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IL FASTO E L'ELEMOSINA: LUCREZIA TORNABUONI Lucrezia Tornabuoni nacque nel 1425 dall'unione di Francesco Tornabuoni e Francesca Pitti. Sposò con Piero di Cosimo De' Medici, figlio di Cosimo De' Medici, nel 1444. Piero, detto il Gottoso, era un uomo intelligente e amante delle arti e della cultura, di nove anni più anziano di lei. La famiglia Tornabuoni era stata tra quelle della fazione medicea che avevano aiutato Cosimo a tornare a Firenze dopo l'esilio, e il matrimonio fu l'evento che suggellò questa alleanza. I figli nati dalla coppia furono ben sei: Bianca (1445-1488), Lucrezia detta Nannina (1448-1493), Lorenzo (1449-1492), Giuliano (1453-1478) e due maschi di nome ignoto morti subito dopo il parto. Si dimostrò compensiva allevando anche Maria la figlia illegittima del marito. Tutti i figli furono allevati stillando loro gli ideali di bellezza e di uomo novo rinascimentale. Fu proprio Lucrezia Tornabuoni ad occuparsi della scelta della moglie di suo figlio Lorenzo. Facendosi accettare nelle corti romane, infatti, scelse per il suo primogenito Lorenzo, Clarice Orsini portatrice di una provvidenziale alleanza tra Medici e Orsini; un unione che sarebbe stata particolarmente preziosa in futuro, per ottenere la prima porpora cardinalizia, per suo nipote Giovanni, diventato poi papa Leone X. Sicuramente la politica matrimoniale attuata da Lucrezia fu un aspetto molto importante nella storia della famiglia fiorentina; le cui conseguenze favorirono, infatti, le carriere ecclesiastiche di alcuni Medici garantendo ricchezza e prestigio alla famiglia nei secoli a venire. Lucrezia era solita scrivere numerose lettere e, grazie al suo epistolario, conosciamo la vita mondana e le feste che si svolgevano a Firenze, oltre alla condizione delle donne fiorentine, che godevano di una certa libertà. Piero le aveva anche dato il compito di occuparsi della distribuzione delle elemosine ai bisognosi, ma anche della compravendita di terreni, finanziamento di mercanti e artigiani. Molte delle sue elargizioni economiche avevano come beneficiari conventi di suore, donne meritevoli ma senza dote, clero minuto. Queste opere erano anche uno dei motivi del sostegno popolare al partito mediceo, che più di una volta si rivelò cruciale nella loro storia politico-familiare. In una delle sue lettere troviamo scritto che quello che è bene per Firenze e la Toscana, lo è anche per la famiglia Medici. Lucrezia Tornabuoni muore il 28 marzo 1482, poco dopo la congiura dei Pazzi che portò alla morte di suo figlio Giuliano. Taliesin, il bardo |
ALL'OMBRA DEL GHIBELLIN FUGGIASCO: GEMMA DONATI
Figlia di Manetto Donati, di un ramo della stessa famiglia cui appartenevano Corso, Forese e Piccarda, fu dal padre, secondo l'uso del tempo, promessa in sposa al giovane Dante Alighieri fin dal 1277, con una dote di 200 fiorini. S'ignora l'anno del matrimonio, avvenuto probabilmente dopo il 1290 e prima dell'inizio dell'attività pubblica di Dante (1295 circa). Certo è che al momento dell'esilio (1302) Dante aveva già avuto da lei sicuramente tre figli (Pietro, Iacopo e Antonia) e forse un quarto (Giovanni). Non si ha notizia che abbia raggiunto il marito in esilio, come fecero invece i figli, accomunati al padre nella condanna del 1315; si sa solo che dopo la morte di Dante riottenne la dote che era stata incamerata con i beni del marito. Gemma Donati, fedele e ligia agli obblighi morali ed istituzionali del suo tempo, moglie del più grande poeta di ogni tempo, visse nel silenzio e nell'ombra dei suoi anni fanciulli spegnendosi nel silenzio delle cronache e dei fasti fiorentini nella primavera del 1340. Taliesin, il bardo |
Biografie storiche di donne eccezionali accarezzano il sorriso mio con grazia.
Bel lavoro, Taliesin! Continuate con passione! Sir Morris p.s.: dall'ultimo bizzarro ma matematico conteggio abbiamo "perso" 6 dame...(eran 33 adesso son 27) mentre i messeri sono stabili a 19! :smile: |
Cavaliere del Crepuscolo, è veramente un piacere ritrovarvi in questo sconfinato orizzonte di emozioni dal tocco femminile. Mi raccomando, voi che all'occorrenza sapete ben dosare la spada e la piuma, non perdetenetene mai il conto, elle sono la nostra unica ancra di salvezza, come sempre è stato nella storia degli Uomini..
Taliesin, il bardo |
Citazione:
Mio buon bardo, io amo Dante Alighieri in maniera assoluta. Forse posso dire di essere colui che più ama ed apprezza ogni riflesso del sapere e dell'arte del Sommo Poeta. Dante è per me quello che Virgilio era per lui, per dirla con un facile parallelo. Tuttavia, devo dire che molti, nel sentire questa vostra definizione del nostro immenso Dante, potrebbero muovere più di un'obbiezione :smile: Ma questa cosa non è tema per la nostra discussione, che resta sempre, grazie al vostro impegno, viva, entusiasmante ed estremamente coinvolgente. Vi rinnovo i miei più vivi complimenti, amico mio :smile_clap: |
Caro amico ritrovato, Taliesin, credo che "tener conto" delle dame di Camelot sia la migliore distrazione per non concentrarmi su altre faccende di "poco conto!".;)
Dedico questo video a voi, primo bardo... egli è, a mio avviso, il più grande interprete dell'Alighieri: http://www.youtube.com/watch?v=6vBc8...eature=related Sir Morris |
Cavaliere del Crepuscolo,
dite bene citando il Poeta di Vergaio... Ieri sera mi sono recato in quel di Santa Croce e posso asicurarvi che riascoltare il Ghibellin Fuggiasco dalle sue parol era come tuffarsi nel passato che ci appprtiene, grazie per il prezioso dono. Taliesin, il bardo |
FRANCESCA da POLENTA
Come stolti tendeam a spegner la nostra intesa gentilesca!
Quand'ecco che un giullare interpreta per noi : Francesca! http://www.youtube.com/watch?v=UTeY3dktezg Sir Morris |
Io non lo definirei "giullar", sarebbe sminuire questo grande artista..che è poeta, filosofo, e che con la sua ironia sdrammatizza, forse, quella tristezza di molti artisti elevati come egli.
Grazie ancora Sir Taliesin per farci conoscere donne di cui alcune fino ad ora nemmeno conoscevo l'esistenza:odevo a voi l'avermi istruita. piccolo O.T. e modifico pure io il messaggio per aggiungere questa postilla..scusatemi sir Morris ma se voi cambiate sopra tutto il discorso messo fino ora le risposte che vengono dopo sembrano senza senso..è ciò che avete fatto ora..spero si possa ovviare a tutto questo!!??grazie mille..è anche rispetto per chi risponde dopo voi a un post diverso che avevate messo precedentemente. |
Medioevo Donna 1° puntata
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Medioevo Donna 2° puntata
Susanna Berti Franceschi presenta: Il Beghinaggio
http://www.youtube.com/watch?v=NiOt2...feature=relmfu Sir Morris |
Medioevo Donna 3° puntata
Susanna Berti Franceschi presenta: Donne e Potere
http://www.youtube.com/watch?v=yiVujXqmiqQ Sir Morris |
Medioevo Donna 4° puntata
Susanna Berti Franceschi presenta: La Mitologia Celtica
http://www.youtube.com/watch?v=Utz_a...feature=relmfu |
Medioevo Donna 5° puntata
Susanna Berti Franceschi presenta: Streghe, Processi e Roghi
http://www.youtube.com/watch?v=x27HO5FXYYI |
LA DONNA TEMPLARE DI CLY: JOHANNETA CAUDA
Per secoli gli storici valdostani hanno negato la presenza dell'inquisizione nel loro territorio. Solo negli ultimi vent'anni nuovi studi basati sull'analisi di documenti ignoti alla storiografia precedente hanno permesso di concludere diversamente. Si è infatti osservato che almeno a partire dalla nomina a vescovo di Aosta di Oger Moriset nel 1416 è iniziata un'indagine che ha coinvolto le diverse parrocchie alla ricerca di eretici. Sin dai primi viceinquisitori attestati – Bartholomeus Revettini compare nel 1428 – la direzione delle inchieste pare essere stata saldamente in mano all'Ordine Francescano, salvo un breve periodo intorno al 1460 in cui ha ricoperto la carica Balduynus Scutifferii, vicario generale della Diocesi aostana. Il vicario generale, rappresentante della diocesi di Aosta, affiancava il viceinquisitore formando con lui l’organo giudicante. Degno di nota è anche l’importante ruolo svolto dal procuratore fiscale, ecclesiastico con il compito di difendere nella causa la fede cattolica, che si adoperò sia nella fase istruttoria precedente alla formulazione dell’accusa, sia nel corso del processo per richiedere la tortura e la condanna degli inquisiti. E’ da sottolineare, inoltre, che più volte è stato garantito alle persone inquisite il diritto alla difesa: un esperto in diritto le affiancava per fornire un sostegno quanto meno giuridico e per cercare di dimostrare l’infondatezza delle accuse. Altra funzione di garanzia può essere vista nel ruolo del consiglio di providi viri che ordinariamente il viceinquisitore interpellava prima di decidere in merito all’applicazione della tortura. Bersaglio principale delle inchieste paiono essere state all'inizio le donne che praticavano forme di guarigione attraverso l'uso di formule e rituali particolari. Uno degli aspetti interessanti che risultano dalle inchieste a loro carico sono sicuramente da ricordare le preghiere e le formule impiegate nelle loro attività. Tra le altre cose le formule sono riportate nella forma originale nel volgare dell'epoca, espressione poco conosciuta nella documentazione medievale della Valle. Assai presto, però, le inquisite videro aggiungersi al carico di reati loro ascritto anche quello di antropofagia, come avvenne nel 1428 per Johanneta Cauda, personaggio emblematico e misterioso probabilmente legato al sacro Ordine dei Cavalieri del Tempio, tanto da comparire non solo nella documentazione della castellania sabauda di Cly, ma anche nell' Errores gazariorum, importante testo relativo alla stregoneria dell'area alpina occidentale risalente all'incirca al primo trentennio del quattordicesimo secolo. La donna, ritenuta colpevole di aver mangiato i nipoti in compagnia di un'amica, fu bruciata nel borgo di Chambave il giorno del patrono della parrocchia. A partire dalla metà del secolo alle accuse di infanticidio e antropofagia si aggiunsero quelle di orge che si sarebbero svolte nel corso degli incontri tra adepti del diavolo. Le inquisite vi si sarebbero trasferite in volo grazie all'uso di un unguento particolare e di mezzi di trasporto disparati, bastoni, seggiole, ma anche animali. In questa nuova fase si assiste ad inchieste aperte a carico sia di donne, la maggioranza parrebbe, sia di uomini. Per ambedue i sessi le accuse erano corrispondenti così come le condanne. Alle precedenti accuse venivano ad aggiungersi, a seconda dei momenti, altri sospetti. Spesso gli inquisiti erano accusati di aver ucciso, dopo averli seviziati, neonati che dormivano nelle culle. In altri casi li si riteneva responsabili di venefici, di aver generato l'impotenza negli uomini, aver procurato l'aborto nelle donne o fatto morire neonati e puerpere. Obiettivo dei giudici era certamente ottenere la confessione dell’accusato, al fine di provarne la colpevolezza e per questo ricorrevano spesso alla tortura. La procedura prevedeva la richiesta di un parere preventivo ad un consiglio di uomini saggi – presumibilmente la Cour des Connaissances – che, messo al corrente per sommi capi della causa, esprimeva il proprio giudizio in ordine all’opportunità del ricorso ai tormenti. L’inquisito, quindi, veniva condotto nel luogo apposito e torturato. Il metodo utilizzato era la strappata, consistente nel legare le mani della persona ad una corda che era tirata con violenza più volte. Soltanto Bartholomeus Bertaca subì un trattamento diverso: i suoi piedi furono avvicinati al fuoco e il calore lo convinse subito a parlare. Frequentemente la sentenza del tribunale impose la condanna al rogo. Su una quarantina di casi esaminati la metà circa risulta aver subito tale supplizio, il numero però potrebbe essere più alto perchè per molti accusati non si conosce la sentenza definitiva. La pena del rogo, cosi come nella fase precedente la tortura, venivano eseguite dal braccio secolare. Negli altri casi le condanne consistevano nell’esilio dal paese o dalla diocesi, in pellegrinaggi perpetui – condanna assai pesante perché imponeva l’abbandono per sempre della famiglia e della propria abitazione – e in pene cosiddette infamanti, consistenti nell’indossare croci di color porpora o zafferano per mostrare a tutti la propria colpa. In ogni caso, il condannato era costretto ad abiurare le proprie colpe, promettendo di non ricadervi mai più. Poco si conosce del periodo che segue alla metà del XVI secolo a causa della scarsità di documentazione presente. Parrebbe però che una nuova posizione presa dalla autorità del ducato abbia ridotto l'influenza dell'inquisizione facendo passare nelle mani del vicario episcopale le procedure per eresia. Taliesin, il bardo |
LA PICCOLA ORSA: ORSOLA DI BRITANNIA
Le non poche leggende che avvolgono la figura di S. Orsola potrebbero considerarsi racconti esuberanti, che si diramano da realtà importanti: da una iscrizione nel coro della chiesa omonima in Colonia, ritenuta oggi autentica ed assegnata al IV-V secolo, fino alla protezione degli studi alla Sorbona e nelle università di Coimbra e Vienna. La collocazione nella storia della santa può oscillare dai tempi di Diocleziano, il dalmata imperatore romano che perseguitò i cristiani nel 303-304, a quelli di Attila (395-453), il re degli Unni e “flagello di Dio” che pure non scherzò affatto coi cristiani. D’altra parte la leggenda medioevale intorno ai santi non va considerata riduttivamente come propaganda dei preti o come esigenza localistica di prestigio. Orsola o Ursula, figlia di un re di Britannia, era bellissima, segretamente consacrata a Dio. Un re pagano, di nome Aetherius, si fece ben presto avanti per ottenerla in sposa. Il matrimonio avrebbe scongiurato una guerra, quindi diventava politico; perciò il padre fu quasi obbligato a dare il proprio consenso. Ma la giovane pose alcune condizioni: una dilazione di tre anni, la promessa del pretendente che si sarebbe convertito e la programmazione di un pellegrinaggio insieme a Roma. Scaduti i tre anni,Orsola e undici nobili fanciulle (che diventeranno successivamente undicimila per un errore di trascrizione dell’iscrizione di cui sopra) salparono dai propri lidi e per mare e poi per fiume raggiunsero Colonia. Dopo avere là brevemente soggiornato,le undici giovani, incoraggiate da un angelo, proseguirono, sempre navigando sul Reno, fino a Basilea. Dalla Svizzera raggiunsero a piedi, oranti pellegrine, Roma, dove Orsola fu ricevuta dal Papa. Davanti al Santo Padre comparve anche il promesso sposo che, nel frattempo, si era convertito al cristianesimo. Nello stesso anno e seguendo il medesimo tragitto, le vergini ritornarono a Colonia. In tale antica e importante città tedesca Orsola e le altre, per la loro manifesta fede cristiana, vennero torturate e messe a morte a colpi di freccia. Colonia, che pure coltiva dal 1162 un grande culto verso i Magi, la ricorda come propria patrona insieme a S. Cuniberto, vescovo nel VII secolo. Le comunità cattoliche la venerano sempre, anche attualmente, in buona parte del mondo e talora con grandi cerimonie religiose, il 21 ottobre, suo giorno del calendario liturgico. Anche Mantova non ha voluto essere da meno, facendo costruire in suo onore, nel 1608 su progetto dell’architetto di corte Antonio Maria Viani, la chiesa di recente restaurata e che prospetta sul corso Vittorio Emanuele II. Non marginale il fatto che le Orsoline, fondate nel 1535 da Sant’Angela Merici, abbiano operato per più di un secolo nella città di Virgilio, educando tanta gioventù femminile. Innumerevoli sono, come in parte già accennato, i patronati di Sant’Orsola; tra loro riveste particolare significato quello sul matrimonio felice. Considerata la condiscendenza del promesso sposo, la santa può venire invocata infatti dai nubendi per avere un buon matrimonio. Taliesin, il bardo tratto da:www.santiebeati.it di Mario Benatti |
LA SERENISSIMA DEI VAMPIRI: L'ANONIMA FANCIULLA DI VENEZIA.
Recentemente sono stati ritrovati in un sito archeologico nella laguna di Venezia quelli che potrebbero essere considerati i primi resti documentati di una "donna vampiro". Il teschio della donna appare infatti "impalato" con un piccolo mattone in bocca, secondo le "usanze" indotte dalle superstizioni dell'epoca, ovvero in pieno Medioevo, cui risale il teschio. I resti sono stati rinvenuti dal gruppo di Matteo Borrini dell'Università di Firenze nell'isola del Lazzaretto Nuovo che è un'area di grande interesse storico nella Laguna Nord di Venezia presso S. Erasmo e deve il suo nome al fatto che nel 1468 con decreto del Senato della Serenissima vi fu istituito un Lazzaretto con compiti di prevenzione dei contagi, detto "Novo" per distinguerlo dall'altro già esistente vicino al Lido, dove invece erano ricoverati i casi manifesti di peste. Quando la peste dilagava, ha spiegato l'esperto al meeting della American Academy of Forensic Sciences tenutosi a Denver, Colorado, "dilagava" anche la credenza che gli untori fossero donne vampiro. L'idea delle vampire veniva probabilmente dal fatto che spesso chi moriva di peste emetteva un rivolo di sangue dalla bocca, come i vampiri appunto. Inoltre secondo l'assurda leggenda le vampire "non-morte", sepolte a fianco dei cadaveri degli appestati, si nutrivano del sangue di questi ultimi per poi riuscire fuori dalla tomba e contagiare altre persone. Per "scongiurare" il contagio coloro che erano addetti alla "sepoltura" dei cadaveri degli "appestati" inserivano quindi un "palo" nella bocca delle sospette donne vampire per impedire loro di "mangiare". Ed è esattamente così che è stata ritrovata la "vampira" italiana, con un mattone in bocca che le ha frantumato tutti i denti. Taliesin, il bardo |
IL SEGGIO DELLA SANTA: CATERINA DA BOLOGNA.
Figlia di uno stimato giurista bolognese, sui 9 anni deve trasferirsi con la famiglia a Ferrara: suo padre va al servizio di Niccolò III d’Este, che sta costruendo il ducato di Ferrara, Modena e Reggio. E lei è nominata damina d’onore di Margherita, figlia di Niccolò. La città di Ferrara sta diventando una meraviglia, chiama artisti da ogni parte, vengono illustri pittori e architetti italiani (e uno addirittura vi è nato: Cosmé Tura), e letterati francesi, e artisti fiamminghi dell’arazzo... Caterina va agli studi, si appassiona di musica e pittura, di poesia (anche latina, presto). Ma d’un colpo tutto finisce, sui suoi 14 anni: le muore il padre, la madre si risposa, e riecco lei a Bologna, sola, abbattuta, in cerca di pace nella comunità fondata dalla gentildonna Lucia Mascheroni. Ma presto il rifugio diventa luogo di sofferenza e travaglio, per una sua gravissima crisi interiore: una “notte dello spirito” che dura cinque anni. E allora torna a Ferrara, ma non più a corte: nel monastero detto del Corpus Domini. Qui la damina si fa lavandaia, cucitrice, fornaia. Preghiera e lavoro, mai perdere tempo, dice la Regola delle Clarisse che qui si osserva. E a lei va bene: lava i piatti, dipinge, fa le pulizie, scrive versi in italiano e in latino, insegna preghiere nuove, canti nuovi. Con lei il monastero è un mondo di preghiera e gioia, silenzio e gioia, fatica e gioia. Diventa famoso, tanto che ne vogliono uno così anche a Bologna, dove va a fondarlo appunto Caterina, come badessa. Porta con sé la madre, rimasta ancora vedova. Siamo nel 1456: anche questo monastero s’intitola al Corpus Domini. Caterina compone testi di formazione e di devozione, e poi un racconto in latino della Passione (cinquemila versi), un breviario bilingue. Si dice che abbia apparizioni e rivelazioni, e intorno a lei comincia a formarsi un clima di continuo miracolo. Ma anche restando con i piedi per terra, è straordinario quel suo dono di trasformare la penitenza in gioia, l’obbedienza in scelta. C’è in lei una capacità di convincimento enorme. Garantisce lei che la perfezione è per tutti: alla portata di chiunque la voglia davvero. Già in vita l’hanno chiamata santa. E questa voce si diffonde sempre più dopo la sua morte, tra moltissimi che non l’hanno mai vista, e la conoscono solo dai racconti di prodigi suoi in vita e in morte. A quattro mesi dal decesso, dice una relazione dell’epoca, durante un’esumazione, sul suo viso riapparvero per un po’ i colori naturali. Santa da subito per tutti, dunque, anche se la canonizzazione avverrà solo nel 1712, con Clemente XI. Il suo corpo non è sepolto. Si trova collocato tuttora sopra un seggio, come quello di persona viva, in una cella accanto alla chiesa che a Bologna è chiamata ancora oggi “della santa”. Taliesin, il bardo tratto da: www.santiebeati.it di Domenico Agasso |
LA SIGNORA DEGLI ONERI E DEI DOVERI: ISOTTA DEGLI ATTI
Isotta degli Atti, nacque a Rimini tra la fine del 1432 e l’inizio del 1433. Figlia di Francesco degli Atti ricco mercante e nobile di Sassofeltrio, che godeva a corte di ragguardevole dignità. Isotta fu battezzata col nome della madre morta nel darla alla luce, fu l’amante bambina e poi la moglie di Sigismondo, che la sposò senza interesse né politico né dinastico, ma solo e soltanto per amore. Sigismondo appena ventenne s’innamorò di Isotta e l’amore per lei fu il più profondo sentimento che avesse nell’animo, un amore che crebbe col passar del tempo e fu corrisposto altrettanto profondamente. Infatti fu l’unica donna del Signore di Rimini le cui effige furono impresse su una medaglia appositamente coniata da Matteo da’ Pasti. Nel 1445 Isotta, alla giovane età di 12 o 13 anni, fu notata e corteggiata da Sigismondo Pandolfo, che la conquistò solo nel 1446. Un anno dopo, nel 1447, nacque il loro primo figlio Giovanni, che morì in fasce, la loro storia d’amore venne resa pubblica da Sigismondo solo dopo la morte della moglie Polissena Sforza nel 1449. Molte furono le cantate, le rime, le poesie composte in latino e in volgare per celebrare questo amore, persino lo stesso Sigismondo in panni petrarcheschi cantò il suo amore, si fece poeta per la sua donna: "O vagha e dolce luce anima altera! Creat~tra gentile o viso degno O lume chiaro angelico e benegno. In cui sola virtu mia mente spera." Tu sei de mia salute alta e primiera A nchora che mentien mio debil legno Tu sei del viver mio fermo sostegno Turture pura candida e sincera. Dinanzi a te l'erbetta e i fior s'inchina Vaghi d'essere premi del dolce pede e commossi del tuo ceruleo manto. El sol quando se leva la matina. Se vanagloria e poi quando te vede Sconficto e smorto se ne va con pianto Isotta era intelligente, colta e anche bella." Alla fine del 1447 iniziarono i lavori per le prime due Cappelle, quelle oggi chiamate di Sigismondo e di Isotta, nel Tempio Malatestianol. Sigismondo per motivi politici si sposò due volte ed ebbe molti amanti in parte sconosciute, tranne Vannetta de’ Toschi e Gentile di Giovanni dalle quale ebbe molti figli, tuttavia Isotta rimase sempre il suo unico amore, la donna veramente amate presso la quale cercare rifugio e conforto. Isotta fu una consigliera prudente e forte, lo consolò nei momenti di sconforto, riparò gli errori politici e stimolò le opere dell’arte e della cultura, ma soprattutto gli fu fedele nella buona e cattiva sorte. Vigile e accorta resse lo stato in assenza del marito, trattò con gli ambasciatori e diplomatici, vendette i suoi gioielli negli anni del declino del principe, lo sostenne quando fu cacciato da Rimini, fu madre esemplare, sacrificandosi per i figli e i figliastri di Sigismondo. Questi nel 1469 ordinò l'uccisione di Sallustio e conquistò la signoria. Isotta, lasciò con prudenza il palazzo, morì nel 1474, fu sepolta con tutti gli onori nel Tempio Malatestiano, dove erano già stati sepolti altri Malatesti Signori di Rimini, così era inizialmente il loro nome. Taliesin, il bardo tratto da: www.castelsismondo.it |
LA LAVANDAIA DEL PRINCIPE: PIPPA LA CATANESE.
Era una florida popolana nata a Catania, e morta a Napoli. Visse a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Il suo vero nome era Filippa per vezzo familiare detta Pippa. Di mestiere faceva la lavandaia ma il destino le riservò poi un’esistenza quasi splendida conclusa però con una morte atroce. Giovanissima, fù scelta per nutrice di Luigi, figlio di Roberto d’Angiò e Violante d’Aragona nato nel castello Ursino, per cui si addisse al nuovo servizio con entusiasmo di affettuosa mamma siciliana, tirando su con ogni cura il principe, che cresceva vigoroso. Allorché gli Angioini furono cacciati dalla Sicilia e ritornarono a Napoli, Pippa seguì la Corte dove i sovrani l’ebbero in particolare benevolenza, l’arricchirono di doni e la tennero in onore, anche quando il bambino regio improvvisamente morì. Anzi, conquistò un ruolo sempre più importante e frattanto aveva acquistato gentilezza di modi, fino a sposare il siniscalco del regno al quale diede tre figli. Nel 1343 sul trono salì Giovanna I d’Angiò che aveva sposato il principe Andrea d’Ungheria, il quale, ancora prima dell’età dei ventidue anni, volle essere consacrato re di Napoli, ostentando nella cerimonia dell’incoronazione, la minaccia della mannaia per i dissidenti, i quali erano molti e facevano affidamento sull’antipatia e l’intolleranza che la sovrana, che amoreggiava con il cugino Luigi duca di Taranto, nutriva per il marito contro il quale fu ordita una congiura; e il meschino fu strangolato e scaraventato giù da una finestra. Intervenne il Papa, quale supremo signore feudale sul Regno di Napoli, e cominciò, per identificare i congiurati, la caccia all’uomo ma la prima ad essere indiziata fu una donna, Pippa assurta da qualche tempo a rango di confidente della Regina. L’ex lavandaia fu atrocemente torturata, disse di aver saputo della congiura ma di non avervi preso parte. Ma dalla catanese si voleva sapere di più, adoperando tenaglie infuocate per dilaniare le carni di lei, per costringerla a parlare. Ma la donna, o perché veramente non sapeva nulla o per fedeltà alla sua regina, non parlò e spirò fra strazi orrendi. Anche uno dei suoi figli e un nipote furono martirizzati: bruciati vivi sul rogo mentre quelli che avevano assassinato Andrea restarono immuni da qualunque punizione. Taliesin, il bardo |
LA VERGINE MARTIRE CAGLIARITANA:
BARBARA A CAPOTERRA. Il culto di Santa Barbara, Vergine e Martire Cagliaritana, ebbe inizio o rinnovato impulso a partire dal 1620. In quell’anno, infatti, durante gli scavi nella Cripta di Santa Restituta a Cagliari, ordinati dall’allora arcivescovo Francisco Desquivel (1605-1624), il 23 giugno fu ritrovato un loculo terragno con la seguente iscrizione: S(ancta) Barbara V(irgo) et / M(artyr) q(uae) vixit an(n)is / XXX. In traduzione italiana: «Santa Barbara, Vergine e Martire, che visse trent’anni». Il padre Cappuccino Serafin Esquirro, uno tra gli studiosi maggiormente impegnati nelle ricerche seicentesche dei Cuerpos Santos, che all’epoca interessarono tutta la Sardegna, parlando della scoperta nel suo libro Santuario de Caller, pubblicato nel 1624, spiega come questa gli avesse dato modo di intendere certi riferimenti di antiche tradizioni locali, rimasti sino a quel momento alquanto misteriosi. Secondo tali racconti, una Santa di nome Barbara sarebbe stata decapitata non molto lontano da Cagliari, sulle montagne di Capoterra, in un luogo chiamato La Escap(i)sada a causa appunto di questo martirio. L’Esquirro, inizialmente, aveva ritenuto ridicola questa tradizione (cosa de risa, dice testualmente), perché l’unica Santa Barbara nota al Martirologio Romano, venerata il 4 dicembre, era stata uccisa a Nicomedia di Bitinia (oggi Ismid, in Turchia) e con Cagliari non aveva mai avuto niente a che fare. Alla luce di questo ritrovamento, però, egli dovette ricredersi e ammettere un caso di omonimia, cioè che un’altra cristiana di nome Barbara fosse stata martirizzata in odio alla Fede anche a Cagliari. Durante il medioevo, con lo spopolamento e l’abbandono subito dalla città a causa delle invasioni islamiche (de los iniquos Sarraçinos, scrive l’autore seicentesco), la documentazione storica relativa a questa Santa locale sarebbe dunque andata dispersa, la sua figura dimenticata e progressivamente confusa con quella, ben più famosa, della Martire nicomediense. A questo primo quadro ricostruttivo aggiunse nuovi elementi Dionisio Bonfant, nel suo Triumpho de los Santos del Reyno de Cerdeña, pubblicato a Cagliari nel 1635, avendoli a propria volta raccolti sia dalla tradizione orale sia tramite sopralluoghi personalmente effettuati. Poiché le reliquie di Santa Barbara e quelle di Santa Restituta erano state ritrovate a breve distanza le une dalle altre, egli ipotizzò che le due fossero state compagne anche nel martirio. Riferendo l’Esquirro, anche il Bonfant accolse la tradizione del martirio della Santa avvenuto sui monti di Capoterra, aggiungendo che la sorgente detta Sa Scabiçada sarebbe scaturita proprio nel momento in cui la testa di Barbara, recisa, cadde al suolo. Interessantissime notizie furono quindi da lui fornite su certi monaci che avrebbero edificato, a protezione della fonte, la cappillica (cioè la cappellina) ancora esistente, e sugli Eremitani di Sant’Agostino che, nel XIII secolo, eressero poco più a valle la chiesa che tuttora si conserva. Bonfant ricorda inoltre come quei religiosi custodissero una cabeça de marmol desta Santa, ad ulteriore memoria del suo martirio. Proprio quest’ultimo elemento consente importanti osservazioni. Al contrario di quanto pensavano Esquirro e Bonfant, il toponimo La Escap(i)sada / Sa Scabiçada potrebbe non essere molto antico, ma risalente a dopo l’arrivo in Sardegna dei catalano-aragonesi, nel XIV secolo. Tale toponimo, dunque, sarebbe stato coniato in età abbastanza tarda, probabilmente nel momento in cui i monaci Basiliani, nel 1335, poterono entrare in possesso della chiesa di Santa Barbara grazie alla generosità del re d’Aragona e di Sardegna Alfonso IV il Benigno. Questi religiosi, insediandosi nel romitorio, dovettero probabilmente trovarvi la testa marmorea e, dal tentativo di spiegarne la presenza, potrebbe essersi ingenerata in loro la convinzione che il supplizio della Santa fosse avvenuto proprio in questo luogo. Dai costruttori romanici la testa marmorea doveva essere stata raccolta tra le rovine di Cagliari o della vicina Nora, assai verosimilmente, per essere utilizzata quale elemento decorativo di reimpiego, secondo un gusto antiquario tipico delle architetture medievali di norma pisana, alla quale per stile si assegna anche la chiesa di Santa Barbara. Niente esclude, beninteso, che i monaci Agostiniani avessero voluto collocare nella loro chiesa questo pezzo d’antichità anche per avvalorare una tradizione - quella del martirio di Santa Barbara - connessa al sito già prima del loro arrivo. Certo è, in ogni caso, che nel 1365, quando la chiesa di Santa Barbara e le sue pertinenze fondiarie erano divenute proprietà dell’arcivescovo di Cagliari, il loro affittuario era tenuto a corrisponderne il relativo censo in due rate: la prima a settembre, per la festa di San Michele, che anticamente rappresentava l’inizio dell’annata agricola; la seconda il 4 dicembre, giorno della festa di Santa Barbara di Nicomedia, segno che, già all’epoca, la confusione tra le due sante omonime era già cominciata. Chi storicamente sia stata questa Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana, ormai, non è più dato sapere, ma la conoscenza precisa della sua età, da parte di chi realizzò l’epigrafe funeraria trovata nel 1620, parrebbe poterne suggerire l’ipotetica identificazione con un personaggio locale (o comunque distinto dalla Martire di Nicomedia, che, secondo la passio, morì giovinetta) di cui, per un certo tempo, la Chiesa cagliaritana avrebbe conservato una qualche memoria storica, andata poi disgraziatamente perduta. Nel presente caso, ammettendo che non si sia comunque trattato di un falso realizzato nel medioevo, l’iscrizione avrebbe quindi potuto essere stata compilata ex novo, sulla base di fonti a carattere letterario, o rifatta sulla base di un’epigrafe preesistente ormai distrutta. tratto da: www.capoterra.net Il cosiddetto Carcere di Santa Restituta nel quartiere di Stampace, a Cagliari. Si tratta di un vastissimo ambiente ipogeico, scavato nella roccia calcarea, all’interno del quale, in un loculo sotto il pavimento, il 23 giugno 1620 furono ritrovate le reliquie di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana. Nato in età punica come cava di blocchi e poi trasformato in magazzino di anfore, in età romana, alla metà circa del XIII secolo fu adibito a luogo di culto cristiano dedicato al culto di Santa Restituta e di vari altri Martiri. L’iscrizione di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana negli Actas Originales, cioè nell’atto notarile ufficiale redatto al momento stesso della scoperta delle reliquie. Essendo andata disgraziatamente smarrita la lapide originale, descritta in lingua catalana come una loseta de marbre y en ella el letrero esculpit en lletras maiuscolas entre reglas (cioè «una lastrina marmorea con l’iscrizione incisa in lettere maiuscole, entro linee di guida»), questo documento è l’unico a restituirci il preciso aspetto grafico dell’epigrafe, notevolmente semplificato nelle successive trascrizioni a stampa pubblicate dall’Esquirro e dal Bonfant. La sua testimonianza risulta dunque della massima importanza, perché il formulario dell’epigrafe non può essere paleocristiano, come impropriamente ritenuto dagli scopritori seicenteschi, ma ben più tardo: questo spiega come mai nella sua rappresentazione manoscritta compaiano, assieme alle maiuscole capitali classiche, di tradizione romana, anche varie lettere di tipo indubbiamente successivo, cioè in maiuscola onciale, come la M puntata alla riga 2. Una simile commistione di caratteri potrebbe appunto riportare in piena età medievale, trovando confronti strettissimi in numerose altre epigrafi sarde risalenti ai secoli XI-XIII. Altri importanti indicatori cronologici per l’iscrizione di Santa Barbara sono i segni di interpunzione triangoliformi, sistematicamente apposti a separare non le diverse parti del discorso ma le singole parole l’una dall’altra, ancora secondo l’uso medievale. Altro indizio di datazione tardiva, infine, potrebbe anche essere considerata la parola an(n)is della riga 2, scritta con una sola N, la cui geminazione era probabilmente supplita tramite una tilde orizzontale, non rilevata dal redattore degli Actas forse perché confusa con le reglas, le righe, entro le quali risulta essere stato ordinato il testo originale. L’iscrizione di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana nel Santuario de Caller del cappuccino p. Seraffin Esquirro, ponderoso volume di oltre 500 pagine pubblicato a Cagliari nel 1624. Rispetto al disegno riportato nei documenti manoscritti seicenteschi, si può constatare come il tipografo avesse regolarizzato la forma del testo, eliminando tutte quelle particolarità grafiche che gli risultava difficoltoso riprodurre con fedeltà assoluta. Anche per questo motivo, non potendosi riportare il formulario dell’epigrafe ad epoca paleocristiana né potendosene intuire la reale datazione ad età medievale (quando ancora non era noto agli studiosi il manoscritto degli Actas Originales, conservato presso l’Archivio Arcivescovile di Cagliari), tutta la critica più recente, addirittura accusando di frode l’Esquirro e il Bonfant, la considerò una falsificazione, assieme a tutte le altre iscrizioni da essi pubblicate. La condanna più grave venne da parte di Theodor Mommsen, autorità indiscussa nel campo della storia antica e dell’epigrafia latina, dietro il quale perciò si disposero, sino a tempi ormai immediatissimi, quasi tutti gli altri studiosi. Effigie di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana, in legno intagliato e policromato, custodita presso la chiesa parrocchiale di Capoterra ed utilizzata per le processioni. Secondo la particolare iconografia diffusa a partire dall’età bizantina, la Santa è qui raffigurata nelle ricche vesti di un’appartenente alla corte celeste di Cristo Re dell’universo, con tunica di broccato verde pallido trapunta d’oro, cintura pure d’oro stretta alla vita e mantello di porpora elegantemente panneggiato sulle spalle e ripiegato sul braccio destro. La mano destra stringe il ramo di palma, simbolo del martirio, ed è portata verso il cuore a significare il dono della vita per amore di Cristo. Lo sguardo della Santa, illuminato di gioia, è infatti rivolto verso l’alto, a contemplare le realtà celesti, mettendo ancor più in evidenza il taglio sanguinoso che le segna la gola, a ricordo della decapitazione subita. Tutta pervasa di grazia settecentesca, sotto la lunga veste, la snella e leggiadra figuretta della Martire accenna palesemente un passo di danza, una movenza da minuetto, mentre il braccio sinistro si allarga con eleganza come per cogliere fiori: non si tratta di una semplice leziosaggine dell’anonimo scultore napoletano, di una sua scontata concessione al gusto del tempo, ma di un preciso richiamo alle figure contenute nell’inno liturgico Jesu Corona Virginum, attribuito a Sant’Ambrogio (339-397), che la Chiesa da secoli intona nelle ricorrenze festive delle Sante Vergini. In tale composizione infatti, con immagini tratte specie dal Cantico dei Cantici e dal libro dell’Apocalisse, viene cantato Cristo che, nel giardino del Paradiso, pergit inter lilia, «incede tra i gigli», (Cant. 2, 16) septus choreis Virginum, «contornato dalle danze delle Vergini» (cfr. Ger. 31, 13; Ap. 14, 4), elette sue compagne per tutta l’eternità. Taliesin, il bardo |
Non conoscevo nessuna delle due storie.....ma avendo studiato la nascita del Castel Ursino.....adesso mi sembra piu' completa potendovi aggiungere la storia della Lavandaia.....
Grazie buon Bardo... |
Grazie e voi Lady Elisabeth,
quella piccola lavandaia vi sta già sorridendo dalla sommità del Vulcano. Taliesin, il bardo |
LA FIORAIA DELL'ETNA: BILLONIA DA CATANIA.
Anche se temporaneamente distante dal cosidetto Medioevo, è mia intenzione presentare un sigolare personaggio popolare e pittoresco della Catania a cavallo tra i secoli, XIX e il XX. Era una donna minuta, tutt’altro che sgraziata, era la fioraia della Villa, sfiorita per conto suo, ma con la camicetta ostinatamente sfavillante di dorati lustrini. Andava anche su e giù per via Etnea con i fasci di fiori di campo, le margherite, le rose, che offriva alle coppiette di fidanzati sperando di ricevere una ricompensa, e di sera si piazzava davanti ai teatri. In fondo, era un’immagine gentile con i suoi coloratissimi costumi ricchi di nastri, un’immagine che sotto i lustrini tentava di nascondere un’immensa povertà. Ma c’era anche un pizzico di femminile civetteria in quello strano abbigliamento! Andava spesso in giro con la madre ma gli stenti le avevano rese uguali e sarebbe stato difficile capire, a vederle, chi di esse fosse la più vecchia. D’inverno trascorrevano gran parte delle giornate sui gradini della chiesa di San Biagio, in piazza Stesicoro, ma d’estate si trasferivano al giardino Bellini, sempre popolato di catanesi che accorrevano ad ascoltare i concerti della banda: e lì Billonia poteva raggranellare qualche soldino in più. Poi la madre morì, e poco dopo scoppiò il primo conflitto mondiale: e, mentre il mondo dava addio ai divertimenti e alle spensieratezze di un tempo, neanche Billonia, la semplice e inutile fioraia, travolta dai tempi e dalla guerra, ebbe più motivo di sopravvivere. Nessuno la vide più. tratto da: www.vocedelletna.com Taliesin, il bardo p.s. dedicato alla mia cara amica Marcella, depositaria di scienze perdute racchiuse all'interno del nostro cratere spento, antica e saggia alchimista di essenze fiori ed erbe preistoriche, dal carattere mite e socievole, dagli strani abiti dipinti a festa, forte scudo contro ciarlatanesche ugole di stolte e moderne civette di montagna. |
L'ULISSE DELL'ETNA: LA LEGGENDA DI JANA DI MOTTA.
Nel 1409 la vedova Bianca di Navarra divenne Vicaria del regno, e l’anziano conte di Mòdica, Bernardo Cabrera, avrebbe voluto prenderla in sposa, per aumentare il suo potere, dato che era già Gran Giustiziere del Regno. La regina Bianca, però, non voleva sentirne; e allora il conte la inseguì per tutto il regno; la regina esausta si rivolse al suo fedele ammiraglio Sancio Ruiz de Livori, che catturò il focoso Giustiziere, e lo fece rinchiudere mel castello di Motta; dove al danno della prigionia si unì la beffa che ai suoi danni ordì una giovane donna di Motta Jana, che era una fedele e astuta damigella di corte della regina Bianca. D’accordo con l’ammiraglio Sancio, e ottenuto il permesso dalla regine, Jana si travestì da paggio, e si fece assumere al servizio del conte, entrando nelle sue grazie, e convincendolo a tentare un’evasione per riprendere i suoi tentativi di sposare la regina Bianca. Il conte abboccò all’amo e una notte, fattolo travestire da contadino, la diabolica Jana lo fece calare da una finestra del castello, sostenendolo con una corda;ma ad un certo punto,Jana mollò la corda,e il povero conte cadde dentro una grossa rete,a bella posta preparata,dove rimase tutta la notte al freddo e al mattino fu beffato dai contadini, che lo presero per un ladro, e lo derisero. Jana, riprese le sue vesti femminili, e rivelatasi chi era, lo fece inviare prigioniero al Castello Ursino di Catania, dove sbollirono definitivamente i suoi ardori per la regina Bianca. tratto da: www.vocedelletna.com Taliesin, il bardo |
Non conoscevo per nulla queste storie....attraverso voi, finiro' per conoscere parte delle storie che appartengono ai luoghi dove vivo........:smile_clap: grazie
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...o semplicemente attraverso me ritroverete molto che vi appartiene, oltre i confini geografici e gli spazi temporali imposti dagli uomini.
Felice di avervi regalato un altro affresco della vostra collina. Taliesin, il bardo |
LA PASSIONE DEL CRISTO: MADONNA GIULIANA DI NORWICH
Di questa beata si ignorano il nome di Battesimo e quello della sua famiglia. Oltre al libro delle Rivelazioni, sulla sua esistenza ci è giunta solo un'altra testimonianza coeva, che è stata recentemente scoperta nella singolare autobiografia di Margery Kempe, altra santa donna del tempo. Ella, nel 1413, si era recata, nel romitaggio di Norwich, a visitare "Madonna Giuliana" per averne consigli e direttive spirituali. "Madonna Giuliana" o "signora Giuliana", è il nome sotto il quale la beata era conosciuta in vita e che poi le è rimasto; potrebbe averlo adottato in onore di s. Giuliano, patrono della chiesa presso cui trascorse gran parte della sua vita, chiesa che apparteneva al monastero di Benedettine dei SS. Maria e Giovanni a Carrow, dentro la città di Norwich. Si è avanzata l'ipotesi, ma senza prove valide, che Giuliana fosse una monaca di quel priorato. Tutto ciò che realmente è noto su Giuliana, che si dice "una semplice creatura che non conosce le lettere", simile in ciò a s. Caterina da Siena, pure illetterata, sono le notizie che si possono trarre dal suo notevole libro, pervenuto in due distinte versioni: "testo lungo" e "testo breve". Attualmente si concorda generalmente nel considerare la versione "breve" come la piú antica, sebbene sia stata la "lunga" ad essere edita per prima, nel 1670, a cura del benedettino Serenus Cressy, dal ms. di Parigi. Tra le numerose riedizioni, seguiamo qui quella del 1901, annotata da Grace Warrack. Il "testo breve" è stato edito per la prima volta da D. Harford nel 1911, da un ms. del British Museum, ed è stato riedito da A. M. Reynolds nel 1958. In questo secolo sono stati scoperti altri due mss., uno per ogni versione. In tempi recenti sono stati pubblicati molti studi sulle Rivelazioni di Giuliana, alla quale si riconosce universalmente una personalità fuori del comune. Ella è la prima scrittrice che usi il volgare, cosa questa che aggiunge uno speciale interesse linguistico al suo libro e, come mistica, Giuliana occupa davvero un posto eminente. Preliminarmente meritano di essere ricordate le sue continue dichiarazioni di lealtà verso l'insegnamento della Chiesa. Per misurare adeguatamente ]a sua statura, è fondamentale la conoscenza degli autori che hanno scritto di lei in questi ultimi tempi, soprattutto il gesuita Paolo Molinari (1958). La data cruciale nella vita di Giuliana fu l'8 o il 13 maggio 1373: i mss. non concordano sul giorno del mese. Della sua vita precedente, sappiamo solo che ella era teneramente devota alla madre e che era una donna molto pia. Questa seconda caratteristica si delinea in rapporto alle affermazioni della beata secondo cui, in un tempo non specificato, ma anteriore alle sue "visioni", ella aveva chiesto a Dio tre doni e cioè: una "veduta materiale" della Passione di Cristo, cosí da partecipare alle sue sofferenze come Maria e l'esperienza di una "malattia del corpo", perché fosse purificata da ogni amore per le cose terrene. La terza grazia concerneva tre "ferite" (wounds): di dolore per il peccato, di sofferenza con Cristo e di brama di Dio. Le prime due grazie erano chieste con la condizione "se questa è la volontà di Dio", ma la terza senza alcuna riserva. Tutto ciò presuppone una insolita disposizione dell'anima, preparata a ricevere straordinarie grazie mistiche. La malattia che aveva chiesta la colpí quasi all'improvviso nel giorno cui si è già accennato. Non è detta l'esatta natura del male, ma che fosse molto grave lo prova il fatto che giunse in punto di morte. "Io giacqui tre giorni e tre notti e la quarta presi tutti i sacramenti della Santa Chiesa e pensai che non avrei vissuto fino all'alba. E dopo ciò, io languii per due giorni e due notti e la terza notte pensai di essere per morire e cosí pensarono quelli che erano con me...E essendo ancora giovane, pensai esser molto doloroso morire...ma consentii in pieno, con tutta la volontà del mio cuore ad essere alla mercè di Dio...Si mandò a cercare il mio curato perché assistesse alla mia fine. Egli mise la croce dinanzi al mio volto e disse: "Ti ho portato l'immagine del tuo Creatore e Salvatore; guardala e siine confortata"". Giuliana si sforzò di assecondarlo e vi riuscí, ma "non seppe come". L'immagine sembrò diventare viva, col sangue che gocciava giú dal volto del Salvatore. Poco dopo, quando ella pensava di essere proprio morta "tutto ad un tratto la mia pena fu rimossa da me e io fui cosí come ero prima". Quindi Giuliana ricordò il desiderio di sperimentare sul suo corpo le sofferenze della Passione di Nostro Signore (cap. XVII) "la quale visione delle pene di Cristo mi empí di pena. Perché io sapevo bene che Egli aveva sofferto una sola volta, ma era come se Egli volesse mostrarmelo e riempirmi col pensiero, come avevo prima richiesto. Cosí pensai: io sapevo ben poco che pene fossero quelle che io chiesi, e, come una disgraziata, mi pentii, pensando: se io avessi saputo ciò che era stato, ci avrei pensato a chiederlo. Perché mi parve che le mie pene avessero oltrepassata la pena corporea. Io pensai: c'è qualche pena come questa? E mi risposi nella mia ragione: l'Inferno è un'altra pena, perché non c'è speranza. Ma di tutte le pene che guidano alla salvezza, questa è la maggiore, vedere il tuo Amore soffrire...". Questa fu la prima delle quindici Rivelazioni, riferita quella mattina dopo la sua mi steriosa malattia e improvvisa guarigione. "La prima cominaò la mattina presto, circa le quattro, e continuò la visione con processo pieno, chiaro e netto, una di seguito all'altra fino a oltre le nove del giorno". L'ultima manifestazione ebbe luogo la notte successiva, e quando finí le tornarono i sintomi della malattia, e Giuliana cominciò a nutrire dubbi sulla realtà della sua esperienza e spesso desiderò "di conoscere che significato desse il Nostro Signore a tutto quello". Ella dovette aspettare quindici anni e piú prima di ricevere una risposta diretta: "Volevi conoscere il disegno del tuo Signore in questa cosa? Amore. Imparalo bene: Amore era il Suo disegno. Cosa ti mostrò? Amore. Perché te lo mostrò? Per Amore. Tienilo dentro e imparerai e conoscerai di piú insieme...Cosí fu che pensai che Amore era il disegno di Nostro Signore". Queste visioni dovevano essere per Giuliana come semi celesti piantati da Nostro Signore stesso nella sua anima e essi si svilupparono interiormente nel corso della vita. Tutto il libro non è altro che un commentario su ciò che le fu mostrato durante quelle poche ore nel suo letto di malata, nel trentunesimo anno della vita. Ella visse a lungo, chiusa nel suo romitorio presso la chiesa di S. Giuliano a Norwich, curata negli ultimi anni da due donne che provvedevano alle sue necessità. Là Giuliana fu visitata da molte persone di ogni rango e grado, che venivano a lei per aver un consiglio nelle loro pene. Il suo amore per Nostro Signore ispirò quello per i suoi evenchristians, come li chiamava. Il libro deve essere stato dettato a qualche chierico competente che, nel frattempo, deve averle reso familiari i migliori scritti spirituali dei santi Padri e Dottori cattolici. Ci sono anche ragioni per pensare che le lettere della sua piú giovane contemporanea, s. Caterina da Siena, debbano esserle state portate a conoscenza, ma nessuna influenza esterna adulterò l'originalità della sua sapienza "data da Dio" (God-given): il libro che alla fine ella scrisse, rimane la piú dolce esposizione clel. l'amore divino che sia mai stata scritta nella lingua inglese. Alcuni dei suoi capitoli possono essere descritti solo come "sublimi", con un messaggio per ogni generazione di devoti cristiani, in tutto il mondo. Non c'è alcuna traccia cdi una eventuale beatificazione di Giuliana, e nemmeno di culto pubblico: tuttavia ella è talvolta chiamata beata e ricordata il 13 o il 14 maggio. tratto da:"Enciclopedia dei Santi" di John Stéphan Taliesin, il bardo |
LA FORZA DELLA RINASCITA DAL DOLORE: ARTEMISIA GENTILESCHI.
Artemisia Gentileschi nasce a Roma l'8 luglio del 1593, figlia primogenita del http://www.pittart.com/grandi-maestr...Pittura300.jpgpittore Orazio Gentileschi (nato a Pisa) e di di Prudenzia Montone (morta prematuramente). Nonostante che all'epoca, l’arte pittorica fosse rigorosamente riservata agli uomini (in genere le donne erano escluse da quasi tutti i lavori non domestici), Artemisia impara nella bottega paterna, le tecniche pittoriche vivendo in un ambiente impregnato di pittori, spesso (come il padre) di scuola caravaggesca. Del resto pare che Artemisia abbia conosciuto personalmente Caravaggio, che sembra usasse prendere in prestito strumenti dalla bottega del padre, durante il periodo nel quale Caravaggio lavorava nella Basilica di Santa Maria del Popolo e nella Chiesa di San Luigi dei Francesi. La prima opera attribuita a Artemisia è “Susanna e i vecchioni” realizzata probabilmente con riferimenti “autobiografici”. L’episodio di Susanna è narrato nell’Antico Testamento (Libro di Daniele) e descrive la casta Susanna, sorpresa al bagno da due vecchi che la sottoporranno a ricatto sessuale per soddisfare i loro appetiti. Ma per Artemisia l’opera “Susanna e i vecchioni”, vorrebbe alludere allo stupro da lei subito ad opera di Agostino Tassi maestro di prospettiva, che frequentava la casa del padre, per gli impegni che aveva con Orazio Gentileschi, nella decorazione a fresco delle volte del Casino del Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma. Lo scandalo avviene nel 1611, quando Orazio inizia una causa contro Agostino Tassi, per “aver violentato Artemisia più e più volte”. Questa la testimonianza di Artemisia al processo: "Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l'altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne." Durante il processo Artemisia viene anche torturata, ma non ritratta le accuse, tanto che vince (cosa molto strana per una donna) la causa e il pittore Agostino viene condannato a scontare una pena di alcuni anni di carcere.http://www.pittart.com/grandi-maestr...loferne300.jpg La reputazione di Artemisia (per gli usi dell’epoca) è comunque altamente compromessa e abile è il padre Orazio, che riesce comunque a combinare per la figlia, un matrimonio (1612) con il modesto artista fiorentino Pierantonio Stiattesi. Artemisia dunque si trasferisce a Firenze, dove avrà 4 figli (tre tuttavia muoiono nei primi anni di vita) e solo la figlia Prudenzia accompagnerà la madre nei suoi viaggi a Napoli, Londra e naturalmente Roma. A Firenze, comunque Artemisia verrà accettata (prima donna in assoluto) all’Accademia delle Arti del Disegno. Il padre comunque non le farà mancare il suo appoggio, come dimostra la lettera scritta alla Granduchessa Cristina di Lorena (1612) “questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”. A Firenze conosce dunque un lusinghiero successo, riuscendo anche a frequentare i più reputati artisti e personaggi del tempo (uno per tutti: Galileo Galilei) e a conquistare il favore della famiglia Medici. Negli anni Artemisia raffina e elabora la sua tecnica pittorica, prediligendo realismo, tinte violente e magistrali giochi di luce. Appartengono al periodo fiorentino le opere “Conversione della Maddalena” e “Giuditta con la sua ancella “ e la seconda versione di “Giuditta che decapita Oloferne” , la prima versione era stata dipinta con “rabbia” tra il 1612 e il 1613 ed è impressionante per la violenza che emana. Nonostante il successo, il periodo fiorentino è tormentato da problemi finanziari e dunque, un poco per sfuggire ai creditori e un po' per sfuggire alla convivenza con il marito, Artemisia torna nel 1621 a Roma, ma non coabiterà con il padre che in quel periodo vive a Genova. Molti sono gli amanti che si attribuiscono a Artemisia Gentileschi anche se pare che il suo grande amore fosse il musicista Nicholas Lanier al quale è forse da attribuire la paternità della figlia Francesca, nata intorno al 1627. A Roma intanto è crescente il successo del classicismo e delle ispirazioni barocche di Pietro da Cortona e Artemisia entra a far parte dell'Accademia dei Desiosi (Inaugurata nel 1624 da Agostino Mascardi e aperta a poeti e teorici del nuovo gusto barocco ). In questo periodo Artemisia conosce anche il collezionista Cassiano dal Pozzo, ma ciò nonostante le commesse non sono numerose, a lei sono comunque precluse le grandi opere e le grandi pale d'altare, così intorno al 1629 cambia nuovamente città, stabilendosi a Venezia. Risalgono al periodo veneziano le opere: “Giuditta con la sua ancella”, il “Ritratto di gonfaloniere”, “la Venere http://www.pittart.com/grandi-maestr...cchioni300.jpgdormiente” e “Ester e Assuero”. Tuttavia la vita di Artemisia, come quella di tanti grandi maestri pittori, è caratterizzata da continui spostamenti e nel 1630, troviamo Artemisia a Napoli dove realizza “L'Annunciazione”, la “Nascita di San Giovanni Battista”, “Corisca e il satiro” e instaura buoni rapporti con il Duca d'Alcalà e un'ottima collaborazione artistica con il pittore casertano Massimo Stanzione. A Pozzuoli poi realizza per la prima volta il suo sogno di dipingere per una cattedrale, saranno i dipinti dedicati alla vita si San Gennaro. Intanto il padre Orazio si era fatto un nome presso la corte di Carlo I a Londra, era infatti riuscito a avere l'incarico di decorare il soffitto della “Casa delle Delizie di Greenwich” della regina Enrichetta Maria e dunque Artemisia pensa bene, nel 1638, di raggiungerlo. Tra i due, sarà un ritrovarsi breve, poiché nel 1639 il padre muore. Artemisia resterà a Londra probabilmente fino al 1641 ed è certo, come risulta dalle lettere intercorse con il collezionista siciliano Antonio Ruffo che nel 1649 è a Napoli. Le ultime opere che risultano realizzate da Artemisia Gentileshi in questo periodo sono la “Madonna e Bambino con rosario”, "David e Betsabea" , "Lot e le sue figlie" e “Lucrezia”, poi non ci sono ulteriori notizie, molti, forse troppi critici, hanno ignorato per anni la sua arte e così neppure la data della sua morte risulta certa 1652 o 1653. Di lei rimangono esposte al pubblico circa 40 bellissime e vibranti opere. tratto da: "Artemisia" di Alexandra Le Pierre - Oscar Mondadori p.s. nell'ipocrita ed osannata giornata della celebrazione dell'amore, San Valentino, assediato da tutte le sue sfaccettature e contraddizioni, possa l'esempio di Artemisia sconfiggere tutti i tipi di violenza sulle Donne di ogni tempo, specialmente quello attuale, civilizzato e moderno. Taliesin, il bardo |
Quanto riguardo c'e' nelle vostre parole......sapete peche' nella sua atrocita' Artemisia e' una donna fortunata ?.....perche' ebbe una famiglia che la sosteneva...che le credeva..........oggi cosi' moderni, cosi' aperti di mente....riusciamo a diventare cosi' ottusi e atroci che non riusciamo a supportare un'atrocita' cosi' grande......forse la parola piu' giusta e' che la famiglia....ha paura di reggere questo grande mostro che e' la violenza....
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Madonna Elisabetta,
in questo contesto virtuale di anime in disuso e vortici di parole spesso oltraggiate dalla futilità e della convenienza, chiedo venia alla vostra smisurata sensibilità nella storia da me trattata, per essermi perso nei meandri lessicali e temporali e non avere letto la vostra emozione, ma, come si suol dire, non è mai troppo tardi per rimediare... Taliesin, il bardo |
LE FIGLIE DELLA CARITA': LUISA DE MARRILLAC.
Si racconta che Napoleone, in un giorno di quiete, si trovò ad ascoltare un gruppo di persone qualificate culturalmente che cominciarono a discettare di filosofia, di politica, di scienza e con entusiasmo esaltavano l’Illuminismo che aveva prodotto nella società un sentimento filantropico. L’imperatore li ascoltava ma si mostrava sempre più impaziente e anche infastidito da tutte quelle parole. Ad un certo punto li interruppe dicendo: “Tutto questo è bello e buono, ma non farà mai una Suora Grigia!”. Si chiamavano così le Figlie della Carità, fondate, nel 1633, da Vincenzo de’ Paoli e da Luisa de Marrillac, da più di un secolo già famosissime e stimatissime in Francia per la loro opera di carità verso i più bisognosi e per i poveri rottami della società, che pure si fregiava dell’appellativo di illuminista, cioè illuminata dal lume della ragione. Una seconda curiosità. Verso la metà del 1600, quando ormai le Suore Grigie operavano già da qualche decennio, alleviando tante sofferenze e salvando tante vite umane, viveva a Parigi, nella quiete e nella sicurezza, il filosofo inglese Thomas Hobbes. Di lui è rimasta la teorizzazione filosofica dell’assolutismo dello Stato (il Dio mortale sulla terra) nella sua opera Il Leviathan (1651). Tutto doveva essere sottomesso allo Stato (anche l’autorità religiosa). Uno Stato assoluto con poteri assoluti sui singoli individui era necessario per evitare che gli uomini si sbranassero a vicenda alla ricerca inevitabile dei propri diritti. Sua è la famosa frase: “Homo homini lupus”, l’uomo è un lupo per l’altro uomo, pronto, pur di affermare i propri diritti alla sopravvivenza, a sbranarlo. Le Figlie della Carità o Suore Grigie, sapendo che lo Stato non è tutto, erano dei veri angeli, che alleviavano il dolore in ogni angolo dove l’autorità politica e civile non entrava o ne ignorava il bisogno. E in questa loro opera così importante e socialmente così utile e illuminata seguivano le orme e gli esempi dei loro fondatori: San Vincenzo de’ Paoli e Santa Luisa de Marillac. Due grandi figure che hanno illuminato con la loro santità operante socialmente quel secolo francese grande anche per altre figure come Pascal e Cartesio, Richielieu e Mazzarino, Moliere e Corneille, card. De Berulle e Jacques Bossuet, San Giovanni Eudes e altri. Santa Luisa, che per più di trenta anni lavorò con San Vincenzo de' Paoli ebbe con lui lo stesso obiettivo: mostrare il volto misericordioso e buono di Dio verso i bisognosi, specialmente quelli più abbandonati e soli, e in questo erano ambedue mossi dallo stesso e unico grande amore a Gesù Cristo. Il matrimonio sbagliato e per interesse Louise de Marillac nacque nel 1591. Non ebbe come si dice un’infanzia e un’adolescenza serena. Il padre apparteneva ad una delle più importanti famiglie della Francia. Della madre non si sa niente: era quindi una figlia naturale, riconosciuta premurosamente dal padre ed anche aiutata da lui con una rendita che le assicurasse una certa sicurezza. Era una bambina intelligente e saggia. I suoi primi studi furono fatti nel convento delle domenicane di Poissy. L’atmosfera raccolta, devota e culturalmente stimolante le piacque da subito. Ma, forse, la spesa era eccessiva per lei. Venne infatti ritirata e affidata ad una maestra abile anche nell’insegnarle i lavori tipici femminili. Perdette il padre all’età di 11 anni, e, fatto che complicò ancora il suo stato di orfana, la famiglia della matrigna e gli altri parenti (sembra) non si preoccuparono eccessivamente di lei e del suo destino. La ragazza cresceva molto devota e aveva fatto voto di consacrarsi al Signore: all’età di 18 anni Luisa si preparava quindi ad entrare in un convento. Fu però sconsigliata e respinta in questo suo proposito a causa della sua salute non robusta. Se non poteva diventare suora allora bisognava maritarla. E così fu. Ecco quindi un matrimonio non voluto da lei ma combinato da altri, quindi solo di interesse. Era il 1613 e Luisa aveva 22 anni. Il nome del marito Antoine Le Gras, senza alcun titolo nobiliare. Nacque ben presto anche un figlio. Luisa conduceva una vita di devota nel bel mondo che la portava a frequentare prelati, signori dell’ambiente dei Marillac e di Madame Acarie, il tutto mentre si prendeva cura del figlio, debole di salute. Sembrava tutto facile. Ma Luisa cresceva negli scrupoli, nei rimorsi per non essere potuta entrare in convento sempre oppressa da quelli che lei credeva peccati. Era in crisi, insomma. Aveva una buona formazione intellettuale e spirituale, ed una vita cristiana buona. E purtroppo il matrimonio non era diventato un sostegno per lei ma fonte di difficoltà e di ansietà. Cercava quindi la salvezza nell’ascesi, nell’umiltà, nell’abnegazione. Spesso anche in maniera esagerata. E in più aveva sviluppato un attaccamento verso suo figlio che qualche autore chiama addirittura di natura nevrotica. Era un’anima in difficoltà spirituale, in grande pena e dalla psicologia ferita profondamente. Ebbe anche la possibilità di incontrare addirittura due santi (e anche grandi): il vescovo di Ginevra, Francesco di Sales, e specialmente Vincenzo de’ Paoli. Avrà con quest’ultimo l’incontro decisivo e provvidenziale per la sua vita. E veniamo all’anno 1623, anno importante per Luisa. Quello dell’illuminazione. Scrisse lei stessa: “Compresi che... sarebbe venuto un tempo in cui sarei stata nella condizione di fare i tre voti di povertà, castità e obbedienza, e questo assieme ad altre persone... Compresi che doveva essere in un luogo per soccorrere il prossimo, ma non riuscivo a capire come ciò si potesse fare, per il fatto che doveva esserci un andare e venire...”. Un segno dall’alto di avere un po’ di pazienza per coronare il suo sogno di diventare religiosa. Luisa capì il messaggio e infatti cominciò ad aderire, con umiltà e serenità e nella pace interiore, alle circostanze della vita, che in quel momento significava stare a fianco del marito (dal quale pensava di separarsi). La malattia del marito intanto continuava e Luisa lo assistette con molta più dedizione e tenerezza di prima, per altri due anni, rimanendogli accanto fino alla morte santa (1626), della quale lei parlava come di una grande grazia del Signore. L’incontro con Vincenzo de’ Paoli Fu certamente la Provvidenza, che non lascia niente al caso per realizzare i propri progetti di salvezza, a far incontrare Luisa con Vincenzo (intravisto, senza capire di chi si trattasse, in quella famosa illuminazione del 1623). Avvenne nel 1624, durante gli ultimi due anni della malattia del marito. Lei 33 anni, lui 43, famoso in tutta la Francia, che trattava con re, regine, ministri e grandi personaggi. Una coppia che avrebbe funzionato molto bene per il Regno di Dio e che sarebbe rimasta unita indissolubilmente e animata visibilmente dall’unico e indistruttibile e comune amore per il Signore Gesù. Luisa sarebbe diventata la vera compagna di Vincenzo per le opere di carità sociale. Le fu vicino con molta discrezione, con molta saggezza e anche tenerezza spirituale, rasserenando il suo spirito col richiamo continuo all’amore di Dio per ciascuno di noi e quindi anche per lei (per farle vincere il suo moralismo, gli scrupoli e il ricordo dei propri errori). La invitava sempre ad esser lieta, semplice ed umile, le ricordava continuamente l’importanza della “santa indifferenza” davanti a quello che Dio avrebbe voluto per lei. Lei stessa avrebbe trovata la strada e la missione che Dio voleva. Un po’ di pazienza. Anche Dio ha i suoi tempi per agire e per far capire il suo progetto. Il Cristo non era vissuto trent’anni nell’oscurità di Nazaret prima della missione? Anche Luisa poteva e doveva aspettare. Intanto conosceva sempre di più l’opera e la metodologia di Vincenzo con i poveri. E il miracolo avvenne. Arrivò proprio il giorno in cui Luisa intuì il proprio compito o meglio la missione nella Chiesa. Lei, Luisa de Marillac, di madre sconosciuta, orfana a 11 anni del padre, una suora mancata, una giovane donna maritata per interesse, madre di un figlio che dava e aveva problemi... sarebbe diventata la “Madre dei poveri”. Grazie a Dio (e a Vincenzo, mandato da Dio) una trasformazione totale. Naturalmente comunicò l’intuizione a Vincenzo. Era proprio quello che aspettava. Le rispose: “Sì che acconsento, mia cara damigella, acconsento sicuramente. Perché non dovrei volerlo io pure, se Nostro Signore vi ha dato questo santo sentimento?... Possiate essere sempre un bell’albero di vita che produce frutti d’amore!”. E così sarà veramente per Luisa, per tutta la vita e per tanti poveracci che incontrerà e aiuterà. L’opera maggiore (che continua ancora oggi) che questa santa “coppia di Dio” ha fatto insieme è stata la fondazione delle Figlie della Carità, nel 1633. Un Istituto religioso, diretto da loro due insieme per 27 anni fino al 1660, quando morirono entrambi a poca distanza di mesi. Fu una vera rivoluzione per la Chiesa (uscire fuori dai conventi e per di più donne), perché andava al di là dai soliti schemi mentali e gabbie organizzative ecclesiali vigenti fino a quel tempo. Vincenzo e Luisa a tutti chiedevano quello che potevano dare: ai re e regine, ai borghesi e alle dame dell’alta società francese, ai nobili ricchi e ai ricchi non nobili. Alle figlie chiedevano di essere “serve dei poveri”, come se essi fossero i veri padroni. Ma tutto questo Luisa lo chiedeva dicendo o scrivendo “In nome di Dio, sorelle... siate molto affabili e dolci con i vostri poveri. Sappiate che sono i nostri padroni...”. E questi poveri erano i derelitti, gli abbandonati, i senza dimora, i malati, i pazzi, i galeotti, bambini trovatelli, feriti di guerra e altre categorie affini a forte disagio sociale. Era un’assistenza piena di amore e di carità, che nessuna ideologia o anche filosofia illuminista poteva inventare o giustificare ma solo l’amore di Dio. Ed era un lavoro che le Figlie della Carità, quelle suore grigie che Napoleone “sognava”, facevano, e sempre faranno, “in nome di Dio”. tratto da:www.santiebeati.it di Mario Scudu Taliesin, il bardo _______________________ |
Vi ringrazio per aver risposto ad un mio pensiero verso cio' che avete scritto....ma non averei mai temuto che foste dimenticato di me......cio' che ancor oggi avete postato mi ha incantata.....la donna a cui ogni giorno mi ispiro e' Madre Teresa......una grande forza per la sofferenza...ed ecco che oggi ne ho conosciuta un'altra......vi ringrazio mio Amato Bardo...
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@Taliesin
Negli ultimi post, sempre interessanti, siete uscito dal contesto del topic. |
Cavaliere della Carretta,
vi ringrazio per la vostra continua e paziente presenza che qualvolta riesce a ricondurmi nel giusto sentiero. La cosa è molto gradita anche se prefisco il fatto che troviate interessanti questi miei scritti e relativi commenti. Taliesin, il bardo |
BOADICEA, LA REGINA DEGLI ICENI.
Giulio Cesare aveva iniziato l'invasione della Gran-Bretagna in 55 a.C., ma non era mai realmente riuscito ad imporre la sua dominazione sopra i Britanni. Nel 43 d.C. che l'imperatore Claudio ha ordinato che la Gran-Bretagna dovesse essere conquistata. È durante questa seconda invasione che nasce la storia di Boadicea. Boadicea è stato descritta come donna potente. Questa descrizione viene da uno scrittore romano, Dione Cassio: "...era molto alta. La sua voce era dura ed alta. I suoi capelli spessi e bruno-rossastro sono appesi giù sotto la sua vita. Ha portato sempre un torc dorato grande intorno il suo collo e un mantello tartan fluente fissato con un brooch."http://spazioinwind.libero.it/popoli...o/boadicea.jpg Boadicea Boadicea o Boudicca , sposa di Prasutago, re della città di Iceni (ora Norfolk) ancora indipendente al potere di Roma. Quando Prasutago morì nel 60 d.C. senza eredi maschi lasciò tutte le sue ricchezze alle sue due figlie ed all'imperatore Nerone, confidando con ciò di guadagnarsi la protezione imperiale per la sua famiglia. Invece i Romani annetterono il suo regno,umiliarono la sua famiglia, e saccheggiarono il territorio. Mentre il governatore della provincia, Svetonio Paulino, era assente nel 60 Boudicca organizzò una ribellione in tutta la regione dell'Anglia Orientale. Gli insorti bruciarono Comulodunum Verulamium (Colchester), e parte di Londium (Londra) e molti avamposti militari, massacrarono (come riporta Tacito) 70.000 tra Romani e Bretoni simpatizzanti romani facendo a pezzi la Nona Legione. L'esercito comandato da Paulino si scontra con i rivoltosi nella zona corrisponde oggi al centro di Londra e in una disperata battaglia riconquista e sottomette di nuovo la provincia. Si dice Boudicca morì per l'enorme dolore, assumendo de veleno. Dai documenti è riportato che questa donna fosse alta e possente dalla voce decisa. Durante la battaglia si spostava sul carro combattendo con la lancia. Essa era anche dotata di un'ottima eloquenza e attraverso le sue parole inspirava sia coraggio che lealtà. Si dice che ha tenuto questo discorso a loro prima della battaglia: "Britannici siamo usati ai comandanti delle donne nella guerra. Sono la figlia degli uomini d'onore. Ma ora non sto combattendo per la mia alimentazione reale... Sto combattendo come persona ordinaria che ha perso la sua libertà. Sto combattendo per il mio corpo battuto. Gli dei ci assegneranno la vendetta che ci meritiamo. Pensate a quanto di noi stanno combattendo ed al perchè. Allora vincerete questa battaglia o morirete..." Taliesin, il bardo |
@Taliesin
Mi ricollego a quanto detto in precedenza. Siete ancora off topic. |
Cavaliere della Carretta,
spero che crediate alle mie precedenti parole, la mia non è una domanda irriverente o sarcastica, ma reale...cosa vuol dire quel sistema di parole e cosa debbo fare per rimediare? Taliesin, il bardo |
Vi riferite a "Off topic"? Beh, semplicemente siete fuori argomento.
La discussione è incentrata su "Donne nel Medioevo", quindi di queste dovreste parlare. |
Avete ragione Cavaliere della Carretta...
Ma dovete perdonare la mia memoria diroccata in cui mi rimane spesso difficile identificare in un semplice spazio temporale creato di dotti illuninisti compreso tra la caduta dell'Imero Romano d'Occidente e la scoperta delle Americhe. Comunque grazie per la vostra puntuale supervisione, come sempre... Taliesin, il bardo |
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