Camelot, la patria della cavalleria

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Taliesin 18-04-2013 12.24.53

GIULIA FARNESE, LA DAMA DEL LIOCORNO.

Nata nel 1475 a Canino (Viterbo) da Pier Luigi Farnese e Giovannella Caetani, Giulia Farnese è passata alla storia come una delle donne più affascinanti e misteriose della sua epoca. Vero e proprio emblema della femminilità rinascimentale, in vita fu assunta a modello ideale di bellezza da molti pittori. Tanto più appare singolare il fatto che di lei non sia pervenuto a noi alcun ritratto certo.

La leggenda vuole che lo stesso Raffaello si sia ispirato a lei per dare il volto alla celebre Dama con il liocorno , essendo la bella Giulia e la sua casata, tradizionalmente associati alla figura del mitologico animale. Ma questa è solo una delle numerose ipotesi.
Appartiene invece alla storia che fu l'amante di Alessandro VI e per questo era usualmente indicata dai cronisti del tempo come Concubina del Papa o addirittura con l'espressione - colorita quanto blasfema - di Sponsa Christi .

Fu sorella di Alessandro Farnese, destinato a passare alla storia come papa Paolo III. Ed è fatto ormai risaputo che nella sua nomina a cardinale da parte di Alessandro VI - punto di inizio dell'inarrestabile ascesa della famiglia Farnese nelle principali corti europee – determinanti furono proprio i favori e le intercessioni della bella Giulia.

A partire dal 1495 ridusse molto la frequentazione di Alessandro VI decidendo di raggiungere il legittimo marito Orsino Orsino a Bassanello. Alla morte di quest'ultimo si trasferì nel castello di Carbognano ove si risposò. Rimasta nuovamente vedova, negli ultimi due anni della sua vita si stabilì ancora a Roma, dove morì il 23 marzo 1524 all'età di 49 anni
.

tratto da: Pinturiccio.org

Taliesin, il bardo

Taliesin 18-04-2013 12.39.50

GIULIA GONZAGA, LA CONTESSA DI FONDI.

Giulia era figlia di Ludovico, duca di Sabbioneta, e di Francesca Fieschi.
Nel 1526, a tredici anni, sposò Vespasiano Colonna che aveva quaranta anni, era vedovo e con una figlia probabilmente più anziana della moglie. Il contratto di nozze era stato sottoscritto da Isabella d’Este che rappresentava il padre di Giulia. Dopo solo due anni di matrimonio, nel 1528, la giovanissima sposa rimase vedova, erede di tutto il patrimonio del marito e tutrice della figliastra.

Dalla morte del marito sino al 1535 Giulia, che resisteva a qualunque progetto di nuovo matrimonio, visse nella contea di Fondi mentre la fama della sua bellezza e del suo spirito si diffondevano per tutta Italia grazie anche a Ludovico Ariosto che la ricorda insieme alle dame e ai cavalieri della sua epoca. La fama della castellana di Fondi si diffuse anche oltre il mare, tanto che si parlò di un tentativo di rapimento da parte del pirata Barbarossa che intendeva fare omaggio della bella preda al sultano Solimano I. Il territorio fu saccheggiato dai turchi ma Giulia si salvò fuggendo in tempo… L’episodio non fece che rafforzare il mito della sua bellezza e fu celebrato dall’egloga di Francesco Maria Molza La ninfa fuggitiva.

Nel castello di Fondi si raccoglieva una piccola corte, ricordata e celebrata da quanti si recavano a far visita alla signora. Con Giulia viveva la figlia del marito, Isabella, che sposò Luigi Gonzaga, detto Rodomonte, fratello della matrigna.

La contessa di Fondi aveva come segretario Gandolfo Porrino un poeta e fine letterato che fu in corrispondenza con buona parte degli scrittori del tempo, fra cui Francesco Maria Molza. Fra quanti le facevano visita si ricorda il cardinale Ippolito Medici raffinatissimo e colto uomo di lettere e, scrive Giovio, dolcissimo musicista, abile suonatore di più strumenti. Il cardinale tradusse per la ammiratissima, corteggiatissima, irreprensibile e inespugnabile giovane signora della quale era innamorato, e dalla quale forse fu riamato, alcuni versi dell’Eneide; morì a Itri nel 1535, probabilmente di malaria, ma si favoleggiò di avvelenamento da parte della famiglia, contrariata da quella passione. Su commissione del cardinale, che desiderava avere un ritratto della donna amata, alla corte soggiornò in due riprese Sebastiano del Piombo: del ritratto originale, dipinto nel 1532, rimangono diverse copie. Alcuni mesi dopo Ippolito inviò a Fondi il ferrarese Alfonso Lombardi, un incisore noto all’epoca, per ritrarre Giulia in una medaglia.

In viaggio da Roma verso Napoli si era fermato a far visita alla contessa Juan de Valdes, il quale, preso dal fascino che aveva richiamato tante personalità di rilievo, scrisse una lettera al cardinale Ercole Gonzaga colma di elogi e ammirazione per la sua ospite. In quella occasione si impegnò a offrire a Giulia consiglio in merito alla causa che le era stata mossa dalla figliastra per l’eredità paterna. Durante l’estate del 1535 la contessa aveva incontrato anche il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, che era stato fortemente influenzato da Valdes, con il quale rimase in contatto diretto e epistolare: Carnesecchi la amò per tutta la vita sublimando il suo amore in un ideale filosofico-platonico.

Nel dicembre dello stesso anno, forse per seguire meglio i suoi interessi, e forse per allontanarsi da Fondi apparsa insicura dopo l’impresa di Barbarossa, la contessa si trasferì a Napoli, prese alloggio presso il convento di San Francesco delle Monache e vi dimorò per tutta la vita. Intorno a lei si ricostituì un circolo scelto dove la conversazione aveva per oggetto temi spirituali e religiosi: vi partecipavano quanti erano interessati alle intellettuali e spirituali ‘eresie’ sorte nella prima metà del Sedicesimo secolo sull’onda della predicazione di Lutero e di Calvino. Fra questi il citato Juan de Valdes, al quale Giulia ispirò l’Alfabeto Cristiano, Pietro Carnesecchi, Marcantonio Flaminio, Bernardino Ochino, Galeazzo Caracciolo che aderì alla Riforma e emigrò a Ginevra dove morì. Del gruppo faceva pare anche l’‘eretica’ Isabella Brisegna Manriquez, la personalità napoletana più in vista insieme a Galeazzo Caracciolo, che scelse di lasciare l’Italia per seguire la propria fede. Carnesecchi scrive che la duchessa inviò una pensione annua, prima a Zurigo e poi a Chiavenna, alla “cara sorella” fuggiasca. Giulia, che aveva ereditato i manoscritti di Valdes, si dedicò alla diffusione della sua dottrina senza trascurare anche i propri interessi mondani e l’educazione del nipote Vespasiano del quale le era stata affidata la tutela dopo la vedovanza e il secondo matrimonio della madre, la figliastra Isabella. Vespasiano, che sarà il suo erede universale, fu un vero principe rinascimentale, ampliò e abbellì Sabbioneta, la piccola Atene dei Gonzaga, dove raccoglieva una corte eletta.

L’attività della duchessa nella diffusione di idee pericolose per il cattolicesimo suscitò presto l’attenzione dell’Inquisizione, il pericolo fu stornato dall’azione della potente famiglia che si mobilitò in sua difesa.

Giulia morì a Napoli nel 1566 nel convento nel quale era vissuta e dove avrebbe voluto essere sepolta; ma i sospetti che gravavano su di lei probabilmente non permisero di esaudire questo desiderio. Il pontefice Pio V fece sequestrare le sue carte e dopo averle esaminate dichiarò, che se le avesse viste prima, quella signora la avrebbe «bruciata viva».

tratto da: www.enciclopediadelledonne.it

Taliesin, il bardo

p.s. omaggiando virtualmente nell'epoca della novella pergamena, Milady Gonzaga, nell'attesa che l'altalena della sua originale Poesia possa fluttuare ancora tra le vie lastricate di Camelot.

Morris 20-04-2013 23.46.40

Cavalleria è passare a salutare... dare una pacca sulle spalle ad un amico come voi.. mio bardo.

Taliesin 21-04-2013 20.57.15

Ed in questa domenica delle salme, solo il buon Dio sa quanto ce ne sia bisogno Cavaliere del Crepuscolo. Grazie per quella pacca sulla spalla...

Taliesin, il bardo

elisabeth 22-04-2013 17.46.19

Amo molto le storie sulle donne del Medioevo che scrivete Taliesin, imparo a conoscere cose che magari non sono mai andata ad approfondire....da donna dovrei arrossire......e visto che Sir Morris...vi ha dato una bella pacca sulla spalla....io da gentil Dama vi abbraccio...grazie per la ricerca che fate......:o

Taliesin 22-04-2013 20.54.53

Grazie a voi Madonna che gli uomini moderni chiamano Elis,
l'avere ritrovato la vostra emozione impressa in queste virtuali pagine di memoria attraverso i vostri occhi di Donna, oleggia quella Giustizia Divina che le mie Donne del Medioevo hanno sempre inseguito e cercato e, per colpa di un mondo troppo maschilista, non hanno mai trovato....

Taliesin, il bardo

elisabeth 23-04-2013 15.54.20

Voi siete Il Bardo....e per voi non puo' esserci distinzione tra uomo e donna...per voi esiste il Creato.......grazie ancora

Taliesin 14-05-2013 15.16.49

MARIA DA CAPOLIVERI: LA LEGGENDA DELL'INNAMORATA

La tradizionale fiaccolata dell'Innamorata si fa risalire alla seconda metà del XVII° secolo; il promotore fu un certo Domingo Cardenas, nobile spagnolo che, diseredato dal padre e costretto all'esilio, si stabilì nella terra dell'Innamorata, allora detta, data la vicinanza alle miniere di ferro di Calamita, "Cala de lo fero".
Una sera di Luglio il nobiluomo credette di aver visto Maria:- la sua ombra, leggiadra e soave, si stagliava contro l'immensità dell'orizzonte rischiarato da una miriade di bagliori luminosi; il suo grido, udii levarsi al di sopra del fragore delle onde...-
La mente di Domingo tornò al racconto dei pescatori.

Correva l'anno 1534, le coste dell'Elba erano razziate dal pirata Barbarossa e dai suoi Saraceni, ma poco importava a due giovani innamorati come Lorenzo e Maria. Il loro amore, ostacolato dalla ricca famiglia di lui a causa della povertà di lei, era troppo grande, dal mare traeva la sua forza.
I loro sguardi si erano incrociati per la prima volta sulla spiaggia battuta dai marosi, mentre Lorenzo tentava di mettere al riparo le imbarcazioni dei pescatori. Da allora quella spiaggia divenne il loro rifugio segreto, il luogo dove scambiarsi tenerezze e promesse d'amore. Proprio là decise di chiederla in moglie.

Quel pomeriggio, era il 14 Luglio, Lorenzo giunse in anticipo sulla spiaggia; Maria dall'alto del sentiero vagò con lo sguardo alla ricerca dell'amato, ma vide una ciurmaglia di uomini sbarcare da una scialuppa...
Impotente assistette alla lotta furibonda che si accese; Lorenzo si battè con onore, ma stremato fu fatto prigioniero. Maria corse verso la spiaggia in tempo per vedere la nave corsara allontanarsi dopo aver scaraventato in mare un corpo agonizzante. Riconoscendo in quel corpo il suo amante, Maria si lasciò cadere in mare, in un ultimo disperato impeto d'amore. Fu ritrovato solo il suo scialle impigliato su uno scoglio che da allora venne chiamato "Ciarpa".

Sconvolto da quella visione, Domingo promise a se stesso che, negli anni a venire, per permettere a Maria di ritrovare il suo Lorenzo, avrebbe acceso mille torce illuminando a giorno la spiaggia che fu ribattezzata la spiaggia dell'Innamorata; inoltre per assicurare la continuità della festa decise di apporre al suo testamento una clausola, che si sarebbe tramandata di padre in figlio, con la quale i suoi discendenti avrebbero mantenuto in vita la tradizione dell'Innamorata, e così fu...

Interrotta soltanto da eventi bellici che coinvolsero anche l'isola d'Elba, la tradizione fu ripresa nel 1985 ad opera del comitato di rievocazione storica fondato e presieduto da Michelangelo Venturini che ogni 14 Luglio rinnova la promessa fatta da Domingo Cardenas: la spiaggia risplende di mille torce e un corteo di persone in costume sfila per terra e per mare alla ricerca dei due giovani amanti.

tratto da: www.laleggendadell'innamorata.com

Taliesin, il Bardo

elisabeth 14-05-2013 15.31.04

Sarebbe splendido se in molti paesi d'Italia le tradizioni riprendessero vita......magari si potrebbe assistere a cose bellissime....come la rievocazione di grandi Amori.........

Taliesin 14-05-2013 21.21.00

Dite il vero Madonna,
e forse non esisterebbe nella pluridecorata lingua italiana l'orribile termine di moderna clonazione che volge a ponente con il nome di "femminicidio".

Taliesin, il Bardo

Guisgard 15-05-2013 02.10.09

Ricordo un tardo pomeriggio a casa di alcune mie zie.
Ebbene, io ero da poco ritornato da un viaggio, non ricordo precisamente come, ma cominciammo a parlare dei desideri, o per meglio dire dei sogni, poi dell'Amore e del Destino.
Alla fine una di loro pronunciò una frase, tratta, come amava dire lei, dalla saggezza popolare, che tradotta dal dialetto suona così:
“Quando in Cielo è scritto, in Terra avverrà.”
E questa bellissima e struggente leggenda che ci avete raccontato, buon Taliesin, mi ha fatto ricordare quel pomeriggio trascorso da quelle mie zie, tra ricordi, aspettative e sogni custoditi gelosamente.
La leggenda di Lorenzo e Maria è una degna dimostrazione di come l'Amore, quello vero, non può trovare ostacoli o impedimenti a questo mondo.
E neanche nell'Aldilà, visto che, ne sono certo, ora Lorenzo e la sua Maria si saranno di certo ritrovati.
Grazie, caro bardo, per questa meravigliosa storia fatta di Amore e di Eternità.

Taliesin 15-05-2013 08.40.46

Grazie a voi Cavaliere dell'Intelletto,
leale e prezioso amico, nelle vostre parole c'è quella sana malinconia del ricordo passato e dell'amore fanciullo, che per una sorta di magia, continua a seguire i vostri passi incerti di uomo, accarezzati dall'occhio vigile d'oltremondo delle vostre zie.
E' sempre un piacere, anche se raro, incrociare il vostro cammino,

Taliesin, il bardo

Taliesin 15-05-2013 09.12.27

LUCIDA MANSI: LO SPECCHIO DELLA VANITA'.

Lucida Mansi (Lucca, 1606 ca – Lucca, 12 febbario 1649) è stata una nobildonna italiana. È un personaggio di incerta attribuzione, probabilmente appartenente alla famiglia Samminiati.

Lucida si sposò molto giovane con Vincenzo Diversi, il quale venne assassinato nei primi anni di matrimonio. Rimasta vedova molto giovane, si risposò con l'anziano e ricco Gaspare di Nicolao Mansi. La famiglia Mansi era molto ricca e conosciuta in gran parte dell' Europa grazie al commercio delle sete già prima del secolo XVI. Il matrimonio destò scalpore per l'elevata differenza d'età tra i due coniugi e per la bellezza di Lucida rispetto a quella del nuovo sposo. Lucida sviluppò così un forte desiderio di evasione, tanto da divenire dissoluta nei costumi e perdere ogni dignità. Essa non rinunciava a lusso sfrenato, banchetti, feste e innumerevoli giovani amanti. Divenne anche talmente vanitosa da ricoprire di specchi un'intera stanza di Villa Mansi a Segromigno per potersi ammirare in ogni occasione.

Lucida morì di peste il 12 febbraio del 1649 e le sue spoglie riposano nella Chiesa dei Cappuccini a Lucca, nella cripta dedicata alla sua famiglia.

Ma c'è una storia nascosta oltre la leggenda...

Lucida Mansi, figlia di nobili lucchesi, era una donna molto attraente e libertina. Ella era talmente crudele ed attratta dai piaceri della carne che arrivò ad uccidere il marito per contornarsi liberamente di schiere di amanti. Pare inoltre che uccidesse gli amanti che le facevano visita, facendoli cadere, dopo le prestazioni amorose, in botole irte di lame affilatissime.

Una mattina però le sembrò di scorgere sul suo viso una quasi impercettibile ruga: il passare del tempo stava spegnendo la sua bellezza. Lucida, disperata, pianse e si lamentò tanto che apparse di fronte a lei un magnifico ragazzo, il quale le promise trent'anni di giovinezza in cambio della sua anima.

Dietro le fattezze del ragazzo si nascondeva però il Diavolo. Lucida accettò il patto. Per tutto il tempo pattuito con il Diavolo le persone che la circondavano continuavano a invecchiare, mentre lei manteneva intatta la sua bellezza e perdurava nella sua dissolutezza, fagocitando lusso e ricchezza e continuando a uccidere i suoi amanti.

Trent'anni dopo lo scellerato patto, la notte del quattordici agosto 1623, il Diavolo ricomparve per prendersi ciò che gli spettava. Lucida, ricordatasi della scadenza, tentò di ingannarlo: si arrampicò sulle ripide scale della Torre delle ore con la speranza di allontanare la sua fine inevitabile. Lucida saliva la Torre, affannata correva a fermare la campana, che stava per batter l'ora della sua morte. A mezzanotte in punto il Diavolo avrebbe preso la sua anima. Ma il tentativo di bloccare la campana fallì, Lucida non fece in tempo a fermare le lancette dell'orologio e così il Diavolo la caricò su una carrozza infuocata e la portò via con sé attraversando le mura di Lucca fino a gettarsi nelle acque del laghetto dell' Orto botanico di Lucca.

Ancora oggi chi immerge il capo in questo lago pare possa vedere il volto addormentato di Lucida Mansi. Nelle notti di luna piena pare oltretutto che sia possibile vedere la carrozza mentre dirige la donna verso l'inferno e sentirne le grida. Altre fonti individuano il fantasma della bella lucchese vagare nel palazzo di Villa Mansi a Segromigno o presso un'altra residenza Mansi in località Monsagrati (comune di Pescaglia) luoghi in cui essa soleva intrattenere e poi giustiziare i suoi amanti.

tratto da: wikipedia

Taliesin, il bardo

Taliesin 15-05-2013 09.30.48

GENOVEFFA DI BARDANTE: LA VIRTUOSA CONTESSA PALATINA.

Come ha fatto notare recentemente il bollandista M. Coens in un eccellente articolo che fa il punto sulla questione, esistono attualmente quattro racconti in latino che riguardano Genoveffa e si fondano su un modello comune: una copia, più o meno del 1500, che ci presenta la leggenda nel suo stato più sobrio e più arcaico un altro è conosciuto da un'edizione del 1612; un terzo data dal 1472 ed è dovuto a Matthias Emyich, priore dei Carmelitani di Boppard; un quarto, del sec. XVI, è stato redatto da Giovanni Senius di Friburgo in Brisgovia.

Si trova nei racconti un tema letterario comune, quello della donna innocente, circuita da un seduttore, calunniata da lui e vittima di un castigo iniquo (il racconto tessuto intorno a Genoveffa sarebbe il più vicino a quella narrazione germanica della fine del sec. XIV: Die Konigin von Frankreich and der ungetreue Marschall). Vi si ritrovano anche dei temi secondari: la cerva dispensatrice di latte, il pretesto della battuta di caccia che conduce poi alla scoperta di chi è stata abbandonata, ecc.

Dal punto di vista storico, si può avvicinare la leggenda di Genoveffa all'episodio di Maria di Brabante, sposa di Luigi II, duca di Baviera, che fu punita per adulterio, il 18 gennaio 1256 a Mangeistein, in seguito a un malinteso.

Dal punto di vista archeologico, si sono trovate tracce di un antico culto nella cappella di Fraukirch, presso Thür, santuario che ebbe un grande ruolo nella vita pubblica della Pellenz, e dove, in seguito a scavi recenti (Die Fraukirche in der Pellenz im Rheinlande and die Genove/alegende, in Rheinisches Jahrbuch für Volkskunde, II [1951], pp. 81-100), è stata rinvenuta una sepoltura che si crede di Genoveffa.

L'insieme di questi dati diede l'ispirazione per un romanzo popolare in versi e in prosa che ebbe un grande successo dal sec. XVII.

Genoveffa, la moglie virtuosa del conte palatino Sigfrido, che sarebbe vissuto nel sec. VIII, resiste a tutti i tentativi di seduzione del maestro di palazzo Gob durante l'assenza del marito ed è condannata dall'innamorato deluso al supplizio dell'annegamento col suo neonato. Il servitore incaricato dell'esecuzione della sentenza la abbandona in un luogo isolato in mezzo a un'immensa foresta, dove, con l'assistenza divina, Genoveffa riesce a sopravvivere, è scoperta per caso dal marito che era andato a caccia da quelle parti, e prova a lui la sua innocenza.

Genoveffa non è stata inserita in alcun martirologio o calendario ufficiale. Dall'inizio del sec. XVII, però, eruditi come il Miraeus e il Ferrari non hanno esitato a darle il titolo di santa.

tratto da:www.santiebeati.it di Albert D'Haenens

Taliesin, il Bardo

Taliesin 15-05-2013 15.11.58

TROTULA DE RUGGIERO: LA SAPIENTE SIGNORA.

Con la raccolta di erbe, frutti e radici per uso commestibile per la cura della propria famiglia e della propria tribù le donne, fin dalla preistoria , acquisirono grande esperienza nel riconoscere le piante sia curative che velenose ponendo le basi della moderna farmacologia e medicina.

Nei secoli il ruolo della donna in medicina conobbe però alterne fortune.
Contrariamente a quanto si pensa nel medioevo si formarono “ Medichesse” con un importante ruolo sociale e pubblico, spesso specializzate in ostetricia e ginecologia, con buone conoscenze di chirurgia. Nella Scuola Medica Salernitana, già nell’anno 1000 si ricordano nomi di medici donne: Abella, Mercuriade, Rebecca Guarna, Costanza Calenda, Trotula de Ruggiero (1050-1097).


In primo luogo vi dico che una donna filosofa di nome Trotula, che visse a lungo e che fu assai bella in gioventù e dalla quale i medici ignoranti traggono grande autorità ed utili insegnamenti, ci svela una parte della natura delle donne. Una parte può svelarla come la provava in sé; l’altra perché, essendo donna, tutte le donne rivelavano più volentieri a lei che non a un uomo ogni loro segreto pensiero e le aprivano la loro natura.1

La figura di Trotula (diminutivo di Trota, da Trocta o Trota o Trotta, nome assai diffuso in età medievale nell’Italia meridionale), è storica, non leggendaria, nonostante spesso, soprattutto da parte maschile, si sia dubitato della sua esistenza, e talvolta sia stata ritenuta anche uomo (Trottus o Eros); dama effettivamente vissuta nell’ XI (secondo alcuni XII) secolo, fu la prima donna medico della storia.

Dotta, scienziata, scrittrice, profondamente sensibile e dalle idee innovative, non magistra, non avendo il diritto di fregiarsi del titolo accademico,ma quasi magistra, o tamquam magistra, per le competenze e la stima popolare di cui godeva, considerata, fra il XII ed il XIV secolo, massima autorità in problemi di salute, igiene e bellezza femminile, operò nella realtà della famosa Scuola medica salernitana,2di cui fu la prima e più famosa esponente.

In questa scuola, celebre nei secoli perché vi si fusero le grandi correnti del pensiero medico antico, la tradizione greco-latina e le nozioni provenienti dalle culture arabe ed ebraiche, ed operarono i massimi nomi dell’epoca, furono attive le mulieres Salernitanae, una schiera di donne, la cui esistenza è suffragata da numerose testimonianze, esperte in medicina,che preparavano cosmetici per le dame della nobiltà.
Sulle mulieres Salernitane, tra il XIII e il XIV secolo, circolavano, però, voci deplorevoli, le si credeva più ciarlatane che scienziate, poiché il famoso medico e scienziato spagnolo Arnaldo da Villanova attribuiva alle levatrici di Salerno la pratica di somministrare alla donna, al momento del parto, una pozione contenente tre granelli di pepe, accompagnando la recita del Pater noster con una misteriosa formula magica:

Binomie lamion lamium azerai vaccina deus deus sabaoth
Benedictus qui venit in nomine Domini, osanna in excelsis.

Nonostante queste voci di discredito, però, la loro fama accrebbe, ed insieme anche quella di Trotula, il cui nome era legato, non solo in Italia ma anche oltralpe.

Fra le mulieres Salernitane, oltre a Trotula, si ricordano Abella, che scrisse due trattati in versi Sulla bile nera e Sulla natura del seme umano, Rebecca Guarna, autrice di opere Sulle febbri, Sulle orine e Sull'embrione, Mercuriade (forse uno pseudonimo), che compose Sulle crisi, Sulla peste, Sulla cura delle ferite e Sugli unguenti, Francesca di Roma, autorizzata dal duca Carlo di Calabria, nel 1321, ad esercitare la chirurgia, e Costanza Calenda che, forse nella prima metà del XV sec., grazie agli insegnamenti paterni, studiò medicina all'università di Napoli.
Trotula nacque, probabilmente, a Salerno dall’antica e nobile famiglia de Ruggiero, attiva verso il 1050; sposa del celebre medico Giovanni Plateario il vecchio, ebbe da lui due figli: Giovanni il giovane e Matteo, pure famosi nella Scuola medica salernitana e conosciuti come Magistri Platearii.
Sapiens matrona (secondo la leggenda anche una delle donne più belle del tempo, il cui funerale, nel 1097, sarebbe stato seguito da una coda di 3 chilometri), della sua competenza si legge nella Storia ecclesiastica del monaco anglo-normanno Orderico Vitale (III, pp. 28 e 76 Chibnall, vol. II) a proposito di Rodolfo Malacorona, un nobile normanno che aveva compiuto studi di medicina in Francia, che, giunto in visita a Salerno nel 1059 “non trovò alcuno che fosse in grado di tenergli testa nella scienza medica tranne una nobildonna assai colta” ([...]neminem in medicinali arte, praeter quondam sapientem matronam sibi parem inveniret).
E nel Dict de l’Herberie il trovatore parigino Rutebeuf, attivo fra il 1215 e il 1280, fece affermare ad un suo personaggio di essere al servizio di una nobildonna salernitana di nome Trota (ainz suis à une dame qui a nom madame Trotte de Salerne), la donna più saggia del mondo (sachiez que c’est la plus sage dame qui soit enz quatre parties du monde), che faceva uccidere dai suoi emissari degli animali feroci dai quali estrarre unguenti per curare i suoi ammalati.

Trotula, chiamata anche sanatrix Salernitana (guaritrice di Salerno), nel Medioevo era riconosciuta autorità indiscussa in disturbi e malattie femminili e cosmesi, godendo in quanto donna di fiducia delle sue consimili, offrendo a tutti garanzie per l’appartenenza alla Scuola medica salernitana; fornita di una cultura medica superiore, sottolineò l’importanza dell’igiene, del controllo delle nascite, dei metodi per rendere il parto meno doloroso, ed ebbe anche delle avanzate intuizioni, come, ad esempio, che l’infertilità potesse dipendere anche dall’uomo.
Considerava in medicina fondamentale la prevenzione e l’accurata anamnesi, al fine d’individuare la giusta terapia ed evitare l’intervento chirurgico, spesso erroneamente prospettato, o attuato, dai suoi colleghi maschi, come si evidenzia dalla lettura del passo seguente:

…Poiché, infatti, si doveva praticare un’incisione a una ragazza che, appunto per un gonfiore del genere, minacciava una lacerazione, Trotula, dopo averla visitata, rimase assai stupita… La fece venire dunque a casa sua per scoprire in un luogo appartato la causa del disturbo… Avendo individuato che il dolore non era causato da una lacerazione o da un ingrossamento dell’utero, ma dal gonfiore, le fece preparare un bagno con un infuso di malva e paritaria, ve la fece entrare e le massaggiò la parte più volte e assai dolcemente per ammorbidire. La fece restare a lungo nel bagno e, quando ne uscì, le preparò un impiastro di succo di tasso barbasso, di rapa selvatica e di farina d’orzo e lo applicò ben caldo per far sparire il gonfiore. Quindi le prescrisse un secondo bagno eguale al precedente e la ragazza guarì.

A Trotula nel Medioevo si attribuivano due opere, il De ornatu mulierum (Come rendere belle le donne) noto anche come Trotula minor, e il De passionibus mulierum ante, in et post partum (Le malattie delle donne prima, durante e dopo il parto) noto anche come Trotula maior o semplicemente Trotula, delle quali non si tramandarono le copie originali bensì dei manoscritti contenenti i suoi trattati, e grande fu la confusione nei secoli, tanto che divenne difficile discernere fra le varie altre opere a lei attribuite, infine si pervenne ad una sistemazione e, grazie anche al ritrovamento di un manoscritto madrileno del XIII secolo, fu possibile fare chiarezza e scoprire le conoscenze, la competenza, talvolta superiore a quella dei colleghi maschi, l’acume delle sue osservazioni ed anche la profonda sensibilità verso le pazienti e le donne in generale.
Le donne di Salerno pongono una radice di vitalba nel miele e poi con questo miele si ungono il viso, che assume uno splendido colore rosato. Altre volte per truccarsi il viso e le labbra ricorrono a miele raffinato, a cui aggiungono vitalba, cetriolo e un po' di acqua di rose. Fa' bollire tutti questi ingredienti fino a consumarne la metà e con l'unguento ottenuto ungi le labbra durante la notte, lavandole poi al mattino con acqua calda. Questo rassoda la pelle delle labbra e la rende sottile e morbidissima, preservandola da qualsiasi screpolatura, se essa è già screpolata, la guarisce. Se poi una donna vorrà truccarsi le labbra, le strofini con corteccia di radici di noce, coprendosi i denti e le gengive con del cotone; poi lo intinga in un colore artificiale e con esso si unga le labbra e l'interno delle gengive. Il colore artificiale va preparato così; prendi quell'alga con cui i Saraceni tingono le pelli di verde, falla bollire in un vaso d'argilla nuovo con del bianco d'uovo finché sarà ridotta a un terzo, poi colala e aggiungi prezzemolo tagliato a pezzetti, fa' bollire di nuovo e lascia di nuovo raffreddare. Quando sarà il moment, aggiungi polvere di allume, mettilo in un'anfora d'oro o di vetro e conservalo per l'uso. Questo è dunque il modo Ìn cui si truccano il viso le donne saracene: quando l'unguento si è asciugato, per schiarire il viso vi appli- cano qualcuna delle sostanze suddette, come l'unguento di cera e olio, o qualcos'altro, e ne risulta un bellissimo colore, misto di bianco e rosato.
Questi consigli di bellezza venivano impartiti da Trotula nel De ornatu mulierum, il trattato di cosmesi che insegnava alle donne come conservare, migliorare ed accrescere la propria bellezza e come curare le malattie della pelle.

Citando spesso come fonte autorevole le mulieres Salernitanae, oltre ad impartire insegnamenti sul trucco, suggeriva come eliminare le rughe, il gonfiore dal volto, le borse dagli occhi, i peli superflui, come rendere la pelle bianca e rosea e privarla di lentiggini e impurità, come far tornare i denti candidi e guarire le screpolature di labbra e gengive.
Siccome le donne sono per natura più fragili degli uomini, sono anche più frequentemente soggette a indisposizione, specialmente negli organi impegnati nei compiti voluti dalla natura. Siccome tali organi sono collocati in parti intime, le donne, per pudore e per innata riservatezza, non osano rivelare a un medico maschio le sofferenze procurate da queste indisposizione. Perciò la compassione per questa loro disgrazia e, soprattutto la sollecitazione di una nobildonna, mi hanno indotto a esaminare in modo più approfondito le disposizioni che colpiscono più frequentemente il sesso femminile. Dunque, poiché le donne non hanno calore sufficiente a prosciugare l'eccedenza di umori cattivi che si formano quotidianamente in loro e poiché l'innata fragilità non consente loro di sopportare lo sforzo di espellerli naturalmente attraverso il sudore, come fanno gli uomini, allora la natura stessa, in mancanza del calore, ha assegnato loro una forma speciale di purificazione, cioè le mestruazioni, che la gente comune chiama "i fiori". Infatti come gli alberi senza fiori non producono frutti, così le donne senza i propri fiori sono private della facoltà di concepire.

Questo passo è tratto, invece, dal prologo del De passionibus mulierum ante, in et post partum, l’opera più importante di Trotula, un vero e proprio manuale di ostetricia, ginecologia e puericultura, il primo trattato sistematico di ginecologia attribuibile a una donna, in cui i rimedi e le prescrizioni, talvolta molto semplici o semplicistici, riguardavano le malattie delle donne ed aspetti squisitamente femminili come il ciclo mensile, la gravidanza, il parto, i rischi del parto, l’allattamento, le difficoltà del concepimento, i disturbi fisiologici, le malattie dell’utero, l’isteria, ma che offriva consigli e suggerimenti su malesseri anche degli uomini, come il vomito, le malattie della pelle e persino i morsi del serpente.
Trotula, in osservanza dell’insegnamento del padre della medicina antica, Ippocrate, Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, mi asterrò dal recar danno ed offesa,3in attenzione delle afflizioni delle donne, si adoprava sempre per il giovamento del corpo, penetrando nei loro più intimi segreti, procurando, con garbo e discrezione, di offrire un rimedio per ogni tipo di disturbo che le affliggesse, senza pregiudizi e preconcetti, senza scandalizzarsi su quelli che avrebbero disturbato la morale del tempo, come descritto, ad esempio, nel capitolo De virginitate restituendo sophistice (Come ripristinare ingannevolmente la verginità), in cui offre consigli per parere vergini, a chi in tale stato più non si trovava, o quello in cuiin cui spiega come apportare sollievo ai problemi delle vergini o delle vedove private della regolare attività sessuale:
Ci sono donne cui non sono consentiti rapporti sessuali, vuoi perché hanno fatto voto di castità, vuoi perché sono legate dalla condizione religiosa, vuoi perché sono rimaste vedove. A certune, infatti, non è consentito di cambiare condizione e poiché, pur desiderando il rapporto sessuale, non lo praticano, sono soggette a gravi infermità. Per esse dunque si provveda in questo modo: prendi del cotone imbevuto di olio di muschio o di menta e applicalo sulla vulva. Nel caso che tu non disponga di quest’olio, prendi della trifora magna e scioglila in un po’ di vino caldo e applicalo sulla vulva con un batuffolo di cotone o di lana. Questo infatti è un buon calmante e smorza il desiderio sessuale placando dolore e prurito.
Comprensiva dell’universo femminile, Trotula era dotata di approfondite conoscenze, sicuramente maggiori di quelle maschili, sulla fisiologia della donna (ad esempio aveva ben identificato i segni della gravidanza incipiente relazionandola alla cessazione del fluxus matricis e alla duritio subita mammarum, l’aumento e l’indurimento delle mammelle) e ciò non stupisce dal momento che, in misoginia scientifica, nel generale clima sfavorevole al “sesso debole”, che faceva considerare le donne inferiori anche per la diversa anatomia e fisiologia, la maggior parte dei medici non le visitava approfonditamente (nemmeno aveva accesso alla stanza del travaglio e neppure presenziava nemmeno al parto, considerato “affare di donne”).

A Trotula, dunque, va ascritto anche il merito di aver offerto ai medici ignoranti, che lasciavano le donne alle terapie delle altre donne, offrendo cure solo all’altro sesso, utili insegnamenti, sulla natura delle donne.

NOTE
1) [C. A. Thomasset (ed.), Placide et Timéo ou Li secrés as philosophes, Genève 1980, pp. 133-134] in « Medioevo al femminile, Laterza, Roma- Bari, 1989.
2) La Scuola Medica Salernitana fu la prima e più importante istituzione medica d'Europa all'inizio del Medioevo ed accolse anche molte donne nella pratica e nell'insegnamento della medicina.
3) dal Giuramento di Ippocrate.
FONTI
F. Bestini, F. Cardini, C. Leopardi, M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri-Medioevo al femminile, Laterza, Roma- Bari, 1989.
Né Eva né Maria, a cura di Michela Pereira, Zanichelli, Bologna, 1981.
P. Arès- g. Duby- La vita privata dall’Impero romano all’anno mille, Edizione CDE S.p.a.Milano, 1987

Taliesin, il Bardo

elisabeth 15-05-2013 15.58.42

Su questa storia " la sapiente Signora ".......vi devo ringraziare personalmente.....avete dedicato un po' di spazio alle Donne medico .......Grazio mio Amato Bardo....

Taliesin 15-05-2013 16.22.46

Signora delle Scienze,
la differenza tra un uomo medico e una donna medico consiste non nelle capacità professionali o nei pregiudizi ancestrali di perduta memoria di cui anche la buona Trotula dovette subire fin dall'alba dei tempi, ma nella capacità o meglio nella sensibilità di riconscere il Cristo negli occhi dell'ammalato...E spesso gli eruditi Uomini della Politica Medicamentosa non conoscono questo dizionario.

Ma voi, Madonna, grazie al Signore del cielo e degli acquitrini, sapete bene di cosa io vado farneticando, o no...?

Taliesin, il Bardo

Guisgard 16-05-2013 01.25.30

Citazione:

Originalmente inviato da Taliesin (Messaggio 54697)
Grazie a voi Cavaliere dell'Intelletto,
leale e prezioso amico, nelle vostre parole c'è quella sana malinconia del ricordo passato e dell'amore fanciullo, che per una sorta di magia, continua a seguire i vostri passi incerti di uomo, accarezzati dall'occhio vigile d'oltremondo delle vostre zie.
E' sempre un piacere, anche se raro, incrociare il vostro cammino,

Taliesin, il bardo

Amico mio, non è vero che solo raramente i nostri passi si incrociano qui a Camelot.
Io leggo sempre con attenzione ogni vostro scritto e ogni vostra considerazione.
Seguo con vivo interesse questa discussione, che state alimentando con il vostro entusiasmo ed il vostro sapere, attraverso questi magnifici ritratti di donne straordinarie.
E leggerli la sera, prima di andare, quando tutto a Camelot tace, da a queste storie un sapore particolare.
E anche per questo vi sono debitore :smile:

Taliesin 16-05-2013 12.15.58

LA LEGGENDA DI MELUSINA: LA DONNA SERPENTE.

Melusina era una delle tre bellissime figlie della fata Presina e del re d’Albania, Elinas. Quando pressina sposò Elinas, gli fece giurare che in determinati giorni non le avrebbe fatto visita a nessun costo. Ma Elinas, raggiante per la notizia della nascita delle figlie, si precipitò nelle stanze della regina, sorprendendola mentre faceva il bagno alle bimbe.

Pressina protestò perché egli era venuto meno alla parola data e, prese le figlie, se ne andò per non più tornare. Allevò le bimbe in un’isola lontana ed inaccessibile; esse potevano guardare dalla vetta della montagna più alta verso l’Albania e lamentare così la perdita del loro regno. Quando poi le figlie ebbero l’età giusta per capire, Pressina raccontò loro di come il padre aveva rotto la promessa. Melusina escogitò subito un piano per vendicare la madre e convinse la sorella ad aiutarla. Le tre giovani fate si recarono in Albania dove, con l’aiuto di un incantesimo, imprigionarono in cima ad una montagna il re con tutti i suoi tesori. Quando la madre venne a conoscenza di una tale impresa si irritò moltissimo e le punì severamente.

Melusina fu condannata a diventare, ogni sabato, un serpente dalla vita in giù e tale castigo sarebbe dovuto durare fino a che non avesse sposato un uomo capace di mantenere la promessa di non vederla in quel determinato giorno.

Allora Melusina intraprese un lungo viaggio in cerca dell’uomo che l’avrebbe liberata. Percorse tutta Europa attraversando la Foresta nera e le Ardenne, finchè arrivò nel Poitou, in Francia, dove, nella foresta di Colombiers, divenne regina delle fate di quei luoghi.

Una sera un giovane cavaliere di nome Raimondo, mentre vagava per la foresta, incontrò Melusina vicino alla fontana della Sete. Raimondo si innamorò subito della bellissima fata e la chiese in moglie. Ella rispose che sarebbe stata contenta, a patto che le giurasse che non avrebbe mai cercato di vederla il sabato: il cavaliere promise ed essi si sposarono. Melusina costruì per lui un grande castello, il castello di Lusignan, che sorgeva su una rocca vicino alla sorgente presso la quale si erano incontrati per la prima volta.

Ma l’incantesimo pronunciato da Pressina aveva gettato la sua bieca luce sull’intera esistenza della figlia, la cui prole nacque tutta deforme. Un maligno cugino di Raimondo lo convinse allora a spiare la moglie, dopo aver seminato nella sua mente il seme della gelosia e del sospetto: Raimondo si appostò in un angolino nascosto nell’appartamento della consorte e da lì, un giorno, vide il suo corpo trasformarsi in serpente. Allora venne preso dall’angoscia di poter perdere Melusina per sempre, ma decise di non confidarle la sua scoperta. Uno dei loro figli, però, soprannominato Geoffey del Dente, perché un enorme dente gli sporgeva dalla bocca come una zanna di cinghiale, uccise il fratello Freimund. Nell’apprendere la notizia di questa nuova sventura, il conte Raimondo non potè nascondere il dolore e l’ira e disse a Melusina “inqufuori dalla mia vita, serpente malefico! Tu che hai inquinato la mia razza!” Udendo le sue parole Melusina capì che lo sposo aveva rotto il giuramento e che, per obbedire al proprio destino, se ne sarebbe dovuta andare per sempre. Gemendo e singhiozzando, lasciò il castello del Lusignan e da allora vagò come spettro per la terra con dolore e sofferenza.

Come spesso accade, il utto tra storia e leggenda...

La storia di Melusina fu uno dei racconti più popolari diffusi nel Medioevo.

Nel 1387 Jean d’Arras raccolse tutte le leggende che si conoscevano sull’argomento e le pubblicò nella sua cronaca. Stefano, un monaco del casato del Lusignan, le rielaborò nella “Cronaca di Jean d’Arras” e la storia di Melusina divenne famosa. Molte nobili famiglie europee, tra le quali i Rohan e i Sassenaye, falsificarono i loro alberi genealogici per vantare la discendenza da Melusina. Il casato di Sassenageeven arrivò al punto di rinunciare alla propria stirpe reale pur di annoverare Melusina tra i suoi antenati affermando che, dopo essere stata scacciata dal Lusigna la fata si era rifugiata nella grotta si Sassanaye nel Delfinato.

Secondo una leggenda lussemburghese Melusina, in seguito, sposò Sigfried che, nel 963, espugnò il formidabile Bock, un’enorme rocca che domina la valle del fiume Alzette e con l’aiuto della moglie costruì poi sulla roccia l’inespugnabile fortezza del Letzbelburg, divenuta in seguito il regno del Lussemburgo. Un sabato Sigfried vide Melusina che si bagnava in un’ insenatura riparata del fiume Alzette. Secondo il volere del fato Melusina scomparve e fu tenuta prigioniera nella grande rocca per aver stretto alleanza con un mortale. Ogni sette anni però, ritorna e per un breve periodo la si vede sul bastione della vecchia fortezza; In bocca tiene una chiave d’oro e qualunque giovane riesca a prenderla può chiedere Melusina in moglie, liberandola.

Sempre una leggenda lussemburghese vuole che durante i giorni di prigionia ella si dedichi a cucire una camicia di lino a cui mette un punto ogni sette anni; se la camicia sarà terminata prima che lei venga liberata, allora il Bock e tutta la città di Lussemburgo scompariranno dalla terra con un grande boato.

Taliesin, il Bardo

Taliesin 16-05-2013 12.28.02

LA NINFA SCILLA: IL MOSTO CHE CHE DILANIA.

Perdonate Giovani Viandanti,
il mio improvviso dilagare e divagare dagli argini definiti dagli Uomini dei Lumi, che coprono uno spazio temporale che si getta tra gli anni della caduta dell'Impero Romano d'Occidente agli anni della Ri-scoperta delle Americhe, ma le due figure mitologiche hanno attraversato i millenni e si sono depositate nell'immaginario collettivo dell'uomo di mare medioevale, che aveva personificato nelle due donne mostro, le ninfee di cui vado narrarvi la storia...


Taliesin, il Bardo

Se è vero che l’attraversamento del mare rappresenta il superamento di qualcosa di ignoto e quindi di terribile, ancor più pericoloso doveva esser il superamento di uno Stretto dove delle correnti diverse potevano sballottare il naviglio da una parte o dall’altra e dove la visuale da una terra a l’altra dava la concreta idea del superamento di un confine.

Successe così che, per gli antichi marinai, lo stretto di Messina, fosse abitato da due terribili mostri: Scilla e Cariddi.

Sulla punta della Calabria, troviamo Scilla (il significato greco del nome è: colei che dilania). Prima di diventare un mostro marino, Scilla era una ninfa, figlia di Forco e Ceto.

Secondo la leggenda, Scilla viveva in Sicilia, ed aveva la passione di andare sulla spiaggia di Zancle e fare il bagno.
Una sera, mentre la ninfa era sulla spiaggia, vide apparire dalle onde Glauco, il figlio del dio Poseidone, un dio marino metà uomo e metà pesce. Scilla, terrorizzata alla sua vista, si rifugiò sulla vetta di un monte che si trovava vicino alla spiaggia. Il dio, infatuato dalla visione di Scilla, iniziò ad urlarle il suo amore, ma la ninfa continuò a fuggire, lasciando il poveretto solo con il dolore per un amore non corrisposto.
Glauco, senza darsi per vinto, andò all'isola di Eea dove aveva dimora la maga Circe chiedendole un filtro d'amore. Circe, innamorata del giovane dio, gli propose di lasciar perdere ed accettare invece il suo amore.
Glauco si rifiutò, confermando il suo amore per Scilla. Circe, furiosa per essere stata respinta, decise di vendicarsi sulla giovane ninfa.
Quando Glauco fu lontano, la maga preparò una pozione per vendicarsi dell’affronto subito e si recò presso la spiaggia di Zancle, senza essere vista, versò il filtro in mare e ritornò alla sua dimora.
Scilla arrivò sulla spiaggia per fare un bagno. Appena entrata nell’acqua vide crescere intorno a sé delle mostruose teste di cani. Spaventata fuggì al largo, ma si accorse che i cani la seguivano dato che erano il frutto del filtro di Circe. Si rese conto allora che sino al bacino era ancora una ninfa ma al posto delle gambe, attaccati al resto del corpo con un collo serpentino, spuntavano sei musi feroci di cani. Per l'orrore Scilla andò a vivere nella cavità di uno scoglio che da lei prese il nome.

LA DEA CARIDDI: IL MOSTRO CHE RISUCCHIA.

Cariddi (dal greco: colei che risucchia) nella mitologia greca era un mostro marino che prima beveva enormi quantità di acqua e poi le sputava. Secondo la leggenda, Cariddi, era figlia di Poseidone, dio del mare e Gea dea della terra.

Cariddi faceva delle rapine ed era famosa soprattutto per la sua ingordigia.

Un giorno, la giovane ladra, rubò ad Eracle i buoi di Gerione per mangiarne qualcuno. Zeus, per punirla del saccheggio, la fulminò facendola cadere in mare. Per mantenerla in vita, Cariddi venne trasformata in un mostro che formava un vortice marino, così potente da inghiottire le navi, per poi risputarne i resti, che passavano vicino a lei.
La leggenda pone la tana del mostro presso uno dei due lati dello stretto di Messina, di fronte all'antro del mostro Scilla.

Le navi che passavano per lo stretto di Messina, così, erano obbligate a passare vicino ad uno dei due mostri.
Nella realtà, in quel tratto di mare si trovano davvero vortici potenti causati dall'incontro delle correnti marine. Se al giorno d’oggi si volesse visitare il nascondiglio di Cariddi, dovrebbe andare sulla punta messinese della Sicilia, a Capo Peloro.
Cariddi è menzionata anche nel canto XII dell'Odissea di Omero, in cui si narra che Ulisse preferì affrontare Scilla, per paura di perdere la nave passando vicino al gorgo.

Anche Virgilio nella sua Eneide, fa menzione dei due mostri.
Odissea libro XII

Là dentro Scilla vive, orrendamente latrando:
la voce è come quella di cagna neonata,
ma essa è mostro pauroso, nessuno
potrebbe aver gioia a vederla, nemmeno un dio, se l'incontra.
I piedi son dodici, tutti invisibili:
e sei colli ha, lunghissimi: e su ciascuno una testa
da fare spavento; in bocca su tre file i denti,
fitti e serrati, pieni di nera morte.
Per metà nella grotta profonda è nascosta,
ma spinge le teste fuori dal baratro orribile,
e lì pesca, e lo scoglio intorno intorno frugando
delfini e cani di mare e a volte anche mostri più grandi
afferra, di quelli che a mille nutre l'urlante Anfitrìte.

(...)

L'altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo,
vicini uno all'altro, dall'uno potresti colpir l'altro di freccia.
Su questo c'è un fico grande, ricco di foglie:
e sotto Cariddi gloriosa l'acqua livida assorbe.
Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe
paurosamente. Ah che tu non sia là quando assorbe!


Virgilio (Eneide III 420-23)
“Il fianco destro di Scilla, il sinistro Cariddi implacabile tiene, e nel profondo baratro tre volte risucchia l’acqua, che a precipizio sprofondano, e ancora nell’aria con moto alternale scaglia, frusta le stelle con l’onda"

tratto da: www.correrenelverde.com

Taliesin, il Bardo

elisabeth 16-05-2013 20.34.47

Citazione:

Originalmente inviato da Taliesin (Messaggio 54717)
Signora delle Scienze,
la differenza tra un uomo medico e una donna medico consiste non nelle capacità professionali o nei pregiudizi ancestrali di perduta memoria di cui anche la buona Trotula dovette subire fin dall'alba dei tempi, ma nella capacità o meglio nella sensibilità di riconscere il Cristo negli occhi dell'ammalato...E spesso gli eruditi Uomini della Politica Medicamentosa non conoscono questo dizionario.

Ma voi, Madonna, grazie al Signore del cielo e degli acquitrini, sapete bene di cosa io vado farneticando, o no...?

Taliesin, il Bardo

Capisco bene cosa volete intendere....e purtroppo alle volte e' cosi'.........

Taliesin 20-05-2013 16.11.24

SICHELGAITA: LA DUCHESSA GUERRIERA.

Dalle antiche cronache tropeane risulta che molto fiorenti sono sempre state le relazioni tra i Duchi e i Re della dinastia normanna con i Vescovi di Tropea. Alla venuta dei Normanni in Calabria nella sedia vescovile tropeana si era insediato un uomo molto illustre, Calociro, protosincello imperiale nonchè ultimo vescovo di rito greco, al quale Roberto il Guiscardo concesse dei privilegi, come si evince da un diploma pervenutoci in traduzione latina, rogato da tal Giovanni, regalis clericus, nel gennaio del 1066.

Il medesimo Calociro nel 1062 avrebbe accolto con grande ospitalità, tributandole solenni onoranze, la profuga moglie del Guiscardo, Sichelgaita, la quale, a quanto racconta Goffredo Malaterra, s'era rifugiata a Tropea in seguito alla notizia (falsa) che il marito era stato assassinato a Mileto ( G. Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius, a. c. di E. Pontieri, Bologna 1927). Detto vescovo seppe così bene accattivarsi la riconoscenza del Guiscardo, che questi, col diploma del 1066, confermò ed accrebbe i domini che il Vescovado di Tropea possedeva. Calociro in questo ampio diploma è detto Protosincello, posto più illustre fra i Sincelli e loro capo e fu in quell'occasione che la stessa Sichelgaita fece dono al suo ospite benefattore del famoso pastorale, il pezzo più pregiato d'alta oreficeria facente parte del tesoro della Cattedrale di Tropea. Successivamente, il vittorioso Roberto si dice avesse ancor più arricchito l'illustre Vescovo Protosincello, suo Consigliere.
Anche il Duca Ruggero Borsa con diploma del 1094 accrebbe le donazioni fatte dal padre suo al Vescovo di Tropea, Iustego, unendovi la sedia di Amantea, allora soppressa, e poi Guglielmo il malvagio, trovandosi a Messina, ne estese ampia conferma nel 1155.

Le cronache sostengono anche che in quel tempo Sichelgaita avesse delle pertinenze in quel di Tropea e precisamente la località di Bordila (Parghelia) e della sua tonnara (<<tonnaria in territorio Tropeae loco qui Bordella vocatur>>). Tonnara che fu poi dal Duca Ruggeri concessa al monastero di Montecassino e all'abate Oderisio, proprio nell'anno della morte di Gaita (1090), la quale era stata assidua benefattrice di Montecassino, cui la legava il vincolo di parentela con l'abate Desiderio, poi Papa Vittore III. E non a caso, le sue ultime volontà furono quelle di essere sepolta nel suddetto monastero.

Ma vediamo chi fu veramente questa donna, affascinante e sapiente, che, giovanissima, a ventidue anni divenne sposa del gigante dagli occhi azzurri, Roberto il Guiscardo, il più grande guerriero del suo tempo, ma rude analfabeta e come la sua discreta e assennata opera diplomatica, presso la corte normanna, sia risultata vincente.

La principessa Sichelgaita visse in un periodo di eccezionale rilevanza storica, che vide il processo di rinnovamento della Chiesa di Roma, nel segno della riforma gregoriana, la lotta delle investiture, l'espansione dei nuovi barbari nella Longobardia minore, il declino dell'antico principato di Salerno, il trionfo dello Stato normanno.

I protagonisti furono: Gregorio VII, Enrico IV, Desiderio di Montecassino, Alfano I di Salerno, Roberto il Guiscardo e Sichelgaita, figura che Amato di Montecassino descrive "nobile, bella e saggia" e Romualdo, arcivescovo e storico salernitano "onesta, pudica, virile nell'animo e provvida di saggi consigli".


Sichelgaita nacque a Salerno nel 1036 dal principe Guaimario IV, della dinastia dei longobardi spoletini, e da Gemma, figlia del conte Landolfo di Teano. Guaimario volle dare alla sua terza figlia il nome di sua nonna, donna di altissimo lignaggio longobardo. Gaita trascorse l'infanzia e la fanciullezza nel monastero di S. Giorgio, contiguo al Palatium; da un documento del 1037 risulta che in quel prestigioso monastero vi era una infermiera nel cui laboratorio si preparavano i medicamenti. Gaita conobbe perciò l'arte medica sin da fanciulla (fu discepola di Trotula De Ruggero, la celebre medichessa) e subì una grande attrazione per lo studio, la bellezza dei classici latini e greci e la sapienza delle Sacre scritture.

Fu circondata dall'affetto del padre, che era l'uomo più potente dell'Italia meridionale, principe di una Salerno detta, universalmente, "opulenta"; purtroppo il suo potere gli procurò ostilità ed isolamento politico ed il 3 giugno 1052 fu barbaramente trucidato da congiurati di palazzo, che avevano cospirato con i ribelli amalfitani.
Ad ereditare l'ingegno paterno fu Sichelgaita ma, per la sua condizione di donna, dovette dare spazio al fratello Gisulfo II, di lei più giovane; ebbe però il suo ruolo di guida e di governo del Palatium, talché divenne subito famosa per le sue opere sociali e culturali.

Gli storici raffigurano Sichelgaita come un personaggio imponente e forte, più affascinante che bello: longilinea e slanciata, dall'incedere regale, sguardo penetrante e un'indole autoritaria non priva di personalità e misticismo. La fama delle sue virtù giunse sino al potente Roberto il Guiscardo e ne fu affascinato. Questi colse l'occasione per chiedere la mano della principessa longobarda allorquando Gisulfo II gli inviò suo fratello Guido, per chiedergli aiuto contro le continue invasioni del principato ad opera di Guglielmo il normanno.

Roberto così si rivolse a Guido: "annuncia al principe Gisulfo che chiedo in sposa Sichelgaita, principessa di Salerno, sorella sua e tua. E' giunto a me ed alla mia gente la fama di donna avvenente, saggia, pudica e religiosa. sarà grande onore e gioia per il popolo normanno vederla sposa e signora del suo duce". Aggiunse che avrebbe divorziato da Alberada, da cui aveva avuto Boemondo. Per motivi politici Gisulfo II tentò di ostacolare le nozze ed addusse che l'erario del principato non era, allora, in condizione di sostenere le spese totali.

Il Guiscardo, per tutta risposta, venne a Salerno, affrontò Gisulfo, gli confidò che prendere in sposa Sichelgaita significava il suo massimo ideale e gli gridò che avrebbe provveduto lui stesso ad assegnarle in dote le più ricche terre ed i più splendidi castelli di Calabria.

La fiaba diventava storia.

Gaita compiva allora 22 anni, conservava il titolo di principessa longobarda, acquisiva quello di duchessa normanna, diventava sposa di Roberto il Guiscardo, il biondo gigante dagli occhi azzurri, il più grande guerriero ed il più abile ed astuto statista del suo tempo, ma "rude analfabeta". Pur rimanendo nel suo ruolo, ella apporterà un concreto e fattivo contributo al successo di tutte le tappe politiche di Roberto, grazie alla sua cultura, alla sua rara saggezza, al suo sincero affetto coniugale. I loro rapporti furono di una certa conflittualità: da una parte lei con la sua tenace longobardicità, a cui non abdicò mai, dall'altra lui, rozzo, con l'asprezza e l'inflessibilità dei vichinghi, sterminatori e privi di pietà. Fu un freddo duello tra razze e civiltà diverse, una a suo sorgere, l'altra al suo tramonto; riuscì sempre a prevalere il garbo, il fascino personale, l'eleganza e la nobiltà di Gaita.

Nell'aprile 1059, con papa Nicolò II, ebbe luogo in Laterano, uno dei più rivoluzionari concili della storia, in cui furono sancite le norme che travolgeranno il tradizionale assetto della Chiesa. I riformisti erano attenti alle possibili reazioni della corte tedesca e non potevano non pensare di coinvolgere i normanni, quali possibili difensori della strategia indipendentista della Chiesa. Questa valutazione politica non sfuggì a Sichelgaita, la quale pensava ai vantaggi che poteva portare al marito l'avvio di un processo di pacificazione e di revisione degli antichi rapporti di conflittualità con il papato.

Cominciò allora un'abile opera per persuadere Roberto e favorire opportune intese ed alleanze: per quanto fiero, autoritario ed arrogante, il normanno accettò l'ingerenza di Gaita nelle sue determinazioni e manifestò al nuovo papa Nicolò II, il quale, forte dell'incoraggiamento degli ideologi riformisti, approfittò per indire subito un nuovo concilio a Melfi.
Sichelgaita volle provvedere all'intera organizzazione, riservando al pontefice un'accoglienza maestosa. Roberto e Gaita si inginocchiarono dinanzi a lui con sentita umiltà e lui li abbracciò e benedisse: era questa una importante tappa della scalata dei normanni alla completa conquista del Mezzogiorno. Furono confermate le norme appena sancite dal concilio lateranense, e, nella giornata conclusiva, il papa consacrò ufficialmente Roberto, duca di Puglia e Calabria, con la possibilità della conquista della Sicilia. In cambio il Guiscardo si impegnò a difendere la Chiesa contro l'impero bizantino e germanico ed a garantire l'elezione del Papa secondo le norme del concilio. Sichelgaita era felice di aver contribuito alla grande riconciliazione.

Alla fine del 1059, nacque Ruggero, il primogenito; verranno altri sette figli, due maschi e cinque femmine. Gaita seppe coniugare brillantemente il ruolo di donna politica con quello di madre.

Purtroppo, i rapporti tra il papa Gregorio VII e il Guiscardo si incrinarono perché quest'ultimo aveva rifiutato di combattere i normanni che devastavano i territori della Chiesa negli Abruzzi. Il Guiscardo mirava alla conquista di Salerno e ragioni politiche imponevano tale atteggiamento. Fu perciò raggiunto, nel 1074, dalla scomunica, con grande dolore di Gaita che ne rimase profondamente sconvolta. L'esercito normanno mosse alla volta di Salerno nel maggio 1076. Sichelgaita, per evitare spargimento di sangue, escogitò ogni possibile tentativo e riuscì persino a convincere suo cugino, l'abate Desiderio di Montecassino a intercedere presso Gisulfo II per una risoluzione diplomatica della vicenda, ma inutilmente.

Alfano, vescovo di Salerno, dinanzi a tanta follia del suo principe, si rifugiò presso Roberto nella speranza che il suo gesto avrebbe fatto precipitare gli eventi. Gaita era tormentata dalla sorte del fratello Gisulfo e si adoperò presso il marito affinché avesse il massimo rispetto del suo dramma e della sua dignità; Roberto, seppure con riluttanza, ne raccolse l'appello. Donò a Gisulfo II mille bisanti d'oro e gli concesse di rifugiarsi da papa Gregorio VII, che lo nominò governatore delle terre della Chiesa.

Il 13 dicembre 1076 i normanni entrarono in Salerno e l'occuparono: alla notizia dell'arrivo di Gaita accorsero i vecchi longobardi, gli amalfitani del vico di Santa Trofimena, gli ebrei del quartiere di Santa Maria de Dommo, gli schiavi saraceni, i profughi bizantini, tutti plaudenti a lei, loro speranza. Era lei la vera grande trionfatrice e, nel vedere sgretolarsi la Longobardia Minore, giurava a se stessa di farla rivivere in suo figlio Ruggero.
Gaita tornò nella sua vecchia reggia e da consigliera abilissima, spinse il Guiscardo ad essere prodigo ed a ristrutturare chiese e conventi. Nel 1080 si dava anche inizio alla costruzione del Duomo; tanta dimostrazione di profonda devozione da parte di Roberto, indusse il Papa a liberarlo dalla scomunica.

Sichelgaita riprese anche a frequentare la scuola medica, in cui, dominava la figura di un gigante della medicina, Costantino l'Africano, profugo dalla nativa Cartagine, uno dei massimi veicoli della scienza araba nell'occidente. Roberto volle donare a Gaita una nuova reggia, Castel Terracena, che, per merito suo, divenne un centro politico e sociale, culla del mecenatismo dei sovrani, all'attenzione dell'Europa: Salerno assurse così a mediatrice tra l'oriente e l'occidente.

Purtroppo un pesante pensiero tormentava da sempre Gaita: era interiormente angosciata per la sorte della figlia Olimpiade, che era stata inviata alla corte di Costantinopoli quale promessa sposa. L'evolversi degli eventi, nel 1078, comportò, però, la deposizione dell'imperatore Michele Dukas per cui Olimpiade, poi divenuta Elena, fu relegata in un convento.
Tale situazione portò Sichelgaita ad appoggiare il progetto di Roberto di volgere contro Bisanzio; fu una spedizione che assunse il carattere di una "precrociata". Venne allestita una flotta imponente sulla quale si imbarcò anche Sichelgaita. Dopo Corfù, l'esercito normanno volse alla conquista di Durazzo. Lo scontro fu di inaudita violenza, un'ala delle colonne normanne, guidata da Roberto e Boemondo, ebbe la meglio sulle truppe greche e veneziane, alleate, mentre un'altra ala stava per ripiegare. Sichelgaita sentì cadere su di lei la responsabilità del momento: saltò a cavallo ed alla testa dei suoi uomini si lanciò impavida nella mischia.

Una freccia la colpì alla spalla sinistra e rischiò di essere fatta prigioniera, ma il suo coraggio risvegliò talmente l'ardire dei normanni che li portò alla vittoria. Durazzo, il 18 ottobre 1081, era conquistata: Roberto corse incontro a Sichelgaita e l'abbracciò tra l'esultare e le acclamazioni dei soldati. L'atto di coraggio fu così commentato da Guglielmo Appulo: "Dio la salvò perché non volle che fosse oggetto di scherno una signora sì nobile e venerabile".

Purtroppo Roberto non poté continuare la spedizione verso l'Illiria perché, su invocazione di Gregorio VII, dovette muovere verso Roma, contro Enrico IV. Giunto a Roma, nel maggio 1084, con un esercito di seimila cavalieri e trentamila fanti, compì massacri di inaudita ferocia, talché Gregorio dovette partire in esilio al seguito del Guiscardo, perché il popolo lo riteneva colpevole elle sue disgrazie. Fecero tappa a Montecassino: il Papa, benedettino, sperò di ritrovare lì la sua pace, ma l'ambizione di Roberto lo voleva nella capitale normanna, a Salerno, per cui dovette subire, quasi prigioniero, la volontà di chi era il vittorioso protagonista di una immane tragedia.

Sichelgaita fu felice di poter ricevere il Papa con accoglienze trionfali e subito organizzò la consacrazione solenne della splendida cattedrale che, con Roberto, aveva fatto costruire in onore di S. Matteo. Era infatti necessario ripartire con urgenza per l'Oriente, ove l'esercito del Guiscardo era allo sbando.

Ai primi di ottobre del 1084 salparono da Brindisi, con una flotta di 120 galee, Roberto, Boemondo e Ruggero; li accompagnava Sichelgaita per stare accanto al suo sposo, ormai settantenne, e per nostalgia della figlia Elena .

L'anno 1085 fu un anno funesto. La gloria, per Salerno, di ospitare, tra le sue mura, quel gigante di pontefice non durò a lungo: il 25 maggio del 1085, nel cenobio di S. Benedetto, esalò il suo spirito. La sua morte lasciò attonito il mondo intero; intorno a se, negli ultimi anni del suo supremo pontificato, si era svolta la vita di tutte le nazioni ed aveva tenuto testa a tutti e contro tutti, per tutelare i sacrosanti diritti della Chiesa.

Sichelgaita, lontana da Salerno, non pose mai freno alle lacrime e lo pianse come un padre. Le reliquie del patrono S. Matteo e quelle di S. Gregorio sono state sempre il maggior orgoglio della basilica salernitana, che per averlo ospitato nel suo esilio ebbe l'onore di diventare "Chiesa Primaziale".
Dopo meno di due mesi, moriva in Cefalonia, colpito da malattia epidemica, il Guiscardo: cedeva alla natura il 17 luglio 1085, nel settantesimo anno di vita; Sichelgaita, Boemondo e Ruggero, immersi nel più straziante dolore, sciolsero le vele verso la Puglia, con le sue spoglie mortali, che furono sepolte nella chiesa della Badia della SS. Trinità di Venosa. L'autorevole cronista Guglielmo Appulo descrive con vivo realismo la commozione di Sichelgaita: "oh dolore ! che arò io sventurata? dove potrò andarmene infelice? Quando apprenderanno la notizia della tua morte i Greci non assaliranno forse me, tuo figlio e il tuo popolo, di cui tu solo eri la gloria, la speranza e la forza?".

Henric von Kleist, nella tragedia "la morte del Guiscardo" di cui fu pubblicato un solo atto, rappresenta Sichelgaita mentre cerca di ristorare il marito bruciato dalla febbre e la figlia Elena, presente purtroppo solo nella rappresentazione tragica, che stringe sul petto la madre. Dante Alighieri non dubitò di collocare il Guiscardo in paradiso, tra le anime di coloro che avevano ben amministrato la giustizia.

Il nove ottobre ancora di quell'anno, la morte colpì un altro personaggio non meno interessante per la storia di Salerno, l'arcivescovo Alfano I, medico e letterato. Fu sepolto accanto alla tomba di Gregorio VII, suo amico, affinché la morte non valesse a separarli. Fu un ulteriore dolore per Gaita, perdeva l'ultima sua guida, un amico di sempre, a lei congiunto in parentela, un longobardo cui aveva sempre confidato i suoi più intimi pensieri.

Ormai sola, si ritirò in Castel Terracena e continuò a prodigarsi in favore del figlio Ruggero Borsa. Con illuminata intuizione attuò un antico "istituto longobardo": decise di associarlo nel governo del ducato, fin quando non fosse sopita ogni polemica sulla successione. La soluzione fu ben accolta a corte, dal patriziato, dal clero e dal popolo, i quali erano certi che l'esperienza e la saggezza della madre si sarebbero integrate con la giovanile intraprendenza del figlio.

A Boemondo furono assegnate le sue conquiste in Grecia e varie città pugliesi, quali Bari, Otranto e Taranto.

Anche questa volta fu Gaita a trionfare, fu il suo carisma che si impose. La scelta del "bicefalismo ducale", come fu definito dagli storici, fu il modo più intelligente per scongiurare le lotte intestine ed assicurare il rilancio di un forte governo del ducato. Sichelgaita, pur senza Roberto, riuscì, in forza delle sue possenti note caratteriali, a portare Salerno al culmine della sua potenza. Essa non fu più solo "opulenta" e potenza militare; dalla tomba dell'evangelista S. Matteo e da quella di Papa Gregorio VII si levava il potente richiamo ai valori del cristianesimo militante.

Negli ultimi anni, Gaita si dedicò ad una vita di preghiera; frequentava con molta assiduità la Badia di Cava, alla quale aveva fatto donare, sin dai tempi del Guiscardo , molti conventi e fu assidua benefattrice di Montecassino, cui la legava il vincolo di parentela con l'abate Desiderio, poi Papa Vittore III. Sentì molto vivo anche il culto di S. Nicola di Bari. Fu questo un periodo finalmente tranquillo, in pieno ardore religioso, in cui poté sostenere l'opera di moralizzazione della Chiesa. In un momento di sconforto spirituale, rivelò a Gaitelprima, sua sorella, la sua ultima volontà: chiedeva d'essere sepolta a Montecassino.

Sichelgaita morì il 27 marzo del 1090: i longobardi si sentirono privati di una madre, i normanni ebbero chiara coscienza che si dileguava l'ultima testimonianza del loro potere, gli umili la piansero affettuosamente. Mentre il Guiscardo si era fatto seppellire nella SS. Trinità di Venosa, nel sacrario dei duchi normanni, dove, più tardi Boemondo fece tumulare anche sua madre Alberada, Sichelgaita scelse, come sua ultima dimora, Montecassino.

Fu l'ultimo gran gesto di una figura maestosa della storia a noi più vicina; volle farsi in disparte dando un forte segno d'umiltà, di quell'umiltà che connota i forti e che la pose nella leggenda.

tratto da: www.tropeamagazine.it
Taliesin, il Bardo




Taliesin 21-05-2013 10.24.29

Il Buon Cavaliere della Carretta,
certamente perdonerà questo mio ennesimo sconfinamento temporale di circa centoottoaani, oltre quella riscoperta americana di cui vi narrai in un recente passato, ma il desiderio di far conoscere le disavventure di questa fanciulla che voleva divenire nei suoi sogni di bambina una stella lucente nel firmamento per essere così ammirata da un padre troppo distratto, era talmente forte da non poetere essere circoscritta dentro illogici confini di spazio e di tempo. A mio avviso, la famosa condanna da parte della Chiesa e la recente riabilitazione per volere del non mai abbastanza citato Karol il Santo, sono nulla a confronto della condanna eterna di non avere riconosciuto in vita, la propria Stella. Ma l'ufficialità della Storia è stata già riscritta. A voi il giudizio, Giovani Viandanti e buona lettura...

Taliesin, il Bardo

VIRGINIA GALILEI: SUOR MARIA CELESTE.

Virginia Galilei, primogenita di Galileo, nacque il 12 agosto del 1600. Quello stesso giorno il padre stese di suo pugno un oroscopo, nel quale delineò i tratti principali del carattere della figlia e gli influssi dei pianeti che ne avrebbero segnato lo sviluppo. Lo zelo, la sensibilità e la devozione a Dio, predetti da Galileo, si manifestarono davvero nella personalità di Virginia, così come emerge dalle 124 lettere al padre pervenute fino a noi.

Entrata in convento giovanissima, prese il nome di Suor Maria Celeste. La condizione della donna nel Seicento offriva poche alternative alle ragazze di buona famiglia: il matrimonio o il velo. Per Galileo, oberato dai debiti, la scelta che non gli avrebbe imposto il pagamento dell'ennesima dote matrimoniale fu obbligata. Grazie a conoscenze altolocate lo scienziato riuscì a far accettare entrambe le figlie prima del tempo, a soli 13 anni contro i 16 previsti, nel convento di San Matteo in Arcetri, dove Virginia prese i voti nel 1616 e Livia (1601-1659) l'anno successivo. Le suore di San Matteo in Arcetri appartenevano all'ordine delle Clarisse, fondato da Chiara d'Assisi nel 1212, la cui regola approvata nel 1253 si basava essenzialmente sulla scelta di povertà. La spiritualità francescana e la collocazione fuori le mura della città resero il convento di San Matteo particolarmente indicato per le esigenze di Galileo. Le nuove monache, infatti, erano accolte con una dote piuttosto bassa, rispetto ai più ricchi conventi cittadini.

Virginia col tempo, a differenza della sorella minore, si rivelò adatta alla vita che le era stata imposta; dalle lettere, infatti, non trasparì mai un rimpianto o una rivendicazione: al contrario si rivolse sempre al padre con espressioni di grandissimo affetto. La prima lettera a Galileo, di cui è rimasta traccia, è datata 10 maggio 1623 e fu scritta in occasione della morte dell'amatissima zia Virginia, sorella di Galileo, dalla quale la figlia dello scienziato aveva preso il nome. Dal 1623 al 1634, anno della sua morte, Virginia ebbe con il padre una fitta corrispondenza, che fu di conforto per l'una e per l'altro.

Galileo fu profondamente legato a entrambe le figlie, ma in Virginia trovò un riflesso del proprio carattere e non di rado le aprì il cuore, come quando nel 1623 le manifestò tutto il suo entusiasmo per l'elezione di Maffeo Barberini (1568-1644) al soglio pontificio, inviandole le lettere che il nuovo papa gli aveva scritto quando era ancora cardinale.

Virginia era una donna intelligente e in convento divenne presto un punto di riferimento per le consorelle. Le frequenti richieste al padre di sostegno economico miravano quasi sempre a stemperare le misere condizioni di vita di tutte. La serenità del convento era talmente prioritaria per suor Maria Celeste che potendo chiedere al padre di domandare un qualsiasi beneficio a papa Urbano VIII, dal quale Galileo si sarebbe recato in visita nel 1624, scelse di pregarlo perché a prendersi cura delle monache fossero mandati frati degni, e non, come spesso accadeva, chierici dalla dubbia moralità.

Virginia, anche se da lontano, si prendeva cura di Galileo in molti modi: con preparazioni speziali in cui era esperta, con dolci o frutti, cucendo per lui i colletti o rammendando gli abiti e anche facendosi copista delle sue lettere a terzi o dei suoi manoscritti, di cui era curiosa lettrice. Infine fu lei che, spinta dall'idea di avere il padre più vicino, riuscì a trovare quella Villa 'Il gioiello' dove Galileo spese gli ultimi anni di vita. Galileo, da parte sua, non rispose mai negativamente a nessuna delle richieste della figlia, fosse denaro, fosse inviare del buon vino, o fosse fare l'orologiaio e riuscire laddove il figlio Vincenzo (1606-1649) falliva: "Vincentio tenne parecchi giorni l'orivolo, ma da poi in qua suona manco che mai. Quanto a me, giudicherei che il difetto venissi dalla corda, che, per esser cattiva, non scorra; pure, perché non me ne risolvo, glielo mando, acciò veda qual sia il suo mancamento e lo raccomodi. Potrebbe anco esser che il difetto fossi mio per non saperlo guidare, che perciò ho lasciato i contrappesi attaccati, dubitando che forse non siano al luogo loro. Ma ben la prego a rimandarlo più presto che potrà, perché queste monache non mi lascerebbon vivere" (Ed. Naz. vol. XIV, p. 68).

L'affetto e la stima di Galileo per la figlia trova eco nella descrizione che lo scienziato fece all'amico Diodati (1576-1661) dopo la morte di lei nel 1634: "donna di esquisito ingegno, singolar bontà et a me affezzionatissima" (Ed. Naz. vol. XVI, p. 115).

Il dolore per la sua morte improvvisa e prematura fu immenso e gli provocò dissesti fisici, dai quali non si sarebbe più ripreso.
Le lettere di Galileo alla figlia sono andate perdute, forse distrutte dalla madre superiora nel timore di una compromissione del convento di San Matteo, a causa della condanna di Galileo da parte del Santo Uffizio.

tratto da:www.portalegalileo.it

Taliesin, il Bardo

Taliesin 21-05-2013 10.34.29

ANTONIA ALIGHIERI: SUOR BEATRICE DA RAVENNA.

Figlia di Dante e di Gemma Donati, nata presumibilmente a Firenze tra gli ultimi anni del sec. XIII e i primissimi del XIV, quasi certamente minore di Pietro e Iacopo. Poiché le figlie non erano giuridicamente coinvolte nella condanna del padre, è da ritenere che restasse con la madre a Firenze anche dopo l'estensione del bando ai fratelli; ma non mancano autorevoli studiosi, come il Barbi, che ritengono probabile che Gemma seguisse in un secondo momento la sorte del marito, e quindi è altrettanto plausibile l'ipotesi che prima del 1315 Antonia fosse già presso il padre.

Della sua esistenza abbiamo conferma in un documento del 3 e 6 novembre 1332, stilato dal notaio ser Salvi di Dino, nel quale Iacopo s'impegna, anche a nome di Pietro, a far avere entro due mesi il consenso della madre e della sorella Antonia a una vendita.

Per antica tradizione s'identifica Antonia con la suor Beatrice, monaca nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi a Ravenna, a cui il Boccaccio avrebbe dovuto recare nel 1350 dieci fiorini d'oro da parte dei capitani della compagnia di Orsanmichele. Il documento relativo era in un libro di entrata e uscita ora perduto, ma esaminato nel sec. XVIII da Domenico Maria Manni, un secolo dopo da Giuseppe Pelli. L'esistenza del documento era stata fortemente messa in dubbio, ad es. dall'Imbriani, che negò l'esistenza di una Beatrice Alighieri, ma a fine secolo il Bernicoli pubblicava un documento tratto dai memoriali dell'archivio notarile di Ravenna; in esso era detto che il 21 settembre 1371 maestro Donato (degli Albanzani), casentinese ma dimorante a Ravenna, consegnava, da parte di un amico che desiderava restare sconosciuto, tre ducati al monastero di Santo Stefano, in qualità (il monastero) di erede " sororis Beatrisiae f. cd. Dandi Aldegerii et ol. sororis monasterii antedicti ".

Il Ricci ha avanzato l'ipotesi che l'amico sconosciuto fosse lo stesso Boccaccio, che vent'anni prima non avrebbe adempiuto all'incarico assunto presso la compagnia di Orsanmichele; ma l'ambasceria ravennate del Boccaccio oggi non viene messa in discussione. Per poter identificare suor Beatrice con Antonia non desta eccessiva perplessità la circostanza che nel documento del 1332 non si faccia allusione alla condizione religiosa di Antonia, essendo questa un'obbligazione all'interno della famiglia; anzi la proroga di due mesi si giustifica proprio con la necessità di provvedersi di un'autorizzazione da parte di persona lontana da Firenze. Né è pensabile che Dante potesse avere due figliuole, anche perché nel citato documento si allude solo ad Antonia.

Del resto suor Beatrice, benché religiosa, doveva possedere ancora beni se il monastero sarà designato suo erede. E il nome scelto nell'entrare nella vita monastica chiaramente attesta il riconoscimento di Antonia per il simbolo fondamentale dell'opera paterna.

La figura di suor Beatrice è stata nel sec. XIX tema di romanzi, come la Beatrice Alighieri di Ifigenia Zauli Saiani (Torino 1853), e di drammi, come quelli di Luigi Biondi (ibid. 1837) e di Tito Mammoli (Rocca San Casciano 1883), oltre a comparire in tutte le opere romanzesche e teatrali che hanno come argomento gli ultimi anni di vita di Dante. Nel muro esterno del monastero ravennate (che fu soppresso nel 1882) si legge una lapide, dettata da Filippo Mordani.

tratto da:www.treccani.it (enciclopedia dantesca)

Taliesin, il Bardo

elisabeth 21-05-2013 15.04.16

Spero tanto che Sir Hastatus sia magnanimo......

La Storia di Suor Maria Celeste e' bellissima........il famoso Galileo Galilei.....era un tenero padre......e' una parte di lui che io non conoscevo.....Grazie Taliesin

Taliesin 21-05-2013 15.09.23

Grazie a voi Madonna,
che puntualmente passeggiate tra queste vie della Storia, a volte dissestate, ma con la gioia di poterle riscoprire. Senza persone con il dono della vista, come siete voi, queste mie Donne del Medioevo, resterebbero relegate nel vortice di polverosi scaffali dimenticati costruiti dagli Uomini.

Taliesin, il Bardo

elisabeth 21-05-2013 15.14.20

Alla fine amato Bardo....le Donne vivono in piccoli spazzi lasciate dal tempo....poi avviene, che qualcosa cambia, e allora voi ...le avete ridato l'anima...riportandole in vita........i sono la Dama che viaggia nel tempo...lo avete dimenticato ?.......

Taliesin 21-05-2013 15.39.39

MARGHERITA PORETE: LO SPECCHIO DELLE ANIME SEMPLICI.

La grande mistica nel 1310 fu bruciata con l'accusa di eresia in una piazza di Parigi alla presenza di una folla immensa e delle più alte cariche civili ed ecclesiastiche. Anche il suo libro era stato condannato alla distruzione, ma attraversò indenne i secoli e la sua dottrina illuminò tantissime anime.

Che dolce trasformazione venir mutata in ciò ch'io amo più di me. Sono a tal punto trasformata da aver perduto il nome mio per amare, io che so amare tanto poco; è in Amore che sono trasformata, perché io altro non amo che l'Amore.
(da Lo Specchio delle anime semplici annientate, di Margherita Porete)

La trasformazione avviene quando l'anima è completamente libera di se stessa. Ritrova il suo essere essenziale ed originale, che è partecipazione di Dio. Questo è il grande tema dal Ritorno che Margherita rende con parole poetiche, vivide e profonde, al livello di altri grandi mistici del suo tempo, come Meister Eckhart.

Questa è la storia di una donna mistica che visse nell'Alto Medioevo. Scrisse un libro che sorprese e spaventò le migliori teste teologiche ed ecclesiastiche dell'epoca: la donna finì sul rogo ed il suo libro fu bruciato con lei. Ma non tutte le copie del libro si ridussero in cenere. Alcuni manoscritti, redatti nelle più importanti lingue volgari, circolarono per i monasteri d'Europa superando le barriere geografiche, linguistiche e temporali. Le parole di Margherita Porete giunsero fino al Rinascimento ed oltre, influenzando teologi, filosofi, scrittori, uomini di Chiesa, i cui nomi si ricordano e si studiano più della per tanto tempo anonima e dimenticata autrice dello Specchio delle anime semplici annientate.

Margherita Porete è tutta dentro il suo Libro. Lei e lo Specchio sono la stessa cosa. Lei è anche dentro gli atti dei processi che subì dall'Inquisizione. Fu condannata, ma molti teologi e sacerdoti che lessero il suo Libro e la conobbero diedero giudizi positivi sul suo pensiero.
(Margherita di Valenciennes, nata intorno al 1250-60, fu beghina durante il regno di Filippo il Bello. Il vescovo di Cambrai, Guido II, già prima del 1306, aveva fatto bruciare pubblicamente nella piazza di Valenciennes lo Specchio ed interdetto Margherita minacciandola di scomunica. Anche il successore di Guido II, Filippo di Marigny, minacciò Margherita. La successiva accusa fu pronunciata dall'Inquisitore provinciale dell'Alta Lorena).

Cosa dice di così tremendo e rivoluzionario lo Specchio?

L'anima non deve desiderare più nulla per essere capace di volere esclusivamente il volere divino. Deve compiere un cammino regale verso il paese del non voler nulla.
Madamigella Conoscenza, illuminata dalla grazia divina, insegna ai marris (desolati), come iniziare il cammino.

Ha scritto Marylin Doiron: "La vita marrie è una vita bloccata o ferma ai primi stadi, a causa dell'attaccamento ad una ricerca egocentrica di virtù. Anche se l'anima dei marris è bloccata ai primi stadi della conoscenza, tuttavia è possibile innalzarsi ed arrivare ad un più alto grado di perfezione"
E come si arriva a questo grado di perfezione? Si arriva grazie alla conoscenza di sé: l'anima comprende gli abissi di ogni povertà, e "vede sé al di sotto di tutte le creature, in un mare di peccato". L'anima si riduce a niente e a meno che niente, comprende che "solo Dio è, mentre lei non è". Così la volontà divina può operare "in lei senza di lei", ovvero senza l'intervento egocentrico dell'anima. Non si tratta di quietismo.

Scrive Margherita: "Tali persone governeranno un Paese se sarà necessario, ma tutto verrà fatto senza di loro".

Margherita Porete rifiutò di comparire davanti al tribunale dell'Inquisizione. Il rifiuto si protrasse per un anno e mezzo. Trascorse questo periodo in prigione, a Parigi. Non ritrattò neanche di fronte alla minaccia del rogo. Fu quindi dichiarata eretica e relapsa - cioè recidiva - e consegnata, il 31 maggio del 1310 - com'era prassi, dopo la condanna ecclesiastica - al braccio secolare, perché eseguisse la condanna. Il primo giugno del 1310 Margherita fu arsa viva in place de Greve, alla presenza di una folla immensa e delle più alte cariche civili ed ecclesiastiche.

Nello Specchio, Margherita mette in scena un dialogo tra personaggi allegorici, com'è tradizione della letteratura cortese: Anima, Dama Amore, Cortesia, Intendimento d'Amore, si confrontano con Ragione, Intendimento di Ragione e con le Virtù. Il Fine Amour, l'amore idealizzato dei trovatori, conduce qui, nella sua trasposizione spirituale, a Dama Amore che rappresenta l'essenza di Dio.

L'Anima deve lasciar perdere le norme esteriori dell'obbedienza che prima aveva osservato in maniera scrupolosa. L'Anima è interamente passiva e dipende dalla volontà divina che opera in lei senza di lei, cioè senza che l'Anima prenda alcuna iniziativa.

Margherita, in largo anticipo sui tempi, intende che ci si salva con la fede senza le opere; questo è uno dei grandi temi della mistica renano-fiamminga, il tema del patire Dio.

Anima e Amore tentano di convincere Ragione. Ma Ragione, stupita e scioccata, non regge a quelli che considera paradossi, e muore. La morte della Ragione lascia spazio ad una più profonda comprensione di Dio. L'Anima intanto abbandona le Virtù, e si innalza al di sopra di esse nella "sovrana libertà dell'Amore".

L'ultimo, decisivo processo a carico di Margherita Porete fu istituito dall'Inquisitore generale del Regno di Francia, il famigerato domenicano Maestro Guglielmo di Parigi che era anche il confessore di Filippo il Bello, ed aveva presieduto in modo sinistro il clamoroso processo per eresia contro i Templari.

Peter Dronke ha scritto sullo Specchio: "I passaggi lirici e quasi drammatici si integrano bene con l'insieme della composizione; una tensione drammatica spontanea può nascere dagli scambi e dai conflitti tra le proiezioni che Margherita fa delle forze interiori e delle forze celesti e tra questi è Dama Amore che dirige".
Il cavaliere, simbolo dell'anima affrancata, abbandona tutto per seguire Dama Amore. Non si aspetta nessuna ricompensa, soltanto quello che Dama Amore gli donerà spontaneamente, cioè l'amore cortese.

Tre chierici coltissimi - forse sollecitati dalla stessa Margherita - diedero un giudizio favorevole sullo Specchio che contrastava con la condanna pronunciata dai teologi dell'Università di Parigi . Si trattava di Giovanni, un frate minore; Franco, un cistercense dell'abbazia di Villers in Brabante; il famoso teologo Goffredo de Fontaines, originario delle Fiandre, ex rettore dell'Università di Parigi.

E cioè: un rappresentante della tradizione monastica; un rappresentante dei movimenti spirituali più avanzati dell'epoca; un rappresentante della scuola teologica ufficiale e del clero secolare).
Il cistercense apprezzò il libro senza riserve; Goffredo ed il francese manifestarono profonda ammirazione, ma avvertirono che il libro doveva essere mostrato a persone preparate, in caso contrario poteva essere pericoloso.

Nella letteratura dei trovatori in lingua d'oc, Fin Amour è il frutto della fedeltà e del coraggio dimostrate dall'amante nelle prove che la Dama gli ha imposto: la sua caratteristica è la Gioia, entusiasmo conquistatore ed allo stesso tempo un sentimento legato al possesso completo dell'oggetto amato. Nello Specchio - ma non è l'unico esempio - c'è la versione spiritualizzata ed interiorizzata di questi temi.

Un sacerdote si schierò dalla parte di Margherita. Guiard de Cressonessart, per aver aiutato e difeso Margherita, fu arrestato a Parigi nel 1308, per ordine dell'Inquisitore Guglielmo. Anche Guiard rifiutò, per un anno e mezzo - era il lasso di tempo legalmente accordato agli accusati affinché avessero modo di pentirsi e riflettere - di presentarsi davanti al tribunale ecclesiastico. Nel marzo del 1310, Guglielmo riunì un'assemblea di teologi e canonisti della facoltà di Parigi per deliberare sui due casi.
Margherita e Guiard furono dichiarati colpevoli di eresia, e - ammenoché non abiurassero - sarebbero stati consegnati presto al braccio secolare perché eseguisse la condanna. Guiard abiurò e fu condannato alla sola detenzione a vita, mentre Margherita non ne volle sapere.
L'Inquisitore Guglielmo riunì in Assemblea solenne i teologi più illustri dell'Università di Parigi. Lo Specchio e la sua autrice furono condannati.

Il non volere è la chiave del non avere e del non sapere, del non pensare nulla nel Lontano-Vicino. Al di sopra della conoscenza razionale come del desiderio egoista, bisogna compiere un cammino lunghissimo per arrivare dal Paese delle Virtù - dove restano i marris - a quello dei dimenticati, dei nudi, degli annientati o dei glorificati, che si trovano nello stadio più alto, là dove Dio non è "conosciuto, né amato, né lodato da queste creature se non per il fatto che non si può conoscerlo, né amarlo né lodarlo. Ciò è la somma di tutto il loro amore e l'ultima tappa del loro cammino"

Le persecuzioni giudiziarie dell'Inquisizione non si placarono con la morte di Margherita. Lo Specchio si diffuse nell'Europa del XIV e XV secolo. Superò le barriere geografiche, linguistiche e temporali, come non era successo a nessun altro scritto mistico medievale in lingua volgare. Sono pervenute versioni dello Specchio in francese antico, inglese medio, perfino in latino - si tramanda che Margherita avesse tradotto la Bibbia in volgare, era coltissima e forse collaborò lei stessa alla traduzione in latino del suo libro.
A Vienne, nel Delfinato, nel 1311/12 si svolgerà il famoso concilio che condannerà la mistica nordica, specialmente quella di Meister Eckhart e dello Specchio: Margherita Porete e Meister Eckart saranno erroneamente indicati come appartenenti alla setta eretica del Libero Spirito.

Il concilio di Vienne darà allo Specchio la patente definitiva di opera eretica, regolarmente confiscata da tutte le Inquisizioni d'Europa, fino al Rinascimento. Questo non gli impedì di godere di un grande successo, ma allo stesso tempo fu esiguo il numero dei manoscritti che scamparono alle confische.

E' sicuro che fu un'opera di grande successo, che suscitò enorme scalpore, sia durante la vita dell'autrice, sia dopo - basti pensare all'impressionante spettacolarizzazione del suo processo, al quale parteciparono tutte le menti più eccelse della Sorbona. Notevoli furono gli sforzi dell'Inquisizione per fermare la circolazione del libro. Lo Specchio è il libro-fantasma le cui tracce si possono trovare in prestigiosi testi della letteratura spirituale successiva. Ma è nel Nord Italia, dove lo Specchio circolò nella versione latina ed in italiano, soprattutto nella prima metà del XV secolo, che creò maggiore scompiglio - questa però è un'altra storia.

Per raggiungere lo stadio di perfezione bisogna seguire la Ragione e la Virtù e nutrirle - "consiglia" Margherita - "fino ad ingozzarsi": solo dopo si potrà dire, insieme ad Agostino, "ama e fa ciò che vuoi".
Invita a superare il sapere dogmatico che lei conosceva benissimo - non a caso, in alcuni manoscritti, è chiamata "beghina sacerdotessa".

San Bernardino da Siena si scaglia contro lo Specchio nei sermoni che tiene tra il 1417 e il 1437; a Padova, nel 1433 i benedettini bandiscono il libro dai loro conventi; i gesuiti di Venezia, accusati di aver fatto dello Specchio la loro lettura prediletta e di simpatizzare con l'eresia del Libero Spirito, sono dichiarati innocenti dai due inquirenti inviati nel 1437 da papa Eugenio IV, mentre l'Inquisizione agisce a Padova. La questione di Venezia in seguito si ritorce contro il papa che, deposto, viene accusato di essere favorevole allo Specchio.

Ad accusarlo è Maestro Giacomo, probabilmente l'inquisitore padovano che aveva scritto sullo Specchio "numerose esecrazioni e riprovazioni". Giacomo parlò al concilio di Basilea, nel 1439, dei trenta capitoli dello Specchio giudicati eretici dai padri del concilio e chiese il rogo per i 36 esemplari posseduti, secondo lui, dalla commissione che aveva esaminato il libro di Margherita. Non si sa se le 36 copie siano state davvero bruciate).

Bisogna passare attraverso tutte le Virtù prima di poterle superare.
L'Anima, quando si trova nello stadio di "cieca vita annientata", fatta di distacco, morte dello spirito, aspira ad una capacità di comprensione alla quale non possono arrivare né Ragione, né Filosofia e neppure la Teologia. Vi si arriva in un istante o moment d'heure, grazie al balenìo del Lontano-Vicino, uno degli stadi più alti di perfezione, quello di "vita annientata illuminata". Perciò non si può speculare sull'Essere, lo si sperimenta in un patire: il meno dell'Anima lascia spazio al più di Dio, cioè alla trascendenza dell'essere increato. A questo punto il pensiero non ha più nessun potere sull'Anima, il suo pellegrinaggio si è compiuto, così il suo potere le viene reso, dal momento che non ne farà più un uso egoistico. L'Anima è arrivata nel punto più alto, l'Anima si allieta di non poter mai affermare tutta la ricchezza del suo amante. E' questo il tema della beata ignoranza, uno dei grandi temi della mistica fiammingo-renana.

Nel 1473 l'eresia dei "sostenitori dell'anima semplice" è denunciata dal francescano Pacifico di Novara. In Francia Jean de Gerson, cancelliere dell'università di Parigi dal 1395 al 1425, ebbe fra le mani un libro sull'Amore di Dio scritto da una certa Marie di Valenciennes. Valenciennes è la città di Margherita: qui il suo libro fu bruciato per la prima volta. La descrizione dell'opera fatta da Gerson ha indotto i critici a pensare che si trattasse dello Specchio; il nome Marie poteva essere un errore del copista. Gerson riconosce che si tratta di un libro di incredibile acume, e mette in guardia contro di esso. Ma un secolo più tardi il libro sarà difeso e ammirato da Margherita di Navarra, sorella di Francesco I, in rapporti di amicizia con il convento della Madeleine, di Orleans, da cui proviene la sola copia accessibile della versione originale dello Specchio in francese antico, che si trova attualmente a Chantilly. Margherita di Navarra, la regina poetessa, nelle sue Prigioni afferma che lo Specchio delle anime semplici è fra i libri più affini alla Sacra Bibbia: "Ma fra tutti uno (libro, ndr) ne vidi di una donna/ che cento anni scritto e ricolmo di fiamme/di carità sì tanto ardentemente/ che nient'altro che amore era il suo dire/inizio e fine di tutto il suo parlare.

La verità spirituale che l'autrice dello Specchio vuole far conoscere, se verrà capita, aiuterà l'Anima a diventare semplice. Così, mostrando i vari stadi del cammino dell'Anima, si arriva alla comprensione del tema centrale del libro: l'affrancamento dell'anima, che si ottiene annientandosi in Dio attraverso l'amore, arrivando perfino a trasformarsi in Dio.


Margherita non ha contrastato il dogma. Spesso si muove nella tradizione dei Padri della Chiesa. Perché allora l'Inquisizione la condannò? Per la sua indifferenza nei confronti delle pratiche e degli avvenimenti esteriori - l'anima affrancata non desidera né rifugge messe e sermoni. Non si cura né del Paradiso né dell'Inferno, perché il Paradiso non è altro che "vedere Dio". La Chiesa avvertì un grande pericolo in Margherita e nella sua mistica: teorizzava e sperimentava - espressa per di più in lingua volgare - l'essenziale libertà dell'anima che abbandona le virtù e non è più al loro servizio, visto che l'anima non le pratica più. Ecco perché gli Inquisitori bruciarono Margherita ed il suo libro.

Nello Specchio Margherita distingue tra le anime interessate e quelle che chiedono Fine Amour. Disprezza le anime interessate; per lei sono asini, montoni, "cercatori di paradisi terrestri": "Se si salvano è in modo assai poco cortese"…

Ma quelli che chiama villani di cuore, mercanti, piccoli spiriti, non hanno connotazione sociale. Villani possono essere il clero dell'Università di Parigi che la condannò, o gli ordini religiosi che la disconobbero e perfino le stesse beghine che non la compresero.

Perché Margherita Porete era anche un grande spirito polemico: "Coloro che non hanno nulla da nascondere non hanno nulla da mostrare". La sua coerenza fa coincidere la sua vita con i suoi scritti: ecco perché rifiuta di comparire davanti al tribunale ecclesiastico e di ritrattare per evitare il rogo. Questo scrupolo di coscienza l'ha portata anche a spiegare una contraddizione presente negli autori mistici: dicono che non si può dire e conoscere nulla di Dio, eppure scrivono a profusione sull'argomento. Margherita spiega semplicemente che scrisse il suo Specchio per una necessità provata prima della liberazione della sua anima, quando faceva ancora parte dei marris, quando "vivevo di latte e pappa ed ero sciocca".

Ci congediamo da Margherita Porete e dal suo Specchio con le parole del teologo Longchamp sul tema medievale dello specchio: "Lo specchio rinvia la sua immagine all'uomo che vi si guarda; lo specchio evoca anche la conoscenza di sé, con l'idea di una purificazione, di un'assimilazione a un ideale morale. D'altra parte, il latino speculum designa in senso lato ogni pittura o rappresentazione; significa quindi quadro, ritratto, se non addirittura descrizione. Lo specchio diventa così strumento di conoscenza, ed è latore di un insegnamento, sia di tipo puramente informativo sia normativo. Questo senso lato del termine ha dato luogo, durante il Medioevo ed oltre, ad un'abbondante serie di Specula.

tratto da:"iceblues"

Taliesin, il bardo

Taliesin 08-08-2013 11.11.56

MARY AHMILTON: LA MADRE DI BIANCO VESTITA.

La ricerca della Mary Hamilton storica si è rivelata appassionante, ma non ha portato ad alcun risultato concreto. Esisteva in effetti un gruppo di ancelle di Maria Stuarda, chiamato popolarmente "Le quattro Marie", ma non ne faceva parte alcuna Mary Hamilton. Il suo delitto ed il suo castigo, tuttavia, sembrano ricalcare uno scandalo avvenuto durante il regno di Maria Stuarda, che coinvolse una servitrice francese giustiziata per aver ucciso suo figlio appena nato. Non fu Darnley, il principe consorte (ovvero "il più nobile di tutti gli Stuart"), bensì il farmacista di corte (ovvero il capo della servitù) ad essere complice della francese, sia nell'amore che nel crimine. Il fatto accadde nel 1563. Nel 1719 una bella damigella d'onore alla corte di Pietro il Grande, scozzese di nascita e chiamata appunto Mary Hamilton, fu decapitata per infanticidio. Altre circostanze di questo fatto, oltre al nome, si rispecchiano nella ballata: ad esempio, la ragazza si rifiutò di salire sul patibolo vestita in modo sobrio. Il suo amante, poi, era anch'egli un nobile cortigiano. Saremmo tentati di considerare la ballata nient'altro che una rielaborazione degli avvenimenti russi del 1719, se non fosse per il non trascurabile fatto che essa era già stata udita in Scozia ben prima di quell'anno. Tale versione attribuiva probabilmente il delitto alla servitrice francese ad una delle "quattro Marie"; forse qui può aver giocato anche il fatto che, in Scozia, il termine mary indica genericamente una servitrice o una dama di compagnia. In effetti, esiste una versione di Mary Hamilton (Child, IV, 509) in cui la ragazza è chiamata semplicemente Marie ed il suo amante è un "erborista", ovvero il farmacista di corte degli annali criminali. Verosimilmente, le notizie provenienti da San Pietroburgo e l'intrepido comportamento dell'autentica Mary Hamilton sul patibolo della lontana Russia "catturarono" talmente l'immaginazione degli scozzesi, che l'antica ballata fu rimessa in auge ed adattata alla nuova eroina. Il "Ballad Book" di Cecil K. Sharpe (1823, p. 18) contiene il testo che qui presentiamo. Una versione più tarda della ballata, consistente nel solo "ultimo discorso" sul patibolo, è una delle più note "Last Goodnight Ballads". L'aria autentica è stata conservata da Greig, p. 109, ed è stata naturalmente utilizzata da Joan Baez per la sua versione (in The Joan Baez Ballad Book, II) nonché ripresa da Angelo Branduardi per il suo adattamento italiano intitolato "Ninna Nanna", nella quale però il nome della protagonista non è volutamente menzionato.

MARY HAMILTON

La voce è passata in cucina,
La voce è passata in sala
Che Mary Hamilton aspetta un figlio
Dal più nobile degli Stuart.

L'ha corteggiata in cucina,
L'ha corteggiata in sala;
Ma poi l'ha corteggiata in cantina
Ed è la peggior cosa di tutte!

L'ha avvolto nel suo grembiule
E poi l'ha gettato in mare
Dicendo, "Nuota o annega, bel bambino!
Di me non saprai più niente."

Allora scese la Regina Madre
Con l'oro intrecciato nei capelli:
"Mary, dov'è il bel bambino
Che ho udito pianger così forte?"

"Non c'era nessun bimbo nella stanza,
E non ce ne saranno mai;
Era solo un dolore al fianco
Che ha colpito il mio bel corpo."

"Mary, mettiti il vestito nero
Oppure il vestito marrone;
Stasera dobbiamo andare
A visitar la bella Edimburgo."

"Non mi metterò il vestito nero
E neanche quello marrone;
Mi metterò il vestito bianco
Per esser splendida a Edimburgo."

Quando salì sul Cannogate
Rise forte tre volte,
Ma quando scese dal Cannogate
Le si empiron gli occhi di pianto.

Quando salì lo scalone del Parlamento
La scarpa le uscì dal calcagno;
E quando ne ridiscese
Fu condannata a morte.

Quando scese del Cannogate,
Il Cannogate così vivace,
Molte dame guardavano alla sua finestra
In lacrime per quella signora.

"Non piangete per me", disse,
"Non dovete piangere per me;
Se non avessi ucciso il mio bel bambino
Non sarei dovuta morire così.

"Portatemi una bottiglia di vino", disse,
"La migliore bottiglia che avete,
Per bere alla salute dei miei carnefici
E perché loro possan bere alla mia.

"Un brindisi per i bravi marinai
Che navigano per l'oceano;
Non dite a mio padre e a mia madre
Che a casa io non tornerò.

"Un brindisi per i bravi marinai
Che navigano per l'oceano;
Non dite a mio padre e a mia madre
Che qua son venuta a morire.

"Certo non pensava mia madre
Quando mi dondolava nella culla
Alle terre che avrei attraversato
Ed alla morte che mi sarebbe toccata.

"E certo non pensava mio padre
Quando mi prendeva in collo
Alle terre che avrei attraversato
Ed alla morte che mi sarebbe toccata.

"Ieri sera lavavo i piedi alla Regina,
E dolcemente la mettevo a letto;
E la ricompensa che ne ho avuto stasera
È d'essere impiccata a Edimburgo!

"Ieri sera c'erano quattro Mary,
Stasera non ce ne saranno che tre;
C'era Mary Seton e Mary Beton,
E Mary Carmichael, ed io."


p.s. dedicato ad una bianca tomba di un camposanto di campagna su cui una dolce Maodnna d'estate posò la sua emozione.


Taliesin, il Bardo

elisabeth 08-08-2013 19.30.53

Interessante storia a livelli Storici.........mi piace :smile_clap:

Taliesin 09-08-2013 15.32.20

LAURA LANZA: LA BARONESSA DI CARINI.

"Sacra Catholica Real Maestà,
don Cesare Lanza, conte di Mussomeli, fa intendere a Vostra Maestà come essendo andato al castello di Carini a videre la baronessa di Carini, sua figlia, come era suo costume, trovò il barone di Carini, suo genero, molto alterato perchè avia trovato in mismo istante nella sua camera Ludovico Vernagallo suo innamorato con la detta baronessa, onde detto esponente mosso da iuxsto sdegno in compagnia di detto barone andorno e trovorno detti baronessa et suo amante nella ditta camera serrati insieme et cussì subito in quello stanti foro ambodoi ammazzati."



Don Cesare Lanza conte di Mussomeli


Con questo memoriale, presentato al Re di Spagna Filippo II, don Cesare Lanza si giustificò dall’accusa di omicidio della figlia Laura e dell’amante Ludovico Vernegallo, adducendo a suo favore la formula, riconosciuta dal diritto dell’epoca, del delitto d’onore, quell’onore macchiato dall’adulterio perpretato dalla figlia già sposa al Barone di Carini.
Di questo delitto restano come uniche notizie l’atto di morte registrato presso la Chiesa Madre di Carini recante la data del 4 dicembre 1563 e poche altre notizie riportate omettendo i nomi degli interessati, una ballata popolare che racconta la leggenda e un fantasma, quello di Laura, che si aggirerebbe alla ricerca di una risposta che forse nessuno ormai sa.

Siamo nella Sicilia del 1500, don Cesare Lanza, barone di Trabia e conte di Mussomeli è un uomo potente, dal carattere duro e violento, vicino al viceré Ferrante Gonzaga e all' imperatore Carlo V. Ma questi stretti rapporto non gli serviranno a molto quando, per una questione di confini territoriali, fa uccidere un magistrato di Termini Imerese. Accusato del delitto, il Vicerè non può far altro che incriminarlo e disporre la confisca dei beni del conte.
Per sfuggire all’arresto il Lanza scappa a Bruxelles, alla corte di Carlo V a cui si affianca nella guerra di Germania e nella spedizione di Algeri.
Conclusa questa avventura don Cesare fa ritorno a Palermo grazie all’assoluzione datagli dal monarca con questo rescritto:

Sia il Maestro Portulano Don Cesare Lanza, nostro diletto, perdonato e assolto, reintegrato nelle cariche nel possesso dei beni


Qui Cesare Lanza si sposerà con una ricca vedova, Lucrezia Gaetani da cui avrà due figlie: Laura e Costanza.
Appena 14 enne, la giovane
Laura fu data in sposa a Vincenzo La Grua - Talamanca, signore e barone di Carini, discendente di un’antica famiglia Pisana approdata in Sicilia intorno al 1300.
Ma la piccola Laura mal può adattarsi alla vita coniugale con un barone molto più vecchio di lei, interessato soltanto alla caccia e alla cura dei suoi interessi economici. Così la giovane sposa, abituata agli sfarzi della Palermo nobile e lasciata quasi sempre sola nel castello di Carini, ritorna spesso nel capoluogo siciliano.

Qui la Baronessa di Carini incontra il giovane Ludovico Vernagallo, la cui famiglia si trova a frequentare quella dei la Grua per motivi sia economici che familiari (lo zio di Ludovico sposò infatti una La Grua).
Inevitabilmente tra i due giovani nasce qualcosa, ma quel qualcosa condannerà la vita dei due giovani.


Ben presto lo stretto rapporto tra Ludovico e Laura si fa più vivo, i due giovani iniziano a frequentarsi anche al di fuori delle feste palermitane e le visite di Ludovico, aiutate dalla presenza di un feudo dei Vernegallo non distante dalla dimora dei La Grua, al Castello di Carini si fanno sempre più frequenti.
Che i due siano realmente amanti, che da questa avventura amorosa siano nati dei figli, o che tra i due ci fosse soltanto una profonda amicizia non è chiaro. Ciò che è chiaro è quello che avvenne successivamente. Il Vicerè di Sicilia infatti in alcuni documenti rende noto alla Corte di Spagna che il Conte Cesare Lanza aveva ucciso la figlia Laura e il giovane Vernegallo. Un’altra versione vuole la giovane Laura uccisa e il Vernegallo fuggito nottetempo dalla Sicilia in abiti monacali e successivamente morto di vecchiaia.


La leggenda racconta che la notte del 4 dicembre del 1563, complice un monaco che avvisò della presenza di Ludovico nel castello, il padre della ragazza, accompagnato da un seguito di cavalieri per impedire qualsiasi via di fuga agli adulteri, fece irruzione nel castello e trovando i due amanti a letto li uccise.
Più tardi sopraffatto dal rimorso don Cesare si rifugiò nel castello di Mussumeli., mentre il Barone di Carini trovò consolazione convolando a nozze con una nobile spagnola.

La stanza in cui avvenne l’assassinio è situata nell’ala ovest del castello, ormai quasi del tutto crollata. La leggenda vuole che su una parete di quella stanza fosse rimasta l’impronta della mano insanguinata della giovane baronessa. Quella stessa impronta pare appaia ogni anno la notte del 4 dicembre a ricordo dell’evento , mentre il fantasma senza pace di Laura vaga nel castello.
Altre storie raccontano che il fantasma di Laura appaia tutt’oggi nel castello di Mussumeli, alla ricerca di quel padre che lì si nascose dopo l’omicidio.
Secondo gli abitanti del paese donna Laura apparirebbe in tutti il suo splendore in un abito del 500 dalla gonna di seta ampia e un corpetto sul quale avvolge uno scialle, vagando per le stanze del castello o mentre si reca verso la Cappella dove, una volta giunta, si inginocchia e prega. Forse nella speranza di comprendere ciò che spinse sua padre a quell’orribile gesto.


tratto da: Mysteria

Taliesin, il bardo

Taliesin 21-08-2013 09.07.32

MONNA TESSA: DI MADONNA POVERTATE VESTITA.

Monna Tessa fu la prima donna infermiera, fondatrice dell’Ordine delle Oblate nell’anno 1288.


Il titolo di Monna nel 1200 equivaleva a Madonna ed era attribuito a donne maritate di un certo lignaggio.
Sappiamo invece che Monna Tessa nacque da famiglia povera ed umile; non si conosce la sua data di nascita. La morte avvenne il 3 Luglio del 1327.

Monna Tessa fu moglie di Ture, un sellaio e fu una Fantesca o Serva presso la ricca famiglia di Folco Portinari. Fu l’educatrice delle figlie di Folco Portinari, in particolare di Beatrice, la donna angelicata di Dante Alighieri.
Questa famiglia divenne la sua seconda famiglia.

Folco, da magnate e fiero Ghibellino, abbracciò l’idea dell’assistenza dei malati propostagli da Monna Tessa e con le sue sostanze fu il promotore del progetto della fondazione dell’Ospedale di Santa Maria Nuova che fu costruito negli anni dal 1285 al 1288. Nel 1281 il Cardinale Latino, inviato a Firenze dal Papa Niccolò III°con il compito di riportare la pace fra Guelfi e Ghibellini, acquistò dai Fratelli Lippi e Ture di Benincasa alcuni appezzamenti di terreno fuori dal secondo cerchio di mura della città di Firenze, detto Santa Maria in Campo.Era l’inizio dell’ospedale. Il Vescovo di Firenze Andrea dé Mozzi, il 15 gennaio 1287 benedì la prima pietra della fondazione.

Come risulta da una Bolla del 20 Marzo 1287 emanata dal Papa Onorio IV, lo spazio per la costruzione fu aumentato e in seguito lo stesso Papa proponeva ai Frati Saccati di Sant’Egidio, confinanti coi possedimenti di Folco, di cedere a questo un appezzamento di terreno precedentemente richiesto dal Portinari per portare a compimento la costruzione dell’Ospedale.

In seguito alla donazione dei frati venne a crearsi e svilupparsi la fondazione delle Oblate Ospitaliere che fu riconosciuta ufficialmente il 23 Giugno 1288. Nella creazione dell’opera, Folco era stato aiutato da vari collaboratori tra i quali il notar Ser Grazia, (figlio di Arrigo di Grazia). Si prese poi la decisione di presentare il progetto al suddetto vescovo fiorentino. In quella circostanza Folco Portinari definì l’approvazione del suo Ospedale e lo presentò per un’ultima analisi al vescovo fiorentino, Andrea dè Mozzi. Egli riconobbe e diede l’“imprimatur ecclesiastico” a tutto il complesso dell’Ospedale. A Monna Tessa, della famiglia Portinari, venne concessa l’autorità di dedicarsi completamente al nuovo Ospedale.
I malati ricoverati in principio furono sei, poi dodici …. L’idea assistenziale di Monna Tessa era ispirato dalla regola di San Francesco d’Assisi.

Alle prime donne sue collaboratrici riuscì ad infondere uno spirito cristiano, senza l’ obbligo di un vincolo monacale.. Nel 1301 Tessa volle che la regola fosse scritta. Nel bassorilievo marmoreo della pietra tombale, che oggi si trova nell’ingresso dell’ospedale di Santa Maria Nuova, la Fondatrice delle Oblate é rappresentata in piedi; dal braccio sinistro scende il cordoncino del terz’ordine francescano. L’abito è“di panno bigio romagnolo”. Tra le mani si vede il libro della Regola.

Le prime “compagne” di Tessa, sue prime collaboratrici furono ricche e nobili donne fiorentine: alcuni nomi sono Margherita dei Caposacchi, che era parente del Portinari, Madonna Tancia, Giovanna Dé Cresci e Antonia Dé Bisdomini… queste pie donne formarono il primo nucleo delle Oblate dell’era eroica del nascente istituto.

Taliesin, il Bardo

Taliesin 11-09-2013 12.23.42

LA SIGNORA DEI TEMPORALI: FLORA DI BEAULIEU

Nacque a Maurs (Cantal) verso il 1300; i suoi genitori, Pons e Melhor, ebbero tre figli e sette figlie, di cui quattro si dovevano fare religiose a Beaulieu. Flora non contava che quattordici anni quando entrò presso le religiose dell’ospedale di Beaulieu, fondato per i pellegrini verso il 1240 da Guiberto de Thémines e da sua moglie Aigline sulla strada da Figeac a Rocamadour, presso St-Julien d’Issendolus (Lot), dove dal 1298 si seguiva la regola degli Ospitalieri di s. Giovanni di Gerusalemme.

Nel suo convento Flora fu sottoposta a grandi prove interiori. Ella, che aveva lasciato il mondo per fare penitenza, temeva di dannarsi restando in questa casa dove non le mancava niente. Ma un religioso la rassicurò dicendole che questa abbondanza sarebbe stata per lei un’occasione di grandi meriti se per amor di Dio si fosse astenuta dal superfluo. Subì anche molte tentazioni contro la castità – il demonio le ricordava le parole di Dio: “Crescete e moltiplicatevi” – e ne fu così turbata da essere considerata folle dalle sue consorelle.

Tante difficoltà furono ricompensate da favori mistici; per tre mesi il Signore le apparve sotto la fugura di un angelo che era dipinto sotto il chiostro del convento e le fece comprendere che le sofferenze che sopportava l’associavano alla sua passione. In una festa d’Ognissanti, mentre si cantava “Vidi turbam magnam” ebbe la visione dei santi in Paradiso.

Si confessava e assisteva alla Messa ogni giorno, ma, secondo l’uso del tempo, non si comunicava che la domenica e nei giorni di festa. Meditava diligentemente la pasione di Cristo, aiutandosi con l’Ordine della Croce di s. Bonaventura, cioè, probabilmente, l’Officium de Passione Domini composto da questo santo. Mostrava una devozione particolare per la Vergine Maria nel mistero dell’Annunciazione, per s. Giovanni Battista patrono del suo Ordine, per s. Pietro e s. Francesco.

Flora morì nel 1347. Numerosi miracoli ebbero luogo sulla tomba, ciò che indusse l’abate di Figeac a procedere all’elevazione del corpo l’11 giugno 1360. Un secolo più tardi un autore anonimo compose una raccolta di centonove racconti di prodigi o miracoli attribuiti alla sua intercessione; questi miracoli, che avvennero nell’Alvernia, nel Limosino, nel Rouergue, nel Périgord, nella Guascogna e a Montpellier, attestano l’estensione del suo culto.

Tuttavia solo nel sec. XVIII la festa di Flora, fissata al 5 ottobre, entrò nel Proprio della diocesi di Cahors. Nell’Ovest della Francia è invocata durante i temporali insieme con s. Barbara e s. Chiara.

La Vita di s. Flora fu scritta il latino dal suo confessore; il testo si è perduto, ma se ne è conservata una traduzione nel dialetto di Quercy fatta alla fine del sec. XV dall’autore anonimo che redasse la raccolta dei suoi miracoli.


Taliesin, il Bardo
tratto da www.santiebeati.it autore: Philippe Rouillard

Taliesin 11-09-2013 12.35.08

LA REGINA DEI PELLEGRINAGGI: BONA DA PISA.

Il Codice C 181 depositato presso l'Archivio Capitolare del Duomo di Pisa che raccoglie una prima biografia scritta dal monaco pulsanese Paolo, morto nel 1230, quando era ancora in vita la santa pisana ci informa che Bona nacque a Pisa verso il 1155/1156 nella parrocchia di San Martino di Guazzolongo nel quartiere di Kinzica.

Mamma Berta era di origine corsa e dopo essersi stabilita a Pisa conobbe un mercante, Bernardo. Bona fu l'unico frutto di quel matrimonio: Bernardo si imbarcò quando Bona aveva solo tre anni e non fece più ritorno, lasciando così Berta in grandissime difficoltà economiche in quanto straniera e unica responsabile della famiglia.

All'età di sette anni ebbe un primo incontro con Gesù e grazie a padre Giovanni dell'Ordine dei Canonici Regolari di San Agostino entrò in convento. Bona scelse di martoriare il suo corpo con prove sempre più dure e giunse ad indossare il cilicio dopo una nuova visione di Gesù. All'età di dieci anni ebbe una nuova visione che la segnerà per la vita: insieme con Gesù e Maria incontra San Giacomo.

Preparata da padre Giovanni, all'età di dieci anni si presenta al Priore che la consacrerà al Signore. Dopo tre anni di raccoglimento ed aspre penitenze (durante le quali continua a punire il suo corpo), nel 1170, a seguito di una nuova visione di Gesù, parte per Gerusalemme, dove il Signore le rivela che vive Bernardo. Avvertita ancora da Gesù sfugge al suo tentativo di impedirle di scendere dalla nave e si rifugia da un eremita di nome Ubaldo, che diventa il suo padre spirituale.

Nel tentativo di ritornare a Pisa con alcune sue compagne di viaggio viene ferita al costato e catturata dai saraceni. Riscattata da alcuni mercanti pisani, ripara finalmente verso il 1175 nella sua stanzetta di San Martino.
Qui avviene una nuova visione: con Gesù si presenta San Giacomo che la invita ad unirsi a dei pellegrini in viaggio per Santiago de Compostela. Il pellegrinaggio era un'autentica avventura che durava circa nove mesi, i pellegrini sapevano di rischiare anche la morte: ragione per la quale era prassi normale stendere il testamento. Bona, così esile e continuamente sottoposta a prove fisiche che lei stessa si procurava, non esita, partecipa a quel primo pellegrinaggio, al quale seguiranno molti altri.

Il suo compito è di sorreggere nelle difficoltà, incoraggiare nei momenti più difficili, prestare soccorso sanitario ed invitare tutti i pellegrini alla preghiera e alla penitenza. Raggiungerà ben nove volte Santiago ed altrettante volte ritornerà a Pisa! Ma guidò anche i pellegrini a Roma e raggiunse anche San Michele Arcangelo sul Monte Gargano.

All'età di 48 anni è costretta ad interrompere i pellegrinaggi e il 29 maggio 1207 raggiungerà il suo Sposo in cielo. Ora riposa nella Chiesa di San Martino a Pisa. Il 2 marzo 1962, Giovanni XXIII la dichiarò ufficialmente patrona delle hostesses di Italia.

Taliesin, il Bardo

tratto da: www.santiebeati.it autore:Massimo Salani

Taliesin 11-09-2013 12.45.28

UNA VITA OLTRE LE MURA: ELOISA DI MEULAN.

Appartenente ad una nobile famiglia francese, Eloisa fu moglie del conte Ugo di Meulan, detto "Testa d'orsa", del quale però rimase ben presto vedova. Donna religiosissima e di grande pietà, donò una considerevole parte dei beni ereditati dal marito all'abbazia benedettina di Notre-Dame di Coulombs (presso Nogent-le-Roi, nella diocesi di Chartres), il cui abate Berengario ricevette da lei nel 1033 le due chiese parrocchiali di Lainville e di Montreuil-sur-Epte, con le relative rendite e metà delle terre annesse, come risulta dall'atto di cessione, confermato in quello stesso anno dal conte Galerano di Meulan, il quale aveva in feudo quelle chiese.

Perduto anche il secondo marito, Eloisa decise di rinunciare al mondo per sempre, ritirandosi a condurre vita religiosa nella stessa abbazia di Coulombs, a cui donò ancora, senza tener conto dei nipoti, figli del fratello Erluino, le terre e la chiesa di Anthieux, nella diocesi di Evreux, il cui possesso da parte dei monaci venne confermato da Guglielmo, duca di Normandia, solo nel 1066, allorché i beni furono restituiti all'abbazia da Riccardo, nipote di Eloisa, il quale li-aveva rivendicati, dopo la morte della zia, occupandoli con la forza.

A Coulombs Eloisa si fece costruire un'angusta celletta, a ridossa del muro della basilica, dove si rinchiuse per sempre, rimanendovi forse murata sino al giorno della sua morte, avvenuta in concetto di santità prima del 1060.

Il Mabillon indica il 10 febbraio, festività di s. Scolastica, come giorno del suo felice transito, che avvenne in realtà l'8 gennaio, come chiaramente risulta dall'Obituario della cattedrale di Chartres, dove infatti si può leggere: "VI idus Januarii. Obiit Helvisa sanotissime memorie reclusa".

Già nel sec. XVII si era persa ogni traccia della tomba di s. Eloisa, della quale, tuttavia, si conservava ancora il teschio tra le altre reliquie custodite nel tesoro dell'abbazia. La sua festa si celebra l'11 febbraio.

Taliesin, il Bardo

tratto da: www.santiebeati.it autore Niccolò Del Re


Taliesin 11-09-2013 13.02.01

LA ROSA DI VOLTAIRE: ZAIRA DI SPAGNA.

Le notizie su santa Zaira sono veramente poche, anzi quasi nulle; non è citata nei testi ufficiali della Chiesa, forse lo era in qualche edizione precedente del ‘Martyrologium Romanum’ che dal Cinquecento, quando fu fatta la prima stesura, ha avuto vari aggiornamenti.

Comunque in un catalogo odierno degli onomastici, essa viene citata come martirizzata in Spagna, durante l’occupazione dei Mori e ricordata il 21 ottobre.

Altro sulla figura di questa santa non si sa, ma facendo qualche riflessione possiamo dedurre che deve perlomeno essere esistita.

Il nome deriva dall’arabo Zahirah e significa “la rosa” e ricorre spesso nella letteratura orientale, anche nella forma Zara. In Spagna l’occupazione dei Mori musulmani, che durò dal 711 fino al 1212 per buona parte della Spagna, cadendo completamente solo nel 1492 con la perdita di Granada; provocò una nutrita persecuzione religiosa contro i cristiani preesistenti e le loro Istituzioni, con lo scopo di imporre la religione musulmana, negli stati diventati islamici con la loro dominazione.
E in quel lungo periodo, in varie regioni spagnole, si ebbero molti martiri cristiani, i quali resistettero alle ingiunzioni, difendendo la fede cristiana, che grazie a loro non fu mai soppressa.

In quel periodo di convivenza forzata e di schiavitù dei cristiani, imbarcati e portati nei paesi arabi d’origine degli occupanti, parecchi arabi si convertirono al cristianesimo, cambiando il loro nome arabo in un nome cristiano; cito ad esempio s. Bernardo di Alzira che si chiamava Hamed, s. Maria di Alzira che si chiamava Zaida e s. Grazia di Alzira che si chiamava Zoraide, fratelli, convertiti e diventati monaci poi martiri per mano dei parenti musulmani.

Come si vede in questo esempio, c’è una Zaida e una Zoraide, nomi arabi simili a Zaira, quindi è probabile che se fino a noi è arrivato il nome di una martire Zaira, essa probabilmente deve essere conosciuta anche con altro nome cristiano, che non si riesce ad abbinare, perché probabilmente si tratta di una convertita.

Altra riflessione è che il nome Zaira è stato l’ispiratore di opere letterarie e musicali che ebbero fortuna per tutto l’Ottocento, come la tragedia “Zaire” di François-Marie Voltaire (1694-1778), scritta nel 1763 e l’opera lirica omonima di Vincenzo Bellini (1801-1835).

La tragedia “Zaira” di Voltaire, è considerata la più riuscita opera drammatica del grande autore francese, animato da una sottile polemica contro l’intolleranza religiosa. Il soggetto si rifà al periodo già citato dell’occupazione ed espansione musulmana in Europa, agli schiavi cristiani in Medio Oriente, ai tentativi di riscatto dei prigionieri da parte dei principi cristiani e di Ordini religiosi sorti per questo, come i Mercedari.

È probabile che Voltaire si sia rifatto alla martire Zaira per il suo soggetto, anche se non ambientato proprio in Spagna e con un contorno sociale di fantasia; vale la pena di raccontarne la trama.

Prossima alle nozze con il valoroso Orosmane, soldano (sultano) di Gerusalemme, la bella schiava Zaira (cristiana) scopre d’essere sorella del cavaliere francese Nerestano, giunto in Medio Oriente per riscattare i prigionieri, e figlia del vecchio Lusignano, discendente dei principi cristiani di Gerusalemme, anch’egli tenuto come ostaggio dagli arabi, al quale promette di non tradire la fede cristiana.
Rinvia perciò le nozze, tormentata dal conflitto tra amore e religione, cercando di trovare soluzione al suo dramma, in un colloquio con il fratello.
Ma Orosmane la scopre e sospettando in Nerestano un rivale, travolto dalla gelosia la pugnala; poi resosi conto dell’errore, si uccide a sua volta, dopo aver concesso la libertà a tutti i cristiani prigionieri.Il finale è tipico dei drammi e melodrammi dell’Ottocento, ma l’opera ha avuto il pregio di lanciare e sostenere il nome Zaira, a ricordo di una lontana martire cristiana ad opera dei musulmani.


Taliesin, il Bardo
tratto da www.santiebeati.it di Antonio Borrelli

Taliesin 09-10-2013 15.23.19

LA SUORA DELLE SORGENTI TERMALI: AGNESE SEGNI

Agnese Segni nacque il 28 gennaio 1268 a Gracciano, piccolo borgo nei pressi di Montepulciano. Agnese sentì fin da piccola il fascino delle cose spirituali e durante una visita con i suoi familiari a Montepulciano vide le suore del "sacco", chiamate così per il rustico sacco che vestivano. nove anni chiese di essere ammessa in convento dove fu subito accolta. A Montepulciano restò solo il tempo necessario per la formazione religiosa di base. Nel 1233, gli amministratori del castello di Proceno, feudo orvietano (oggi in provincia di Viterbo), si recarono a Montepulciano per chiedere l'invio di alcune suore nel loro territorio e Agnese fu tra le prescelte.+

Agnese, seppur molto giovane, fu nominata superiora del monastero, per le sue doti di umiltà e il grande amore per la preghiera, per lo spirito di sacrificio (per quindici anni visse di pane ed acqua) e per l'ardente amore verso Gesù Eucarestia. A Proceno Agnese ricevette dal Signore il dono dei miracoli: gli ossessionati venivano liberati solo al suo avvicinarsi, moltiplicò in più occasioni il pane e malati gravi riacquistarono la salute. Ma nei ventidue anni che restò a Proceno non mancarono le tribolazioni: gravi sofferenze fisiche la tormentarono per lunghi periodi.

Nella primavera del 1306 fu richiamata a Montepulciano, dove fa iniziare la costruzione di una chiesa, come chiestogli da Maria in una visione avuta alcuni anni prima in cui la Vergine le donò tre piccole pietre a questo scopo. E' un'altra visione, questa volta di san Domenico, che spinge Agnese a fare adottare alle sue suore la regola di sant'Agostino e ad aggregarsi all'ordine domenicano per l'assistenza religiosa e la cura spirituale. Numerose furono le occasioni in cui Agnese intervenne in città come paciere e risolutrice delle controversie nelle lotte tra le famiglie nobili della località. Nel 1316 Agnese, su invito del medico e dietro le pressioni delle consorelle si recò a Chianciano, per curarsi alle terme. La sua presenza fu d'aiuto ai numerosi malati presenti nella località e Agnese operò numerosi miracoli, ma le cure termali non portarono alcun giovamento alla sua malattia, che peggiorò.
Rientrata a Montepulciano, fu costretta a letto.

Ormai in punto di morte Agense rincuorava le consorelle invitandole a rallegrarsi perché per lei era giunto il momento dell'incontro con Dio, ciò avvenne il 20 aprile 1317. I frati e le suore domenicane volevano imbalsamare il corpo di Agnese e per questo motivo furono inviati dei signori a Genova per acquistare del balsamo, ma ciò non fu necessario: dalle mani e dai piedi della santa stillò infatti un liquido odoroso che impregnò i panni che coprivano il corpo della santa e ne furono raccolte alcune ampolle.

L'eco del miracolo, richiamò numerosi ammalati, che desideravano essere unti dall'olio miracoloso. Come scrisse il beato Raimondo da Capua, a distanza di cinquant'anni dalla morte della santa, il suo corpo era ancora intatto, come se Agnese fosse appena morta, e molti erano i miracoli di guarigione che avvenivano nella chiesa, che ormai era conosciuta come "chiesa di sant'Agnese", ma si guariva anche non appena fatto voto di recarsi a visitare la stessa. Di questi miracoli si ha anche una pubblica registrazione fatta da notai già a partire da pochi mesi dopo la morte della santa.

Taliesin, il Bardo

tratto da: www.santiebeati.com autore Maurizio Misinato

Guisgard 09-10-2013 16.08.13

Taliesin, amico mio, è un po' che non passavo a leggere gli straordinari ritratti che raccogliete per noi in questa bella discussione, ma la passione con cui continuate ad animare questo angolo di Camelot merita lodi e omaggi.
E posso dire che questa è una fra le più belle discussioni che ci siano qui nel nostro reame.
Grazie, mio buon bardo :smile:

Taliesin 10-10-2013 09.58.10

Cvaliere dell'Intelletto...
Ritrovarvi, ancora una volta con primevo sentimento, assorto tra le virtuali pergamene delle mie "Donne nel Medioevo" è la più appagante delle emozioni che spronano l'antico amanuense a continuare il suo Viaggio lungo il sentiero incerto della Storia e della Leggenda, affinchè grazie al Loro sacrificio, nessuna Donna debba più temere la violenza degli Uomini...
Grazie per il vostro passaggio e la vostra amicizia.

Taliesin, il Bardo

Taliesin 10-10-2013 10.10.26

LA VERGINE DELL'IMPERATORE: ANTILLA DA MONTEPULCIANO.

Secondo un antico manoscritto sulla "Vita di S. Antilia Vergine e Martire" conservato nell'Archivio Capitolare di Montepulciano - la cui trascrizione è stata gentilmente messa a nostra disposizione dallo storico poliziano Mario Morganti - Antilia sarebbe stata nientemeno che figlia di Teodosio I, imperatore dal 379 al 395, e sorella di Onorio e Arcadio, succeduti al padre rispettivamente come imperatori di Occidente e di Oriente.

Ma di una Antilia tra i discendenti ufficiali di Teodosio, bisogna qui precisare, non c'è traccia storica.

Sempre secondo il nostro manoscritto, Antilia in giovane età sarebbe stata liberata dal demonio da Donato, vescovo di Arezzo, divenendo quindi discepola del futuro santo. Non pago di aver ordinato il martirio di Donato, il prefetto aretino Quadraziano chiese Antilia in sposa col capriccio di sfidare la devota castità della giovane, che avrebbe coraggiosamente rifiutato e che, scampata miracolosamente a varie forme di supplizio, sarebbe stata infine uccisa per decapitazione nel 398. Anche qui i riscontri storici della leggenda lasciano più di qualche perplessità, perché il martirio di Donato risalirebbe a molti anni prima, ossia al 362.

Da Arezzo, dove si venera il suo corpo, il culto di Antilia arrivò a Roma insieme alla reliquia della sua testa, per poi tornare in Toscana nel IX secolo per mano del prode poliziano Gualterotto Bernardini, che proprio la sacra testa si guadagnò in riconoscimento del suo valore nella lotta ai Saraceni che minacciavano la città eterna.

Trafugata e poi restituita da un senese nel 1348, la reliquia si conserva a Montepulciano in un artistico busto d'argento del XVII secolo, mentre sull'altar maggiore del Duomo cittadino un trittico di Taddeo di Bartolo del 1401 mostra Antilia che in veste di patrona porge la città alla Madonna.


tratto da. www.santitoscani.net

Taliesin, il Bardo


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