingioiellati. Giudicate voi stessa... Taliesin, il Bardo |
STREGHE DELLE PAURE, ANIME DEL PARADISO: BISSAGA DI BRIANZA
Storia idealmente dedicata al moderno e antico pupazzo di fuoco della Giubiana, eterna rimembranza di coscienze e di paure stregate e mai assopite, nel calore di una famelicità di sangue di donna mai domo.. Attingendo al termine latino striga, ovvero uccello notturno o arpia, l'avvento del Cristianesimo battezzò, ricoprendolo di fango, un ruolo sociale fino ad allora altamente considerato, al punto che in età pagana si parlava genericamente di maghe o sibille dai grandi poteri profetici. Nell' Europa religiosa e post-classica si assitse così ad una graduale escalation persecutoria, che raggiunge il suo climax in età medievale. La fervida immaginazione delle società contadine, attizzata sapientemente dalla Chiesa, si lanciò spesso in voli pindarici, associando alla figura della strega i peggiori tabù e vizi che le si potessero attribuire: fosse essa una vecchia dall'aspetto ripugnante o una donna attraente, ciò che la rendeva un pericolo agli occhi della comunità era la forte predilezione per le arti occulte, unita all'estrema licenziosità dei costumi sessuali. Era credenza consolidata che al calar della sera, quando gli abitanti del villaggio si ritiravano nelle loro case, la strega uscisse di nascosto per partecipare ai sabba, eredi moderni degli antichi rituali dionisiaci, sul modello dei baccanali dell'Antica Roma. Nel caso specifico della diocesi di Como, fu la bolla papale Summis Desiderantes di Innocenzo VIII, seguita nel giro di tre anni dal Malleus Maleficarum (1487) dei due frati domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer, a inasprire i provvedimenti contro le eresie. Testo profondamente misogino e privo di qualsivoglia onestà intellettuale (al punto che si attibuisce al termine femina la falsa etimologia di fe + minus = meno fede), il Malleus argomentava la maggior propensione delle donne a cadere nelle trappole di Satana con una presunta inferiorità intellettiva e debolezza caratteriale. Nella seconda parte del trattato i frati tedeschi illustravano la casistica in base alla quale l'inquisitore doveva modulare i suoi provvedimenti, come si riconoscevano i segnali di stregoneria e quali tecniche di tortura dovevano essere adottate per ottenere una confessione. Scrive Giuseppe Arrigoni in «Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe», documentando il clima di terrore che si respirò negli ultimi decenni del XV secolo lombardo: «Contribuivano a rendere infelice quell'età le superstizioni religiose, avanzi delle credenze gentilesche. Era persuasione generale che il diavolo patteggiasse cogli uomini e singolarmente con vecchie brutte, sì che avessero sovrannaturale potere di far bene e male, si convertissero in gatti e in altri animali, menassero “danze col demonio”, calpestassero l'ostia consacrata, scavalcassero i monti e gissero per l'aria a sollazzo. Molti maliardi, lamie, sortilegi, indovini, negromanti, fattucchieri, prestigiatori, eretici e sospetti furon vittime della superstiziosa credulità , furon messi alla tortura e arsi al rogo. Le cagioni di quelle immanità e barbarie stanno principalmente nel fanatismo di quei tempi; ma in gran parte però le rimote cause motrici di tanti incomprensibili processi di maghe e di giurate testimonianze di diaboliche seduzioni non sono preanco venute in chiara luce istorica, né vi verranno se prima non si pubblichino gli atti di tali cause magiche». Il fanatismo dei frati domenicani d'Oltralpe si scatenò sensibilmente, come attestato nel Malleus stesso, nel Nord Italia, e in particolar modo nei territori di Como, Bergamo, Brescia, Cremona, la Val Camonica, la Valtellina e il Friuli. Il ramo lecchese invece, come conferma il testo «I nostri vecchi raccontano: storie, leggende e fiabe del territorio lecchese» di Felice Bassani e Luigi Erba, era utilizzato come punto di raccolta e smistamento delle streghe provenienti dall'alto Lario e dalla Valtellina. Nel XV secolo, nel giro di un mese, ben trecento donne furono imprigionate e, dopo un processo sommario, mandate a morte; fra queste quarantuno furono rastrellate in un'unica retata, compiuta nel 1486 sulle direttive di un inquisitore locale. Secondo la consuetudine germanica, prima di essere bruciate, le streghe comasco-lecchesi vennero rasate integralmente, anche nelle zone più intime del corpo, in quanto gli inquisitori più incalliti credevano che sotto le ascelle le vittime potessero nascondere una “stregoneria” che le tutelasse dalle fiamme. A tal proposito il crudelissimo Sprenger era solito far rasare a zero i capelli delle vittime e in seguito versare in una tazza di acqua santa una goccia di cera benedetta, da far bere alle stesse per tre volte e a digiuno, allo scopo di liberarle dal demonio. Dopo un periodo di relativa clemenza dell'Inquisizione, motivato dalla necessità dell'alto clero italico di far fronte a ben altri problemi, originati dalla Riforma protestante, nella seconda metà del XVI secolo l'accanimento contro la stregoneria riprese con una violenza inaudita, come documentano numerose testimonianze rinvenute nel lecchese. Nel testo di Silvia Battistelli «Leggende e storie brianzole» si accenna a come lo stesso Carlo Borromeo, nel 1567, fu coinvolto in una feroce caccia alle streghe in risposta alle ripetute invocazioni dei parroci della zona, che credevano davvero nelle capacità di queste donne di compiere malefici e che le incolpavano di alcuni delitti perpetrati ai danni di alcuni nobili della zona. Recita la lettera del prevosto Rattazzi, assai allarmato per la situazione ingestibile della sua parrocchia: «E una fu presa fra le altre che confessò senza nessun mortorio, che aveva uccisi venti fanciulli col succhiare il sangue loro e come trenta ne salvasse dando al diavolo un membro di bestia in luogo di quello dei fanciulli, dato che si conveniva portarne il membro al diavolo per sacrifizio. E più ancora confessò che ella aveva morto il suo proprio figliolo facendone polvere, che dava a mangiare per tali faccende. Disse pure del modo come ella andava innanzi dì, nel rione di Acquate, con certi bossoli di unguento fatti d'erbe, che erano colte il giorno di Santo Giovanni e de la Ascensione: fattone odorare al nobile Airoldi, questi subito morì». Carlo Borromeo intervenne spesso in modo rigoroso e intransigente non solo a Lecco ma anche in Valsassina, territorio tradizionalmente popolato da streghe e stregoni. Al di là di coloro che, pur non avendo commesso alcun delitto, ammisero le loro colpe e giurarono un profondo pentimento, le altre vennero condotte a Milano e lì giustiziate. La storia più famosa a livello locale è quella di una certa Bissaga, ovvero donna di biss (serpenti), originaria di Tartavalle in Valsassina: servendosi delle sue arti magiche, la donna aveva sedotto il signore del castello di Marmoro, una rocca difensiva situata nella piana di Parlasco. Frutto del loro amore furono un ragazzo, che venne riconosciuto dal padre e andò ad abitare con lui, e una ragazza, anch'essa strega, che invece restò nella casa della madre. I due fratelli si innamorarono l'uno dell'altra ma il matrimonio venne loro impedito; così, desiderosa di vendetta, la ragazza trasformò la strada in una bissera (si noti il gioco di parole) piena di tornanti, dalla quale il vecchio padre precipitò, finendo in uno strapiombo insieme al cavallo. Il Borromeo fece trascinare la Bissaga a Milano e la condannò a morire bruciata nella piazza XX settembre: il rogo fu accompagnato dall'ovazione popolare. Le persecuzioni contro le streghe, almeno parzialmente originate dalla necessità di tutelare la cultura dogmatica ufficiale della Chiesa, la quale non poteva ammettere la coesistenza di dottrine alternative basate su rituali magici, non furono tuttavia in grado di estirparle del tutto dall'immaginario popolare. Seppur in modalità differenti, questo culto sopravvive ancora sottoforma di folclore locale, soprattutto nelle zone di campagna. I territori che lo conservano più fedelmente in Italia sono il biellese, il canavese, il Trentino, il comasco, alcuni paesi della Liguria e delle Marche e, infine, la provincia di Benevento. La miglior rappresentazione nostrana delle streghe, quelle che popolavano le leggende e i racconti dialettali scambiati nelle serate d'inverno al tepore delle stalle, si trova nell'articolo pubblicato da Andrea Orlandi nel 1929 sulla rivista “All'ombra del Resegone”: «Per lo più erano donne vecchie, brutte, mal in arnese, dagli sguardi e dalle mosse sospette. La maga poteva nuocere in più modi: se avesse lanciata una sentenza contro qualcuno, a quel tale incoglierebbe sventura; perché la strega si rivelasse, bastava gettare un quattrino della croce nella pila dell'acqua santa: la mala femmina si sarebbe aggirata perplessa e inquieta pel tempio, non trovando più il verso d'uscire; ma chi avesse tentata quella sorte, incorreva in molti pericoli e nelle stesse pene canoniche: ond'era preferibile astenersene. Volete conoscere chi ha malefiziato il vostro bambino? Mettete i panni dell'infelice in un paiolo, e questo a bollire: vi comparirà la colpevole; vi sarà facile punirla e imporre a lei che sperda il sortilegio; senonché l'evocazione può causare inconvenienti gravi; e la si è sempre sconsigliata». Strettamente legata alle terre brianzole e canturine è la figura leggendaria della Giubiana (o Gibiana), rappresentata, in tutti i racconti popolari trasmessi oralmente di generazione in generazione, come «una donna vecchia, molto grande, vestita di bianco, che faceva passi lunghissimi». Amante delle passeggiate nei boschi, questa befana sui generis «metteva un piede su un sasso ed un altro molto più lontano, oltre le stalle»; essa appariva nella nebbia fitta e spaventava a morte i bambini del posto. In realtà, tradizionalmente non si trattava di una strega. Ottorina Perna Bozzi precisa in «Brianza in cucina» che il termine Giubiana deriva dall'espressione brianzola Giubbiana, che significa allo stesso tempo “fantasma” e “giovedì”. Vi è dunque ragione di ritenere veritiere le ipotesi di quegli studiosi del folclore locale che videro nella festa della Giubiana la celebrazione delle donne non più giovani, che si teneva l'ultimo giovedì del mese di gennaio, in concomitanza con i giorni della merla. In quell'occasione le donne si radunavano tutte insieme, rallegrandosi per la conclusione della stagione della semina e la Giubiana, il fantasma femminile sottoforma di fantoccio, veniva bruciato sul rogo. Naturalmente, ben chiara è l'allusione ai roghi in cui persero la vita tantissime donne in carne e ossa, nel Medioevo così come in pieno Rinascimento; tuttavia è diffcile ricostruire un nesso causale e soprattutto capire in quale periodo storico la Giubiana si trasformò in strega. E' ben noto che nel mondo della Brianza pre-industrializzata il calendario veniva plasmato sui ritmi della vita contadina, che di anno in anno scorreva ciclicamente, alternando a periodi di massimo impegno della famiglia patriarcale qualche momento di riposo, necessario per rinfrancare gli animi. Bruciare il fantoccio della Giubiana aveva dunque un significato propiziatorio e permetteva di esorcizzare le sventure dell'anno appena trascorso. Il calore del fuoco si portava via la strega vecchia e brutta, simbolo dell'inverno che volgeva al termine; in base a come la Giubiana bruciava, le comunità ne traevano buoni o cattivi auspici. Attualmente, la festa della Giubiana viene celebrata in parecchi Comuni dell'Alta Brianza e del comasco, ma una delle ricostruzioni più fedeli alla tradizione è quella di Canzo, dove l'ultimo giovedì di gennaio di ogni anno la strega viene trascinata in corteo per le vie del centro storico, accompagnata da una scia di fiaccole e da una serie di personaggi allegorici: il pastore che suona il corno; il boscaiolo con gli attrezzi del mestiere; il carretto con l'asino, sul quale il boia custodisce la Giubiana prigioniera; Barbanera con i biglietti della lotteria; l’Uomo selvatico, antichissimo simbolo della cultura alpina che vive in armonia con il bosco e che conosce i segreti della natura;l'avvocato delle cause perse e i testimoni del processo; i bambini dal viso colorato di bianco e nero, a simboleggiare il bene e il male; l’Anguana, misteriosa fata benefica, simbolo dell'acqua come elemento vitale femminile; l'orso che esce dalla tana, simbolo della forza istintiva dei cicli della natura che non può essere domata. Al termine della fiaccolata, la Giubiana viene portata nella piazza del mercato dove subisce il processo, rigorosamente in dialetto canzese. Salvo colpi di scena, la sentenza è sempre la stessa: una riconosciuta colpevolezza che viene espiata sul rogo, sotto gli occhi di tutto il paese. Taliesin, il Bardo tratto da: www.leccoprovincia.it |
CATERINA SFORZA: LA DAMA DEI GELSOMINI.
Anche se la Romagna non le diede i natali (nacque infatti a Milano nel 1463), Caterina Sforzaè storicamente considerata una delle figure femminili più importanti di quella tella erra, tanto da essere stata definita “la grande signora della Romagna”. Di forza d’animo non comune, astuta e scaltra, seppe condurre le sue battaglie con determinazione e spirito vendicativo. Bella, intelligente, energica, fu una delle donne più note e ammirate del suo tempo. Figlia illegittima di Galeazzo Maria Sforza e di Lucrezia Mandriani, nel 1472 il padre la diede in moglie a Girolamo Riario, nipote (o forse figlio) del Papa Sisto IV e signore di Imola, successivamente anche signore di Forlì. Alla morte di Sisto IV, Caterina si impadronì in Roma di Castel Sant'Angelo. Il 14 aprile del 1488 Girolamo Riario venne ucciso a Forlì da un complotto popolare; Caterina, con astuzia, forza e spregiudicatezza sconfisse i cospiratori ed il 30 aprile di quell’anno iniziò il suo governo in quanto reggente per il figlio Ottaviano, ancora piccolo. Sposò clandestinamente Iacopo Feo, castellano di Ravaldino, ed acquisì un ruolo di grande rilievo nella politica italiana al momento della caduta di Carlo VIII, appoggiando gli aragonesi in un primo momento, e successivamente i francesi. Nel 1495 Iacopo Feo venne ucciso crudelmente e Caterina, dopo averlo vendicato, sposò in segreto Giovanni de’ Medici. Dal matrimonio con il De' Medici nacque Giovanni, noto in seguito come Giovanni dalle Bande Nere. Intanto Cesare Borgia, detto il Valentino, figlio di Papa Alessandro VI, portava avanti il suo intento di costruire un proprio ducato in Romagna e, nel novembre del 1499, assediò Imola. L’11 dicembre cadde la rocca, inutilmente difesa da Dionigi di Naldi. Alcuni giorni dopo il Valentino entrò in Forlì con un esercito di 15 mila uomini. Caterina, invece di fuggire, si richiuse nella rocca di Ravaldino e oppose una dura resistenza dirigendo personalmente i difensori. Di fronte alle forze prevalenti, il 12 gennaio del 1500 cadde anche la rocca di Forlì, Caterina fu fatta prigioniera da Cesare Borgia e rinchiusa in Castel Sant’Angelo, dove subì torture e umiliazioni. Il 30 giugno del 1501 Caterina fu liberata e visse gli ultimi anni della sua vita a Firenze con il figlio Giovanni. Provò, senza risultato, a recuperare la signoria e morì il 28 maggio 1509. Caterina Sforza fu una figura di grande rilievo nella società del suo tempo, valorosa combattente, dalla personalità eclettica e sanguigna, virago e demonio femminile, esperta in alchimie erboristiche, (scrisse anche un trattato su questo argomento contenente oltre 500 procedimenti vari, dai cosmetici ai veleni mortali), violenta e risoluta con i nemici. Memorabile è rimasta la distruzione di Palazzo Orsi a seguito dell'uccisione del suo amato, o l'aneddoto che la ricorda sulla cortina di Schiavonia, assediata dai faentini che minacciavano di ucciderne il figlio, proseguire incurante il suo tentativo di riconquista del potere, alzando la gonna e indicando la sua vulva quale "strumento per fare altri figli”. A lei è dedicata una ballata del XVI secolo, attribuita a Marsilio Compagnon, che così comincia: Ascolta questa sconsolata Catherina da Forlivo Ch'io ho gran guerra nel confino Senza aiuto abbandonata Io non veggo alcun signore Che a cavallo monti armato E poi mostri il suo vigore Per difendere il mio stato Tutto il mondo è spaventato Quando senton criar Franza E d'Italia la possanza Par che sia profundata 'Scolta questa sconsolata Catherina da Forlivo... Taliesin, il Bardo tratto da:www.mitidiromagna.it |
La ballata..degna di una donna come la dama dei gelsomini.
Grazie a voi, sir Taliesin, posso sempre imparare qualcosa da queste grandi donne..non smettete mai di narrarcene. |
EXPERIMENTI DELLA EXCELLENTISSIMA SIGNORA CATERINA DA FORLI'
La figura di Caterina Sforza è emblematica per la sua epoca che và inquadrata in un periodo in cui, stava per finire il Medioevo ed iniziava ad affacciarsi il Rinascimento, nascevano immortali capolavori creati dai geni di Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Macchiavelli e Cristoforo Colombo tentava la via delle Indie. Questa figura di donna che conduceva in battaglia i suoi soldati venne ammirata in tutta l'Italia e numerose furone le canzoni e le odi che vennero scritte in suo onore che sono andate però tutte perdute tranne quelle di Marsilio Compagnon. Gli scrittori del rinascimento raccontano che Caterina Sforza avesse superato per fama, ogni altra donna del suo tempo: era una donna tenace, determinata, molto versatile, si occupava di erboristeria, di medicina, di cosmetica e d'alchimia. Caterina Sforza era anche una donna di incredibile bellezza che spendeva tempo e denaro per preservarle e nessun consiglio veniva tralasciato indipendente da dove arrivasse: antiche ricette orientali, rimedi popolari, miscele che arrivavano da oscuri monasteri che lei cercava con estrema tenacia non esistendo all'epoca cosmetici già pronti. Le sue ricette sono state tramandate in un libro "Experimenti della excellentissima signora Caterina da Forlì" composto da quattrocentosettantuno rimedi curativi e di bellezza del viso e del corpo con indicazioni per la preparazione di pomate, unguenti, miscele, acqua che Caterina preparava con l'aiuto degli speziali di corte. Questi rimedi sono dei veri e propri esperimenti con i quali Caterina Sforza si dilettava e sperimentava su se stessa. ...per far la faccia bianchissima et bella et colorita All'epoca di Caterina Sforza, una prerogativa della bellezza era avere una carnagione chiarissima pertanto Caterina inventò un impacco adatto allo scopo: mescolare dello zucchero con del bianco d'uovo e acqua di bryonia (Bryonia dioica, n.d.r.). Con questo miscuglio ci si deve bagnare il viso. Con questa ricetta spariscono i rossori, la pelle tesa e la desquamazione che accompagna le scottature solari. ...per far crescere li capelli Questa ricetta di Caterina Sforza è raccomandata per far diventare i capelli lunghi. E' molto semplice: si prepara un semplice decotto con una manciata di malva, del trifoglio, del prezzemolo, con questo decotto si fanno diversi lavaggi. Semplice, da provare per la bellezza e la cura dei capelli di tutte le donne. ...per far li capelli biondi de colore de oro Questa ricetta di bellezza di Caterina Sforza per far diventare i "capelli biondi et belli" consiste nel far bollire delle foglie di edera e cenere ricavata dai gambi della stessa pianta. Dopo che avrà bollito, si dovrà filtrare "et con quella acqua lavati il capo et farai li capelli belli e biondi". Caterina però, per rendere la ricetta ancora più sicura raccomanda a tutte le donne di mettere nel decotto anche tre pezzettini di radice di rabarbaro che si lasciano in infusione per un giorno intero. Dopo di che si inzuppa un panno e con esso si avvolge il capo "et lassato stare sino a che sia quasi asciutto et senza dubbio verranuo rilucenti come oro". ...per fare diventare li denti sani e lucenti Questa ricetta di bellezza Caterina Sforza è un po' insolita ma molto semplice da realizzare: "Prendi dei grossi gambi di rosmarino e falli abbruciare sin che diventino cenere. Metti detta cenere in una piccola pignatta con qualche foglia di rosmarino acciocchè ne prenda l'odore. Con detta cenere sfrega spesso li denti con una pezza di lino". Per completare l'efficacia della cenere di rosmarino "et fermare li denti e le gengive, dopo averli sfregati con la cenere lavali con bono vino". Ogni uomo ed ogni donna sarà sorpreso dall'efficacia di questa semplice ricetta. ...per fare profumare lo fiato cattivo Caterina Sforza, per avere un alito profumato, consigliava questa ricetta Ingredienti - scorza di cedro - noce moscata - chiodi di garofano - cannella Preparazione Polverizzare il tutto ed impastarlo con del vino "et fanne pallottole et pigliane ante ed cibo et de poi el cibo". Le ultime righe della ricetta raccomandano di non mangiare aglio o cipolla per qualche giorno "et vederai et sentirai miracoli". ...per far le mani bianche et belle tanto che pareranno de avorio Caterina Sforza, non poteva dimenticare la cura delle mani. Ecco una ricetta molto semplice da realizzare e di sicura efficacia per il benessere e la bellezza delle mani di ogni donna: "Dai a lungo bollore ad acqua e crusca di grano finchè la mescolanza un poco si addensi. Poscia fai colar l'acqua e ancora calda metti in essa un pomo (una mela n.d.r.) tagliato in tocchi e quando essa acqua sarà fredda lavatene le mani che resteranno bianche e morbide ed belle vedersi". tratto dawww.elicriso.it Taliesin, il Bardo |
Tutto questo è davvero geniale..vi erano già gli antichi rimedi..allora sir Taliesin..ne trarrò vantaggio, ma la mia pelle è davvero nivea come la neve, i miei capelli biondi...il mio amato si innamorò di me per il biancore delle mie mani ..ma una donna, come insegna Caterina da Forlì, deve sempre tenersi bella soprattutto per se stessa..poichè chi vive bene se stesso potrà vivere bene pure con gli altri. :smile:
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Saggezza in quel cuore rosso cinabro e candore in quelle bianche mani Milady Altea, come quell'Isotta regina dei grandi dolori, che grazie a Thomas di Britannia, solcò gli oceani dello spazio e del tempo per essersi innamorata dell'Amore, in ogni sua forma, in ogni sua sottiglietta, in ogni sua essenza di piacersi senza specchiarsi alla mera esteriorità di un tempo effimero e nauseabondo...Grazie mia cara...come sempre.
Taliesin, il Bardo |
Le bianche mani......un metodo naturale per tenerle bianche.....che bella immagine di voi Lady Altea.......il candore della pelle col biondo dei vostri capelli........già ci si innamora sempre per una donna con le vostre caratteristiche.......e so che la vostra esteriorità corrisponde alla vostra anima.........
Grazie per essere tornato a scrivere Amato Bardo..... |
Grazie a voi Madonna Elisabetta poichè, attraverso gli occhi del vulcano, potete leggere i miei.
Taliesin, il bardo |
Nell'assordante chissso di ierinotte, tra le onde fluttuanti dell'Arno d'argento ed i moderni clown d'oltre manica e d'oltre oceano, mentre Ponte Vecchio risplendeva di luce nuova, tra la tredicesima e la quattordicesima finestra del corridoio del Vasarri, mi è sembrato affacciarsi una Venere, che dall'alto della sua Magnificienza, sembrava come sorridere al nuovo tempo che girava attorno alla sua eterna conchiglia...
Taliesin, il Bardo LA VENNERE DEL BOTTICELLI: SIMONETTA VESPUCCI. Simonetta Cattaneo Vespucci (Genova, 1453- Firenze, 1476) amata da Giuliano de Medici e musa ispiratrice di pittori e poeti fu ritenuta la donna più bella del suo tempo tanto da divenire l'icona della bellezza rinascimentale. La fama della ventunenne Simonetta esplose quando Giuliano, il fratello minore di Lorenzo il Magnifico le dedicò la vittoria nella Giostra del 1475. Il torneo fu disputato in piazza Santa Croce il 28 gennaio, nel giorno del compleanno di Simonetta. Giuliano si presentò con uno stendardo che riportava l'effigie della donna amata, dipinta da Botticelli, ed il motto "la senza pari". La folla manifestò il suo entusiasmo; ma si voleva compiacere la potente casa Medici o davvero Simonetta era la donna "ineguagliabile"? Certo è che era stata scelta da Botticelli come modella per La nascita di Venere eper La Primavera. Divenne poi il soggetto dei più famosi artisti come il Verrocchio, il Ghirlandaio, Filippo Lippi e di poeti come il Poliziano (che ne fece la protagonista de Le stanze della Giostra), il Pulci e lo stesso Lorenzo il Magnifico. Ma chi era in realtà Simonetta Cattaneo? Nacque nel 1453, probabilmente a Portovenere (una singolare coincidenza per una località che già in epoca romana si chiamava Portus Veneris) da una nobile famiglia ligure. Appena quindicenne sposò Marco Vespucci, cugino del celebre Amerigo e si trasferì a Firenze dove condusse una vita riservata, finché non incontrò Giuliano che, probabilmente, ne vide il ritratto nella bottega del Botticelli. L'esile figura, i biondi capelli (una rarità a quell'epoca in Italia) e i profondi occhi grigi, le valse il titolo di "la bella di Firenze". Forse fu solo un amore platonico. Certo è che fu la coppia più ammirata del momento. I Medici erano i più ricchi, i più colti, i più potenti, i più fortunati, sembravano la personificazione del periodo aureo di Firenze. E se Lorenzo incarnava la gestione del potere, il bel Giuliano, colto, idealista, esprimeva la gioia di vivere rinascimentale. Ma il clima stava per cambiare. Il primo, imprevisto, colpo a quello scenario , fu la morte di Simonetta, il 26 aprile 1476 (forse di tisi), un anno dopo la memorabile giornata della Giostra. L'intera città fu costernata e commossa. Per la sua scomparsa, Lorenzo il Magnifico scrisse il sonetto che inizia con "Olum chiara stella che co' raggi tuoi/togli alle tue vicine stelle il e...", dove la immagina salita in cielo ad arricchire il firmamento. Una folla immensa partecipò al funerale e sfilò davanti alla sua bara che era stata lasciata scoperta perché tutti potessero ammirare la bellezza che la morte non aveva offuscato. Simonetta fu sepolta nella chiesa d'Ognissanti, nella Cappella Vespucci affrescata dal Ghirlandaio. Nella stessa Chiesa, sul pavimento c'è anche la tomba di Botticelli che aveva chiesto di essere sepolto ai suoi piedi. Esattamente due anni dopo anche Giuliano morì, assassinato nella congiura dei Pazzi, che segnò la fine del momento più splendido della Firenze medicea. Sette anni più tardi, Piero di Cosimo dipinse una Cleopatra con le sembianze di Simonetta Cattaneo, con un aspide attorno al collo: era certamente un inquietante ricordo della fine prematura, ma il serpente è anche un simbolo erotico e tutto il quadro, del resto, ha una doppia chiave di lettura in bilico tra il rigoglio della vita e la morte in agguato. La studiosa Paola Ventrone (Giovanna Lazzi, Paola Ventrone, Simonetta Vespucci. La nascita della Venere fiorentina, Polistampa, 2007) afferma che, nel caso della giovane Vespucci, la rapida successione degli avvenimenti ne proiettò l'immagine "in un mondo ultraterreno privandola della consistenza umana e della sua stessa personalità". Un mito che ha potuto sfidare i secoli, perché consacrato da una straordinaria convergenza di opere letterarie, dipinti e sculture che sono tra le più alte espressioni del Rinascimento. Taliesin, il Bardo |
LA PICCOLA CONTESSA: CONTESSINA DE' BARDI.
Contessina de' Bardi (Firenze,1390 circa –Firenze, ottobre 1473) è stata figlia di Alessandro de' Bardi o secondo altri autori di Giovanni de' Bardi e di Emilia Pannocchieschi del ramo dei Conti di Vernio della famiglia dei Bardi; è famosa soprattutto per essere stata la moglie di Cosimo de' Medici detto Il Vecchio. Venne chiamata Contessina in onore della Contessa Matilde di Canossa. La sua famiglia era stata un tempo ricchissima, ma con il fallimento del proprio banco verso la metà del Trecento avevano visto la propria importanza molto ridimensionata. In ogni caso erano riusciti a mantenere una condizione agiata investendo soprattutto in terreni, castelli e fortilizi, dei quali erano i signori in punti strategici sui confini settentrionali della Repubblica di Firenze, come il passo di Vernio appunto, e godevano di una certa importanza come feudatari e uomini d'arme di professione, che doveva essere sembrata molto interessante per i Medici: all'occasione infatti avrebbero potuto disporre di un braccio armato di cui avvalersi nella strategia di costruzione e di mantenimento anche forzato del consenso che avrebbe portato alla loro egemonia politica. Si sposò quindi con Cosimo nel 1416. Ebbe due figli: Pietro il Gottoso e Giovanni. Chiuse un occhio sulla scappatella di Cosimo che portò alla nascita del figlio illegittimo Carlo de' Medici che venne allevato nel palazzo di famiglia con gli altri figli. Quando il marito venne esiliato (1433) ella si rifugiò alla Villa di Cafaggiolo nel Mugello, prima di ritornare in città a seguito del trionfo di Cosimo. Circa un decennio dopo iniziò la costruzione del grandioso Palazzo Medici in via Larga, nel quale si trasferirono quando non era ancora del tutto completato. Sopravvisse al marito, morto nel 1464 e rimase un punto di riferimento per i nipoti, tanto che Lorenzo il Magnifico chiamò sua figlia più piccola in suo onore, Contessina de' Medici. Di lei ci restano quattro lettere scritte ai suoi familiari Bardi. tratto da: wikipedia Taliesin, il Bardo |
Sir Taliesin...sono stupita in modo positivo, nel mio salone ho il ritratto della Contessina dè Medici e messa in un una cornice antica. Possiamo vedere il ritratto proprio agli Uffizi a Firenze dove ho acquistato questa stampa in copia...questa Contessina nella sua piccola età ha lo sguardo e il volto di chi ha già in se la sicurezza di se stessa e questo mi colpì molto..."Bià de Medici".
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Madonna Altea...
C'è del vero ancestrale nelle vostre considerazione e nelle vostre parole a proposito della fanciulla che, a suo malgrado, prigioniera di un personaggio creato ancora prima che lei nascesse, non ebbe mai da assaporare quella spensieratezza che l'estate dei suoi anni reclamavano in un tempo di intrighi, cospirazioni e stucchi d'orati tra lamine di mercurio intriso nel cuore...Grazie per la vostra costante, appassionata e squisita presenza. Taliesin, il Bardo |
Citazione:
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LA SCONOSCIUTA DELLA CASATA: CONCORDIA MALATESTA
Nacque da Giovanni (Gianciotto) e da Francesca da Polenta presumibilmente non molto tempo prima che la tragedia famigliare rievocata da D. (If V 82-138) si abbattesse sui suoi genitori così duramente da condurre a morte violenta la madre. Di Concordia, che derivò certamente il nome da quello della nonna paterna (infatti la prima moglie del martin vecchio... da Verrucchio [XXVII 46] dalla quale nacque, assieme a Malatestino e a Paolo, il padre Giovanni, fu Concordia di Enrichetto vicario imperiale), non si ha traccia negli scritti danteschi; e, forse, le uniche sicure testimonianze superstiti che la riguardano personalmente si riducono a quel passo del testamento di Malatesta da Verucchio, in cui, il 18 febbraio 1311, questi destina alla nipote C. 100 lire ravennati, ammonendola insieme con le sorellastre Margherita e Rengarduccia e ai fratellastri Tino, Guido e Ramberto a risolvere pacificamente ogni eventuale vertenza relativa alla dote di Francesca: " Item mandavit dictis nepotibus suis Tino, Guidoni et Ramberto et heredibus eorum et dictis suis nepotibus dominabus Concordiae, Margaritae et Rengardutiae et heredibus eorum quod nullam molestiam per se nec per alium faciant vel fieri permittant heredibus seu legatariis aut comissariis suprascriptis in iuditio vel extra pro dotibus olim dominae Francischae ab eo receptis, uxoris olim Iohannis dicti sui filii et matris dictae dominae Concordiae... " (Tonini). Non ha alcun fondamento la tradizione popolare che attribuisce a Concordia la fondazione del convento delle Clarisse in S. Arcangelo di Romagna e la permanenza negli ultimi anni della sua vita in questo luogo religioso. Taliesin, il Bardo Bibl. -L. Tonini, Della storia civile e sacra riminese, III, Rimini 1862, 249, 251; IV, ibid. 1880, Appendice, 28-29; P. Zama, I Malatesti, Faenza 1956; N. Matteini, Francesca da Rimini, in " Rubiconia Accademia dei Filopatridi " quad. VII, Savignano 1966, 23-24. |
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