Camelot, la patria della cavalleria

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Taliesin 20-06-2012 14.25.39

LA POVERELLA DI TRASTEVERE: FRANCESCA ROMANA

La nobile Francesca Bussa de’ Buxis de’ Leoni, nacque a Roma nel 1384, in una famiglia abitante nei pressi di Piazza Navona e fu battezzata nella chiesa romanica di Sant’Agnese in Agone.

Ebbe un’educazione elevata per una fanciulla del suo tempo, grandicella accompagnava la madre Jacovella de’ Broffedeschi, nelle visite alle varie chiese del suo rione, ma spesso fino alla lontana chiesa di santa Maria Nova sull’antica Via Sacra, gestita dai Benedettini di Monte Oliveto, dai quali la madre era solito confessarsi e in questa chiesa, anche Francesca trovò il suo primo direttore spirituale, padre Antonello di Monte Savello, che ben presto si accorse della vocazione della fanciulla alla vita monastica, nonostante vivesse negli agi di una ricca e nobile famiglia.

Ma fu proprio questo benedettino a convincerla ad accettare la volontà del padre, Paolo Bussa de’ Buxis de’ Leoni, che secondo i costumi dell’epoca, aveva combinato per la dodicenne Francesca, un matrimonio con il nobile Lorenzo de’ Ponziani; il padre, in quel periodo conservatore del Comune di Roma, intendeva così allearsi ad un’altra famiglia nobile.

I Ponziani si erano arricchiti con il mestiere di macellai, comprando case e feudi nobilitandosi, essi risiedevano in un palazzo di Trastevere al n. 61 dell’attuale via dei Vascellari, che nel Medioevo si chiamava contrada di Sant’Andrea degli Scafi; dell’antico palazzo più volte trasformato nei secoli, rimangono le ampie cantine e al pianterreno l’ambiente quattrocentesco con il soffitto a cassettoni.

Una volta sposata, Francesca andò ad abitare nel palazzo dei Ponziani, ma l’inserimento nella nuova famiglia non fu facile, e questa difficoltà si aggiunse alla sofferenza provata per aver dovuto rinunciare alla sua vocazione religiosa; ne scaturì uno stato di anoressia che la sprofondò nella prostrazione.

Si cercò di sollevarla da questa preoccupante situazione ma invano; finché all’alba del 16 luglio 1398 le apparve in sogno sant’Alessio che le diceva: “Tu devi vivere… Il Signore vuole che tu viva per glorificare il suo nome”.
Al risveglio Francesca, accompagnata dalla cognata Vannozza, si recò alla chiesa dedicata al santo pellegrino sull’Aventino, per ringraziarlo e da allora la sua vita cambiò, accettando la sua condizione di sposa e a 16 anni ebbe il primo dei tre figli, che amò teneramente, ma purtroppo solo uno arrivò all’età adulta.

Con la cognata Vannozza, prese a dedicare il suo tempo libero dagli impegni familiari, a soccorrere poveri ed ammalati; erano anni drammatici per Roma, gli ecclesiastici discutevano sulla superiorità o meno del Concilio Ecumenico sul Papa; lo Scisma d’Occidente devastava l’unità della Chiesa e lo Stato Pontificio era politicamente allo sbando ed economicamente in rovina.

Roma per tre volte fu occupata e saccheggiata dal re di Napoli, Ladislao di Durazzo e a causa delle guerriglie urbane, la città era ridotta ad un borgo di miserabili.
Papi ed antipapi di quel periodo di scisma, si combattevano fra loro e spesso mancava un’autorità centrale ed autorevole, per riportare ordine e prosperità.
Francesca perciò volle dedicarsi a sollevare li misere condizioni dei suoi concittadini più bisognosi; nel 1401 essendo morta la moglie, il suocero Andreozzo Ponziani le affidò le chiavi delle dispense, dei granai e delle cantine; Francesca ne approfittò per aumentare gli aiuti ai poveri e in pochi mesi i locali furono svuotati.
Il suocero allibito decise di riprendersi le chiavi, ma ecco che essendo rimasta nei granai soltanto la pula, Francesca, Vannozza e una fedele serva, per cercare di soddisfare fino all’ultimo le richieste degli affamati, fecero la cernita e distribuirono anche il poco grano ricavato; ma pochi giorni dopo sia i granai che le botti del vino erano prodigiosamente pieni.
Andreozzo che comunque era un uomo caritatevole, che già nel 1391 aveva fondato l’Ospedale del Santissimo Salvatore, utilizzando la navata destra di una chiesa in disuso, oggi chiamata Santa Maria in Cappella, restituì le chiavi alla caritatevole nuora.

A questo punto Francesca decise di dedicarsi sistematicamente all’opera di assistenza; con il consenso del marito Lorenzo de’ Ponziani, vendette tutti i vestiti e gioielli devolvendo il ricavato ai poveri e indossò un abito di stoffa ruvida, ampio e comodo per poter camminare agevolmente per i miseri vicoli di Roma.

Era ormai conosciuta ed ammirata da tutta Trastevere, che aveva saputo del prodigio dei granai di nuovo pieni, e un gruppo di donne ne seguirono l’esempio; con esse Francesca andava a coltivare un campo nei pressi di San Paolo, da cui ricavava frutta e verdura trasportate con un asinello e che poi elargiva personalmente alla lunga fila di poveri, che ormai ogni giorno cercava di sfamare.

Alla morte del suocero Andreozzo de’ Ponziani, Francesca si prese cura dell’Ospedale del Ss. Salvatore, ma senza tralasciare le visite private e domiciliari che faceva ai poveri.
Incurante delle critiche e ironie dei nobili romani a cui apparteneva, si fece questuante per i poveri, specie quelli vergognosi e per loro chiedeva l’elemosina all’entrata delle chiese; mentre si prodigava instancabilmente in queste opere di amore concreto, tanto che il popolino la chiamava paradossalmente “la poverella di Trastevere”, Francesca riceveva dal Signore il dono di celesti illuminazioni, che lei riferiva al suo confessore Giovanni Mariotto, parroco di Santa Maria in Trastevere che le trascriveva.
Queste confidenze, pubblicate poi nel 1870, riguardavano le frequenti lotte della santa col demonio; del suo viaggio mistico nell’inferno e nel purgatorio; delle tante estasi che le capitavano; e poi dei prodigi e guarigioni che le venivano attribuite.

Ma questi doni straordinari che il Signore le aveva donato, furono pagati a caro prezzo, la sua vita spesa tutta per la famiglia ed i poveri di Roma, fu funestata da molte disgrazie; già quando aveva 25 anni nel 1409, suo marito Lorenzo, comandante delle truppe pontificie, durante una battaglia contro l’invasore Ladislao di Durazzo re di Napoli, contrario all’elezione di papa Alessandro V (1409-1410), venne gravemente ferito rimanendo semiparalizzato per il resto della sua vita, accudito amorevolmente dalla moglie e dal figlio.

Nel 1410 la sua casa venne saccheggiata e i loro beni espropriati, mentre il marito sebbene invalido fu costretto a fuggire, per sottrarsi alla vendetta di re Ladislao, che però prese in ostaggio il figlio Battista.

Poi a Roma ci fu l’epidemia di peste, morbo ricorrente in quei tempi, che funestava alternativamente tutta l’Europa, il suo slancio di amore verso gli ammalati, le fece commettere l’imprudenza di aprire il suo palazzo agli appestati; la pestilenza le portò così via due figli, Agnese ed Evangelista e lei stessa si contagiò, riuscendo però a salvarsi; passata l’epidemia poté ricongiungersi con il marito e l’unico figlio rimasto Battista.

È di quel periodo l’apparizione in sogno del piccolo figlio Evangelista, insieme con un Angelo misterioso, che s. Francesca da allora in poi avrebbe visto accanto a sé per tutta la vita.

Francesca Bussa, continuando ad aiutare i suoi poveri ed ammalati, senza fra l’altro trascurare la preghiera, tanto da dormire ormai solo due ore per notte, prese a dirigere spiritualmente il gruppo di amiche, che la coadiuvavano nella carità quotidiana e si riunivano ogni settimana nella chiesa di Santa Maria Nova.

E durante uno di questi incontri, Francesca le invitò ad unirsi in una confraternita consacrata alla Madonna, restando ognuna nella propria casa, impegnandosi a vivere le virtù monastiche e di donarsi ai poveri.

Il 15 agosto 1425 festa dell’Assunta, davanti all’altare della Vergine, le undici donne si costituirono in associazione con il nome di “Oblate Olivetane di Maria”, in omaggio alla chiesa dei padri Benedettini Olivetani che frequentavano, pronunziando una formula di consacrazione che le aggregava all’Ordine Benedettino.

Nel marzo del 1433 Francesca poté riunire le Oblate sotto un unico tetto a Tor de’ Specchi, composto da una camera ed un grande camerone, vicino alla chiesa parrocchiale di Sant’Andrea dei Funari; e il 21 luglio dello stesso 1433, papa Eugenio IV eresse la comunità in Congregazione, con il titolo di “Oblate della Santissima Vergine”, in seguito poi dette “Oblate di Santa Francesca Romana”, la cui unica Casa secondo la Regola, era ed è quella romana.

Si recava ogni giorno nel monastero da lei fondato, ma continuò ad abitare nel Palazzo Ponziani, per accudire il marito malato; dopo la morte del marito, con il quale visse in armonia per 40 anni, il 21 marzo 1436 lasciò la sua casa, affidandone l’amministrazione al figlio Battista e a sua moglie Mabilia de’ Papazzurri, e si unì alle compagne a Tor de’ Specchi dove fu eletta superiora.

Trascorse gli ultimi quattro nel convento, dedicandosi soprattutto a tre compiti: formare le sue figlie secondo le illuminazioni che Dio le donava; sostenerle con l’esempio nelle opere di misericordia alle quali erano chiamate; pregare per la fine dello scisma nella Chiesa.

Prese il secondo nome di Romana e così fu sempre chiamata dal popolo e dalla storia, perché Francesca fu tra i grandi che seppero riunire in sé, la gloria e la vitalità di Roma; il popolo romano la considerò sempre una di loro nonostante la nobiltà, e familiarmente la chiamava “Franceschella” o “Ceccolella”.

Francesca Romana insegnò alle sue suore la preparazione di uno speciale unguento, che aveva usato e usava per sanare malati e feriti; unguento che viene ancora oggi preparato nello stesso recipiente adoperato da lei più di cinque secoli fa.

Ma la ‘santa di Roma’ non morì nel suo monastero, ma nel palazzo Ponziani, perché da pochi giorni si era spostata lì per assistere il figlio Battista gravemente ammalato; dopo poco tempo il figlio guarì ma lei ormai sfinita, morì il 9 marzo 1440 nel palazzo di Trastevere.

Le sue spoglie mortali vennero esposte per tre giorni nella chiesa di Santa Maria Nova, una cronaca dell’epoca riferisce la partecipazione e la devozione di tutta la città; fu sepolta sotto l’altare maggiore della chiesa che avrebbe poi preso il suo nome.

Da subito ci fu un afflusso di fedeli, tale che la ricorrenza del giorno della sua morte, con decreto del Senato del 1494, fu considerato giorno festivo.

Fu proclamata santa il 29 maggio 1608 da papa Paolo V; e papa Urbano VIII volle nella chiesa di Santa Francesca Romana, un tempietto con quattro colonne di diaspro, con una statua in bronzo dorato che la raffigura in compagnia dell’Angelo Custode, che l’aveva assistita tutta la vita.

Santa Francesca Romana è considerata compatrona di Roma, viene invocata come protettrice dalle pestilenze e per la liberazione delle anime dal Purgatorio e dal 1951 degli automobilisti.
La sua festa liturgica è il 9 marzo.

Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it di Antonio Borrelli


Taliesin 20-06-2012 14.31.32

LA REGINA DEI MISERICORDIOSI: MATILDE DI SASSONIA

Santa Matilde, discendente del duca Viduchindo, che aveva guidato i sassoni nella loro lunga battaglia contro Carlo Magno, nacque verso l’895 presso Engern in Sassonia da Teodorico, un conte della Westfalia, e da Rainilde, originaria della real casa danese. Ben presto Matilde fu affidata alle cure della nonna paterna, badessa di Herford, sotto la cui guida crebbe sana e forte, divenendo una donna bella, istruita e devota. Felice si rivelò il matrimonio con il figlio del duca Ottone di Sassonia, Enrico, detto “l’uccellatore” per la sua passione nella caccia del falco. Subito dopo la nascita del loro primogenito Ottone, Enrico succedette al padre e verso il 919, quando re Corrado di Germania morì senza prole, eredito anche il trono tedesco.

A causa delle frequenti guerre Enrico si allontanava spesso da casa e sia lui che i suoi sudditi attribuivano le vittorie conseguite alle preghiere ed al coraggio della regina Matilde, che nel suo palazzo conduceva a tutti gli effetti una vita monacale, generosa e caritatevole verso tutti. Suo marito nutriva nei suoi confronti una cieca fiducia e difficilmente si prendeva la briga di controllare le sue elemosine o si risentiva per le sue pratiche religiose. Nel 936, rimasta vedova, Matilde si spogliò immediatamente di tutti i suoi gioielli rinunciando ai privilegi tipici del suo rango.

Dall’unione tra Enrico e Matilde erano nati cinque figli: Enrico il Litigioso, il futuro imperatore Ottone I, San Bruno arcivescovo di Colonia, Gerburga moglie del re Luigi IV di Francia ed Edvige madre di Ugo Capeto. Enrico avrebbe preferito lasciare il trono al fratello Ottone, ma Matilde tentò di convincere i nobili ad eleggere comunque lui, suo prediletto, ma infine la spuntò Ottone. Enrico inizialmente si ribellò al fratello, ma infine riconobbe la sua supremazia e questi allora, per intercessione di Matilde, lo perdonò e lo nominò duca di Baviera. Suo figlio divenne poi imperatore col nome di Enrico II alla morte di Ottone I.

La regina Matilde conduceva una vita assai austera ed a causa delle sue ingenti elemosine si attirò le ire dei figli: Ottone la accusò infatti di sperperare il tesoro delal corona, le richiese un rendiconto delle sue spese e la fece spiare per tenere sotto controllo ogni suo movimento, ma con suo grande dolore anche il figlio favorito Enrico si schierò con il fratello appoggiando la proposta di far entrare la madre in convento onde evitare ulteriori danni al patrimonio familiare. Matilde sopportò con estrema pazienza tuttò ciò, constatando amaramente come i suoi figli si fossero riappacificati solo per perseguire i loro interessi a suo discapito. Lasciò allora tutta la sua eredità ai figli e si ritirò nella residenza di campagna ove era nata.

Era però destino che la Germania non potesse fare ameno di questa santa donna: appena partita, infatti, Enrico cadde ammalato e sorsero nuovi problemi politici. Sotto pressione del clero e dei nobili, la moglie di Ottone convinse questi a chiedere perdono alla madre, a restituirle il maltolto e richiamarla a partecipare agli affari di stato. Matilde tornò così a corte e riprese anche le sue opere di carità. Enrico continuò comunque ad essere per lei fonte di tormenti: si ribellò nuovamente al fratello Ottone e soppresse in modo sanguinoso una ribellione dei suoi sudditi bavaresi. Nel 955, quando Matilde lo vide per l’ultima volta, ne predisse la morte ed invano lo invitò a tornare sui suoi passi prima che fosse troppo tardi. Ottone invece mostrò rinnovata fiducia nella regina madre, lasciando a lei tutto il potere quando nel 962 dovette recarsi a Roma per ricevere la corona imperiale.

L’ultima riunione di famiglia ebbe luogo tre anni dopo a Colonia, in occasione della Pasqua, poi Matilde si ritirò definitivamente nei monasteri da lei fondati, in particolare a Nordhausen. Verso la fine del 967 una febbre che la disturbava ormai da tempo si aggravò ulteriormente e Matilde, presagendo la sua prossima fine, mandò a cercare Richburga, sua ex dama di compagnia ed ora badessa di Nordhausen, per spiegarle che doveva partire per Quedlinburg, luogo scelto con suo marito per la loro sepoltura. Nel gennaio 968 dunque si trasferì e suo nipote, Guglielmo di Magonza, le fece visita per darle l’assoluzione e l’estrema unzione. Desiderando ricompensarlo, non le restò però che donargli il suo sudario prevedento che ne avrebbe avuto bisogno prima lui: Guglielmo morì infatti dodici giorni prima di lei.

La santa regina spirò il 14 marzo 968 e le sue spoglie mortali erano state appena deposte in chiesa quando giunse una coperta intessuta d’oro mandata dalla figlia Gerburga per adornare il feretro. Il corpo di Matilde venne sepolto accanto a quello del marito e subito iniziò la venerazione popolare nei suoi confronti. Nelle diocesi tedesche di Paderborn, Fulda e Monaco è ancora oggi particolarmente vivo il suo culto.

L’iconografia è solita raffigurare Santa Matilde con in mano il modelino di una chiesa o una borsa di denaro, simboli della sua generosità e delle sue fondazioni monastiche, quali Poehlde, Enger, Nordhausen e ben due presso Quedlinburgo.

Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it di Fabio Arduino

Taliesin 20-06-2012 14.36.22

LA SIGNORA DEI CERVI: CATERINA DI SVEZIA
Catarina Ulfsdotter, meglio conosciuta col nome di Caterina di Svezia, era la secondogenita degli otto figli di S. Brigida, la grande mistica svedese che molta influenza ebbe nella storia, nella vita e nella letteratura del suo Paese, assai più della regale compatriota Cristina, che riempì delle sue stranezze le cronache mondane della Roma rinascimentale. Anche Brigida e la figlia Caterina legarono il loro nome alla città di Roma, ma con ben altri meriti.

Caterina, nata nel 1331, in giovanissima età si era maritata con Edgarvon Kyren, nobile di discendenza e soprattutto di sentimenti, poiché acconsentì al desiderio della giovane e graziosa consorte di osservare il voto di continenza, anzi, con commovente emulazione nella pratica della cristiana virtù della castità, si legò egli stesso a questo voto.

Caterina, non certo per rendere più agevole l'osservanza del voto, all'età di diciannove anni raggiunse la madre a Roma, in occasione della celebrazione dell'Anno santo. Qui la giovane apprese la notizia della morte del marito.

Da questo momento la vita delle due straordinarie sante scorre sullo stesso binario: la figlia partecipa con totale dedizione all'intensa attività religiosa di S. Brigida. Questa aveva creato in Svezia una comunità di tipo cenobitico, nella cittadina di Vadstena, per accogliervi in separati conventi di clausura uomini e donne sotto una regola di vita religiosa ispirata al modello del mistico S. Bernardo di Chiaravalle. Durante il periodo romano che si protrasse fino alla morte di S. Brigida, il 23 luglio 1373, Caterina fu costantemente accanto alla madre, nei lunghi pellegrinaggi intrapresi, spesso tra gravi pericoli, dai quali le due sante non sarebbero uscite indenni senza un intervento soprannaturale.

S.Caterina viene spesso rappresentata accanto a un cervo, che, secondo la leggenda, più volte sarebbe comparso misteriosamente per trarla in salvo. Riportata in patria la salma della madre, nel 1375 Caterina entrò nel monastero di Vadstena, di cui venne eletta badessa, nel 1380.

Era rientrata allora da Roma da un secondo soggiorno di cinque anni, per seguire da vicino il processo di beatificazione della madre, che si concluse positivamente nel 1391.

A Roma, narra una tradizione leggendaria, Caterina avrebbe prodigiosamente salvato la città dalla piena del Tevere, che aveva già abbattuto gli argini.
L'episodio è raffigurato in un dipinto conservato nella cappella a lei dedicata nell'abitazione di piazza Farnese. Papa Innocenzo VIII ne permise la solenne traslazione delle reliquie; ma sarà l'unanime e universale devozione popolare a decretarle il titolo di santa e a festeggiarla nel giorno anniversario della morte, avvenuta il 24 marzo 1381.


Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it di Piero Bargellini

Taliesin 20-06-2012 14.50.13

PELLEGRINA DI PACE: BRIGIDA DI SVEZIA

Brigida o Brigitta o Birgitta, nacque nel giugno 1303 nel castello di Finsta presso Uppsala in Svezia; suo padre Birgen Persson era ‘lagman’, cioè giudice e governatore della regione dell’Upplan, la madre Ingeborga era anch’essa di nobile stirpe.

In effetti Brigida apparteneva alla nobile stirpe dei Folkunghi e discendeva dal pio re cristiano Sverker I; ebbe altri sei fratelli e sorelle e le fu imposto il nome di Brigida, in onore di santa Brigida Cell Dara († 525), monaca irlandese, della quale i genitori erano devoti.

Dopo la morte della madre, a 12 anni fu mandata presso la zia Caterina Bengtsdotter, a completare la propria formazione; ancora fanciulla, Brigida dopo aver ascoltato una predica sulla Passione di Gesù, ebbe con Lui un profondo colloquio che le rimase impresso per sempre nella memoria.

Alla domanda: “O mio caro Signore, chi ti ha ridotto così?”, si sentì rispondere: “Tutti coloro che mi dimenticano e disprezzano il mio amore!”.

La bambina decise allora di amare Gesù con tutto il cuore e per sempre.
Presso la zia, Brigida trascorse due anni, dove apprese le buone maniere delle famiglie nobili, la scrittura e l’arte del ricamo; durante questi anni non mancarono nella sua vita alcuni fenomeni mistici, come la visione del demonio sotto forma di mostro dai cento piedi e dalle cento mani.

A 14 anni, secondo le consuetudini dell’epoca, il padre la destinò in sposa del giovane Ulf Gudmarsson figlio del governatore del Västergötland; in verità Brigida avrebbe voluto consacrarsi a Dio, ma vide nella disposizione paterna la volontà di Dio e serenamente accettò.
Le nozze furono celebrate nel settembre 1316 e la sua nuova casa fu il castello di Ulfasa, presso le sponde del lago Boren; il giovane sposo, nonostante il suo nome, che significava ‘lupo’, si dimostrò invece uomo mite e desideroso di condurre una vita conforme agli insegnamenti evangelici.

Secondo quanto scrisse e raccontò poi la figlia s. Caterina di Svezia, al processo di canonizzazione, i due sposi vissero per un biennio come fratello e sorella nella preghiera e nella mortificazione; soltanto tre anni dopo nacque la prima figlia e in venti anni Brigida diede al marito ben otto figli, quattro maschi (Karl, Birger, Bengt e Gudmar) e quattro femmine (Marta, Karin, Ingeborga e Cecilia).

Nel 1330 il marito Ulf Gudmarsson fu nominato “lagman” di Närke e successivamente i due coniugi divennero anche Terziari Francescani; dietro questa nomina, c’era tutto l’impegno di Brigida, che gli aveva insegnato a leggere e scrivere e Ulf approfittando della spinta culturale della moglie, aveva approfondito anche lo studio del diritto, meritando tale carica.

Per venti anni Ulfasa fu il centro della vita di Brigida e tutta la provincia dell’Ostergötland divenne il suo mondo, il suo ruolo non fu solo quello di principessa di Närke, ma senza ostentare alcuna vanagloria, fu una ottima massaia, dirigeva il personale alle sue dipendenze, mescolata ad esso svolgeva le varie attività domestiche, instaurando un benefico clima di famiglia.

Si dedicava particolarmente ai poveri e alle ragazze, procurando a quest’ultime una onesta sistemazione per non cadere nella prostituzione; inoltre fece costruire un piccolo ospedale, dove ogni giorno si recava ad assistere gli ammalati, lavandoli e rammendando i loro vestiti.

In questo intenso periodo, conobbe il maestro Matthias, uomo esperto in Sacra Scrittura, di vasta cultura e zelante sacerdote; ben presto divenne il suo confessore e si fece tradurre da lui in svedese, buona parte della Bibbia per poterla leggere e meditare meglio; la sua presenza apportò a Brigida la conoscenza delle correnti di pensiero di tutta l’Europa, giacché don Matthias aveva studiato a Parigi, e tutto ciò si rivelerà utile per la conoscenza delle problematiche del tempo, preparandola alla sua futura missione.

Quando però nel 1335, il re di Svezia Magnus II sposò Bianca di Dampierre, Brigida che era lontana cugina del sovrano, fi invitata a stabilirsi a corte, per ricevere ed assistere la giovane regina, figlia di Giovanni I, conte di Namur.
L’invito non si poteva respingere e quindi Brigida affidati due figlie e un figlio a monasteri cistercensi, lasciò temporaneamente la sua casa di Ulfasa e si trasferì a Stoccolma, portando con sé il figlio più piccolo, bisognoso ancora delle cure materne.

Ebbe grande influenza sui giovani sovrani e finché fu ascoltata, la Svezia ebbe buone leggi e furono abolite ingiuste ed inumane consuetudini, come il diritto regio di rapina su tutti i beni dei naufraghi, inoltre furono mitigate le tasse che opprimevano il popolo.

Poi man mano, mentre la regina cresceva, manifestando una eccessiva frivolezza favorita dalla debolezza del marito, Brigida si trovò messa da parte e la vita di corte divenne molto mondana.

A questo punto, senza rompere i rapporti con i sovrani, approfittando di momenti propizi e del lutto che l’aveva colpita con la morte nel 1338 del figlio Gudmar, Brigida lasciò la corte e se ne ritornò a casa sua, ritrovando nel castello di Ulfasa nella Nericia, la gioia della famiglia e della convivenza e con il marito si recò in pellegrinaggio a Nidaros per venerare le reliquie di sant’Olav Haraldsson (995-1030) patrono della Scandinavia.

Quando nel 1341 i due coniugi festeggiarono le nozze d’argento, vollero recarsi in pellegrinaggio a Santiago di Compostella; quest’evento segnò una svolta decisiva nella vita dei due coniugi, che già da tempo vivevano vita fraterna e casta.

Nel viaggio di ritorno, Ulf fu miracolosamente salvato da sicura morte grazie ad un prodigio e i due coniugi presero la decisione di abbracciare la vita religiosa, era una cosa possibile in quei tempi e parecchi santi e sante provengono da questa scelta condivisa.
Al ritorno, Ulf fu accolto nel monastero cistercense di Alvastra, dove poi morì il 12 febbraio 1344 assistito dalla moglie; Brigida a sua volta, avendo esaurito la sua missione di sposa e di madre, decise di trasferirsi in un edificio annesso al monastero di Alvastra, dove restò quasi tre anni fino al 1346.

Fu l’inizio del periodo più straordinario della sua vita; dopo un periodo di austerità e di meditazione sui divini misteri della Passione del Signore e dei dolori e glorie della Vergine, cominciò ad avere le visioni di Cristo, che in una di queste la elesse “sua sposa” e “messaggera del gran Signore”; iniziò così quello straordinario periodo mistico che durerà fino alla sua morte.

Ai suoi direttori spirituali come il padre Matthias, Brigida dettò le sue celebri “Rivelazioni”, sublimi intuizioni e soprannaturali illuminazioni, che ella conobbe per tutta la vita e che furono poi raccolte in otto bellissimi volumi.

Durante le visioni, Cristo la spingeva ad operare per il bene del Paese, dell’Europa e della Chiesa; non solo tornò a Stoccolma per portare personalmente al re e alla regina “gli ammonimenti del Signore”, ma inviò lettere e messaggi ai sovrani di Francia e Inghilterra, perché terminassero l’interminabile ‘Guerra dei Trent’anni’.

Suoi messaggeri furono mons. Hemming, vescovo di Abo in Finlandia e il monaco Pietro Olavo di Alvastra; un altro monaco omonimo divenne suo segretario.

Esortò anche papa Clemente VI a correggersi da alcuni gravi difetti e di indire il Giubileo del 1350, inoltre di riportare la Sede pontificia da Avignone a Roma.

Nella solitudine di Alvastra, concepì anche l’idea di dare alla Chiesa un nuovo Ordine religioso che sarà detto del Santo Salvatore, composto da monasteri ‘doppi’, cioè da religiosi e suore, rigorosamente divisi e il cui unico punto d’incontro era nella chiesa per la preghiera in comune; ma tutti sotto la guida di un’unica badessa, rappresentante la Santa Vergine e con un confessore generale.

Ottenuto dal re, il 1° maggio 1346, il castello di Vadstena, con annesse terre e donazioni, Brigida ne iniziò i lavori di ristrutturazione, che durarono molti anni, anche perché papa Clemente VI non concesse la richiesta autorizzazione per il nuovo Ordine, in ottemperanza al decreto del Concilio Ecumenico Lateranense del 1215, che proibiva il sorgere di nuovi Ordini religiosi.

Per questo già nell’autunno del 1349, Brigida si recò a Roma, non solo per l’Anno Santo del 1350, ma anche per sollecitare il papa, quando sarebbe ritornato a Roma, a concedere l’approvazione, che fu poi concessa solo nel 1370 da papa Urbano V.
L’Ordine del Ss. Salvatore, era costituito ispirandosi alla Chiesa primitiva raccolta nel Cenacolo attorno a Maria; la parte femminile era formata da 60 religiose e quella maschile da 25 religiosi, di cui 13 sacerdoti a ricordo dei 12 Apostoli con s. Paolo e 2 diaconi e 2 suddiaconi rappresentanti i primi 4 Padri della Chiesa e otto frati.
Riassumendo, ogni comunità doppia era composta da 85 membri, dei quali 60 suore che con i 12 monaci non sacerdoti rappresentavano i 72 discepoli, più i 13 sacerdoti come sopra detto.
Il gioco di numeri, rientrava nel gusto del tempo per il simbolismo, rappresentare gli apostoli e i discepoli, spingeva ad un richiamo concreto a vivere come loro erano vissuti; senza dimenticare che in quell’epoca non esisteva crisi vocazionale e ciò permetteva di raggiungere senza difficoltà il numero di monache e religiosi prescritto per ogni doppio monastero.

Arrivata a Roma insieme al confessore, al segretario Pietro Magnus e al sacerdote Gudmaro di Federico, alloggiò brevemente nell’ospizio dei pellegrini presso Castel Sant’Angelo, e poi nel palazzo del cardinale Ugo Roger di Beaufort, fratello del papa, che vivendo ad Avignone, aveva deciso di metterlo a disposizione di Brigida, la cui fama era giunta anche alla Curia avignonese.

Roma non fece una buona impressione a Brigida, ne migliorò in seguito; nei suoi scritti la descriveva popolata di rospi e vipere, le strade piene di fango ed erbacce, il clero avido, immorale e trascurato.
Si avvertiva fortemente la lontananza da tanto tempo del papa, al quale descriveva nelle sue lettere la decadente situazione della città, spronandolo a ritornare nella sua sede, ma senza riuscirci.

Vedere l’Europa unita e in pace, governata dall’imperatore e guidata spiritualmente dal papa, era il sogno di Brigida e dei grandi spiriti del suo tempo.

Dopo quattro anni, si trasferì poi nella casa offertale nel suo palazzo, dalla nobildonna romana Francesca Papazzurri, nelle vicinanze di Campo de’ Fiori; Roma divenne così per Brigida la sua seconda patria.
Trascorreva le giornate studiando il latino, dedicandosi alla preghiera e alle pratiche di pietà, trascrivendo in gotico le visioni e le rivelazioni del Signore, che poi passava subito al suo segretario Pietro Olavo perché le traducesse in latino.

Dalla dimora di Campo de’ Fiori, che abiterà fino alla morte, inviava lettere al papa, ai reali di Svezia, alle regine di Napoli e di Cipro e naturalmente ai suoi figli e figlie rimasti a Vadstena.

Si spostò in pellegrinaggio a vari santuari del Centro e Sud d’Italia, Assisi, Ortona, Benevento, Salerno, Amalfi, Gargano, Bari; nel 1365 Brigida andò a Napoli dove fu artefice e ispiratrice di una missione di risanamento morale, ben accolta dal vescovo e dalla regina Giovanna che seguendo i suoi consigli, operò una radicale conversione nei suoi costumi e in quelli della corte.

Napoli ha sempre ricordato con venerazione la santa del Nord Europa, e a lei ha dedicato un bella chiesa e la strada ove è situata nel centro cittadino; recentemente le sue suore si sono stabilite nell’antico e prestigioso Eremo dei Camaldoli che sovrasta Napoli.

Brigida, si occupò anche della famosa abbazia imperiale di Farfa nella Sabina, vicino Roma, dove l’abate con i monaci “amava più le armi che il claustro”, ma il suo messaggio di riforma non fu ascoltato da essi.
Mentre era ancora a Farfa, fu raggiunta dalla figlia Caterina (Karin), che nel 1350 era rimasta vedova e che rimarrà al suo fianco per sempre, condividendo in pieno l’ideale della madre.

Ritornata a Roma, Brigida continuò a lanciare richiami a persone altolocate e allo stesso popolo romano, per una vita più cristiana, si attirò per questo pesanti accuse, fino ad essere chiamata “la strega del Nord” e a ridursi in estrema povertà, e lei la principessa di Nericia, per poter sostenere sé stessa e chi l’accompagnava, fu costretta a chiedere l’elemosina alla porta delle chiese.

Nel 1367 sembrò che le sue preghiere si avverassero, il papa Urbano V tornò da Avignone, ma la sua permanenza a Roma fu breve, perché nel 1370 ripartì per la Francia, nonostante che Brigida gli avesse predetto una morte precoce se l’avesse fatto; infatti appena giunto ad Avignone, il 24 settembre 1370 il papa morì.

Durante il breve periodo romano, Urbano V concesse la sospirata approvazione dell’Ordine del Ss. Salvatore e Caterina di Svezia ne diventò la prima Superiora Generale.
Brigida continuò la sua pressione epistolare, a volte molto infuocata, anche con il nuovo pontefice Gregorio XI, che già la conosceva, affinché tornasse il papato a Roma, ma anche lui pur rimanendo impressionato dalle sue parole, non ebbe il coraggio di farlo.

Ma anche Brigida, ormai settantenne, si avviava verso la fine; ottenuto il via per il suo Ordine religioso, volle intraprendere il suo ultimo e più desiderato pellegrinaggio, quello in Terra Santa.
L’accompagnavano il vescovo eremita Alfonso di Jaén custode delle sue ‘Rivelazioni’ messe per iscritto, di cui molte rimaste segrete, poi i due sacerdoti Olavo, Pietro Magnus e i figli Caterina, Birger e Karl e altre quattro persone, in totale dodici pellegrini.

Verso la fine del 1371, la comitiva partì da Roma diretta a Napoli, dove trascorse l’inverno; in prossimità della partenza, nel marzo 1372 Brigida vide morire di peste il figlio Karl, ma non volle annullare il viaggio e dopo aver pregato per lui e provveduto alla sepoltura, s’imbarcò per Cipro, dove fu accolta dalla regina Eleonora d’Aragona, che approfittò del suo passaggio per attuare una benefica riforma nel suo regno.

A maggio 1372 arrivò a Gerusalemme, dove in quattro mesi poté visitare e meditare nei luoghi della vita terrena di Gesù, poi ritornò a Roma col cuore pieno di ricordi ed emozioni e subito inviò ad Avignone il vescovo Alfonso di Jaén, con un’ulteriore messaggio per il papa, per sollecitarne il ritorno a Roma.

A Gerusalemme, Brigida contrasse una malattia, che in fasi alterne si aggravò sempre più e in breve tempo dal suo ritorno a Roma, il 23 luglio 1373, la santa terminò la sua vita terrena, con accanto la figlia Caterina alla quale aveva affidato l’Ordine del Ss. Salvatore; nella sua stanza da letto si celebrava l’Eucaristia ogni giorno e prima di morire ricevette il velo di monaca dell’Ordine fa lei fondato.

Unico suo rimpianto era di non aver visto il papa tornare a Roma definitivamente, cosa che avverrà poco più di tre anni dopo, il 17 gennaio 1377, per mezzo di un’altra donna s. Caterina da Siena, che continuando la sua opera di persuasione, con molta fermezza, riuscì nell’intento.

Fu sepolta in un sarcofago romano di marmo, collocato dietro la cancellata di ferro nella Chiesa di S. Lorenzo in Damaso; ma già il 2 dicembre 1373, i figli Birger e Caterina, partirono da Roma per Vadstena, portando con loro la cassa con il corpo, che fu sepolto nell’originario monastero svedese il 4 luglio 1374.

A Roma rimasero alcune reliquie, conservate tuttora nella Chiesa di San Lorenzo in Panisperna e dalle Clarisse di San Martino ai Monti.

La figlia Caterina e i suoi discepoli, curarono il suo culto e la causa di canonizzazione; Brigida di Svezia fu proclamata santa il 7 ottobre 1391, da papa Bonifacio IX.

Del suo misticismo rimangono le “Rivelazioni”, raccolte in otto volumi e uno supplementare, ad opera dei suoi discepoli. A questi scritti la Chiesa dà il valore che hanno le rivelazioni private; sono credibili per la santità della persona che le propone, tenendo sempre conto dei condizionamenti del tempo e della persona stessa.

Come tante spiritualità del tardo medioevo, Brigida ebbe il merito di mettere le verità della fede alla portata del popolo, con un linguaggio visivo che colpiva la fantasia, toccava il cuore e spingeva alla conversione; per questo le “Rivelazioni” ebbero il loro influsso per lungo tempo nella vita cristiana, non solo dei popoli scandinavi, ma anche dei latini.

Papa Giovanni Paolo II, il Papa del Secolo, la proclamò compatrona d’Europa il 1° ottobre 1999.
Santa Brigida è inoltre patrona della Svezia dal 1° ottobre 1891.


Il suo Ordine del SS. Salvatore, le cui religiose sono dette comunemente “Suore Brigidine”, ebbe per due secoli un grande influsso sulla vita religiosa dei Paesi Scandinavi e nel periodo di maggiore fioritura, contava 78 monasteri ‘doppi’, nonostante le rigide regole numeriche, diffusi particolarmente nei Paesi nordici. Declinò e fu sciolto prima con la Riforma Protestante luterana, poi con la Rivoluzione Francese; in Italia le due prime Case si ebbero a Firenze e a Roma.

L’antico Ordine è rifiorito nel ramo femminile, grazie alla Beata Maria Elisabetta Hesselblad (1870-1957), che ne fondò un nuovo ramo all’inizio del Novecento; ora è diffuso in vari luoghi d’Europa, fra cui Vadstena, primo Centro dell’Ordine; le Suore Brigidine si riconoscono per il tipico copricapo, due bande formano sul capo una croce, i cui bracci sono uniti da una fascia circolare e con cinque fiamme, una al centro e quattro sul bordo, che ricordano le piaghe di Cristo.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it di Antonio Borrelli



Taliesin 20-06-2012 14.59.34

LA DUCHESSA DI BAVARIA: EDVIGE DI SLESIA

I genitori Bertoldo e Agnese, di alta nobiltà bavarese, la preparano a un matrimonio importante, facendola studiare alla scuola delle monache benedettine di Kitzingen, presso Würzburg. E a 16 anni, infatti, Edvige sposa a Breslavia (attuale Wroclaw, in Polonia) il giovane Enrico il Barbuto, erede del ducato della Bassa Slesia. Quattro anni dopo, Enrico succede al padre Boleslao e così lei diventa duchessa.

Questo territorio slesiano fa parte ancora del regno di Polonia, ma si sta germanizzando.I suoi duchi, già dal tempo di Federico Barbarossa (morto nel 1190) gravitano nell’orbita dell’Impero germanico; la feudalità locale è invece di stirpe polacca, come la maggioranza degli abitanti, ai quali però si sta mescolando una forte immigrazione di tedeschi. Edvige mette al mondo via via sei figli: Boleslao, Corrado, Enrico detto il Pio, Agnese, Sofia e Gertrude. E si rivela buona collaboratrice del marito nel difficile governo del ducato: guadagna la simpatia dei sudditi polacchi imparando la loro lingua, promuove l'assistenza ai poveri, come fanno e faranno molte altre sovrane; ma con una differenza: lei vive la povertà in prima persona, giorno per giorno, con le regole severe che si impone, eliminando dalla sua vita tutto quello che può distinguerla da una donna di condizione modesta. A cominciare dall’abbigliamento.

I biografi parlano degli abiti usati che indossa, delle calzature logore, delle cinture simili a quelle dei carrettieri.

È poco fortunata con i figli, che non avranno rapporti affettuosi con lei, e che moriranno quasi tutti ancora giovani, tranne Gertrude. Suo marito, Enrico il Barbuto, muore nel 1238, e gli succede il figlio Enrico il Pio, che già nel 1241 viene ucciso in combattimento contro un’incursione mongola presso Liegnitz (attuale Legnica).

Disgrazie in serie, dunque. Ma i biografi dicono che lei le affronta ogni volta senza lacrime. Forse perché è tedesca.E fors’anche perché è molto legata all’ambiente monastico del tempo, con tutto il suo rigore. (Alle molte preghiere e pie letture, Edvige accompagna anche penitenze fisiche durissime). Eppure, quando si ritrova sola, non pensa di “fuggire dal mondo” subito, entrando in monastero. No, prima bisogna pensare ai poveri, come dirà alla figlia Gertrude, non per motivi di buona politica, ma perché i poveri sono “i nostri padroni”. E questo linguaggio richiama «la spiritualità degli Ordini mendicanti e in particolare quella dei Francescani, tra i quali Edvige, negli ultimi anni della sua esistenza, scelse il proprio confessore» (A. Vauchez, La santità nel Medioevo, ed. Il Mulino).

Entra infine nel monastero cistercense di Trebnitz (l’attuale Trzebnica) fondato da lei nel 1202. E qui vive da monaca. Anzi, da monaca superpenitente. Muore anche da monaca, chiedendo di essere sepolta nella tomba comune del monastero. Tedeschi e polacchi di Slesia sono concordi nel chiamarla santa: nel 1262, sotto papa Urbano IV, incomincia la causa per la sua canonizzazione, e nel 1267 papa Clemente IV la iscrive tra i santi. Il corpo sarà in seguito trasferito nella chiesa del monastero.

Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it di Domenico Agasso


Taliesin 20-06-2012 15.21.56

NOBILISSIA SENATIX: EMMA DI SASSONIA
Nel monastero di S. Ludgero a Werden, nella Ruhr, presso Dusseldorf, inspiegabilmente lontano dalla Sassonia, si conserva una reliquia della santa: una mano prodigiosamente intatta.

Un cronista tedesco dello stesso secolo, Adamo di Brema, nella sua Storia ecclesiastica, ci dà notizia di una "nobilissima senatrix Emma", sorella di Meinwerk, vescovo di Paderborn (morto nel 1036) e moglie del conte Ludgero di Sassonia.

Rimasta vedova, ancor giovane e bella, ricca e senza figli, non ambì a seconde nozze e si mantenne costante nel suo nuovo programma di vita, fondato sulla totale dedizione alle opere di carità.
Generosa nel donare e nel soccorrere, ma austera e intransigente con se stessa, puntò alla perfezione nel difficile stato di vedovanza, una condizione assai scomoda per una donna, rimasta sola ma non libera, esposta a mille insidie perché priva di appoggio e fatta segno, se ricca, dei calcoli interessati di parenti vicini e lontani.

"Sei tu giovane? - si legge in una infervorata predica di S. Bernardino da Siena, rivolta alle vedove cristiane - fa' che tu imbrigli la carne tua in discipline. Io voglio che tu impari a vivere come una religiosa. Sii verace, dentro nell'anima tua. Vuoi marito? Va' e piglialo, in nome di Dio, e spacciatene. Ma non avrai mai consolazione. Dunque, non ci vedi meglio che di rimanere vera vedova, e servire a Dio in ogni modo che tu puoi, tutto il tempo della tua vita".

Emma aveva scelto quest'ultima maniera di tendere alla perfezione, la più difficile e rara. La sua mano, giunta fino a noi intatta dopo nove secoli e mezzo dalla morte di questa santa dal nome fresco e pieno, è un segno emblematico della sua più cospicua virtù: la generosità. Anzitutto una generosità fattiva, di opere più che di parole.

Vera ancella di Cristo, ella ha servito il suo celeste sposo con la preghiera e la carità, meritando la devozione non di un marito ma di milioni di cristiani che da oltre nove secoli la onorano di culto pubblico. Il suo corpo, privo della mano di cui si è parlato, riposa nella cattedrale di Brema.


Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it di Piero Bargellini

Taliesin 21-06-2012 10.57.55

Sull'orlo del precipizio che i dotti e saggi Uomini dei Lumi vollero confinare l'epoca delle barbarie, dei cosiddetti Secoli Bui, ho voluto inserire la Sua storia, dolce e piena di sentimento, in un mondo che stava mutando....

Taliesin, il bardo

MATER SPIRITUALIUM: TERESA DI GESU'

Al secolo Teresa de Cepeda y Ahumada, riformatrice del Carmelo, Madre delle Carmelitane Scalze e dei Carmelitani Scalzi; "mater spiritualium" (titolo sotto la sua statua nella basilica vaticana); patrona degli scrittori cattolici (1965) e Dottore della Chiesa (1970): prima donna, insieme a S. Caterina da Siena, ad ottenere tale titolo; nata ad Avila (Vecchia Castiglia, Spagna) il 28 marzo 1515; morta ad Alba de Tormes (Salamanca) il 4 ottobre 1582 (il giorno dopo, per la riforma gregoriana del calendario fu il 15 ottobre); beatificazione nel 1614, canonizzazione nel 1622; festa il 15 ottobre.

La sua vita va interpretata secondo il disegno che il Signore aveva su di lei, con i grandi desideri che Egli le mise nel cuore, con le misteriose malattie di cui fu vittima da giovane (e la malferma salute che l'accompagnò per tutta la vita), con le "resistenze" alla grazia di cui lei si accusa più del dovuto. Entrò nel Carmelo dell'Incarnazione d'Avila il 2 novembre 1535, fuggendo di casa. Un pò per le condizioni oggettive del luogo, un pò per le difficoltà di ordine spirituale, faticò prima di arrivare a quella che lei chiama la sua "conversione", a 39 anni. Ma l'incontro con alcuni direttori spirituali la lanciò a grandi passi verso la perfezione.

Nel 1560 ebbe la prima idea di un nuovo Carmelo ove potesse vivere meglio la sua regola, realizzata due anni dopo col monastero di S. Giuseppe, senza rendite e "secondo la regola primitiva": espressione che va ben compresa, perchè allora e subito dopo fu più nostalgica ed "eroica" che reale. Cinque anni più tardi Teresa ottenne dal Generale dell'Ordine, Giovanni Battista Rossi - in visita in Spagna - l'ordine di moltiplicare i suoi monasteri ed il permesso per due conventi di "Carmelitani contemplativi" (poi detti Scalzi), che fossero parenti spirituali delle monache ed in tal modo potessero aiutarle. Alla morte della Santa i monasteri femminili della riforma erano 17.

Ma anche quelli maschili superarono ben presto il numero iniziale; alcuni con il permesso del Generale Rossi, altri - specialmente in Andalusia - contro la sua volontà, ma con quella dei visitatori apostolici, il domenicano Vargas e il giovane Carmelitano Scalzo Girolamo Graziano (questi fu inoltre la fiamma spirituale di Teresa, al quale si legò con voto di far qualsiasi cosa le avesse chiesto, non in contrasto con la legge di Dio). Ne seguirono incresciosi incidenti aggravatisi per interferenze di autorità secolari ed altri estranei, sino all'erezione degli Scalzi in Provincia separata nel 1581. Teresa potè scrivere: "Ora Scalzi e Calzati siamo tutti in pace e niente ci impedisce di servire il Signore". Teresa è tra le massime figure della mistica cattolica di tutti i tempi.

Le sue opere - specialmente le 4 più note (Vita, Cammino di perfezione, Mansioni e Fondazioni) - insieme a notizie di ordine storico, contengono una dottrina che abbraccia tutta la vita dell'anima, dai primi passi sino all'intimità con Dio al centro del Castello Interiore. L' Epistolario, poi, ce la mostra alle prese con i problemi più svariati di ogni giorno e di ogni circostanza. La sua dottrina sull'unione dell'anima con Dio (dottrina da lei intimamente vissuta) è sulla linea di quella del Carmelo che l'ha preceduta e che lei stessa ha contribuito in modo notevole ad arricchire, e che ha trasmesso non solo ai confratelli, figli e figlie spirituali, ma a tutta la Chiesa, per il cui servizio non badò a fatiche. Morendo la sua gioia fu poter affermare: "muoio figlia della Chiesa".

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it di Anthony Cilia


elisabeth 21-06-2012 17.42.04

La storia e' scritta dall' uomo....e per questo parla poco delle donne, eppure voi Taliesin....siete un uomo che ha riportato alla luce la storia di donne...............vi sono infinitamente grata per questo bellissimo lavoro

Altea 21-06-2012 21.28.12

sir Taliesin mi unisco a lady Elisabeth per ringraziarvi per questi "ritratti" di grandi donne ..grazie per questo dono fattoci.

Taliesin 21-06-2012 21.35.12

Milady Elisabhet e Milady Altea,
il dono più grande è il vostro volteggiare inquieto e sereno nell'aria opalescende di questa bizzarra realtà virtuale, dove i vostri cuori pulsanti, come quelle magnifiche Donne che hanno scavato la Storia del Tempo, regalano ogni istante di splendore il rispecchiarsi di cotanta Bellezza...

...presto...presto riprenderò il mio Viaggio...

Taliesin, il bardo

Morris 21-06-2012 22.10.14

Grazie Taliesin per i vostri altruistici e galanti scritti!
Profumano di umana coscienza e divina veritade!

Attualmente la città di Camelot è abitata da 19 Messeri e 33 Dame, indi per cui, la sostanza di queste sacre mura è composta più dal sensibil animo di donna.

Con gioia e speranza!

Sir Morris

ladyGonzaga 21-06-2012 23.05.40

Citazione:

Originalmente inviato da Taliesin (Messaggio 46646)
La Spina e La Rosa: Rita degli Impossibili

Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza.
La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità.
Si racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione.

Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante.

E un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio.

Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo.

Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente.
Frequentava anche la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento.
Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto.

Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie.

I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta.

E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite.
Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito, erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita.

Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre.

La violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia.

Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero.

Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso, si narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro.

Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni.
La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere.

Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione.
La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio.

E in questa fase finale della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile, ma Rita insisté.

Tornata a Roccaporena la parente si recò nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle meravigliate consorelle.
Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli.

Il 22 maggio 1447 Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura.
Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per intercessione della santa.

Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia.
Accanto al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della “Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita.
Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte.

Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò solennemente.

Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino.

Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia, Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra.

Taliesin, il bardo


tra tutte le grandi donne da voi citate questa da me scelta è quella che più mi ha sempre incantata..sin da bambina.
Grazie Taliesin per averne lasciato una bellissima traccia.

Taliesin 22-06-2012 10.04.21

Sir Morris,
come avete osservato in maniera impeccabile ed arguta l'Altra metà del Cielo ha solcato veramente i canali della Storia e della Fede, spesso celati dietro l'ufficialità degli eventi vinti o persi solo dagli Uomini...
Grazie per il vostro sapiente intervento...

Lady Gonzaga,
attendevo il vostro passaggio di nudi calzari che ammorbidiscono le sempreverdi vie dell'animo...Rita vi sta sorridendo come quando eravate bambina, accarezzando quelle bambole di pezza con cui le sue fanciulle danzavano al vento, lasciando tracce di splendore....
Grazie per la vostra traccia...

Taliesin, il bardo

Taliesin 22-06-2012 12.52.12

Sul confine incerto dei Secoli Bui e dell'Età della Rinascita, ho voluto inserire la figura di un'altra Donna, il cui calamaio ha pesato come una spada di Damocle sulla testa dei rispettabili Uomini del suo tempo che ne scrissero la Storia...mentre in lontananza il suono degli archibugi rubava al Medioevo la sua Leggenda.

Dedicato a Milady Chantal...nell'attesa del suo ritorno

Taliesin, il bardo



NOSTRA BUONA SIGNORA: GIOVANNA FRANCESCA DI CHANTAL

Nella storia della Chiesa troviamo alcuni casi in cui uomo e donna hanno agito insieme nel cammino della santità, ricordiamo così Francesco e Chiara, Elzeario di Sabran e Delfina di Glandève, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, Benedetto e Scolastica, Luigi e Zelia Martin (genitori di santa Teresina di Lisieux), Giulia e Carlo Tancredi di Barolo, i coniugi Beltrame. Altra “coppia” sorprendente fu quella composta da san Francesco di Sales e Giovanna Francesca Frémyot de Chantal. Fu infatti grazie all’incontro con il vescovo di Ginevra che Giovanna definì il suo percorso di santità.

I francesi la chiamano sainte Chantal e la venerano ad Annecy, dove riposa accanto a san Francesco di Sales.

Nasce a Digione il 23 gennaio 1572 in una famiglia dell’alta nobiltà borgognona. Suo padre è Benigno Frémyot, secondo presidente del Parlamento. Rimasta ben presto orfana di madre, crescerà sotto l’educazione e la morale paterne.

Il 29 dicembre 1592 Giovanna sposa Cristoforo II, barone di Chantal. Il loro è un matrimonio felice. Viene da subito chiamata «la dama perfetta» per quel suo prodigarsi nella tenuta di Bourbilly e per le attenzioni e premure che riserva al consorte. Da questa unione perfetta nascono sei figli: i primi due muoiono alla nascita, poi arrivano Celso Benigno, Maria Amata, Francesca e Carlotta.

Dolce, serena, affabile, Giovanna è amata dai suoi familiari, come dalla servitù. Quando Cristoforo si assenta dal castello per adempiere ai suoi impegni di corte, Giovanna lascia gli abiti eleganti e si dedica ai poveri, ai quali non offre solo denaro, ma la propria persona, servendoli. La sua carità si fa immensa durante la carestia che colpisce la Borgogna nell’inverno 1600-1601. È qui che la baronessa, senza ascoltare i borbottii di molti e incoraggiata dal consorte, trasforma il maniero in un vero e proprio ospedale per ospitare madri e bambini in difficoltà e si occupa della costruzione di un nuovo forno per poter distribuire il pane a tutti coloro che bussano alla sua porta. Un giorno le viene detto che nel granaio non è rimasto che un solo sacco di segala… e lei, senza esitazioni, ordina di proseguire la distribuzione del pane, come prima… la segala finirà al nuovo raccolto.

Ma ecco giungere la prima grande prova, la morte di Cristoforo, ucciso da un colpo di archibugio durante una battuta di caccia.

Resta vedova a soli 29 anni, vedova e madre di quattro creature di cui la prima ha solo cinque anni e l’ultima pochi giorni. Matura, in questo tempo di lutto e di dolore, il desiderio di consacrarsi a Cristo, ma i doveri familiari non le permettono una scelta di vita così drastica. In attesa di conoscere la volontà di Dio, Giovanna si dedica totalmente ai figli, all’amministrazione della casa e alla preghiera.

Il suocero, barone di Chantal, la informa che deve subito trasferirsi da lui, a Monthélon se desidera che i figli prendano parte all’eredità e lei accetta, pur sapendo che nella residenza dell’anziano barone comanda una «servapadrona». Per lungo tempo dovrà sopportare le angherie di quest’ultima.

Il suo nome inizia a rendersi noto per la sua carità. Non è più chiamata «dama perfetta», ma la «nostra buona signora».

Un’altra difficile prova deve ora affrontare: la sua guida spirituale non comprende la sua persona, non sa leggere la sua anima. Un giorno suo padre la invita a Digione, questa volta per ascoltare il quaresimale del vescovo di Ginevra, Francesco di Sales, la cui fama si diffonde sempre più in Savoia e in tutta la Francia. Il primo incontro fra Giovanna e il vescovo avviene il 5 marzo del 1604. Da allora si instaura un camino di unione fraterna e spirituale straordinario. La direzione spirituale di Francesco di Sales si realizza soprattutto attraverso l’epistolario, dove l’umano è «divinizzato» e il divino «umanizzato».

In una lettera inviata al vescovo ginevrino Giovanna scrive: «… tutto quello che di creato c’è quaggiù non è niente per me se paragonato al mio carissimo Padre… Un giorno mi comandaste di distaccarmi e di spogliarmi di tutto. Oh Dio, quanto è facile lasciare quello che è attorno a noi, ma lasciare la propria pelle, la propria carne, le proprie ossa e penetrare nell’intimo delle midolla, che è, mi sembra, quello che abbiamo fatto è una cosa grande, difficile e impossibile se non alla grazia di Dio».

Nel 1610 firma di fronte al notaio un atto con il quale si spoglia di tutti i beni in favore dei figli. Lascia dunque la famiglia e parte per Annecy e il 6 giugno, insieme a due compagne, Giacomina Favre e Giovanna Carlotta de Bréchard entra nella piccola ed umile «casa della Galleria», culla dell’Ordine della Visitazione.

Rimarrà sempre “madre”, continuando ad amare profondamente e teneramente i suoi figli. Nuove morti, nuovi lutti… tanto che soltanto la figlia Francesca le sopravviverà tra figli, fratelli, generi e nuora. Perciò Dio diventa per lei l’unica ricerca, l’unico fine della sua attuale vita. Alla scomparsa di Francesco di Sales (28 dicembre 1622), Giovanna si trova sola alla guida della nuova famiglia religiosa della Visitazione. Si fa pellegrina sulle strade di Francia, fondando ben 87 case visitandine.

Consumata «nell’amore di opera e nell’opera di amore», come usava dire, si spegne il 13 dicembre 1641 nel monastero di Moulins.

Le «Lettere di amicizia e direzione» (tradotte per la prima volta in italiano, a cura dei monasteri della Visitazione d’Italia) sono la testimonianza più viva della grande spiritualità di Madre Chantal ed è la prova che fosse persona troppo intelligente e “libera” per ridursi ad un’ombra anonima di san Francesco di Sales.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it di Cristina Siccardi

Guisgard 22-06-2012 18.00.28

Citazione:

Originalmente inviato da Taliesin (Messaggio 47246)

p.s. dedicato alla terra di meraviglie del Cavaliere dell'Intelletto, cullata da una rarissima spiritualità che avvolge i campi di grano, le bianche chiesette di confine, le dirute mura delle orgogliose cittadelle, racchiusa tra il regno degli Etruschi ed il mare dei Tirreni.


Taliesin, vi sono grato per questo ritratto ideale e sognante con cui avete descritto le mie terre.
Il mio cuore corre proprio lungo quei confini nei quali siete riuscito a racchiudere quel mondo fatto di infinite meraviglie.
E per questo vi sono debitore :smile:

Taliesin 23-06-2012 21.47.47

AMOR, CH'A NULLO AMATO AMAR PERDONA: FRANCESCA DA POLENTA

«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense»
(Inferno V, 100-107)
tratto da la Commedia di Dante Alighieri

Francesca da Polenta era figlia di Guido Minore Signore di Ravenna e Cervia “…siede la terra dove nata fui, sulla marina dove ‘l Po discende…..” e lì viveva tranquilla e serena la sua fanciullezza , sperando che il padre le trovasse uno sposo gradevole e gentile.

Siamo nel 1275 e Guido da Polenta decise di dare la mano di sua figlia a Giovanni Malatesta (detto Giangiotto Johannes Zoctus – Giovanni zoppo) che lo aveva aiutato a cacciare i Traversari, suoi nemici. Il capostipite, Malatesta da Verucchio detto il Mastin Vecchio o il Centenario, concorda ed il matrimonio è combinato. Fu detto a Guido:
“-…voi avete male accompagnato questa vostra figliuola, ella è bella e di grande anima, ella non starà contenta di Giangiotto… Messer Guido insistette: - Se essa lo vede soltanto quando tutto è compiuto, non può far altro che accettare la situazione”.

Per evitare il possibile rifiuto da parte della giovane Francesca i potenti signori di Rimini e Ravenna tramarono l’inganno.
Mandarono a Ravenna Paolo il Bello “piacevole uomo e costumato molto”, fratello di Giangiotto. Francesca l’aveva visto “…fu una damigella di là entro, dimostrato da un pertugio d’una finestra a madonna Francesca, dicendole – madonna, quegli è colui che dee esser vostro marito – e così si credea la buona femmina, di che madonna Francesca incontamente in lui pose l’anima e l’amor suo…”

Francesca accettò con gioia ed il giorno delle nozze, senza dubbio alcuno, pronunciò felice il suo “sì” senza sapere che Paolo la sposava “artificiosamente” per procura ossia a nome e per conto del fratello Giangiotto. “…non s’avvide prima dell’inganno, che essa vide la mattina seguente al dì delle nozze levare da lato a sè Giangiotto…” Pensate alla sua disperazione!

Ma ben presto si rassegnò, ebbe una figlia che chiamò Concordia, come la suocera, e cercava di allietare come poteva le sue tristi giornate. Paolo, che aveva possedimenti nei pressi di Gradara, sovente faceva visita alla cognata e forse si rammaricava di essersi prestato all’inganno!
Uno dei fratelli, Malatestino dell’Occhio, così chiamato perchè aveva un occhio solo “ma da quell’uno vedeva fin troppo bene”, spiando, s’accorse degli incontri segreti tra Paolo e Francesca.

Ed eccoci all’epilogo della nostra storia: un giorno del settembre 1289, Paolo passò per una delle sue solite visite e qualcuno (forse Malatestino “quel traditor”)avvisò Giangiotto.

Quest’ultimo che ogni mattina partiva per Pesaro ad espletare la sua carica di Podestà, che per maggior equanimità non doveva avere appresso la famiglia, per far ritorno a tarda sera, finse di partire ma rientrò da un passaggio segreto e …mentre leggevano estasiati la storia di Lancillotto e Ginevra, “come amor li strinse” si diedero un casto bacio (questo è quello che Dante fa dire a Francesca!) proprio in quell’istante Giangiotto aprì la oporta e li sorprese. Accecato dalla gelosia estrasse la spada, Paolo cercò di salvarsi passando dalla botola che sitrovava vicino alla porta ma, si dice, che il vestito gli si impigliasse in un chiodo, dovette tornare indietro e, mentre Giangiotto lo stava per passare a fil di spada, Francesca gli si parò dinnanzi per salvarlo ma…Giangiotto li finì entrambi.

Dante mette gli sventurati amanti all’inferno perchè macchiati di un peccato gravissimo, ma li fa vagare assieme: oltre la pena, che non abbiano anche quella della solitudine eterna. “…io venni men così com’io morisse; e caddi come corpo morto cade”.

Gli sventurati amanti vengono così immortalati da Dante nella Divina Commedia – V canto dell’Inferno.

Nel corso dei secoli poeti, musicisti, letterati, pittori e scultori si sono ispirati alla tragedia di Paolo e Francesca (da Pellico a D’Annunzio, da Zandonai a Scheffer, ecc.) ed ancor oggi la loro storia d’amore, avvolta in un alone di mistero, affascina migliaia di persone.

Taliesin, il bardo

tratto da www.gradara.org

elisabeth 24-06-2012 19.58.22

La storia di Paolo e Francesca e' una storia che racchiude molte sfaccettature del comportamento umano.....quando ama o quando egoisticamente la parola amore non diventa altro che possesso ed egoismo ..spinto alle volte dal tragico interesse.....ma desidero una cosa da voi mio caro Bardo....

" Amor, ch’a nullo amato amar perdona"......

Ditemi..........che significato date a queste parole ?

Taliesin 25-06-2012 09.45.33

" Amor, ch’a nullo amato amar perdona"......
Ditemi...che significato date a queste parole ?

L'inclinazione naturale all'Amare qualcuno o qualcosa, non consente a chi è Amato di non Amare...
Questo è quello che spiegano le carte dei posteri uomini di letteratura.

Anche il Ghibellin Fuggiasco dovette ricredersi difronte a questa sublime massima poetica che immortalò i suoi scritti nell'eternità, poichè anch'egli, usando la sua Poesia come mezzo d'Amore e di evasione, non condivise mai nel mondo reale un significato d'Amore così vero e così grande, tanto da idealizzare la sua Divina Creatura, con una fanciulla incontrata due sole volte tra gli infratti di Ponte Vecchio e Santissima Trinità: Beatrice Portinari.

Il mio modesto giudizio Milady Elisabhet è che spesso questa frase si è appropriata della vita altrui in un vortice assurdo di Amore suicida ed Amore assassino che, per una sorta di masochismo ancestrale, a fatto sì che coloro che fossero stati poco amati avessero sprigionato uno stato d'Amore idelaizzato...

Per questo mio giudizio prenderò le critiche più acerrime ma nessuna massima, anche la più sublieme e poetica, può contenere un mondo edi emozioni...

Taliesin, il bardo

elisabeth 25-06-2012 09.56.42

Niente di piu' vero...dalle vostre parole avrei potuto leggere.....il male peggiore dell' uomo....utilizzare questa frase, profanando ogni concetto d' Amore......

Grazie mio buon Bardo.....

Taliesin 25-06-2012 13.41.10

Grazie a voi Elisabetta la Buona,
per avere compreso le mie parole ancor prima che il sapiente calamaio virtuale potesse imprimerle sulla bizzarra pergamena...

Taliesin, il bardo

Taliesin 25-06-2012 13.56.51

VESTITA DI COLOR DI FIAMMA VIVA: BEATRICE PORTINARI

"Sovra candido vel cinta d'uliva
donna m'apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva."

(Dante Alighieri, La Commedia, Canto, Purgatorio XXX)



Sebbene non unanime, la tradizione che identifica Bice di Folco Portinari con la Beatrice amata da Dante è ormai molto radicata.
Lo stesso Giovanni Boccaccio, nel commento alla Divina Commedia esplicitamente riferimento alla giovane.

I documenti certi sulla sua vita sono sempre stati molto scarsi, arrivando a far persino dubitare della sua reale esistenza. L'unico che si conoscesse fino a poco tempo fa era il testamento di Folco Portinari datato 1287.

Vi si legge: ...item d. Bici filie sue et uxoris d. Simonis del Bardis reliquite [...], lib.50 ad floren, cioè si parla di una lascito in denaro alla figlia Bice maritata a Simone de' Bardi. Folco Portinari era stato un banchiere molto ricco e in vista nella sua città, nato a Portico di Romagna. Trasferitosi a Firenze, viveva in una casa vicina a Dante ed ebbe sei figlie. Folco ebbe il merito di fondare quello che tutt'oggi è il principale ospedale nel centro cittadino, l'Ospedale di Santa Maria Nuova.

La data di nascita di Beatrice è stata ricavata per analogia con quella presunta di Dante (coetanea o di un anno più piccola del poeta, che si crede nato nel 1265); la data di morte è ricavata dalla Vita Nuova di Dante stesso e forse non è altro che una data simbolica. Anche molte delle notizie biografiche provengono unicamente dalla Vita Nuova, come l'unico incontro con Dante, il saluto, il fatto che i due non si scambiarono mai parola, ecc.

Beatrice, figlia di un banchiere, si era imparentata con un'altra famiglia di grandi banchieri, i Bardi, andando in sposa ancora giovanissima, appena adolescente, a Simone, detto Mone. È recentissimo il ritrovamento di nuovi documenti nell'archivio Bardi su Beatrice e suo marito da parte dello studioso Domenico Savini. Tra questi un atto notarile del 1280, dove Mone de' Bardi cede alcuni terreni a suo fratello Cecchino con il beneplacito della moglie Bice, che all'epoca doveva avere circa quindici anni. Un secondo documento del 1313, quando cioè Beatrice doveva essere già morta, cita il matrimonio tra una figlia di Simone, Francesca, e Francesco di Pierozzo Strozzi per intercessione dello zio Cecchino, ma non è specificato se la madre fosse stata Beatrice o la seconda moglie di Simone, Bilia (Sibilla) di Puccio Deciaioli. Altri figli conosciuti di Simone sono Bartolo e Gemma, la quale venne maritata a un Baroncelli.

Un'ipotesi plausibile è che Beatrice sia morta così giovane forse al primo parto.

Il luogo di sepoltura di Beatrice viene tradizionalmente indicato nella Chiesa di Santa Margherita de' Cerchi, vicina alle abitazioni degli Alighieri e dei Portinari, dove si troverebbero i sepolcri di Folco e della sua famiglia. Ma questa ipotesi, sebbene segnalata da una lapide moderna che colloca la data di morte di Beatrice al 1291, è incoerente perché Beatrice morì maritata e quindi la sua sepoltura avrebbe dovuto avere luogo nella tomba della famiglia del marito. Infatti Savini indica come possibile luogo il sepolcro dei Bardi situato nella Basilica di Santa Croce, sempre a Firenze, tutt'oggi segnalato nel chiostro da una lapide con lo stemma familiare, vicino alla Cappella dei Pazzi.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.wikipedia.org

Taliesin 26-06-2012 08.58.56

MULIERES SALERNITANAE: TROTULA DE RUGGIERO

I dettagli della vita di Trotula sono sconosciuti.

Di lei si sa che visse attorno al 1050 a Salerno, città aperta agli scambi economici e culturali con tutto il Mediterraneo, uno dei luoghi più vitali del mondo allora conosciuto. Discendeva dall'antico casato dei “de Ruggiero” e , come membro della nobiltà, ebbe la possibilità di frequentare le scuole superiori e di specializzarsi in medicina. Non ci sono testimonianze dirette dei suoi studi, ma diverse annotazioni si riferiscono a lei in tal senso. Sposò il medico Giovanni Plateario da cui ebbe due figli che continuarono l'attività dei genitori.

La Scuola Medica di Salerno fu il primo Centro di Cultura non controllato dalla Chiesa e divenne talmente rinomata da essere considerata la prima università d'Europa. In quel luogo si cominciò a tradurre dall'arabo in latino i testi di medicina degli antichi scienziati greci, rendendoli nuovamente accessibili agli studiosi occidentali. La Scuola era aperta anche alle donne che la frequentavano sia come studentesse che come insegnanti e Trotula fu uno dei suoi membri. Le sue lezioni furono incluse nel De agritudinum curatione, una raccolta degli insegnamenti di sette grandi maestri dell'università e collaborò con il marito ed i figli alla stesura del manuale di medicina Practica brevis.

Trotula ebbe idee innovative sotto molti aspetti: considerava che la prevenzione fosse l'aspetto principale della medicina e propagava nuovi e per l'epoca insoliti metodi, sottolineando l'importanza che l'igiene, l'alimentazione equilibrata e l'attività fisica rivestono per la salute. Non ricorse quasi mai a pratiche medievali rivolte all'astrologia, alla preghiera e alla magia. In caso di malattia consigliava trattamenti dolci che includevano bagni e massaggi, in luogo dei metodi radicali spesso utilizzati a quel tempo. I suoi consigli erano di facile applicazione e accessibili anche alle persone meno abbienti.

Le sue conoscenze in campo ginecologico furono eccezionali e molte donne ricorrevano alle sue cure. Fece nuove scoperte anche nel campo dell'ostetricia e delle malattie sessuali. Cercò nuovi metodi per rendere il parto meno doloroso e per il controllo delle nascite. Si occupò del problema dell'infertilità, cercandone le cause non soltanto nelle donne, ma anche negli uomini, in contrasto con le teorie mediche dell'epoca.

Annotò queste scoperte nella sua opera più conosciuta il De passionibus Mulierum Curandarum (Sulle malattie delle donne), divenuto successivamente famoso col nome di Trotula Major, quando venne pubblicato insieme al De Ornatu Mulierum (Sui cosmetici), un trattato sulle malattie della pelle e sulla loro cura, detto Trotula Minor.
I due testi erano scritti in latino medievale, una lingua diffusa in tutta l'Europa. Il primo le fu richiesto da una nobildonna e si rivolgeva alle donne, “ché non parlano volentieri delle loro malattie agli uomini, per un sentimento di pudore”.

La trattazione risulta straordinaria anche perchè, per la prima volta, una medica parla esplicitamente di argomenti sessuali, senza coinvolgervi nessun accento moralistico. Accanto all'elaborazione teorica delle esperienze, nel testo si trovano numerosi esempi pratici. Poichè Trotula conosceva gli insegnamenti di Ippocrate di Kos (460-377 a.C.) e di Claudio Galeno (129-200 d.C.), vi faceva riferimento nelle sue diagnosi e nei suoi trattamenti, agendo una antica concezione della natura che legava le caratteristiche della persona all'intero cosmo.

Nel Trotula Minor, l'autricesi occupa della bellezza: scrive di rimedi per il corpo, di pomate e di erbe medicamentose per il viso ed i capelli e dispensa consigli su come migliorare lo stato fisico con bagni e massaggi. Questo argomento non rappresenta un aspetto frivolo dei suoi testi, per Trotula lo sguardo sulla bellezza di una donna ha a che fare con la filosofia della natura cui si ispira la sua arte medica: la bellezza è il segno di un corpo sano e dell'armonia con l'universo.

Nel XIII secolo le idee e i trattamenti di Trotula erano conosciuti in tutta l'Europa e facevano già parte della tradizione popolare. I suoi scritti vennero utilizzati fino al XVI secolo come testi classici presso le Scuole di medicina più rinomate. Il Trotula Maior, in particolare, venne trascritto più volte nel corso del tempo subendo numerose modificazioni, inoltre, come altri testi scritti da una donna, venne impropriamente attribuito ad autori di sesso maschile: ad un anonimo, al marito o ad un fantomatico medico “Trottus”.

Nel XIX secolo alcuni storici, tra cui il tedesco Karl Sudhoff, negarono la possibilità che una donna avesse potuto scrivere un'opera così importante e cancellarono la presenza di Trotula dalla storia della medicina. La sua esistenza fu però recuperata, con gli studi di fine Ottocento, dagli storici italiani per i quali l'autorità di Trotula e l'autenticità delle Mulieres Salernitanae sono sempre state incontestabili.

Taliesin, il bardo

tratto da: "Scienziate nel Tempo. 60 biografie di Sesti Sara e Moro Liliana, Ediz. LUD, Milano, 2006.


Taliesin 26-06-2012 09.23.00

LA CONTESSA DELLA POESIA: BEATRICE DE DIA

Tra i meandri diroccati della virtuale pergamena di Camelot, tra anfratti ombrosi e sentieri a me inesplorati, ho ritrovato Morrigan con la sua maglifica presentazione di un'altra Donna delle Arti.
Ascoltiamo la sua storia...

Taliesin, il bardo
La comtessa de Dia si fo moiller d'En Guilem de Peitieus, bella domna e bona. et enamoret se d'En Rambaut d'Aurenga, e fez de lui mantas bonas cansos.”

(La Contessa di Dia era la moglie di Guglielmo di Poitiers, una signora bella e buona. E si innamorò di Raimbaud d'Orange, e scrisse molte belle canzoni in suo onore - (Margarita Egan, Les vies des troubadours)


Del ristretto gruppo di trovatori donna
(trobairitz) che di cui si ha notizia e che composero tra il XII e il XIII secolo, la più famosa fu Beatrice, contessa di Dia.
Della sua vita si hanno scarne notizie. Nata probabilmente nel 1140 in Provenza, fu sposa di Guillem o Guilhem de Poitiers, conte di Viennois, anche se un’altra versione meno accreditata la identifica con Isoarda, moglie di Raimon d'Agout e figlia di un conte di Dia.

Si innamorò di Raimbaud d’Orange (Raimbaut d’Aurenga in Occitanico), signore di Orange e Aumelas e trovatore a sua volta (contribuì alla creazione del Troubar clus, ovvero quella poesia trobadorica di stile oscuro e complesso).
A lui e al suo amore dedicò la sua opera, di cui ci sono pervenute cinque canzoni:

· Ab joi et ab joven m'apais
· A chantar m'er de so qu'ieu non volria
· Estât ai en greu cossirier
· Fin ioi me don'alegranssa
· Amics, en greu consirier

Le canzoni erano probabilmente pensate per essere accompagnate con il faluto. A sostegno di questa teoria, il ritrovamento della musica per i primi versi di A chantar, trovata ne Le manuscript di roi, una collezione di canzoni copiate nel 1270 per Charles of Anjou, fratello di Louis IX.

http://img535.imageshack.us/img535/540/achantar.png


In esse, la contessa canta in un linguaggio molto aperto e appassionato di questo amore, inizialmente da lei rifiutato per mantenere fede alle proprie promesse matrimoniali, quindi in seguito rimpianto.

I temi trattati sono in tutto aderenti ai canoni dell’amor cortese: l’amore visto come rapporto di equilibrio tra la dama (che deve custodire la propria dignità) e il suo cavaliere (che deve meritare il suo amore grazie al proprio onore), l’amore corrisposto come premio per il valore dimostrato dal cavaliere.

Ne Estât ai en greu cossirier, tuttavia, il tono è molto diverso e per certi aspetti molto moderno. In essa, la contessa sembra quasi voler gridare a tutto il mondo il suo amore, un amore passionale, impossibile da ritenere nei legacci della ragionevolezza, del quale essa canta anche gli aspetti più apertamente sensuali.

"Estat ai en greu cossirier

per un cavallier qu'ai agut,

e vuoil sia totz temps saubut

cum ieu l'ai amat a sobrier;

ara vei qu'ieu sui trahida

car ieu non li donei m'amor

don ai estat en gran error

en lieig e quand sui vestida.


Ben volria mon cavallier

tener un ser en mos bratz nut,

qu'el s'en tengra per ereubut

sol qu'a lui fezes cosseillier;

car plus m'en sui abellida

no fetz Floris de Blanchaflor:

ieu l'autrei mon cor e m'amor

mon sen, mos huoillis e ma vida.


Bels amics avinens e bos,

cora.us tenrai en mon poder?

e que jagues ab vos un ser

e qu'ie.us des un bais amoros;

sapchatz, gran talen n'auria

qu'ie.us tengues en luoc del marit,

ab so que m'aguessetz plevit

de far tot so qu qu'ieu volria."

(da
http://www.recmusic.org/lieder/get_text.html?TextId=1113)



"Vivo io in doloroso stato
Per un cavaliere che ho avuto
E voglio che sia da tutti saputo
Che l’ho amato oltre misura;
ora vedo che sono tradita
perché non gli ho donato il mio amore
per cui mi trovo in grande errore
sia nel letto che quando son vestita

Ben vorrei il mio cavaliere
stringere nudo, una sera, fra le mie braccia,
e che lui si sentisse felice
solo ch’io gli facessi da cuscino,
perch’è lui che mi piace più di quanto
non sia piaciuto Florio a Biancofiore.
Io gli concedo il mio cuore e il mio amore,
il mio sonno, i miei occhi e la mia vita.

Bell’amico, gentile e valoroso,
quando vi avrò in mio potere?
Solo una sera insieme a voi giacere
Per farvi dono di un bacio d’amore;
sappiate che avrei grande desiderio
di possedervi in luogo di marito
a condizione che mi promettiate
di fare tutto ciò che voglio"


Taliesin, il bardo
__________________
"E tu, Morrigan, strega da battaglia, cosa sai fare?"
"Rimarrò ben salda. Inseguirò qualsiasi cosa io veda. Distruggerò coloro su cui avrò poggiato gli occhi!"

Ultima modifica di Morrigan : 10-09-2010 alle ore 21.05.10.
http://www.camelot-irc.org/forum/ima...er_offline.gif

Taliesin 26-06-2012 13.53.55

LA CITTA' DELLE DAME: CHRISTINE DE PIZAN


Dalle evidenti origini italiane, come si desume dal cognome (
Pizzano è un comune a sud est di Bologna), Christine de Pizan era nata a Venezia ma ancora bambina si era trasferita a Parigi, doveresterà tutta la vita. Il padre, Tommaso de Pizan, era infatti medico e astrologo di corte (all'epoca le due carriere erano intimamente legate) di re Carlo V di Francia, diventando anzi ben presto suo consigliere personale.

La piccola Christine a 4 anni venne presentata al re, le sage Roy Charles, per il quale avrà sempre buone parole. Christine crebbe in un ambiente di corte stimolante ed intellettualmente vivace: lo stesso Carlo V,
sensibile alle tematiche intellettuali, aveva fondato la Biblioteca Reale del


Louvre, a cui Christineaveva libero accesso e che descriverà anni più tardi come la belle assemblée des notables livres (la bella collezione di libri importanti), una biblioteca senza pari in Europa per la qualità e quantità di

preziosi libri con splendide


miniature. Incoraggiata dal padre ma osteggiata dalla più tradizionale madre, ebbe sicuramente una educazione letteraria approfondita, per l'epoca assai rara per una donna, e compose poesie molto apprezzate a corte.


Sposò a 15 anni nel


1379 Etienne de Castel, notaio e segretario del re, con cui ebbe tre figli, una femmina e due maschi, di cui uno morì in giovane età. Un matrimonio tuttavia sereno e felice, che Christine rimpiangerà spesso nei suoi scritti. Il marito infatti morì per una epidemia nel 1390.

Espresse il suo dolore in molte poesie, la cui più famosa è probabilmente


Seulete sui.


Christine de Pizan educa suo figlio Seulete sui et seulete vueil estre,


Sono sola, e sola voglio rimanere.

Seulete m'a mon douz ami laissiee; Sono sola, mi ha lasciata il mio dolce amico;
Seulete sui, sanz compaignon ne maistre sono sola, senza compagno né maestro,
Seulete sui, dolente et courrouciee,


sono sola, dolente e triste,

Seulete sui, en langueur mesaisiee,


sono sola, a languire sofferente,

Seulete sui, plus que nulle esgaree,


sono sola, smarrita come nessuna,

Seulete sui, sanz ami demouree.


sono sola, rimasta senz’ amico.

Seulete sui a uis ou a fenestre,


Sono sola, alla porta o alla finestra,

Seulete sui en un anglet muciee,


sono sola, nascosta in un angolo,

Seulete sui pour moi de pleurs repaistre,


sono sola, mi nutro di lacrime,

Seulete sui, dolente ou apisiee;


sono sola, dolente o quieta,

Seulete sui, rien n'est qui tant messiee;


sono sola, non c’è nulla di più triste,

Seulete suis, en ma chambre enserree,


sono sola, chiusa nella mia stanza,

Seulete sui, sanz ami demouree.


sono sola, rimasta senz’ amico

Seulete sui partout et en tout estre;


Sono sola, dovunque e ovunque io sia;


Seulete sui, ou je voise ou je siee;


sono sola, che io vada o che rimanga,

Seulete sui plus qu'aultre riens terrestre,


sono sola, più d'ogni altra creatura della terra


Seulete sui, de chascun delaissiee,


sono sola, abbandonata da tutti,

Seulete sui durement abaissiee,


sono sola, duramente umiliata,

Seulete sui, souvent toute esplouree,


sono sola, sovente tutta in lacrime,

Seulete sui, sanz ami demouree.


sono sola, senza più amico.

Prince, or est ma douleur commenciee:


Principi, iniziata è ora la mia pena:


Seulete sui, de tout deuil manaciee,


sono sola, minacciata dal dolore,

Seulete sui, plus teinte que moree:


sono sola, più nera del nero,

Seulete sui, sanz ami demouree.


sono sola, senza più amico, abbandonata.

Sola dunque, senza nemmeno la protezione del padre (morto nel


1385, qualche anno prima) e del re


Carlo V (morto a sua volta nel


1380), con tre figli e una anziana madre da accudire, con la famiglia caduta in disgrazia presso il nuovo sovrano Carlo VI detto Le Fou (il pazzo) e completamente all'oscuro degli aspetti pratici dell'esistenza, a 25 anni Christine compie una simbolica metamorfosi


e


diventa un uomo, intendendo con questa metafora il passaggio ad una vita più autonoma e responsabilizzata, per i tempi prerogativa esclusiva del maschio.


Or fus jee vrais homs, n'est pa fable,/De nefs mener entremettable
(allora diventai un vero uomo, non è una storia,/capace di condurre le navi)



Mentre era impegnata in estenuanti cause legali e in una apprezzata attività di copista e miniaturista (fu la responsabile di uno


scriptorium con maestri miniatori specializzato in riproduzioni, non esistendo ancora la stampa), compose in soli due anni Le Livre des cent ballades, che ebbe un

grande successo e grazie al quale ottenne la protezione e committenze di illustri personaggi, quali il Duca


Filippo di Borgogna e Jean, Duca di Berry, entrambi fratelli del compianto Carlo V, e la regina Isabella di Baviera.


Queste protezioni le permisero di dedicarsi esclusivamente alla stesura di
diversi libri e alla sua attività di poetessa e intellettuale, che ebbe numerosi riconoscimenti e attestazioni di stima, per esempio nei filosofi allora in auge


Jean de Gerson e Eustache Deschamps.

Scrisse moltissimo, aiutata da una facilità di scrittura notevole: tra gli altri


Le Livre de Corps de Police, in cui incoraggia i principi ad aiutare le vedove (chiaro il riferimento alle sue vicende personali), l'autobiografico L'Avision-Christine, L'Epistre au Dieu d'Amours, in cui condanna chi

usando l'amore inganna e diffama le donne,


Le Livre de Trois Vertus, ideale continuazione del citato La Città delle Dame, nel quale incoraggia le donne ad essere forti e ad uscire dagli stereotipi sessuali.


Christine de Pizan offre una copia dei suoi lavori alla Regina Isabella di Baviera, moglie del re Carlo VI.
Dopo il suo ultimo lavoro sulla sua contemporanea


Giovanna D'Arco del 1429, il primo entusiastico poema su Giovanna D'Arco e l'unico ad essere composto mentre era ancora viva, all'età di 65 anniChristine de Pizan si ritirò in un convento.


La data della morte è sconosciuta, ma dovrebbe aggirarsi intorno al 1430.



La Città delle Dame
Scritto nei mesi invernali tra il 1404 e il 1405, il


Livre de la Cité des Dames (la Città delle Dame) è probabilmente l'opera più famosa di Christine de Pizan. Venne scritto in risposta ai libri di Giovanni


Boccaccio


(De mulieribus claris, Sulle donne famose), Jean de Meun (autore del Roman de la Rose, un testo del tredicesimo secolo che dipingeva le donne solo come seduttrici) e del filosofo Mateolo,

nonché di altri testi misogini e chiaramente avversi alla condizione femminile, intrisa secondo loro solo di dubbio, malinconia e intemperanza.



...Sembrano tutti parlare con la stessa bocca, tutti d'accordo nella medesima conclusione, che il
comportamento delle donne è incline ad ogni tipo di vizio...



Pizan presenta invece una società utopica e allegorica in cui la parola


dama indica una donna non di sangue nobile, ma di spirito nobile. Nella città fortificata e costruita secondo le indicazioni di Ragione, Rettitudine e Giustizia, la Pizan racchiude un elevato numero di sante, eroine, poetesse,

scienziate, regine etc che offrono un esempio dell'enorme, creativo e indispensabile potenziale che le donne possono offrire alla società.
Tra le altre


Semiramide e Didone, fondatrici di Babilonia e Cartagine, l'eroina Griselda, Lucrezia che si suicidò dopo lo stupro e che offre lo spunto per emettere una legge giusta e santa che condanna a morte gli stupratori, Pentesilea che si oppone alla barbarie etc.


Centrale nella Città delle Dame è poi il tema della


educazione femminile, che Christine de Pizan avvertiva come fondamentale. L'impossibilità infatti di imparare, unita all'isolamento tra le mura domestiche, avevano causato la presunta inferiorità femminile e la sua assenza dalla scena culturale.


Ma è una inferiorità di tipo culturale e non naturale, come si desume dai vari esempi che porta la scrittrice (


Saffo, Proba, Novella, Ortensia e altre), visto che "...una donna intelligente riesce a far di tutto", e anzi gli uomini "...ne sarebbero molto irritati se una donna ne sapesse più di loro".


Ispirato chiaramente a


La città di Dio di Sant'Agostino, di agevole lettura nonostante l'evidente alto livello nozionistico e culturale, La Città delle Dame resta ancora oggi, per i temi e la passione che traspare dal testo, un libro attualissimo e affascinante.

...Sono certa che quest'opera farà chiacchierare a lungo i maldicenti...


Taliesin, il bardo



...questo modesto incontro con la divina scrittrice Cristina de Pizan, è dedicato idealmente alla frazione di Pizzano in Emilia, a quelle Donne coraggiose ed altruiste, gente sana senza boria nè buriana,
genuina come un buon bicchiere di vino rosso.

Taliesin, il bardo


Taliesin 26-06-2012 14.14.47

L'INIZIO DEL CAMMINO LETTERARIO: COMPIUTA DONZELLA

Resta un enigma storico Compiuta Donzella, il nome, o lo pseudonimo, sotto cui si cela una rimatrice fiorentina del Duecento, probabilmente la prima donna che compose poesia d’arte in volgare italiano, della quale ci sono pervenuti solo tre sonetti di gusto trobadorico e giullaresco, due dei quali di una perfezione formale molto vicina a quella del Petrarca.

Per mancanza di altri riscontri, letterari o biografici, la Compiuta (nome, peraltro, usuale nella Firenze del tempo in cui visse) è stata a lungo oggetto d’inattendibili ipotesi spesso di carattere romanzesco.

Si tratta, forse, della prima poetessa italiana: la prima cioè a comporre versi in volgare. Nulla si sa con certezza della sua vita, tranne che visse nell'ambiente toscano della seconda metà del XIII secolo. L'autenticità viene confermata dalla presenza del suo nome fra i sonetti del Torrigiano e per un abbastanza esplicito richiamo ad essa in una lettera di Guittone d'Arezzo. Ebbe un'educazione e una cultura rare in tempi in cui l'analfabetismo era molto diffuso, specialmente tra le donne.

Le Opere
A la stagion che 'l mondo foglia e fiora. Di maniera provenzaleggiante, si lamenta per un amore impossibile (amore che fiorisce nel cuore della poetessa in concerto con la primavera esultante)

Lasciar vorria lo mondo e Dio servire. Emerge il contrasto fra il suo proposito di diventare monaca e quello del padre deciso ad obbligarla ad un matrimonio.

Ornato di gran pregio e di valenza.

Taliesin, il bardo

tratto da www.interbooks.eu

Taliesin 26-06-2012 14.25.24

LA REGINA DI NAPOLI: GIOVANNA II D'ANGIO'

GIOVANNA II d'Angiò, regina di Sicilia. - Figlia di Carlo III d'Angiò Durazzo e Margherita di Durazzo (la parente più prossima di Giovanna I regina di Napoli, in quanto figlia di Maria d'Angiò, sorella minore di questa) nacque in Ungheria nel 1371; i suoi genitori si erano sposati a Napoli il 24 genn. 1370, per poi fare ritorno alla corte magiara di Luigi I il Grande, che era intenzionato a fare di Carlo d'Angiò il suo successore.

G. visse in Ungheria sino all'età di cinque anni, allorquando la madre partì, recandola con sé, alla volta di Napoli per salvaguardare le pretese alla successione dei Durazzo. Giunte a destinazione, nel luglio 1376, accolte dal cauto benvenuto della vecchia regina Giovanna I d'Angiò, Margherita diede alla luce un altro figlio, Ladislao. Il Grande Scisma del 1378 portò Carlo e Giovanna I in fazioni papali contrapposte e aprì la strada alla lunga lotta per il trono napoletano tra le forze dei Durazzo, sostenitori del Papato di 0bbedienza romana, da una parte, e degli Angioini, sostenitori del Papato di obbedienza avignonese, dall'altra. Margherita e i suoi figli furono tenuti in pratica ostaggi finché nel giugno 1381 non fuggirono a Morcone (Benevento). Lì attesero le armate durazzesche, che stavano frattanto avanzando; il 2 giugno 1381 Carlo fu infine investito a Roma del Regno di Sicilia da Urbano VI. A settembre, Margherita, divenuta ora regina, e i suoi figli poterono entrare in trionfo nella capitale e prendere residenza a Castelnuovo.

La nuova condizione reale non pose fine agli eventi drammatici che contraddistinsero l'infanzia di Giovanna. Per tre anni le armate di Luigi I d'Angiò, fratello del re di Francia Giovanni II, nominato dalla regina Giovanna I suo erede, minacciarono di detronizzare Carlo III, mentre i piani per assassinare il sovrano e i suoi congiunti gettarono la famiglia reale nel sospetto e nel timore di rappresaglie. La tensione si allentò solo quando Luigi d'Angiò morì inaspettatamente nel settembre 1384. Ma fu un sollievo di breve durata, poiché già un anno più tardi Carlo entrò in contesa con Sigismondo di Lussemburgo per il trono d'Ungheria sul quale sedeva, dopo la morte di Luigi il Grande (settembre 1382), la figlia Maria; e in quel paese fu assassinato nel febbraio 1386.

Margherita, donna di grande forza di volontà e già temprata all'esercizio del potere, dovette difendere come reggente il trono del figlio Ladislao, che aveva in quel momento dieci anni, contro il ritorno dei sostenitori degli Angiò. Inevitabilmente G., ora quindicenne e in età da matrimonio, divenne una pedina nelle lotte di successione dinastica. I Fiorentini la descrissero come "la generosa figliuola di Carlo III, donna bellissima e graziosa" (Faraglia, p. 19), ma non ci è giunto alcun ritratto che possa convalidare la loro diplomatica adulazione, finalizzata a ricomporre la pace attraverso il matrimonio tra G. e il nuovo duca d'Angiò, Luigi II, un fanciullo di dieci anni. Sebbene Margherita avesse dato la sua approvazione, a partire dal gennaio 1387 fu chiaro che i successi che gli Angioini stavano ottenendo avevano dissipato ogni loro propensione al compromesso. A luglio Margherita fu costretta ad abbandonare la capitale e a rifugiarsi a Gaeta, che divenne il quartier generale dei Durazzo lungo tutta la durata della guerra civile. G. trascorse i cinque anni seguenti in circostanze dure e difficili, tra disfatte militari e ristrettezze economiche, finché nell'estate del 1392, quando la peste costrinse la corte a rifugiarsi nel solitario monastero della Ss. Trinità di Cava de' Tirreni, le fortune della guerra cominciarono a volgere a favore dei Durazzo, tanto che gli Angioini mandarono degli emissari per discutere la pace sulla base di una proposta di matrimonio.
Questi negoziati non ebbero esito. Ladislao, nell'aprile del 1393, propose la sorella con una dote di 300.000 fiorini al marchese di Monferrato, nella speranza che il principe ostacolasse il passaggio dei rinforzi francesi. Tuttavia, le trattative politiche per un matrimonio con G. si fecero ancora più interessanti nella prospettiva di una vittoria dei Durazzo.

Nel 1395, una fazione di nobili ungheresi chiese a Firenze di fare da intermediaria per concordare il matrimonio tra la principessa napoletana e il loro re Sigismondo, vedovo, in vista di una pacificazione tra questo e Ladislao. Ma Sigismondo, sospettando un piano segreto dei Durazzo, non proseguì ulteriormente nelle trattative. In seguito si fece avanti Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano, il quale verso la fine del 1396 prospettò un matrimonio del figlio, Giovanni Maria, con Giovanna. In questa occasione fu Firenze a opporsi, preoccupata delle ambizioni dei Visconti. Perciò G. trascorse gli anni della giovinezza nell'ozio, in una corte sempre più licenziosa, mentre il fratello, il nuovo padrone della corte, si faceva intanto uomo.

Una nuova fase si aprì con la vittoria dei Durazzo e la resa di Napoli a Ladislao nel luglio 1399. Subito il giovane re rivolse le sue ambizioni verso l'Ungheria, e a questo scopo stabilì di sposare G. a un esponente della casata degli Asburgo, Guglielmo, duca d'Austria: con i suoi domini che si estendevano sino al Friuli e all'Adriatico, questi sarebbe stato un utile alleato contro Sigismondo. Gli accordi matrimoniali furono conclusi nel dicembre 1399 nel momento in cui la corte, dopo un'assenza di dodici anni, faceva il suo ritorno a Napoli, e in tale occasione Ladislao impose la tassa del maritagium.

Tuttavia, invece di inviare la promessa sposa in Austria, il re cominciò a mostrarsi riluttante, anche perché i suoi piani di sposarsi con una principessa cipriota rendevano difficoltoso reperire i 300.000 fiorini promessi per la dote di Giovanna. Nonostante le minacce di Guglielmo di annullare il matrimonio, Ladislao aspettò finché riuscì ad assicurarsi la sposa cipriota con la sua ricca dote, prima di autorizzare la firma del contratto nuziale, che ebbe luogo il 6 giugno 1403. Nel luglio dello stesso anno G. salpò con il fratello da Manfredonia alla volta di Zara, dove Ladislao dette il via alla sua scalata alla corona ungherese con un'incoronazione improvvisata. Sebbene, da parte sua, Guglielmo non si decidesse a intervenire contro Sigismondo, G. fu comunque mandata da lui in settembre. Venezia le tributò gli onori dovuti quando questa passò per la città diretta a Trieste, in territorio austriaco.

Appena tre anni più tardi, il 15 luglio 1406, Guglielmo morì. Non avendo avuto figli che la legassero alla corte degli Asburgo, G. decise di tornare in Italia. Vi fece ritorno all'inizio del 1407. Nei sette anni successivi G., ormai troppo vecchia per attirare altre offerte di matrimonio, non aveva molto altro da fare se non divertirsi alla corte libertina del fratello. Il suo coppiere, Pandolfello Piscopo (noto anche con il nome di Alopo), assunse il ruolo di amante. Tuttavia, gradualmente, in questa esistenza dissipata cominciò a farsi strada l'eventualità che Ladislao non avesse figli e che G., perciò, fosse l'unica erede della linea dei Durazzo. Fu così che un trattato di pace, sottoscritto da Ladislao e da papa Giovanni XXIII nel giugno del 1412, riconobbe esplicitamente il suo diritto al trono.

Eppure nessuno poteva prevedere la prematura scomparsa di Ladislao, il 6 ag. 1414, che pose questa donna di 43 anni in una posizione per la quale era rimasta completamente impreparata.

La crudeltà del fratello, feroce verso i nemici e prodigo verso i sudditi fedeli, gli aveva procurato la sottomissione del popolo; mentre le sue mire territoriali, vanificate in Ungheria, avevano potuto prosperare nel caos in cui versava l'Italia centrale. La stabilità del trono, sia in patria sia all'estero, dipendeva in ultima analisi dalle qualità essenzialmente maschili di un re guerriero. Una volta che una tale personalità venne meno, si disintegrò con essa anche il potere militare che sosteneva lo Stato, senza lasciare alcuna efficace alternativa nelle mani della nuova regnante. G. ereditò un corpo di consiglieri abituati ad assecondare la volontà di un autocrate, mentre lei stessa non poteva fare conto su persone fidate con l'esperienza necessaria. La nomina del Piscopo all'ufficio di gran camerlengo, avvenuta subito dopo la sua salita al trono, illustra molto chiaramente la natura del suo dilemma.

G. e i suoi consiglieri compresero bene che non si potevano permettere di perseverare nella politica che aveva contraddistinto il regno di Ladislao; si rendeva necessario, perciò, ricomporre i conflitti con le potenze che egli aveva sfidato. Fra i primi a subire le conseguenze di tale cambiamento fu Ladislao stesso, o meglio il suo corpo, per il quale la regina volle una cerimonia funebre ridotta al minimo, come si addiceva a una persona morta in contrasto con la Chiesa. Il primo a beneficiare della nuova situazione fu invece il condottiero Paolo Orsini, che Ladislao le aveva ingiunto di mettere a morte per tradimento. Anche i suoi sudditi furono inizialmente avvantaggiati da questa nuova situazione: a essi fu promesso un alleggerimento del carico fiscale, nonostante il deficit cronico nelle entrate dello Stato e la mancanza immediata del denaro necessario per pagare le forze rimaste a Roma e in Umbria.

Tra le preoccupazioni principali di G. vi era la necessità di ottenere il riconoscimento papale del suo titolo. Nel giro di due settimane i suoi emissari partirono alla volta di Bologna per incontrare Giovanni XXIII, facendo tappa a Firenze per rassicurare la Repubblica del favore della nuova regnante di Napoli. Altrove G. poteva contare su ben pochi amici. Sigismondo, da sempre nemico dei Durazzo, nel 1410 era diventato imperatore del Sacro Romano Impero e teneva nelle sue mani il futuro della Chiesa al concilio di Costanza; la Francia, inoltre, cercò subito di fare valere le pretese angioine su Napoli, pretese che Giovanni XXIII era incline ad appoggiare contro quella che ai suoi occhi era ormai solo una dinastia che lo aveva umiliato, tenendolo per la maggior parte del suo pontificato lontano da Roma, e che deteneva tuttora posizioni chiave nel Patrimonio. Firenze tuttavia riuscì a persuadere il pontefice a mandare una missione esplorativa a Napoli, accompagnata dai propri rappresentanti. G. rispose con entusiasmo, noleggiando delle galee per il trasferimento dell'ambasceria, anche se affidò poi le negoziazioni ai suoi favoriti, il Piscopo e il conte di Troia. In seguito dovette approvare lei stessa una misura piuttosto rischiosa, finalizzata a compiacere il pontefice, quale l'arresto del condottiero Muzio Attendolo Sforza, capo delle armate durazzesche nell'Italia centrale, poiché si opponeva al ritiro delle sue truppe dai territori papali.

Tutto ciò sortì però un modesto effetto. I Fiorentini rimasero insoddisfatti delle riparazioni per le perdite subite dai loro mercanti al tempo di Ladislao. G. li licenziò con questo sconsolato commiato: "Io veggo bene che i vostri signori non si fidano di me, ma se ne fideranno più di qui ad un anno, quando mi avranno provata" (Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, p. 279). Dal pontefice, che tuttora si rivolgeva a lei come duchessa d'Austria, riuscì a strappare una tregua di due mesi e mezzo. Frattanto aveva provocato la collera dei capitani dello Sforza e non era riuscita a mettere un freno alle propensioni anarchiche dei potenti del suo Regno. Il duca di Sessa, i conti di Celano, Fondi, Altavilla e Tagliacozzo e la città dell'Aquila la osteggiarono tutti; Giulio Cesare Di Capua poteva impunemente fare scorrerie nella campagna circostante la capitale. La maggior parte di essi giustificava la ribellione come lealtà verso la causa di Luigi II d'Angiò che essi reclamavano al trono di Napoli. Il Piscopo riuscì in breve a persuadere la sua amante che solo lo Sforza poteva salvarla; in questo modo nel marzo 1415 fu raggiunto un accordo: in cambio del suo rilascio e di generose remunerazioni lo Sforza avrebbe sedato i ribelli.

In autunno li aveva già ridotti all'obbedienza guadagnandosi la carica di connestabile.

Poiché G. aveva già superato l'età in cui poteva ancora avere figli, ed era priva di un erede, l'interesse dei suoi sudditi e delle potenze coinvolte si era rapidamente rivolto alla questione di un matrimonio che potesse determinare la successione. Alcune delle voci che giravano a Napoli nel dicembre del 1414 sostenevano che fosse lo stesso Sforza ad aspirare alla sua mano, mentre secondo altre il papa aveva in progetto di darla in sposa a Luigi d'Angiò. Solo il suo Consiglio sapeva che la scelta era già stata fatta. L'avversione nei confronti del nemico di sempre e le divisioni interne esclusero che la scelta cadesse sull'Angiò. Ella si rivolse invece a una potenza rivale in tempi più lontani, l'Aragona, che aveva frattanto ristabilito il controllo sulla Sicilia, e che, sotto la nuova dinastia dei Trastamara, poteva assicurarle un sostegno militare e navale. All'inizio di ottobre del 1414 i rappresentanti di G. si recarono a sistemare la questione con Ferdinando I d'Aragona, che accolse con entusiasmo la proposta. Un contratto fu sottoscritto a Valenza il 4 genn. 1415, in cui si conveniva che il secondo figlio del re, Giovanni, raggiungesse con forze consistenti Napoli per la fine di febbraio diventando marito di G. e suo erede. Non è possibile stabilire quanto G. avrebbe persistito di sua volontà nel progetto di un matrimonio-farsa con un giovane di soli sedici anni. Comunque furono i suoi consiglieri che si opposero con forza alla richiesta che Giovanni fosse incoronato e regnasse congiuntamente con G., rifiutandosi di ratificare il contratto.

Venne invece proposto un marito che non avrebbe danneggiato nessuno: Giacomo di Borbone, conte della Marche, quarantacinquenne e imparentato alla lontana con la famiglia reale francese. Egli non avrebbe dovuto assumere il titolo reale, in modo da lasciare aperta la questione della successione al beneplacito delle fazioni interne, del Papato e degli Angiò. Ma coloro che avevano orchestrato questa manovra così ingenua sottovalutarono la perfidia dei loro stessi connazionali: la fazione angioina della nobiltà si affrettò ad acclamare Giacomo re di Napoli appena fu sbarcato a Manfredonia. Bastò un semplice tranello per fare prigioniero lo Sforza a Benevento con il risultato che, quando Giacomo e i suoi sodali raggiunsero Napoli il 15 ag. 1415, G. si ritrovò completamente indifesa. Ancora prima del loro arrivo, il castellano di Castelnuovo l'aveva già tradita: irrompendo nella sua camera da letto e ignorando le grida di protesta, riuscì a catturare Pandolfello e lo gettò nelle segrete.

A G. non rimaneva altra scelta se non quella di ordinare un'entrata solenne per il conte e disporre che il matrimonio fosse celebrato immediatamente dall'arcivescovo, fino all'umiliazione finale di proclamare Giacomo sovrano e coregnante. Le fu negato anche il conforto della compagnia: Giacomo non provava alcuna attrazione fisica per questa donna ormai vecchia ("senio confecta, flatus oleret": Faraglia, p. 59) e i suoi sostenitori volevano che non fosse di ostacolo alle loro mire. Il suo isolamento fu reso completo dall'uccisione di Pandolfello, decapitato a sua insaputa per colpe che confessò sotto tortura. Lo Sforza, imprigionato in Castel dell'Ovo, sopravvisse poiché seppe resistere alla tortura, e la fiera lealtà dei suoi capitani indusse i suoi aguzzini a una certa cautela. G. viveva sotto stretta sorveglianza, disprezzata dal marito e nell'impossibilità di comunicare con i suoi amici e consiglieri.

Il potere ebbe la meglio sul carattere peraltro arrogante e instabile di Giacomo, che cominciò a distribuire a pioggia ai suoi seguaci francesi cariche, terre e privilegi in modo così vistoso da alienarsi rapidamente l'approvazione di coloro che gli avevano dato il trono. Questi ultimi erano capeggiati dal Di Capua, il quale cercò quindi la vendetta. In un incontro che riuscì ad avere con la regina si offrì di uccidere Giacomo, attendendosi in cambio la sua gratitudine e una ricompensa futura. G., tuttavia, era così impaurita dalla sua condizione di prigioniera e dai tradimenti che aveva dovuto patire che sospettò si trattasse di una trappola e rivelò il nome del cospiratore al marito. L'8 genn. 1416, dopo un processo sommario, il Di Capua e il suo segretario venivano decapitati. Trascorsero molti mesi prima che qualcun altro osasse venire in suo aiuto.

Fu però un periodo sufficiente perché i suoi guardiani allentassero la vigilanza e si facesse particolarmente vivo a Napoli il risentimento contro lo strapotere della fazione francese. La celebrazione di un matrimonio che si tenne nella casa di un mercante fiorentino, Agostino Bonciaini, il 13 sett. 1416, fornì ai nemici di Giacomo l'occasione agognata. Egli si scusò di non potervi prendere parte ma concesse a G. di presenziare. Ella fu accolta per le strade da grida che inneggiavano "Viva la regina" e la sera, al momento di tornare a Castelnuovo, un servo fedele guidò le urla di protesta che scandivano: "Non vogliamo altro re che la regina" (Faraglia, p. 70). Alla fine G. osò chiedere loro aiuto: "Non mi abbandonate, mio marito mi maltratta" (Diurnali del duca di Monteleone, p. 93). Le parole della regina offrirono a Ottino Caracciolo e Annechino Mormile, che avevano architettato il piano, il pretesto di cui avevano bisogno per scortare G. al sicuro nel palazzo dell'arcivescovo. Il giorno seguente G. si trasferì a Castelcapuano, mentre Giacomo, davanti alla rivolta popolare, giudicò prudente ritirarsi a Castel dell'Ovo.

Da questa data in poi la Cancelleria rogò documenti in nome della sola G., che nel mese di ottobre riuscì, dietro pagamento del castellano francese che lo presiedeva, a riottenere Castelnuovo, tornando così a ristabilirsi nella sua consueta residenza. Giacomo tuttavia seppe difendersi con successo e G., sapendo che suo marito poteva ancora servire come catalizzatore del diffuso sentimento di avversione contro i Durazzo, accettò di scendere a patti con lui. Fu stabilito che egli conservasse solo quaranta dei suoi servitori francesi, che liberasse lo Sforza e che rinunciasse al titolo regale; in cambio avrebbe ricevuto una provvisione annuale di 40.000 ducati e tutti gli onori specificati nel contratto matrimoniale. Su questa base il marito umiliato tornò quindi a stabilirsi a Castelnuovo il 20 dic. 1416; qualsiasi possibilità di ristabilire buoni rapporti tra i coniugi era svanita e Giacomo si trovò presto sorvegliato e minacciato con la "prigione più dura" (Faraglia, p. 75). Il suo seguito francese partì rapidamente lasciando libere cariche e onorificenze per coloro che si erano dimostrati leali a G.; lo Sforza e Annechino Mormile raccolsero i frutti migliori di questo cambiamento. Ma vi fu anche la preoccupazione di placare gli antichi nemici: la famiglia Sanseverino riottenne terre che le erano state confiscate da Ladislao, il conte di Matera tornò in libertà dopo dieci anni di prigionia; alla città dell'Aquila fu concesso di demolire il proprio castello. Tornarono a corte antichi favoriti, come molti presunti amanti di G.; tra questi vi era innanzitutto Gianni Caracciolo (noto anche con l'appellativo di ser Gianni): proveniente da una ramo minore dei Caracciolo, della stessa età della regina, già capitano con Ladislao, avrebbe esercitato la sua influenza lungo quasi tutto l'arco di regno di G., sia come compagno di letto sia come mentore in tutte le questioni di Stato. Lo spettacolo della regina divenuta un pupazzo nelle mani del Caracciolo provocò il biasimo pubblico ed erose ulteriormente l'autorità regale.

G. nel frattempo, alla fine di questo movimentato periodo, non era stata ancora incoronata e rimaneva incerto quale atteggiamento avrebbe avuto nei suoi confronti il futuro pontefice, suo signore feudale, che sarebbe stato eletto dai delegati del concilio di Costanza riunitisi per porre fine al perdurante scisma d'Occidente. Perciò rispose con premura alle richieste di aiuto lanciate dal governatore dello Stato pontificio contro il condottiere Andrea Fortebracci (noto con il nome di Braccio da Montone). Muzio Attendolo Sforza, antico rivale di Braccio diventato di recente gran connestabile del Regno, consegnò Roma a Giordano Colonna, guadagnandosi in questo modo i favori del fratello del Colonna, Ottone, che sarebbe diventato papa, con il nome di Martino V, l'11 nov. 1417.

Tuttavia, quando lo Sforza ritornò a Napoli, nel mese di dicembre, trovò il Caracciolo ormai saldamente insediato nel ruolo di padrone della regina e della corte, animato esclusivamente dall'interesse e dall'ambizione personale, al punto da indurre molti, e tra gli altri la famiglia Mormile, alla ribellione. Inevitabilmente, intorno al vecchio soldato si raccolse tutta l'opposizione contro il favorito; prodighe elargizioni in favore dello Sforza, tra cui Benevento e Manfredonia, allentarono temporaneamente la tensione e lo persuasero a volgere la sua azione contro i contadini del Principato e i baroni della Basilicata. Ma nel settembre 1418 la frattura era già riaperta: lo Sforza, Francesco Mormile e i loro sostenitori marciarono su Napoli; ser Gianni e il suo nuovo alleato, Francesco Orsini, comandante militare di Napoli, si prepararono alla battaglia. Tuttavia, i cittadini furono così allarmati dallo svolgersi degli eventi che presero la situazione nelle loro mani e avviarono trattative dirette con lo Sforza, fino alla sigla di un patto che, ratificato ad Acerra dai suoi consiglieri (20 ottobre), G. fu costretta ad accettare. Tra le umiliazioni che esso le imponeva vi era il bando dei suoi consiglieri, incluso il Caracciolo, la liberazione di suo marito, il rilascio dei nobili imprigionati e un accordo, secondo il quale i deputati eletti dalla capitale potevano discutere affari di Stato con il loro sovrano. Solo il 14 febbr. 1419, in seguito alle pressioni di emissari pontifici e stranieri, G. accettò l'amara necessità di rilasciare Giacomo di Borbone, che si rifugiò proprio presso il suo avversario di un tempo, lo Sforza. Il legato pontificio, Pietro Morosini, era intanto giunto in gennaio: recava con sé una bolla di investitura (emessa a Mantova il 28 nov. 1418) e aveva l'autorità di incoronare G. una volta che ella avesse acconsentito alle condizioni impostele da Martino V.

Fra queste era contemplata la consegna di alcune fortezze del Patrimonio (Ostia, Civitavecchia, Castel Sant'Angelo) - compito affidato al Caracciolo -, nonché i servigi di Muzio Attendolo per allontanare una volta per tutte Braccio dallo Stato pontificio. Sia G. sia ser Gianni, che attendeva a Gaeta dopo aver eseguito la sua missione ed essersi recato a ossequiare a Mantova il pontefice, avrebbero volentieri gradito che lo Sforza partisse subito per ottemperare ai suoi obblighi, mentre questi insisteva per ottenere garanzie a cui si dovevano impegnare i deputati napoletani. Il gran connestabile era ancora ad Acerra quando Giacomo di Borbone, il 4 maggio 1419, salpò su un vascello genovese alla volta di Taranto, il principato assegnatogli dal patto sottoscritto nel 1416. Dopo essersi fintamente addolorata per la diserzione - ella temeva in realtà che potesse portare a una sollevazione favorevole alla fazione angioina -, G. richiamò con riluttanza lo Sforza a Napoli e incoraggiò gli Orsini, i precedenti signori di Taranto, ad assediare il marito fuggitivo. Alla fine del 1419 Giacomo ripartì di nuovo, diretto questa volta alla volta di Corfù, per poi recarsi a Venezia: la sua eccentrica vita ebbe termine nel 1438.

Terre e onorificenze si accumulavano frattanto sui parenti del pontefice, mentre la fiacca campagna condotta contro Braccio nell'estate del 1419 riusciva alla fine ad assicurare a G. la tanto sospirata incoronazione. Questa ebbe luogo il 29 ott. 1419: la regina sedeva su un palco collocato di fronte a Castelnuovo, scortata da molte guardie ma chiaramente visibile dal suo popolo. Tuttavia, solo sei giorni più tardi, Martino V ridimensionò quell'atto con la nomina di Luigi III d'Angiò a suo erede, nel caso, ormai certo, che G. morisse senza lasciare discendenti. Quando poi, nel gennaio 1420, il pontefice persuase lo Sforza a trasferire la sua fedeltà all'Angioino divenne chiaro che egli intendeva che questi prendesse il controllo del Regno mentre la regina era ancora in vita. La nuova ascesa degli Angiò, sostenuta da uno Sforza pieno di rancore, faceva presagire un destino funesto a ser Gianni, che aveva nel frattempo ripreso il suo ruolo di padrone sulla regina e il Consiglio. Perciò egli riuscì a convincere G. che le si aprivano due sole possibilità: dissuadere il pontefice dal suo proposito, oppure cercare un alleato che la difendesse dal prossimo attacco.

L'ambasceria, guidata da Malizia Carafa, che ella inviò a Firenze nel maggio 1420, fu accolta piuttosto freddamente da parte del papa; ma nella città ebbe luogo anche l'incontro con un emissario di Alfonso re d'Aragona, il quale promise di conferire con il suo signore, impegnato in quel momento a consolidare l'autorità aragonese sulla Sardegna. Al ritorno dalla sua missione, Carafa trovò lo Sforza che minacciava Napoli e i baroni che agitavano lo stendardo angioino, mentre circolavano voci di una flotta genovese che si preparava a portare Luigi nel Regno. Piuttosto che inchinarsi alla volontà dei nemici, che minacciavano di colpire il suo favorito e, forse, persino di metterlo a morte, G. decise che doveva rivolgersi nuovamente all'Aragonese. Perciò, nell'agosto 1420, il Carafa salpò alla volta della Sardegna con l'incarico di promettere ad Alfonso l'adozione e la nomina a erede al trono di Napoli, a patto che venisse in persona ad allontanare definitivamente il suo rivale dal Regno.

Mettendo da parte possibili obiezioni, il giovane monarca colse l'occasione che gli si presentava e inviò rapidamente una consistente flotta a riprova del suo impegno. Le galee aragonesi entrarono nel porto di Napoli il 6 sett. 1420, senza trovare resistenza da parte dei Genovesi che avevano sbarcato tre settimane prima Luigi d'Angiò; il giorno seguente G. sottoscrisse davanti agli emissari di Alfonso gli articoli dell'accordo che stabiliva l'adozione. Successivamente lo investì del Ducato di Calabria, appannaggio tradizionale dell'erede al trono, consegnò Castel dell'Ovo a una guarnigione aragonese e fece giurare ai deputati napoletani fedeltà al futuro re. L'effetto fu un momentaneo allentamento della tensione e una ripresa del morale, che doveva fare posto, tuttavia, a nuove preoccupazioni, quando si seppe che Alfonso era salpato alla conquista della Corsica e intendeva spingere Braccio verso Meridione contro lo Sforza. G., in novembre, gli assicurò il controllo dell'intero Regno, a patto che fosse arrivato in tempo, ma nel frattempo, nel timore che la sua mossa si dimostrasse inutile, mantenne prudentemente aperte le trattative con la fazione angioina: "così tenea le mane in doe paste" (Diurnali del duca di Monteleone, p. 105).

Alfonso salpò per la Sicilia nel febbraio 1421 per passare in rassegna le sue truppe e attendere l'arrivo di Braccio a Napoli. Quando ciò avvenne si imbarcò per fare il suo ingresso trionfale nel Regno: l'8 luglio 1421, accompagnato dal Caracciolo e da Braccio, sfilò in processione verso Castelnuovo dove G. lo accolse in modo cordiale, consegnandogli le chiavi della fortezza; la regina e la sua corte trasferirono in seguito la loro residenza a Castelcapuano. Il 20 luglio G. stilò un diploma con il quale venivano conferiti poteri quasi illimitati al suo figlio adottivo.
Per l'ennesima volta l'atmosfera di euforia evaporò nel disincanto, a mano a mano che i mesi passavano senza che fosse intrapresa alcuna azione per spezzare il blocco angioino della capitale; allorquando, in ottobre, Alfonso prese la decisione di intervenire, le sue truppe rimasero impantanate dinanzi ad Acerra. A G. non rimaneva altro che affidarsi a quanto il Caracciolo le comunicava circa i piani degli Aragonesi. A smuovere la situazione di stallo fu l'intervento di Martino V e di Firenze; il primo non aveva i fondi necessari per finanziare il suo protetto angioino ed era preoccupato che Alfonso potesse rinfocolare le spinte scismatiche; Firenze, invece, era interessata al commercio con il Regno e aveva bisogno di Braccio per affrontare l'aggressione dei Visconti. Insieme i loro emissari riuscirono ad arrivare a una tregua che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto portare alla partenza di entrambi gli eredi rivali. Ma il temporeggiare favorì Alfonso: Luigi abbandonò il Regno nel marzo 1422; in maggio, lo Sforza, disposto a tutto per salvare le sue proprietà, firmò una condotta con Alfonso; i sostenitori dell'Angiò, ormai abbandonati al loro destino, si dettero gran pena per raggiungere la pace. G. non aveva altra scelta se non quella di seguire nell'ombra il suo erede trionfante. Quando la peste scoppiò a Napoli, nell'aprile 1422, entrambi trasferirono le loro corti a Castellammare e quindi, in giugno, a Gaeta, dove Alfonso proseguiva nel suo tentativo di ottenere la ratifica papale del suo titolo.

Ma a quel punto le cose cominciarono a muoversi nell'altra direzione. Il legato pontificio a Gaeta morì in una caduta misteriosa, fatto che permise a Martino V di interrompere i negoziati; mentre il Caracciolo, sempre più a disagio nel ruolo di membro passivo del Consiglio di Alfonso, cominciò a complottare per riportare G. fuori dall'orbita del re. Egli iniziò a realizzare il suo proposito separando le corti: quando Alfonso spostò la sua ad Aversa, G. e il suo favorito si trasferirono a Pozzuoli. Al momento del loro ritorno a Napoli, nel Natale 1422, entrambe le fazioni era convinte che fossero in atto dei complotti. Le relazioni si deteriorano al tal punto che ser Gianni non si arrischiava a entrare a Castelnuovo senza un salvacondotto. Tuttavia anche questa cautela si dimostrò inutile poiché fu Alfonso a colpire per primo. Il mattino del 25 maggio 1423 fece prigioniero ser Gianni quando stava per entrare nel castello, poi si diresse immediatamente verso Castelcapuano con l'intenzione, come sostennero alcuni, di giustificare la propria condotta alla regina; mentre altri credevano che intendesse completare il colpo facendo prigioniera anche la sovrana. Comunque, al suo arrivo, trovò le guarnigioni sull'avviso e la città in armi e dovette faticosamente guadagnarsi la via del ritorno a Castelnuovo; ormai persuasa del pericolo che correva, G. fece appello allo Sforza il quale vide in ciò l'occasione per riguadagnare la sua influenza. Il 27 maggio Muzio Attendolo arrivava a Napoli da Benevento e, dopo avere avere sconfitto un raccogliticcio esercito aragonese, occupava la città. La situazione fu rovesciata di nuovo due settimane più tardi quando l'arrivo di una flotta catalana permise ad Alfonso di riconquistare Napoli dopo due giorni di durissima battaglia. Lo Sforza dovette di nuovo salvare G., scortandola dapprima a Pomigliano, quindi al castello degli Orsini a Nola e infine ad Aversa, dove poté finalmente rivedere ser Gianni, liberato in cambio di alcuni baroni aragonesi fatti prigionieri dalle armate dello Sforza.

Il piano di sfidare il papa e l'Angiò era andato clamorosamente fallito e non lasciava a G. altra possibilità che una trattativa. In primo luogo, ruppe i contatti con l'Aragonese: con un decreto del 25 giugno venivano confiscate le proprietà dei sudditi di Alfonso; il 1° luglio revocò l'adozione. Al suo posto subentrò Luigi III d'Angiò che fu adottato con una cerimonia ufficiale svoltasi di fronte al Consiglio riunito il 14 settembre. Nel frattempo, Alfonso si difendeva strenuamente nelle sue roccaforti sulla costa, riuscendo persino, in agosto, a conquistare Ischia; tuttavia, le prospettive in Italia, sempre più incerte, sommate alle pressioni spagnole che lo richiamavano incessantemente in patria per ridare maggiore stabilità alla Corona aragonese, lo spinsero ad abbandonare il paese il 15 ottobre. Egli sosteneva comunque che la sua adozione a erede al trono costituiva un atto irrevocabile e incaricò pertanto il fratello minore, l'infante Pietro, a difendere la sua causa.

Un'altra figura di rilievo doveva venire meno il 3 genn. 1424: lo Sforza morì affogato mentre stava marciando per rompere l'assedio di Braccio all'Aquila. Fu poi Braccio stesso a morire, nel giugno 1424, dopo quella che fu la prima grande vittoria ottenuta dal figlio di Muzio Attendolo, Francesco. In aprile Napoli, Gaeta e altre città erano state strappate al dominio aragonese, sotto cui rimanevano invece Castelnuovo, Castel dell'Ovo e alcune città nel Sud della Calabria. Luigi III, da parte sua, non creò alcun problema e visse pacificamente alla corte di G. fino all'ottobre 1427, allorquando fece ritorno a Napoli, per stabilire quindi la propria residenza a Cosenza, che era la capitale del Ducato di Calabria. Due anni più tardi partì di nuovo, in guerra questa volta, per combattere con i Francesi.

Contro ogni aspettativa, quindi, G. e il suo siniscalco vissero diversi anni di relativa tranquillità, dei quali non ebbero però l'intelligenza di disporre con saggezza. Nel 1425 G. lo investì del ducato di Venosa e della città di Capua e lo nominò gran connestabile. La nobiltà guardò inevitabilmente con sospetto a questa ascesa improvvisa, nonostante le alleanze matrimoniali con cui egli aveva inteso guadagnarsi la loro acquiescenza. Essi trascurarono inoltre di mantenere buoni rapporti con Martino V, non pagando il tributo annuale dovuto a Roma e non consegnando le proprietà che erano state promesse al nipote, Antonio Colonna. Il pontefice accusò il Caracciolo di queste inadempienze, mentre ser Gianni da parte sua si andava convincendo che Martino stesse complottando per eliminarlo e persino per detronizzare G. in favore del nipote, Antonio Colonna. I suoi timori crebbero allorquando la salute fragile della regina, che aveva dovuto affrontare una seria malattia nel 1428 e la cui vista si stava sempre più indebolendo, metteva a serio rischio il suo controllo sul Regno. Con un tentativo disperato di evitare il pericolo il Caracciolo si affidò ad Alfonso. Le ambascerie che furono inviate in Spagna, apparentemente da parte della regina stessa, assicuravano il re che ella lo amava ancora "com si fos son propri e natural fill" (Barcellona, Archivo de la Corona de Aragón, reg. 2692, c. 126v) e lo incoraggiavano a ritornare "com a bon fill e hereu e successor legitim" (ibid.). Ser Gianni fece ampie promesse che avrebbe fornito gli uomini e il denaro necessari per riconquistare il trono che si sarebbe presto reso vacante, "car madama era ja molt malata" (ibid., c. 127v). Ma Alfonso preferì temporeggiare non volendo gettarsi in tale avventura senza maggiori garanzie.

Ciò che salvò la cricca regnante dai suoi incubi non fu però l'invasione aragonese ma la morte di Martino V nel febbraio 1431. Il suo successore, Eugenio IV, caldamente assecondato dalla corte napoletana, si volse risolutamente contro la famiglia Colonna. Fedele alla propria indole, ser Gianni sfruttò la situazione a suo vantaggio per impadronirsi del ducato di Venosa; avrebbe anche consegnato il principato di Salerno a suo figlio se G., contro ogni attesa, non si fosse a questo punto opposta. Il rifiuto, che fu probabilmente occasione di un violento scontro tra i due, segnò una cesura radicale nella loro relazione. L'intimità sessuale era cessata da tempo, e sebbene ser Gianni avesse continuato a esercitare la sua influenza sul Consiglio per tutta l'estate fino all'inverno del 1431, mentre la corte risiedeva ad Aversa e a Pozzuoli, il suo potere diminuì rapidamente dopo che G. fece ritorno a Castelcapuano nel febbraio 1432. In età avanzata, la regina subiva ormai in maniera sempre maggiore l'influenza della cugina Covella Ruffo, duchessa di Sessa, dalla personalità decisa e nemica di lunga data del Caracciolo. Attorno alla duchessa si stringeva la fazione angioina, ostile ai legami che il siniscalco coltivava con l'Aragonese, e divenuta ancora più sospettosa quando Alfonso preparò la spedizione che lo portò in Sicilia nel luglio 1432.

Non ci volle molto a convincere G., da sempre abituata a che fossero gli altri a decidere al suo posto, che anche ser Gianni dovesse cadere. Con qualche apprensione ordinò che l'arresto coincidesse con una grande festa che si teneva a Castelcapuano per celebrare le nozze della figlia del Caracciolo. I suoi nemici, invece, fecero in modo che venisse ucciso nella sua camera da letto, nella notte del 19 ag. 1432, inscenando una sua resistenza all'arresto. La sentenza, che lo colpì dopo la morte, lo condannava per tradimento e usurpazione del potere reale. G. accettò tutto questo con la sua consueta passività.

Ben più pericoloso del favorito di G., ora assassinato, si doveva rivelare invece per il partito angioino Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, principe di Taranto, in quel momento dichiarato sostenitore dell'Aragonese. In risposta ai suoi inviti e a quelli dei suoi seguaci, Alfonso giunse a Ischia scortato da una grande flotta nel dicembre 1432, chiedendo di essere riconosciuto come successore di Giovanna. Tuttavia, venne a mancare il previsto sostegno dei baroni mentre il principe, da parte sua, esitò, cosicché la corte fu in grado di trascinare i negoziati finché Alfonso, reso impotente da una malattia che si era diffusa tra la sua flotta, acconsentì, il 7 luglio 1433, a una tregua di dieci anni e fece ritorno in Sicilia. Il principe di Taranto si trovava ora esposto a una ritorsione, che G., ignorando l'ammonimento del papa - "Tu hai spesso fatto esperimento dell'incertezza dell'esito d'una guerra" (Faraglia, p. 411) -, gli volle invece infliggere. La regina lo dichiarò ribelle e fece muovere contro di lui il suo capitano Giacomo Caldora, a cui si unì Luigi d'Angiò che ella richiamò a tale scopo dalla Calabria nell'estate del 1434. Essi stanarono l'Orsini da una città all'altra finché fu Taranto stessa a essere messa sotto assedio. Proprio nel corso dell'assedio il duca di Calabria si ammalò gravemente; riportato a Cosenza, vi morì il 15 nov. 1434 alla giovane età di trentun anni.

G. espresse la sua disperazione per questo tiro del destino: "Figliuol mio, ché non sono morta io? Mai sarò consolata quanto vivrò" (Faraglia, p. 413). Tuttavia, già dal 1427 G. aveva permesso che l'erede designato fosse messo in secondo piano; al punto che alla sua sposa, Margherita di Savoia, in occasione del viaggio che nel luglio del 1434 la doveva portare dal marito in Calabria, non era stato concesso nemmeno di entrare a Napoli.

Non rimase molto tempo per rammaricarsi delle scelte più avvedute che avrebbe potuto fare, poiché G. morì a Napoli il 2 febbr. 1435.
Fu seppellita con semplicità, come ella aveva desiderato, di fronte all'altare maggiore della chiesa dell'Annunziata: la sua lapide era costituita da una pietra semplice con sopra il suo nome, i titoli e la data della morte. Il testamento, che nominava come suo erede Renato d'Angiò (il fratello dello scomparso Luigi, in quel momento prigioniero in Borgogna), rifletteva gli interessi della corte e del Papato, e probabilmente anche le sue ultime volontà. La sfida alle tenaci ambizioni di Alfonso condannarono il suo Regno ad altri sette anni di guerra civile.

G. è stata oggetto di giudizi severi: da quello di Pandolfo Collenuccio che la ritrae come "instabile ed impudica" (p. 330), all'affermazione del Pontieri secondo il quale la regina fu "debole, volubile e per dippiù sensuale" (p. 76). Lungo tutta la sua vita rimase una figura nell'ombra, priva di quelle virtù del carattere necessarie a una regnante e di solide opinioni personali nelle questioni di Stato; giunta al trono impreparata e senza consorte, ella finì con il riporre una fiducia illimitata in uomini che si guadagnarono la sua confidenza attraverso gli affetti e che la sfruttarono per realizzare i loro interessi particolari. In assenza del comando spietato di cui il Regno necessitava, il governo centrale si atrofizzò e il potere cadde nelle mani di avventurieri militari e dei magnati che dominavano le province. I conflitti dinastici durati mezzo secolo spinsero i clan nobiliari a riunirsi in ampie e instabili coalizioni, a favore dei pretendenti al trono, i Durazzo o gli Angioini. L'elevata incertezza che dominò la questione della successione lungo tutto il regno di G. rafforzò inevitabilmente queste fazioni ed esacerbò le violenze tra di loro e contro lo Stato.

Un periodo così prolungato di quasi-anarchia ridusse il Regno a una condizione di indigenza e di insicurezza. Al momento della loro partenza nel dicembre 1421, gli ambasciatori fiorentini si espressero in questo modo: "Ci pare essere oramai fuori dello inferno; et in ogni luogo oltre alla guerra, fame e mortalità non piccola" (Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, p. 360). Non stupisce perciò se furono ben pochi, o quasi nessuno, i segni di vitalità nelle arti e nell'economia che contraddistinsero il regno di Giovanna. Una devozione convenzionale, più che un autentico amore per la musica, spiega verosimilmente la presenza di un piccolo coro che ella volle nella cappella reale. Dei suoi rari interessi per le arti figurative rimane a testimonianza ben poco tranne il monumento in stile gotico decadente che fece erigere in onore del fratello. I progressi nella letteratura furono nulli. In un Regno caratterizzato dall'uso della giustizia sommaria e dalla manipolazione della legge da parte dei favoriti, il sistema legale ebbe a mostrare purtuttavia alcuni progressi dovuti a brillanti giuristi tra cui Marino Boffa. Nel 1428 fu istituito un Collegio di dottori in diritto civile e canonico, che seppe completare negli ultimi anni di regno la codificazione della procedura che atteneva alla Corte suprema, la Magna Curia della Vicaria.
La guerra civile devastò e spopolò la capitale, aggravando in tutto il Regno l'effetto della peste e la penuria dei raccolti. In questa situazione di stagnazione, se non di vera e propria regressione economica, i mercanti fiorentini mantennero il loro dominio negli scambi a lunga distanza, sostenuti nei loro privilegi anche da G. stessa, che si trovava spesso in necessità di chiedere alla Repubblica prestiti e aiuti diplomatici. Le comunità ebraiche, che costituivano uno dei pochi esempi di iniziativa commerciale tra i suoi sudditi, acquistarono concessioni per scuole, sinagoghe, celebrazioni, cimiteri e pratiche commerciali, a eccezione di un breve periodo nel 1427 allorquando l'influenza di Giovanni da Capestrano aprì la strada a un'ondata di persecuzioni negli Abruzzi che ebbe termine, come era tipico, non per la saggezza di G. ma per una reprimenda proveniente dal pontefice.

Taliesin, il bardo

tratto da:www.treccani.it

p.s. La storia di Giovanna è dedicata idelamnete allo Scudiero dal cuore sincero di icona temporale Parsifal25. Ultimo custode di una Terra di maraviglie intrisa di Storia, bistrattata ed umiliata da un tempo moderno troppo distratto ed immaturo per inchinarsi alla maestà della sua corte...

Taliesin, il bardo

Guisgard 28-06-2012 15.43.22

Taliesin, più volte mi sono complimentato con voi per queste bellissime immagini di meravigliose donne che avete raccolto qui a Camelot.
Donne straordinarie, che davvero hanno fatto la storia e in certi momenti, alcune di esse, hanno reso più vicino il Cielo alla Terra.
Io passo spesso a leggere i nuovi ritratti che aggiungete a questa galleria e voglio ringraziarvi per aver scelto anche Beatrice.
Perchè credo accada sempre qualcosa di magico quando il suo nome ritorna ad illuminare la nostra Camelot.
Di questo passo, amico mio, non smetterò mai di essere in debito con voi :smile:

Taliesin 05-07-2012 15.39.17

LA SIGNORA DEI VELENI: LUCREZIA BORGIA

Fu davvero così bella Lucrezia Borgia, come asseriva Pietro Bembo tanto da conservare un suo ricciolo d'oro tra le proprie carte?
Non si hanno dati precisi sulla sua nascita, il più attendibile la farebbe risalire al 18 aprile 1480 a Subiaco (in provincia di Roma), terzogenita di Rodrigo Borgia e Vannozza Cattanei, ebbe tre fratelli: Juan, Cesare e Jofrè.

Lucrezia viene educata nel convento di San Sisto e in seguito affidata alla cure della cugina del Papa, Adriana Mila.
A dodici anni viene fatta fidanzare, per procura, con Don Gaspare da Procida, un nobile spagnolo. Vincolo che sarà poi sciolto dal padre che la diede in moglie a Giovanni Sforza.

Il matrimonio, avvenuto nel 1493, non nasce sotto i migliori auspici. Nella primavera del 1494 la coppia, che vive a Roma, si trasferisce a Pesaro, non si sa se a causa di un'epidemia di peste o per paura dei francesi. Il Papa impone che la sua amante Giulia con la suocera si unisca alla coppia.
Tuttavia Giulia contravvenendo agli ordini papali raggiunge il marito Orsino e nonostante Alessandro IV la rimproveri aspramente, non fa convincere a tornare da lui.

Successivamente, dopo la pace tra i due amanti, saranno proprio i francesi a catturare le donne mentre rientrano a Roma e solo grazie alla mediazione degli Sforza e ad un cospicuo riscatto, Alessandro VI potrà riavere le sue donne.

Al Papa le nozze della figlia non sono più tanto convenienti, questo lo intuisce anche Giovanni che torna a Roma per reclamare la moglie. Tutto inutile. E capisce che non gli conviene mettersi contro i Borgia che potrebbero toglierlo di mezzo molto in fretta.
Cerca allora appoggio dallo zio Ludovico il Moro, a Milano, ma è tutto inutile ed iniziano gli scontri e le ingiurie. I Borgia accusano Giovanni di essere un marito solo di nome, quest'ultimo accusa Lucrezia di essere l'amante del padre e del fratello.

I Borgia vogliono annullare il matrimonio, perché non consumato, Giovanni non cede. A Roma, intanto, si decide di far visitare Lucrezia che viene dichiarata virgo intacta. Il matrimonio viene annullato il 20 dicembre 1497, Lucrezia aveva 17 anni. Che motivo aveva il Papa per annullare il matrimonio, suscitando tanto clamore ed esponendo la figlia ai pettegolezzi ed al lubridio della folla? Comunque Lucrezia per riprendersi, si rifugia in convento, ma voci insistenti dicono che è un'altra la ragione.
Lucrezia deve partorire. Ma se il matrimonio non è stato consumato, se lei è stata dichiarata "virgo intacta" com'è possibile tutto ciò?

Si vocifera che il bambino sia di suo padre o di suo fratello Cesare Borgia, altri fanno svariati nomi. Non si ha nemmeno la prova che Lucrezia sia la vera madre, ma che il bambino sia figlio del Papa e della sua amante Giulia Farnese.
Il piccolo, battezzato Giovanni, passerà alla storia come "l'infante romano".

Il 15 giugno 1497 il duca di Gandia, Juan, fratello di Lucrezia, viene ripescato cadavere nel Tevere; subito i sospetti si addensano su Cesare Borgia che ha sempre ambito al posto di capitano delle truppe pontificie occupato da Juan. Alcuni invece affermano che Cesare abbia ucciso Juan, perché quest'ultimo era l'amante di Lucrezia e padre dell'infante romano.

Il 21 luglio 1498 Lucrezia si sposa nuovamente. Anche le nozze celebrate in Vaticano con Alfonso d'Aragona, duca di Risceglie, finiscono tragicamente.
Cesare Borgia, che era stato rifiutato da Carlotta d'Aragona, sposa Carlotta d'Albert di Navarra, re Luigi lo nomina duca di Valentinois in cambio dell'aiuto di Cesare a riconquistare il regno di Napoli.
Alfonso allarmato si rifugia dai suoi parenti, abbandonando Lucrezia che aspetta un bambino.
Sconvolgendo gli alti prelati, il Papa per risollevare il morale di Lucrezia, la nomina governatrice di Spoleto, dove svolgerà diligentemente il suo incarico.

Il 19 settembre 1489 Alfonso, dietro pressione del padre, raggiunge Lucrezia ed insieme tornano a Roma, dove nel mese di Novembre Lucrezia dà alla luce un maschietto che viene chiamato Rodrigo.
Il 15 luglio 1500 Alfonso viene ferito gravemente. Il colpevole è Cesare, motivo la gelosia nei confronti della sorella.
Assistito dai migliori medici del Papa, nonostante le gravi ferite, con grande gioia di Lucrezia, Alfonso riuscirà a guarire.
Durante la degenza Lucrezia non ha mai abbandonato il suo sposo, tuttavia il 18 agosto dopo averla fatta allontanare con un pretesto, Michelotto da Corella, sicario di Cesare Borgia, uccide Alfonso proprio nelle stanze di Lucrezia. Interviene nuovamente il Papa a consolare la vedova nominandola governatrice di Nepi.

Intanto, mentre Lucrezia è lontana, il Papa pensa ad un nuovo matrimonio per lei in cerca di nuove alleanze e incarica Cesare di raggiungerla a Nepi per comunicarglielo. Il candidato è Alfonso d'Este di Ferrara. Forse per Lucrezia, a 21 anni, si può aprire una nuova vita lontana dalla sua famiglia.
Tuttavia gli Este non la pensano così: troppe sono le maldicenze su Lucrezia. Ma nonostante tutte le contrarietà il 30 dicembre 1501 la nozze vengono celebrate: Lucrezia riuscirà, se non proprio a farsi amare dal marito, almeno a farsi rispettare, anche se verrà tradita ripetutamente.
Gli darà sette figli, tre dei quali moriranno subito dopo la nascita.
A Ferrara Lucrezia è finalmente serena, per quanto le sarà possibile continuerà a proteggere il fratello Cesare.
Lucrezia Borgia muore di setticemia a Ferrara, in seguito ad un parto, il 24 giugno 1519 a soli 29 anni.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.itarget.it





Altea 05-07-2012 16.44.58

Sir Taliesin, molto interessante, avete parlato di colei che tanto mi ha affascinato tale da far mettere alla mia pargola il suo nome...grazie mille :smile:

Taliesin 05-07-2012 17.43.04

Sicuramente la Fanciulla Lucrezia, vostra figlia, avrà gli occhi della madre per poter vedere attraverso le oscurità anche le più recondite, quelle che si legano al nome della "Signora dei Veleni", la cui rispettabile ufficialità della Storia dei vincitori, la volle in passato dipingere con colori che non sono stati mai collocati nel suo vero dipinto.

Montanelli, uno dei pochi Storici contemporanei scrisse di Lei "...Nacqe come una Principessa, visse come Donna di grandi tormenti e grando dolori, pre questo sicuramente morì come Santa"

Taliesin, il bardo

p.s. una carezza alla vostra Lucrezia, da un amico lontano...

Altea 05-07-2012 17.56.52

grazie per questa carezza...certamente la piccola ha occhi per vedere molto lontano, una bambina di grande personalità direi :smile:

Taliesin 12-07-2012 16.20.45

LA LEGGENDA DI MONTEBELLO: GUENDALINA MALATESTA

Guendalina (? 1370 - 21 giugno 1375), meglio conosciuta col soprannome di Azzurrina, fu la figlia di un certo Ugolinuccio, signore di Montebello (RN). Solitamente padre e figlia sono indicati col cognome Malatesta, famiglia signorile di Rimini che allora controllava anche Montebello, ma non si hanno fonti storiche che sanciscano tale parentela.

Scomparsa prematuramente, alimenta una leggenda popolare molto conosciuta in Romagna

La leggenda di Azzurrina sarebbe stata tramandata oralmente per tre secoli, presumibilmente venendo di volta in volta distorta, ampliata, abbellita. Solo nel '600 un parroco della zona la mise per iscritto assieme ad altre leggende e storie popolari della bassa Val Marecchia.

Guendalina era albina. La superstizione popolare del tempo collegava l'albinismo con eventi di natura magica se non diabolica. Per questo il padre aveva deciso di farla sempre scortare da un paio di guardie e non la faceva mai uscire di casa per proteggerla dalle dicerie e dal pregiudizio popolare.

La madre le tingeva ripetutamente i capelli con pigmenti di natura vegetale estremamente volatili. Questi, complice la scarsa capacità dei capelli albini di trattenere il pigmento, avevano dato alla bimba riflessi azzurri che ne originarono il soprannome di Azzurrina.

La leggenda narra che il 21 giugno del 1375, nel giorno del solstizio d'estate, Azzurrina giocava nel castello di Montebello con una palla di stracci mentre fuori infuriava un temporale. Era vigilata da due armigeri di nome Domenico e Ruggero. Secondo il resoconto delle guardie la bambina inseguì la palla caduta all'interno della ghiacciaia sotterranea. Avendo sentito un urlo le guardie accorsero nel locale entrando dall'unico ingresso ma non trovarono traccia della bambina. Il suo corpo non venne più ritrovato.

La leggenda vuole che il fantasma della bambina sia rimasto intrappolato nel castello e che torni a farsi sentire nel solstizio d'estate di ogni anno lustro (cioè che finisce per 0 e 5).


p.s. dedicato a quella legione di meravigliose creature così uguali eppure così diverse che hanno sfiorato il respiro della vita, stroncate da un tempo ostile e superstizioso che, dichiarandole streghe e maledette, cancellò loro il sorriso...

Taliesin, il bardo

Altea 12-07-2012 16.30.46

Sir Taliesin,
la storia di Azzurrina mi fa sempre rabbrividire, la conoscevo già, perchè nel mio piccolo spazio virtuale o regno virtuale addirittura qualcuno vi ha messo le foto di quella quasi grotta sotterranea, che io ho subito preferito non guardare tanto il volto di bambina sembra perfetto. Che sia vero o mistero? Come sempre..è tutta una altra storia.

Taliesin 13-07-2012 09.37.34

Milady che oggi gli Uomini chiamano Dea,
nell'estate dell'anno del signore duemilatre, un anno molto particolare nel linguaggio degli uomini cacciatori di fantasmi, volli giungere tra le braccia del magnifico maniero del Montefeltro incastonato nella pietra viva...
Riuscii con destrezza a divincolarmi dalle moderne guardie sui torrioni e sui banconi del commercio di portineria e soprattutto dall'improbabile ed immancabile guida turisca, specchietto di una storicità virtuale.
Raggiunsi così il corridoio angusto, ombroso e la famosissima porticina dove la piccola Guendalina sarebbe scomparsa inseguendo la sua palla...

C'erano degli uomini neri dall'aspetto malvagio che con bizzarre tecnologie voleva ricostruire non solo la sua voce ma anche il suo volto, immortalandola nelle loro oscene creature elettroniche, imprigionandola in un universo parallelo, uccidendola per la seconda volta...

Quando mi videro arrivare, forse per il mio vestire bizzarro, forse per lo strumento da cui raramente mi separo, si presero spavento ed indietreggiarono poichè non si aspettavano certo quella visita solitaria e fuori schema convenzionale...

Li tranquillizzai, ma allo stesso tempo ammonii aspramente le loro squallide azioni di disturbo verso la violazione stessa della Morte....

E quando mi chiesero chi credevo di essere per rivolgermi in maniera tanto irriverente a cotanti dottori e tecnici futuristici, io risposi dando loro le spalle "...il suo cantore..."

Nell'uscire dal maniero nello sconforto e nella depressione cosmica che mi aveva invaso, mi parve di vedere sul muro del corridoio due occhi azzurri che mi sorridevano ed io capii che quello che avevo fatto, anche se poco cosa al cospetto della stupidità umana, era cosa buona...

Ma questa, come dite giustamente voi Milady, è davvero un'altra storia...

Taliesin, il bardo

Talia 13-07-2012 10.50.07

Sebbene raramente io mi permetta di interrompere, devo dirvi, Taliesin, che questa trattazione si fa di giorno in giorno più interessante.
Ringraziandovi, dunque, per tante e tali straordinarie donne di cui ci mostrate con tanta dovizia i volti e gli animi... colgo anche l'occasione per rimandarvi ad una precedente discussione in cui si era parlato dell'affascinante e terribile storia di Azzurrina, qualora vi interessi:
http://www.camelot-irc.org/forum/showthread.php?t=261

:smile:

Taliesin 13-07-2012 11.21.36

Signora che Danzate tra le Sudate Carte,
come potrebbe non interessarmi il vostro puntuale consiglio, visto che proviene da quell'anima colma di pietas cristiana che solo lo sconfinato universo femminile può trasmettere?

Iniziai a scrivere Donne nel Medioevo tanti anni fa quando il collegamento virtuale che trasmette le emozioni nel tempo e nello spazio non esisteva, attorno ai fuochi d'autunno o presso gli umili bivacchi estivi, all'ombra di una primavera serena e senza acciacchi...

Non è un caso che le mie canzoni spesso parlano di quelle Donne e non è certamente un caso, e lo confesso oggi dopo tanto tempo e senza modestia alcuna, che sapere scrivere qualcosa di Loro l'ho potuto fare solo grazie a quella parte femminile che il Signore del cielo e degli acquitrini ha voluto donarmi...

Grazie per il vostro prezioso aiuto, con rispetto...

Taliesin, il bardo

Altea 13-07-2012 18.32.08

Sir Taliesin grazie per aver ampliato la storia di Azzurrina con il vostro vissuto..sono certa che ella, vi stia ringraziando con quegli occhi azzurri per il rispetto portato.

Taliesin 19-07-2012 13.15.09

Continua il nostro viaggio nella memoria di Donne nel Medioevo, e dopo l'emozione scaturita dal sapiente calamaio di Lady Altea, voglio narrarvi la breve storia apocrifa di una fanciulla, la prima colpevole del reato di sapere leggere e scrivere le scienze per far nascere i bambini...

Taliesin, il bardo

IL PRIMO SANTO ROGO: FINNICELLA DA ROMA

Rifugio dei peccatori. Vessillo dei combattenti. Medicina degli infermi. Sollievo dei sofferenti. Onore dei credenti. Splendore degli evangelizzanti. Mercede degli operanti. Soccorso dei deboli. Sospiro dei meditabondi. Aiuto dei supplicanti. Debolezza dei contemplanti. Gloria dei trionfanti. In totale fa dodici.

Esattamente come i raggi del sole che splende d’oro nel campo azzurro ormai quasi sbiadito della tavoletta con la croce. JHS, sta scritto sul legno.

E’ l’emblema della devozione a Nostro Signore. Sua è la croce riprodotta sulla tavoletta. A Lui vanno le labbra dei fedeli, che uno dopo l’altro si inginocchiano supplici a baciare la santa effigie, il Cristogramma che il buon frate porge alle masse adoranti durante e dopo la predicazione. Chi adora la croce si disfa del demonio, salmodia il prete. Chi bacia il legno santo abbandona i mali della terra.

Ed a Roma, nell’estate del 1426 c’è un disperato bisogno di purificazione.

Ora che la peste ha steso le sue ali nere sulla città, ora che i morti si accatastano ai bordi delle strade lerce, ora l’Urbe ha più bisogno dei suoi eroi, e massimamente dei santi che la riavvicinino alla perduta grazia di Dio.

E quel toscano, partorito nel secolo precedente nella casa dei senesi Albizzeschi in quel di Massa Marittima, fa proprio al caso del popolo. Bernardo, si chiamerebbe. Ma un po’ per la statura - che non è certo quella di un gigante, un po’ per quel saio immenso e lacero - indossato quando era ancora poco più che un ragazzino ventiduenne, tutti lo indicano con il diminutivo. Bernardino. E’ diventato adulto in fretta, Bernardino. Rimasto presto orfano, ha fatto ritorno alle sue origini, riparando da Massa a Siena per abitare nel palazzo delle zie, agiate vecchine che lo hanno sostenuto negli studi e rifocillato a dovere. Nel 1402, con l’abito monacale ancora fresco indosso, ha iniziato a girare in lungo ed in largo per l’Italia del nord. E’ solo un fraticello, dicono di lui quando lo incontrano. Poi apre bocca e chi se lo trova davanti allibisce. E’ il fervore di Dio in persona, dicono alla fine, mentre la sua modesta figura si allontana verso una nuova mèta. Cavalca il rinnovamento, quel Frate Minore che fa della religione del Cristo il suo scudo e sostegno contro i tempi avversi, la perdizione, le tentazioni della carne, la miseria. Devoto fino al midollo, non gli riesce di trascurare una virgola della vita del gregge. A partire dai suoi aspetti più pratici. E’ il primo teologo che, dopo Pietro di Giovanni Olivi, si fa carico di firmare di suo pugno un tomo intero dedicato all’economia. Materia sottile, in cui gli alfieri di Cristo al tempo non brillano certo. Ma lui no. Scrive di contratti, di proprietà privata, di etica commerciale, di valore e di prezzo. Abbozza il ritratto del giusto negozio, dell’onestà potenziale dell’imprenditore che non necessariamente è dannato per sua natura. Onestà significa utilità, dice, per l’intera società. Il commercio equo transita attraverso l’efficienza e la responsabilità, afferma, e procede grazie alla laboriosità ed all’assunzione del rischio. La proprietà esiste è ed un bene, almeno finché non appartiene all’uomo ma sussiste per esso, quale strumento per ingenerare miglioramento nel mondo. Non tollera la contesa, Bernardino. Lavora al telaio della diplomazia, piuttosto. Media. Riconcilia. Appiana. E parla contro i nuovi ricchi senza legge. E l’usura, soprattutto. Non sarebbero novità assolute, le sue. Ma quel che gli manca in termini di pensiero inedito lo recupera e surclassa quanto ad acume del ragionamento, con quella lingua tagliente e diretta che è il suo marchio migliore e più autentico.

Nel 1425 è ancora a Siena, e si dà al virtuosismo della predicazione. Legge e rilegge decine di volte i suoi discorsi. Almeno finché non li ha imparati a perfezione. Fino a che non ne è assolutamente convinto. In sette settimane non salta una predicazione giornaliera. Per ogni alba ha un discorso nuovo, rutilante, perfettamente logico e convincente. Pericoloso. Tanto che usurai e gestori delle case da gioco attive in città stringono un pactum sceleris e, a forza di denari, assoldano testimoni per convincere le autorità che egli sia un eretico. I signori di Siena mangiano la foglia e lo incriminano.





Bernardino intanto ha già abbandonato la città, i suoi passi instancabili già consumano l’antica via consolare che conduce a Roma. In Vaticano frattanto siede un Gran Maestro dell’Ordine di Cristo nato genazzanese presso i potentissimi Colonna. Il Papa numero 206 nei registri di Pietro. Ottone, ovvero Martino V, assurto alla gloria del regno di Dio in terra a
furor di concilio di Costanza, mentre la Chiesa cattolica si dibatte nell’ardua impresa di governare le bizze del trasferimento della curia da Avignone di Francia a Roma. Successore di Giovanni XXIII, Martino è l’uomo che ha scritto di suo pugno la parola fine sull’annosa questione dello Scisma d’Occidente. Un uomo che ama la moderazione e non tollera i tumulti. Che difende la pace ed a fatica tollera le turbative. Per questo quel frate ormai famoso non gli va proprio a genio. Eppure, in molti sono disposti a difenderlo a spada tratta. Uno di essi si chiama Paolo da Venezia, ed è un sommo dottore di teologia che si prende la briga di tirare giù un intero trattato in difesa di Bernardino, che nel frattempo è finito nel mirino della Santa Inquisizione complici le voci infami che dilagano sul suo conto in quel di Siena. Il processo formale al toscano si tiene proprio a Roma, e ne segna infine l’assoluzione con formula piena.

Se possibile, l’incidente con la legge non fa che aumentarne la già considerevole fama. Anche perché Bernardino si avvale del diritto di difendersi da sé, e lo fa proprio al cospetto di Martino V. Le sue parole sono ambrosia e fuoco. Riescono a smuovere perfino la pax granitica di quel Pontefice che non vuole scocciatori. Adesso è il Papa in persona ad insistere affinché agli rimanga nell’Urbe. Che diffonda le sacre vampe della fede in ogni dove, se gli riesce. Roma ha la peste. Ed un disperato bisogno di conforto. Il misero frate predica per 80 giorni consecutivi, ed affine se possibile le sue già acutissime arti. A molti dei suoi discorsi Martino presenzia, segretamente per tentare di trovare una falla in quel baluardo di fede. Ma è inutile. Bernardino è un leone di Cristo.

Al Papa non resta che convincersi ed abbandonarsi egli stesso alla malia. Gli si proponga la nomina ufficiale a Predicatore della Casa Pontificia. Un lustro assoluto. Che, come tale, l’umile monaco rifiuta con discrezione, opponendo ai fasti ecclesiastici un’umiltà che gli fa ancora più onore. A Roma diventa in fretta una celebrità, mentre stuoli di fedeli ignorano i già alti rischi di contagio per assieparsi alle sue prediche infinite. Tutti ascoltano, tutti acclamano, tutti si inginocchiano. E tutti posano le labbra sulle tavolette col Cristogramma, che Bernardino reca con sé durante i bagni di folla e che ormai anche la Chiesa più ufficiale ed altolocata ha finito per adottare ed inserire nel novero delle sue simbologie predilette. Dall’estate 1427 Bernardino è di nuovo a Siena, tornato su richiesta dei Signori della Cinta. Il sant’uomo è sfinito, sta sfidando i suoi limiti e con ciò pervertendo la sua stessa natura terrena, ma ha una nuova sfida da raccogliere e non può tirarsi indietro. Il santo va sempre e soltanto avanti. Porterà il verbo di Cristo nel clamore del Comune per 45 giorni a partire dalla metà di agosto. Il popolo lo avrebbe voluto Vescovo della città, ma per tre volte consecutive i nobili gli recano la proposta formale e per tre volte lui rifiuta recisamente. La sua è una virtù che rifugge i titoli. A Siena non esiste luogo di culto che possa aiutare nell’opera immane di contenere tutto il volgo. Dunque i Signori gli ordinano di prendere Piazza del Campo. Parlerà a partire dall’alba, in modo da coinvolgere tutta la popolazione disponibile, stazionando su di un altare improvvisato che viene tirato su in fretta tra due finestroni del Palazzo Comunale, o al massimo sporgendosi dal pulpito in legno che dopo qualche giorno le autorità gli concedono. Alla sua sinistra presenzieranno i Priori della Signoria, raccolti in una tribuna apposita suddivisa in due ali, la destra riservata alle donne e la sinistra agli uomini. Bernardino inizia l’opera, e celebra la Santa Messa per due ore filate, fino alle sette del mattino. A quell’ore, mentre le botteghe iniziano ad aprire i battenti ed i mercato termina il suo acconciarsi per il popolo, inizia instancabile a predicare. Conosce a menadito il latino, come tutti gli uomini di Chiesa del suo tempo. Ma parla al popolo minuto, e quindi preferisce affidarsi alle coloriture del volgare, per raggiungere il cuore e non solo le orecchie del suo uditorio. Finito con Siena, il frate riprende la sua vocazione itinerante di missionario inquieto. Nel 1431 è nella Ferrara degli Estensi, che lo vorrebbero vescovo.

Dal 1435 è in Montefeltro e nelle grazie di Federico, futuro Duca d’Urbino che resta scottato dalla sua profonda e vivida spiritualità. Anche qui rifiuta la nomina a vescovo. Cosa che tuttavia non gli riesce quando, due anni più tardi, viene nominato di prepotenza Vicario Generale dell’Ordine degli Osservanti, per poi divenire nel 1438 Vicario Generale di tutti i Francescani d’Italia. Ormai ha quasi sessanta anni. Sul suo capo, oltre al peso di un’invincibile stanchezza, grava la malattia che attanaglia le sue notti. Ma il vescovo aquilano Amico Agnifili ha un incarico che sembra fatto apposta per lui. Dovrà recarsi in terra d’Abruzzo e tentare di riconciliare le fazioni che insanguinano la città con l’ennesima faida interna.

E’ il maggio del 1444 quando Bernardino comprende che le sue forze stanno venendo meno. I suoi tentativi di mediazione producono buoni frutti, ma il tempo è tiranno ed il 20 Bernardo si riconcilia con la Grazia Divina che l’ha voluto alfiere della potenza e del perdono celeste. Al suo funerale interviene tutta la città, e mentre il sant’uomo viene deposto nella bara, qualcuno tra i presenti leva alte grida al cielo notando che il legno perde sangue vivo. La bara di Bernardino sanguina. Continuerà finché i litiganti aquilani non deporranno le armi. E’ un ritratto sacrale, quello che emerge dalle cronache dedicate a Bernardino da Siena. Infatti, appena sei anni dopo la sua dipartita, il Papa lo canonizza ufficialmente.

Un record per un campione della vera Fede. Non altrettanto, però, per l’immagine che sta accanto e dietro a quella del missionario, predicatore, evangelizzatore delle masse. Un’istantanea dai colori molto meno vividi, più oscuri anzi, che restituisce l’indizio di un uomo di Chiesa non esattamente retto ed anzi a tratti accecato dal suo prepotente integralismo.

E’ una strana immagine, quella del Bernardino “collaterale”.

Un quadro che fa a pugni con quello retto e magnifico ricordato negli scritti ecclesiastici ed ostentato nella pietra seicentesca della chiesa a lui dedicata nella romanissima via di Panisperna. Un secondo ritratto che prende le mosse proprio dai suoi giorni migliori, quelli delle prediche di piazza senesi e, soprattutto, romane.

In uno dei suoi capolavori d’ars oratoria, nel 1427, il frate avrebbe ammutolito Piazza del Campo tornando con la mente e col racconto ad alcuni fatti di cui era stato più che testimone negli anni trascorsi a Roma. Fatti riconducibili ad un nome che fece tremare l’Urbe.

Quello di Finnicella.

Prima fattucchiera finita tra le fiamme del Santo Rogo e vittima inaugurale della caccia alle streghe che, partita proprio dalla culla della cristianità, di lì a poco avrebbe insanguinato l’Europa intera, finendo per raggiungere addirittura il Nuovo Mondo. A Roma Bernardino aveva goduto di un pubblico di devoti in numero davvero impressionante, a motivo della sua vicinanza ai problemi quotidiani della plebe e, soprattutto, agli innumerevoli mali che ne minavano il giornaliero vivere. Plasmati da tanti discorsi e spunti ed esportazioni sulla ricerca della virtù e, più ancora, sull’abiura assoluta del male congenitamente presente in seno alla società, i romani avrebbero devotamente riportato al loro buon difensore le loro perplessità circa la condotta di una donna sul cui capo pendevano accuse a dir poco infamanti. Trenta infanti assassinati per suggerne il sangue ancora caldo, cui andava assommato perfino lo stesso figlio della donna, massacrato per farne polvere da ingerire in occasione di nefandi ed oscuri riti. Ce n’era abbastanza, insomma, per spiccare nei confronti di Finnicella un’accusa formale. Quella riservata ad una figlia del demonio. Quella per stregoneria.

Detto fatto, la donna venne portata in ceppi presso Bernardino, la cui eloquenza sembra fosse pari unicamente alla dedizione nella ricerca ad ogni costo della verità più recondita. Denunciata ed interrogata, Finnicella fu condannata alla pubblica morte nel luglio del 1426, in piena epidemia di peste. Forse, mondata l’Urbe della sua nefasta presenza, anche il morbo senza pietà avrebbe preso un’altra via. La sera dell’8 luglio il Campidoglio sprigionò alte vampe. Il prezzo dell’obbedienza cieca del volgo all’ancor più cieca dedizione del suo campione di fede, che assistette fianco a fianco al suo zelante e nutrito pubblico, intervenuto in massa pur di non perdersi lo spettacolo d’eccezione, agli spasmi dell’accusata. A nulla valsero le obiezioni sollevate da alcuni dottori, che testimoniarono come la donna fosse semplicemente un’ostetrica.

Le fiamme consumarono in fretta il suo corpo martoriato, mentre Bernardino consegnava alla storia il primo atto dell’atroce cronaca della caccia alle fattucchiere.

Verità o semplice leggenda? Diceria o evento fondato? A quasi sei secoli di distanza, il dubbio permane, e finisce per avvolgere il protagonista in negativo dell’ipotetica cronaca. Bernardino, l’alfiere della Grazia Divina. O piuttosto il principe dei cacciatori di megere?

Taliesin, il bardo

tratto da: www.sguardosulmedioevo.it Grazie a Simone Petrelli.

Taliesin 20-07-2012 12.41.34

TRA IL CANTO DELLE ALLODOLE: JACOPA DE' SETTESOLI

Quando morì, alla Porziuncola, San Francesco non ebbe intorno a sé soltanto i suoi frati. Ci fu anche una donna, l'unica donna e unica estranea presente alla morte del Santo, nella capanna che era stata sua ultima cella. Quella donna non fu Santa Chiara, chiusa tra le mura poverissime di San Damiano. A lei, tornando stremato ad Assisi, Francesco aveva mandato a dire che lo avrebbe rivisto dopo morto. Così fu infatti, quando il suo corpo, durante i funerali, passò e sostò davanti a San Damiano.

Eppure prima di morire Francesco desiderò di avere vicino una donna, un'altra donna.

Volle una presenza quasi materna, una mano affettuosa e forte al tempo stesso. La presenza fu quella di Jacopa de' Settesoli, la seconda delle due donne che, dopo Chiara, il Santo diceva di riconoscere.

Non era una donna giovane, Jacopa - o Giacoma, o Giacomina - de' Settesoli, la nobile vedova del nobile romano Graziano Frangipani. Francesco l'aveva incontrata a Roma nel 1219, durante una predicazione. Ella, donna fatta e vedova di illustre casato, aveva guidato con ferma mano il frate di Assisi per le vie dell'Urbe, come se fosse un figlio, appena maggiore dei suoi.

Da allora, Jacopa de' Settesoli era diventata la più valida collaboratrice dell'Ordine francescano nella città dei Papi. Fu lei a ottenere dai Benedettini la cessione dell'ospedale di San Biagio, che divenne il primo luogo romano dei Francescani, con il nome di San Francesco a Ripa.

Attiva e risoluta, pur essendo devota e affettuosa, Jacopa si poteva quasi dire un uomo, e infatti mentre Francesco chiamava sempre Chiara con il nome di sorella, chiamò Jacopa con il nome di fratello: Frate Jacopa.

Ella fu così la Marta francescana. Un giorno Francesco le regalò un agnellino, figura del Salvatore. Jacopa lo allevò, lo tosò, e con la sua lana tessé una tunica a Francesco. Era questo il carattere di Jacopa, che da ogni cosa sapeva trarre profitto e utilità.

Francesco, come abbiamo detto, la volle vicina prima di morire, e la mandò a chiamare a Roma. Da lei aveva accettato panno, cera e cibo, e anche certi dolci chiamati « mostaccioli », fatti con farina e miele. Anche quell'ultima volta le chiese di portare un lenzuolo, la cera per le esequie, e « quelle cose da mangiare » che ella gli preparava quand'era infermo a Roma.

Il messo era appena partito e Frate Jacopa, accompagnata da un figlio, era già ad Assisi, spinta da un affettuoso presentimento. Per lei, alla Porziuncola, venne tolta la clausura, che non era mai stata soppressa per Chiara.

Oltre al panno color cenere, alla cera e al lenzuolo, la donna forte aveva portato anche un fazzoletto ricamato e colorato, che era appartenuto al suo corredo da sposa. Dopo il transito del Santo, quando il corpo di Francesco restò nudo sulla nuda terra, Frate Jacopa deterse con quel lino il sudore della morte dal suo volto. Né parve strano che per quel gesto ella usasse un ricordo del suo terreno amore.

Dopo la morte del Santo, ella non si sarebbe più allontanata da Assisi.

Sarebbe restata presso la sua tomba, dedicandosi a opere di pietà e di carità. Dopo tredici anni, nel 1239, lo avrebbe seguito nel sepolcro, presso la chiesa di San Giorgio. E poi nella nuova tomba, nelle fondamenta della grande basilica di San Francesco, dove una lapide ancora la ricorda.

Taliesin, il bardo

Taliesin 20-07-2012 13.12.53

IL GENIO AL SERVIZIO DELLA CHIESA: DONNE NEL MEDIOEVO


http://media01.vatiradio.va/imm/1_0_504016.JPGUn recente ciclo di catechesi che ha impegnato nei mesi scorsi Benedetto XVI, durante i mercoledì dell’udienza generale, ha riguardato la descrizione della vita e dell’opera di alcune grandi Sante del Medioevo. Dal settembre 2010 alla fine del gennaio 2011, il Papa ha offerto una galleria di ritratti di santità femminile che hanno segnato in modo indelebile il percorso del cristianesimo nell’Europa e nel mondo. Alessandro De Carolis ricorda alcune di queste figure presentate da Benedetto XVI:

Giovanni Paolo II lo aveva argomentato in termini generali, e con un’ampiezza di gratitudine e di ammirazione quasi mai viste, scrivendo nel 1988 la Mulieris dignitatem. Benedetto XVI ha fatto altrettanto ma in termini specifici, individuali, cercando e scegliendo in quella “enciclopedia” dell’eccellenza umana che sono le vite dei Santi in questo caso di grandi Sante del tempo antico per dimostrare, con Papa Wojtyla, che non c'è stata un'epoca in cui il “genio femminile” non sia stato una pietra angolare della Chiesa. Inaugurando all’inizio del settembre 2010 il ciclo di catechesi sulle Sante medievali, Benedetto XVI cita un passaggio della Mulieris dignitatem:

“‘La Chiesa - vi si legge - ringrazia per tutte le manifestazioni del genio femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e a tutte le nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità; ringrazia per tutti i frutti di santità femminile’. Anche in quei secoli della storia che noi abitualmente chiamiamo Medioevo, diverse figure femminili spiccano per la santità della vita e la ricchezza dell’insegnamento”.

(Udienza generale, 1 settembre 2010)

Ciò detto, il Papa si trasforma in un narratore di figure celeberrime, o sconosciute ai più, che accendono di abbaglianti luci di carità e di sapienza gli anni cosiddetti “bui” della storia europea dopo l’anno Mille. Per mesi, attraverso le sue parole, sfilano davanti agli occhi della Chiesa contemporanea le donne che hanno costruito quella di mille anni prima. Dalla poliedrica monaca benedettina Ildegarda di Bingen – che di genio ne aveva da vendere, con le sue doti di letterata, musicista, cosmologa – al cuore di fuoco di Giovanna d’Arco, amica della verità del Vangelo e dunque nemica di ogni suo accomodamento:

“Santa Giovanna d’Arco ci invita ad una misura alta della vita cristiana: fare della preghiera il filo conduttore delle nostre giornate; avere piena fiducia nel compiere la volontà di Dio, qualunque essa sia; vivere la carità senza favoritismi, senza limiti e attingendo, come lei, nell'Amore di Gesù un profondo amore per la Chiesa”.

(Udienza generale, 26 gennaio 2011)

Nel mezzo, ritratti di mistiche e di donne d’azione, dove per entrambi il punto di partenza è l’amore per Gesù e quello d’arrivo l’amore per l’umanità che a Gesù va condotta. Un esempio di cristianesimo che brilla universale dalle ribalte discrete della preghiera e della contemplazione è, dice Benedetto XVI, quello di Chiara d’Assisi:

“‘Chiara infatti si nascondeva; ma la sua vita era rivelata a tutti. Chiara taceva, ma la sua fama gridava’. Ed è proprio così, cari amici: sono i santi coloro che cambiano il mondo in meglio, lo trasformano in modo duraturo, immettendo le energie che solo l’amore ispirato dal Vangelo può suscitare. I santi sono i grandi benefattori dell’umanità”.

(Udienza generale, 15 settembre 2010)

Dalle mura del chiostro a quelle del castello, il Medioevo annovera una Santa regina, Elisabetta d’Ungheria, icona della faccia più nobile del potere: quella che non teme di sporcarsi l’orlo del mantello a contatto con gente di rango inferiore, ma anzi porta di persona il cibo a chi ha fame, risarcimento alle vittime di ingiustizie, dignità nella miseria. Appoggiata in questo dal marito, il re Lodovico; il che – osserva il Papa – dimostra che il segreto della felicità di coppia sta nell’impegno, non nel disimpegno:

“Elisabetta aiutava il coniuge ad elevare le sue qualità umane a livello soprannaturale, ed egli, in cambio, proteggeva la moglie nella sua generosità verso i poveri e nelle sue pratiche religiose (…) Una chiara testimonianza di come la fede e l’amore verso Dio e verso il prossimo rafforzino la vita familiare e rendano ancora più profonda l’unione matrimoniale”.

(Udienza generale, 20 ottobre 2010)

Il Medioevo non è solo un’epoca storica. C’è un Medioevo anche oggi, un buio dello spirito che inquieta. Tutti noi, afferma il Papa durante una di queste catechesi, “siamo a rischio di vivere come se Dio non esistesse”, e questo significa che spesso si hanno per compagni il pessimismo e la sfiducia. Così, Benedetto XVI ricorda che i Santi sono degli ottimisti con delle ottime ragioni per esserlo. E parlando, nel dicembre scorso, della mistica britannica Giuliana di Norwich, ricorda il distillato della sua saggezza: se credi in Dio, tutto non può che finire in bene:

“Le promesse di Dio sono sempre più grandi delle nostre attese. Se consegniamo a Dio, al suo immenso amore, i desideri più puri e più profondi del nostro cuore, non saremo mai delusi. 'E tutto sarà bene', 'ogni cosa sarà per il bene': questo il messaggio finale che Giuliana di Norwich ci trasmette e che anch’io vi propongo quest’oggi.

(Udienza generale, 1 dicembre 2010)


Taliesin, il bardo

tratto da www.raiovaticana.org


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