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Visualizza versione completa : Personaggi Donne nel Medioevo


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llamrei
09-01-2009, 11.33.34
Devo dare datto che Sir Lancelot è una continua fonta di ispirazione :D
Ho pensato di aprire una discussione per parlare di "donne che hanno contribuito a creare la storia nel Medioevo".
Dicevo che ho preso spunto dal topic "Tavola Rotonda" perchè, presunzione femminile -chiamatela come volete :D:D- credo che non solo i Cavalieri siano stati artefici di tanto beneficio, ma anche le donne hanno contribuito a renderlo tale, prendendo atto che nel Medioevo la donna poteva disporre di una autonomia diversa rispetto all'uomo.
Se vi fa piacere io inizierei citando colei che "stimo moltissimo" e che considero una Grande donna:
Eleonora d'Aquitania
http://farm4.static.flickr.com/3298/3182182422_bdfe72e8c1.jpg
al secondo posto citerei
Dhuoda
http://farm4.static.flickr.com/3485/3181349993_69f2d5a1d1_o.jpg
al terzo
Matilde di Canossa
http://farm4.static.flickr.com/3261/3182183780_959452d3e3.jpg
al quarto (e mi fermo...ma l'elenco continuerebbe)
Teodora, sposa di Giustiniano
http://farm4.static.flickr.com/3530/3182183838_aa4353eccd_o.jpg

Lancelot
09-01-2009, 11.53.32
E' un detto spesso ripreso da alcuni letterati, e direi che sicuramente cela un grande sostrato di veridicità storica: spesso la politica internazionale si decideva nell'intimità dell'alcova. E non alludo soltanto ai matrimoni politici, o all'ascendente sensuale che una donna poteva esercitare su un potente, ma soprattutto al fatto che nell'intimità domestica spesso un uomo poteva bearsi del parere illuminato della sua consorte, laddove invece nei pubblici uffici non le sarebbe stato concesso di parlare o di esprimersi.
Penso che la mano, e la mente, di tali donne siano stati rilevanti nella decisione dei movimenti di buona parte dello schacchiere politico dell'epoca, data la loro naturale arguzia e finezza politica. I modi gentili e soffusi delle donne poi riuscivano a imporre obbedienza lasciando che il loro Signore pensasse all'idea da esse ventilata come a un'invenzione sua propria...

llamrei
09-01-2009, 12.52.00
Concordo appieno sir. Ricordiamoci che gran parte delle cortigiane erano donne che avevano una elevata cultura e arguzia che ben sapevano utilizzare dove meglio era il loro campo, sia per interessi propri che politici.
Molte di queste donne, però non hanno avuto la fortuna di essere ricordate ai posteri; hanno operato da dietro le quinte. Altre, per fortuna, sono ben state ricordate. E tra quelle che sono passate agli onori dei posteri vi sono quelle da me sopra citate.
Ah Sir: Teodora può essere compresa sia nella prima che nella seconda categoria ;)

Lancelot
09-01-2009, 13.28.57
Aggiungerei anche Bianca di Castiglia, la "Regina Vergine" Elisabetta I (che tutto era fuor che vergine, ma le conveniva farlo credere), Caterina De' Medici e Adelasia del Vasto.

Bianca di Castiglia (http://it.wikipedia.org/wiki/Bianca_di_Castiglia)

Elisabetta I (http://it.wikipedia.org/wiki/Elisabetta_I_d%27Inghilterra)

Caterina de' Medici (http://it.wikipedia.org/wiki/Caterina_de%27_Medici)

Adelasia del Vasto (http://www.stupormundi.it/Adelasia.htm)

llamrei
09-01-2009, 13.37.48
Complimenti!
Lascio a voi tutti di continuare l'elenco...anche se mi prudono i polpastrelli....vi è un nome che non posso...lasciar fuori dalla lista....
Maria di Champagne!!! Ecco!!! L ho detto!!!:sad_wall:

Lancelot
09-01-2009, 13.41.30
Vi prego di proseguire voi nell'elenco, il topic è troppo interessante e importante affinché sia affidato alle mie mani indegne :o

Mi accontenterò di fugaci apparizioni in vostro sostegno.

llamrei
09-01-2009, 13.49.40
E' corretto che siano anche altri a stilare un elenco. Ovviamente i nomi che ho citato io possono non essere graditi ad altri utenti e altrettanto può capitare a me. Quindi è doveroso che ognuno citi la propria preferenza e che lasci spazio a tutti di dire la sua. ;)

llamrei
11-01-2009, 13.39.24
Avendo citato Guglielmo IX nel topic dedicato agli uomini nel medioevo, non potevo fare torto alla viscontessa....:D
quindi, tra le donne cito:
Maubergeon

Peregrinus
14-10-2009, 22.10.09
Stilo la mia speciale classifica, mutuo Eleonora d'Aquitania da Ilamrei e procedo:

1 Eleonora d'Aquitania; perché è bella, perché è la madre di Riccardo, perché ha saputo governare il regno d'Inghilterra; in subordine ha conosciuto Guglielmo il Maresciallo ed Enrico VI;


2 Bianca Lancia, perché è la madre di Manfredi, perché era feudataria del feudio Montis Sancti Angeli e a quel feudo apparteneva anche Sipontum uno dei porti da cui si salpava per Gerusalemme; in subordine perché ha conosciuto lo Stupor Mundi;

3 Eloisa, «Al mio signore, anzi padre, al mio sposo anzi fratello, la sua serva o piuttosto figlia, la sua sposa o meglio sorella... ti ho amato di un amore sconfinato... mi è sempre stato più dolce il nome di amica e quello di amante o prostituta, il mio cuore non era con me ma con te»; perché se incontro una che mi ama così potrei anche sposarmi.

llamrei
15-10-2009, 20.42.15
3 Eloisa, «Al mio signore, anzi padre, al mio sposo anzi fratello, la sua serva o piuttosto figlia, la sua sposa o meglio sorella... ti ho amato di un amore sconfinato... mi è sempre stato più dolce il nome di amica e quello di amante o prostituta, il mio cuore non era con me ma con te»; perché se incontro una che mi ama così potrei anche sposarmi.


Bellissime parole ad un Abelardo innamorato.:smile_clap:

Taliesin
22-05-2012, 15.30.31
La passata notte un vento impetuoso ed irreale turbinava tra i meandri diroccati del mio vetusto maniero, e sotto la coltre di fumo di un vecchio e scricchiolante scaffale di castagno, vi era caduto un minuscolo libricino ad ore stampato nel secolo XVIII da un'antica tipografia rinascimentale...
Rannicchiato tra le polvere perenne e la muffa dei muschi di montagna che ombreggiano la mia malsana, l'ho raccolto con la dovuta cura: era un'autobigrofia romanzata della Gran Contessa del monaco Donizone...
Mi sono commosso nel rileggere cotanto ardore e passione ancestrale in una donna leggendaria e, tra le pagine consunte ed i rivoli celesti dipinti sul mio volto, ho pensato a quante Donne, in quell'epoca denominata per troppo tempo "Secoli Bui", hanno riscaldato il cuore ed il giaciglio i molti uomini, facendo crollare imperi e regni con una forza incontrollabile ed inimmaginabile...
Voglia questo essere, in un altro spazio e in un altro tempo, un mio piccolo omaggio...

Taliesin, il bardo

La Gran Contessa: Matilde di Canossa

Personaggio di primaria importanza nella storia del Medioevo europeo, Matilde di Canossa (1046-1115) è forse la figura storica più interessante del Medioevo nelle terre intorno al Po.
Nasce probabilmente a Mantova, dove il padre Bonifacio di Canossa ha una reggia, ma poi è costretta a fuggire con la madre, Beatrice di Lorena, perché il padre viene assassinato e muoiono misteriosamente un fratello ed una sorella.

La troviamo a Felonica, poi a Firenze, poi con la madre che si risposa con un vedovo, Goffredo il Barbuto, che ha un figlio, Goffredo il Gobbo, che viene promesso in sposo a Matilde stessa. Alla morte del patrigno, ella sposa il fratellastro in Lorena ed ha una bambina, Beatrice, che muore in fasce.
Fugge dal marito e si rifugia dalla madre a Mantova e poi a Pisa, dove Beatrice muore nel 1076. Matilde eredita così un dominio che andava dal Lazio al Lago di Garda, ed era strategico sia per i pontefici, quando dovevano essere insediati a Roma, sia per gli imperatori, quando dovevano essere incoronati.

Ella entra così nella lotta in corso tra impero e papato, giocandovi un ruolo prima di pacificatrice (anche perché era cugina di Enrico IV per parte di madre), come dimostra il famoso incontro di Canossa (28 gennaio 1077), poi di aperta sostenitrice del papato e della riforma della Chiesa. In questa scelta, ella mette in gioco i suoi poteri, in gran parte avuti per concessione dagli imperatori, ed il suo stesso dominio: dichiarata traditrice da Enrico IV, le si ribellano le città, ed anche i suoi possedimenti vengono invasi dalle truppe imperiali, restandole fedeli i castelli di Nogara nel Veronese, Piàdena nel Cremonese, Monteveglio nel Bolognese e Canossa nel Reggiano, come racconta il suo biografo, Donizone.

Donna di potere, controcorrente, al centro di uno scontro epocale, Matilde di Canossa diviene oggetto d’esaltazione da una parte (chiamata figlia di Pietro, ancella del Signore) e di denigrazione dall’altra (accusata di essere una meretrice, amante di Gregorio VII). In questo gioca un ruolo fondamentale l’essere donna: a lei il diritto longobardo assicura l’ereditarietà dei domini, ma ella ha sempre bisogno di un uomo che la sostenga e garantisca (il mundoaldo); da ciò la necessità di risposarsi, con un nuovo matrimonio, anch’esso fallito, con un ragazzino (Guelfo di Baviera), da ciò la nomina di un figlio adottivo nel conte Guido Guerra; da ciò, infine, la resa al nuovo imperatore, Enrico V, con l’accordo di Bianello del 1111, nel quale le viene riconosciuto di nuovo il potere sulla parte dell’Italia settentrionale del dominio canossano, in cambio della nomina dell’imperatore a suo erede, per la nota parentela.

Così, solo alla fine della sua esistenza terrena, Matilde può dedicarsi alla preghiera ed alla meditazione religiosa, verso la quale era portata fin da giovane, ma dalla quale fu sconsigliata addirittura da Gregorio VII di dedicarsi, perché era più prezioso il suo ruolo politico e militare in difesa del papato.

Morì a Bondanazzo di Reggiolo il 24 maggio 1115 e venne sepolta nell’amato monastero di San Benedetto Polirone, cluniacense, dove i monaci le eressero un adeguato sepolcro nella cappella di Santa Maria, con i noti mosaici, e la onorarono ogni anno con le loro preghiere.

Il suo ricordo, immortalato da un monaco di Canossa, Donizone, fu rafforzato con una pretesa donazione dei suoi beni alla Chiesa, e con una serie di leggende, anche popolari, che si diffusero fin dal basso Medioevo, e che, continuate sia a livello colto, che popolare sino ai giorni nostri, ne hanno fatto un personaggio mitico, non solo per le terre padane.

Ripercorrere la sua vita diviene così occasione per aprire una finestra su di un periodo cruciale della storia del Medioevo, e sugli uomini e sulle donne che vissero in quel tempo.

Taliesin, il bardo

(Informazioni tratte da: Matilde di Canossa - Donna di potere nel Medioevo, di Golinelli Paolo, docente dell'Università di Verona.)

ladyGonzaga
22-05-2012, 15.36.36
molto bello questo vostro nuovo argomento.
Lo seguirò con molto interesse:smile:

Taliesin
22-05-2012, 15.48.56
Il Fiore di Maremma: Margherita Aldobrandeschi

Figlia di Ildebrandino "il Rosso" conte di Sovana e di Pitigliano, nacque, forse, verso il 1255, poiché non doveva avere più di quindici o sedici anni quando fu celebrato il suo primo matrimonio con Guido di Montfort (febbraio 1270, secondo il Ciacci; seconda metà del 1270, secondo il Lisini).

Catturato Guido di Montfort nel 1287 dagli Aragonesi, durante la battaglia del golfo di Napoli, e morto prigioniero a Messina nel 1292, Margherita si trovò sola a fronteggiare le mire espansionistiche di Siena, tradizionale nemica degli Aldobrandeschi del ramo di Sovana. Forse già al momento della cattura di Guido, Margherita aveva stretto una relazione amorosa con Nello de' Pannocchieschi, signore di Pietra, in Maremma, con il quale, ove si debba accettare l'ipotesi del Ciacci, si sarebbe imita in matrimonio segreto, nella presunzione di avvenuta morte del marito, salvo ad abbandonare l'amante (o marito che fosse) nel 1290. Di questo periodo sono, infatti, le incursioni contro Orbetello, ove si trovava la contessa, di Ranieri d'Ugolino, signore di Baschi e Vi-tozzo, e di Ranieri di Montemerano, parenti di Margherita, miranti, probabilmente, a staccarla dal Pannocchieschi, sia che Margherita li avesse a ciò sollecitati, sia che essi agissero di propria iniziativa.

Di qualsivoglia natura fossero stati i rapporti tra Margherita e Nello de' Pannocchieschi, nel gennaio 1292 la contessa era in trattative con Napoleone Orsini, forse già in vista di un suo nuovo matrimonio con il fratello Orso Orsini, reso necessario dalle precarie condizioni in cui versava la contea minacciata dagli inquieti Comuni maremmani. Margherita sposò Orso nei primi mesi del 1292 e riuscì, grazie all'abilità del marito, a ristabilire i normali rapporti di reciproca tolleranza con Orvieto, rinnovando i giuramenti di amicizia e di cittadinanza già sottoscritti dagli antenati e dal primo marito, Guido di Montfort. In Virtù del nuovo matrimonio, Margherita riuscì a stipulare un trattato anche con Siena, il 5marzo 1294. Nuovi timori, tuttavia, per la contessa di Sovana e Pitigliano, sorsero quando anche Orso Orsini morì nell'ottobre del 1295.

Respinto un tentativo di Nello de' Pannocchieschi di riproporre la sua candidatura come terzo - e questa volta - legittimo marito, nonostante l'invio di un'ambasceria di cui, con ogni probabilità, faceva parte Binduccio, figlio di Margherita e dello stesso Nello, la contessa fu indotta da papa Bonifacio VIII a sposarne un nipote, Loffredo Caetani, il 19 sett. 1296, in Anagni. Il matrimonio, però, ispirato a evidenti motivi di predominio politico ambito da Bonifacio VIII sulla contea aldobrandesca, non durò a lungo, poiché, già nel febbraio 1297, Orvieto, in occasione di una rivolta di Pitigliano contro Margherita, inviava a proprie spese milizie "in adiutorium comitisse ",senza nessun riferimento a Loffredo.

Nulla più che ipotesi è dato di formulare a proposito delle vicende matrimoniali di Margherita con il Caetani: plausibile pare, tuttavia, quella che il pontefice, nel desiderio di isolare la contessa per poter. entrare completamente in possesso dei suoi beni, prendesse lo spunto dai suoi trascorsi coniugali alquanto torbidi per dichiarare nullo il suo matrimonio con Loffredo, al quale, nel 1298, procurava la mano della contessa di Fondi, Giovanna dall'Aquila, mentre, il 3 ottobre di quell'anno, ordinava al cardinale Gerardo Bianchi, vescovo di Sabina, di indagare sui precedenti matrimoni della contessa di Sovana, che venne di li a poco dichiarata bigama.

Certo è che già nel luglio 1298, l'A. doveva essersi imita con Guido da Santa Fiora, suo parente, cui da quella data i Senesi, come Margherita, si rivolgono negli atti pubblici, in occasione di lagnanze o di proposte di accordi. Nei primi mesi del 1299 - e cioè dopo che il precedente matrinionio con Loffredo era stato invalidato da Bonifacio VIII - Margherita era sposa di Guido, ricostituendo così, con grave pericolo per Siena e con minaccia implicita per lo Stato pontificio, l'unità dei due rami aldobrandeschi.

Si iniziò allora una vera e propria guerra tra gli Aldobrandeschi (di Sovana e di Santafiora) da un lato, e Siena e, in secondo tempo, Bonifacio VIII ed Orvieto, dall'altro. Nonostante l'apparente maggior peso militare e politico del gruppo controllato dal papa, le ostilità, dopo alterne vicende, non si conclusero con il pieno successo dei Senesi, perché questi, accortisi che Bonifacio VIII intendeva incamerare nella propria famiglia i beni aldobrandeschi, preferirono un compromesso con Margherita e con Guido di Santa Fiora. La lotta contro Orvieto e contro Bonifacio VIII si concluse invece nel 1302 con una richiesta di pace da parte di Guido (morto iopo poco).

Margherita, rimasta vedova per la terza volta, fu privata, dopo un breve periodo di tregua concessole dal papa, impegnato nelle difficili vicende della guerra del Vespro, di ogni diritto feudale con bolla del 3 marzo 1303 e costretta a sposare Nello de' Pannocchieschi.
Il provvedimento papale si giustificava formalmente perché Margherita aveva ceduto a Enrico e Bonifazio di Santafiora alcune terre dell'abbazia di S. Anastasio ad Aquas salvias,di cui godeva l'enfiteusi e che passò al nipote del pontefice, Benedetto Caetani.

Morto Bonifacio VIII, Margherita si separò dal Pannocchieschi e si rifugiò a Roma presso le figlie Anastasia e Maria, mentre le terre della contea erano corse da Nello e dalle soldatesche di Orvieto, che si era preoccupata dei tentativi compiuti dal signore di Pietra di ricostituire, ai danni del Comune, l'unità territoriale della contea.

Nel 1313 Margherita si recò ad Orvieto, dietro assicurazione di quel Comune, per abitare in un palazzo di sua proprietà; ma presto ne ripartì, adducendo a pretesto l'inadempienza degli Orvietani a certi patti con lei stipulati. Nonostante che avesse fatto ricorso ai senatori di Roma, Margherita non ottenne che Orvieto cedesse e prima di morire vide assegnata definitivamente la sua contea a Benedetto Caetani.

Margherita morì in epoca e luogo imprecisati.

Solo leggenda è la tradizione ispirata ai celebri versi danteschi (Purg.V, vv. 133 ss.) che vorrebbe Nello de' Pannocchieschi uxoricida nella persona di Pia de' Tolomei per amore dell'Aldobrandeschi.

Taliesin, il bardo

Fonti e Bibl.: Cronica Antiqua (Annales Urbe vetani),in Rer. Italic. Script.,2 ediz., a cura di L. Fumi, XV, 5, pp.125-136; Cronica Potestatum (Annales Urbevetani), ibid.,pp. 137-182; Cronaca di Luca di Domenico Manenti, ibid.,pp.269-414; G.Tommasi, Dell'Historia di Siena,Venezia 1625; Regesto di Atti originali per la giurisdizione del Comune,in Rer. Italic. Script.,2 ediz., XV, 5,a cura di L. Fumi, pp. 97-123; G.Caetani, M. A. e i Caetani,in Arch. d. soc. romana di storia patria,XLIV (1921), pp. 5-36; A. Lisini, La contessa palatina M. A. signora del feudo di Sovana,Siena 1933; G.Ciacci, Gli Aldobrandeschi nella storia e nella Divina Commedia,I, Roma 1935, passim.

Hastatus77
22-05-2012, 17.47.25
Ricordavo che era già presente una discussione con lo stesso argomento.
Ho provveduto ad unire le nuove e le vecchie informazioni.

Guisgard
24-05-2012, 00.36.13
Taliesin, belli ed interessanti i post che avete preparato su questo affascinante argomento.
Per tanto tempo un luogo comune ha visto il Medioevo come “l'epoca senza donne”.
Un giudizio tutt'altro che condivisibile, nato probabilmente in ambienti accademici troppo imbevuti della nuova rinascita umanistica e che poco conoscevano le straordinarie personalità che caratterizzarono questo straordinario periodo storico.
Personalità anche, ovviamente, di donne fuori dal comune.
Basti ricordare figure come Teodolinda, Eleonora D'Aquitania, Maria di Francia, Roswitha di Gandersheim, solo per fare alcuni nomi e senza poi dimenticare le grandi Sante e Mistiche che lasciarono un segno non solo in ambito religioso, ma anche culturale e politico come Santa Caterina da Siena, Santa Brigida di Svezia, Sant'Ildegarda di Bingen, Angela da Foligno.
Una discussione ed un tema dunque doverosi, che sanno arricchire la nostra visione sul quell'eccezionale periodo, così pieno, eppure ancora, in larga parte, poco conosciuto ed apprezzato fino in fondo :smile:

ladyGonzaga
24-05-2012, 00.54.50
spesso quando vi leggo rimango sbalordita dalle vostre conoscenze in materia.
complimenti anche a voi Guiscard:smile:

Taliesin
24-05-2012, 11.22.22
La Regina dei Trovatori: Eleonora di Aquitania

Giudizi e pregiudizi pesano su Eleonora d’Aquitania, due volte Regina di due Regni importanti e due volte sposata a due mariti illustri, ma colpevole d’aver vissuto in un’epoca in cui le donne erano costrette al silenzio.
Coltissima; spregiudicata; stravagante e dotata di forte personalità, incarnò lo scandalo: scandaloso, il suo ingresso a Vézelay, ove nella Pasqua del 1146 si presentò a Bernard de Clairvaux a cavallo e vestita dell’armatura; scandalosa, la sua partecipazione alla II Crociata; scandaloso, il sostegno politico offerto allo zio Raimondo d’Antiochia, suo presunto amante; scandaloso, il suo divorzio da Luigi VII di Francia; scandalose, le successive nozze con Enrico II d’Inghilterra e la relazione precedentemente intrattenuta con il suocero; scandaloso, l’appoggio alla ribellione dei suoi figli contro il padre; scandalosa, la sua Corte d’amore a Poitiers.

Tuttavia, se solo pochissime donne dominarono il Medioevo, ella spiccò fra esse.

Regina di Francia dal 1137 al 1152 e Sovrana d’Inghilterra dal 1154 al 1204; nata intorno al 1122 dal Conte Guglielmo X d’Aquitania e da Aénor di Châtellerault; cresciuta nella raffinata Corte del nonno Guglielmo IX ove ricevette una solida educazione in latino, musica e letteratura; ad otto anni già erede delle Contea di Poitou, dei Ducati d’Aquitania e Guascogna e dei territori di Saintogne, Marche, Limousin, Périgord e Angounois per la morte del fratello maggiore Guglielmo l’Ardito e poi di entrambi i genitori, era stata promessa al futuro Re di Francia Luigi VII che, pur destinato alla carriera ecclesiastica, a causa del decesso del germano all’età di undici anni: il 25 ottobre del 1131, fu consacrato a Reims.
Si sposarono il 25 luglio del 1137 nel palazzo di Ombrière a Bordeaux: nel Natale successivo, Eleonora fu incoronata a Bourges. Lo sposo, invece, pur investito dell’Aquitania nella cattedrale di Poitiers, ottenne il solo titolo di Duca consorte: il potente DUcato sarebbe stato annesso alla Corona quando e se fosse nato un erede maschio.

Guglielmo di Newburg testimoniò che egli era preso da amore ardente per la giovincella; tuttavia, fu presto evidente che la sua austerità non era compatibile col temperamento vivace e passionale della Sovrana cui la glaciale Aristocrazia francese manifestò tutta l’ostilità già tributata a Costanza di Arles un secolo avanti: a parte la propensione ai lussi e le presunte dissolutezze, infatti, le si imputò di esercitare sul marito quell’eccessivo e pericoloso ascendente causa di sconsiderate sviste politiche: la pretesa rivendicazione della Contea di Tolosa; il conflitto con Innocenzo II per la nomina di Pietro di Chartres a Primate di Bourges; la pressione esercitata su Rodolfo di Vermandois perché ripudiasse la moglie Eleonora di Champagne, preferendole Petronilla d’Aquitania; la conseguente scomunica a costui irrogata dal Papa; la guerra contro Tibaldo IV di Blois, presso il quale l’esule Prelato si era rifugiato; la conquista ed il sacco di Vitry-en-Perthois, risoltasi col massacro di oltre mille persone; l’interdetto abbattutosi sulla Francia.
Fu Bernard de Clairvaux ad indurre l’intrigante Eleonora a riconciliarsi con gli avversari e a guadagnarsi la revoca della scomunica.
Nel 1145, messa al mondo Maria, ella si dedicò al governo della turbolenta Aquitania incontrando le resistenze del Consigliere di Corte Abate Sugar, intollerante alla interferenze di una donna nella politica. In quel contesto, proprio il potente Abate cistercense di Clairvaux le chiese di persuadere Luigi a partecipare alla seconda crociata già bandita da Eugenio III, a seguito della caduta di Edessa.
Decisa a porsi al seguito dei contingenti del marito e dell’Imperatore Corrado III, Eleonora si presentò a Vézelay, per far voto di pellegrinaggio, in groppa ad un cavallo bianco e vestita dell’armatura, così suscitando l’indignazione della Comunità cristiana.

La Chiesa apprezzò lo zelo ma non l’offerta, pur condivisa da trecento signore, di assistere i feriti all’interno di una spedizione maschile ed anche le cronache coeve espressero durissimi giudizi, soprattutto per l’inopportuna scorta fornitale dal trovatore Jaufré Rudel.
Di fatto, maturò allora quella irreversibile crisi coniugale che la indicò responsabile della strage subìta dai Crociati al monte Cadmo nel 1148, quando l’avanguardia nella quale s’era posta col vassallo aquitano Goffredo di Rancon, contravvenendo agli ordini non attese il rincalzo delle retrovie guidate dal Re francese e fu decimata dai Turchi; responsabile dell’appoggio fornito all’ infausta decisione di riconquistare Edessa avanzata dallo zio Raimondo Principe d’Antiochia -col quale era accusata di intrattenere una relazione incestuosa fondata sulla comune memoria degli anni felici trascorsi a Poitiers- contro il programma di Luigi e Corrado III di puntare su Gerusalemme; responsabile, con la sua sconveniente condotta, della mancata conquista di Damasco e del complessivo esito negativo della crociata.
Di fatto, a spedizione conclusa, nel 1149 i coniugi approdarono in Italia su navi diverse recandosi nell’abbazia di Montecassino per chiedere il divorzio.
Di fatto, malgrado Eugenio III riuscisse a riconciliarli ed essi nel 1150 fossero allietati dalla nascita di Alice, la crisi si riacutizzò.
Di fatto, il 21 marzo del 1152, riuniti nel Sinodo di Beaugency, gli Arcivescovi di Bordeaux, Rouen, Reims ed il Primate di Francia, con l’assenso papale sancirono l’annullamento del vincolo nuziale per consanguineità di quarto grado, ambedue discendendo da Roberto II.
Conservando la legittimità, le due figlie restavano in quella Corte dalla quale si allontanava invece Eleonora, con i beni dotali d’Aquitania e Guascogna.

Ella s’era già invaghita del figlio della potente Empress Maud e del Duca di Normandia Goffredo il Bello: pur accusata d’essere già stata l’amante di costui, sposò Enrico il Plantageneto, di undici anni più giovane, il 18 maggio del 1152 a sei settimane dallo scioglimento del vincolo che l’aveva legata a Luigi VII. La sua cospicua dote, rendendolo padrone di gran parte della Francia, consentì al secondo marito di insediarsi al trono inglese nel 1154 col nome di Enrico II, quando Stefano di Blois firmò il Trattato di Westminster del Natale 1153, così risarcendo la usurpata cugina Maud e accettando di riconoscerne i diritti al figlio.
Se gli Inglesi indicarono il nuovo Sovrano come il Pacificatore, Eleonora fu addirittura celebrata nei Carmina Burana: entrambi furono incoronati il 19 dicembre del 1154.

A parte la prole femminile di primo letto: Maria, sposa del Conte di Champagne Enrico il Liberale e Alice, sposa del Conte di Blois Tibaldo V il Buono, Eleonora mise al mondo otto figli: Guglielmo Plantageneto, nato nel 1153 e morto nel 1156; Enrico il Giovane, nato nel 1155 e morto nel 1183, incoronato nel 1170 e coniugato a Margherita, figlia di Luigi VII di Francia; Matilda, nata nel 1156 e morta nel 1189, maritata al Duca di Baviera e Sassonia Enrico I il Leone; Riccardo Re, nato nel 1157 e morto nel 1199; Goffredo di Bretagna, nato nel 1158 e morto nel 1186, sposato a Costanza di Richemont; Eleonora, nata nel 1161 e morta nel 1214, impalmata da Alfonso di Castiglia; Giovanna, nata nel 1165 e morta nel 1216, moglie del Re di Sicilia Guglielmo II e poi del Conte Raimondo V di Tolosa; Giovanni senza Terra Re, nato nel 1166 e morto nel 1216. Tuttavia, l’infedele Enrico II predilesse; riconobbe ed allevò a Westminster il figlio naturale Goffredo di York, nato dalla prostituta Ykenai parallelamente al legittimo primogenito.

La vita privata e politica della coppia fu segnata da varie traversìe: il rifiuto dell’Aquitania a sottostare all’autorità del Sovrano; il fallimento dei tentativi di acquisire la Contea di Tolosa, attraverso la trasmissione ereditaria di Filippa di Tolosa; le nuove nozze di Luigi VII e il matrimonio di sua figlia Margherita con Enrico il Giovane; il contrasto col Cancelliere Thomas Beckett, Arcivescovo di Canterbury, rifugiato in Francia nel 1166 ed assassinato poi nella cattedrale nel 1170; il conseguente interdetto scagliato dal Papa sull’Inghilterra; l’isolamento della Corona inglese dal contesto internazionale; la scandalosa relazione del Re con Rosamund Clifford; il trasferimento di Eleonora che dal 1167 tenne Corte a Poitiers con la figlia Maria di Champagne, protettrice di Chrétien de Troyes, dedicandosi alla politica aquitana ed ospitando artisti, musicisti e letterati concorrenti alla diffusione dell’Amor cortese: Bernard de Ventadour ed i Normanni Benoît de Sainte-Maure e Wace; l’arresto e la detenzione della Sovrana; la duplice ribellione dei figli all’autorità del Padre/Re; le mancate nozze di Riccardo con Alice di Francia.

A fronte della morte del primogenito, Enrico II aveva destinato al figlio omonimo l’Inghilterra, la Normandia e l’Anjou; a Goffredo la Bretagna; a Riccardo la Contea del Berry e i territori di Guascogna, Aquitania e Poitou quando l’Arcivescovo di Canterbury Thomas Beckett, non considerandosi più suo servitore ma leader della Chiesa, insorse; si oppose nel Concilio di Clarendon del 1164 ad una proposta riferita alle reciprocità dei diritti e dei doveri; accusato di vlipendio e di irregolarità finanziarie, fuggì in Fiandra; inasprì la disputa nel momento in cui il Primate Ruggero di York ebbe incarico di officiare a Westminster la cerimonia di incoronazione del quindicenne Enrico il Giovane, posto sotto tutela di Guglielmo Marshall.
Era il 14 giugno del 1170.

Nel novembre successivo, l’irriducibile Presule tornò in Inghilterra e, deciso a riaffermare le proprie prerogative, minacciò di scomunica quanti, con quella celebrazione, avevano usurpato un diritto per tradizione spettante al Metropolita di Canterbury.
Il Sovrano, che in quel momento era in Normandia per trascorrervi le feste di Natale, se ne adontò e, certi di compiacerlo, quattro suoi fedeli vassalli: Reginald Fitz Urse, Guglielmo di Tracy, Ugo di Morville e Riccardo di Brito, il 29 dicembre assassinarono nella cattedrale l’ingombrante personaggio suscitando l’esecrazione di tutto il mondo cristiano.
All’interdetto lanciatosull’intera Nazione e sul Re dal Papa che subordinò il perdono a tre anni di espiazione ed al finanziamento di una crociata, si saldò il disastro familiare: Eleonora si era già trasferita da tre anni con i figli a Poitiers quando, nell’ulteriore amaro Natale del 1172, con i Re di Francia e Scozia e i vassalli aquitani e guasconi, aizzò il giovane erede contro il padre.

La rivolta, cui parteciparono anche Riccardo e Goffredo, suscitò la violenta levata di scudi dell’ Arcivescovo di Rouen che pronunciò parole di fuoco:...La moglie è colpevole quando si allontana dal marito… ritorna da tuo marito, altrimenti, con il diritto canonico, ti costringeremo a tornare da lui...
Enrico II, che aveva nel frattempo conquistato l'Irlanda e sottomesso il Galles, in una manciata di mesi ebbe ragione della sedizione e, nell’estate del 1174, dopo la sottomissione dei figli, fece arrestare la moglie; la fece rinchiudere a Chinon lasciandole il solo conforto dell’ancella Amaria; la internò poi nel castello di Winchester ed ancora a Sarum, tenendola segregata per ben tre lustri ed accingendosi ad ufficializzare la decennale relazione con Rosamund Clifford.
Nel 1176, tuttavia, costei morì forse avvelenata.
Sfumarono, così, il progettato divorzio e l’intenzione di confinare Eleonora nel convento di Fontevraud, dopo averle imposto i voti di povertà e la rinuncia a titoli e beni.
Fu davvero la Regina, come si sostenne a gran voce, la mandante del presunto assassinio della favorita?

La turbolenta famiglia si consegnò alla disgregazione definitiva nel 1183 quando, infuriato dal rifiuto opposto alle sue mire sul Ducato di Normandia di cui pure nominalmente era titolare, Enrico il Giovane si armò ancora contro il padre tendendogli un agguato a Limoges con la complicità del fratello Goffredo e del cognato Filippo Augusto, a sua volta infuriato dalle mancate nozze di Riccardo con Alice di Francia.
Non a caso già nel 1177 a nome di Alessandro III Papa, il Cardinale Pietro di san Crisogono aveva minacciato l’interdetto se quel contratto nuziale non fosse stato applicato e se non fosse stata posta fine anche alle scandalose dicerie di una relazione di Enrico II con la giovanissima futura nuora.
Il discusso Sovrano rabbonì il rivale, ma trattenne la fanciulla a Corte scoraggiando il figlio dal rompere la promessa di fidanzamento per non perdere l’appetibile dote del Vexin; quanto ai ribelli recidivi, assediata Limoges li mise in rotta.

Epperò, ammalatosi di dissenteria; consapevole d’essere prossimo alla morte ed aggredito dai rimorsi, il giovane erede implorò il perdono per sé e per la madre. Il decesso, presagito in sogno da Eleonora che ne raccontò nel 1193 a Celestino III, indusse Filippo Augusto a reclamare per conto della sorella vedova Margherita alcune proprietà in Normandia.
Enrico II ne sostenne, invece, la restituzione alla Regina/madre che pose in libertà sorvegliata alla fine del 1183 e riammise in Inghilterra.
Tutt’altro che doma, da quel momento ella prese a tramare per garantire la successione al prediletto Riccardo dileggiato per la sempre più accreditata relazione del padre con la sua promessa sposa.
In quel torbido clima, il problema ereditario fu inasprito dalla rivendicazione, da parte del nuovo candidato alla successione, dei territori dall’Inghilterra all’Anjou e dalla Normandia all’ Aquitania e al Poitou con esclusione del fratello Giovanni, cui il genitore intendeva assegnarli congiuntamente alla Corona d’Irlanda.

La contrapposizione padre/figlio coinvolse ancora la Corona francese e scatenò la guerra.
Quella violenta querelle, appesantita dalla scomparsa anche di Goffredo di Bretagna, si risolse solo il 6 luglio del 1189 con la morte dello stesso Re Enrico II.
Pur sospettato di averlo avvelenato, Riccardo ascese al trono e, incoronato a Westminster il 3 settembre, ordinò a Guglielmo Marshall il reintegro della madre in ogni sua prerogativa.
Parallelamente, Saladino metteva in ginocchio i Crociati ad Hattin: il nuovo Sovrano aderì al giuramento di liberazione del santo Sepolcro.
Il 2 febbraio del 1190 Eleonora si dette ad una serie di peregrinazioni nei suoi domini per raccogliere fondi utili alla crociata ed indennizzare il Re di Francia per le mancate nozze di Riccardo con Alice; poi, onde prevenire ulteriori pretese successorie, pur consapevole della omosessualità del figlio, si attivò per trovargli una moglie che individuò in Berengaria, figlia del Re di Navarra Sancho il Saggio. Prima di imbarcarsi da Marsiglia per l’Outremer, il promesso sposo affidò la reggenza del Regno alla ormai anziana Sovrana e designò Primate di York il fratellastro Goffredo.
Ella gli impose i voti, così condizionandone ogni eventuale rivendicazione ereditaria e, una volta al governo, elargì amnistie; costruì ospedali; assegnò fondi ai conventi; obbligò l’Alto Clero e l’Aristocrazia al giuramento di fedeltà al Re; fronteggiò strenuamente i tentativi di usurpazione posti in essere dall’altro figlio Giovanni. Paralelamente, Berengaria raggiungeva Riccardo a Cipro e lo sposava a Limassol.

Cuor di Leone espugnò san Giovanni d’Acri ma legò il suo nome al terrificante massacro di migliaia di uomini donne e bambini, prima di risolvere la sua marcia trionfale in quell’immane disastro che lo indusse a desistere dall’impresa proprio mentre il fratello espugnava Londra con l’appoggio francese.
E le sue vicissitudini non erano ancora concluse: sulla via del ritorno fu arrestato da Leopoldo d’Austria, su mandato dell’Imperatore tedesco Enrico VI che intendeva punirlo per il tentativo di impadronirsi della Sicilia, sulla base dell’asserito diritto maturato dalla vedovanza della sorella Giovanna. Eleonora ottenne la sua liberazione previo pagamento dell’ingentissimo riscatto di centomila marchi d’argento, portati personalmente a Magonza.
Rientrato in Inghilterra, Riccardo spodestò Giovanni col quale si riconciliò su pressione materna così cessando anche il conflitto anglo/francese: fra le clausole della tregua accettò di inserire l’ unione del dodicenne Luigi VIII di Francia con Bianca o Urraca di Navarra, figlie di sua sorella Eleonora e di Alfonso VIII di Castiglia. Tuttavia, prima che il trattato trovasse concreta applicazione, il 6 aprile del 1199 egli si spense a Châlus e gli successe Giovanni senza Terre, contro le giuste aspirazioni di Arturo I di Bretagna, figlio postumo di Goffredo.

L’affranta Eleonora presiedette all’incoronazione avvenuta il 27 maggio di quello stesso anno; protesse il Re dalle reazioni del nipote e si recò poi in Castiglia per scegliere la sposa di Luigi VIII; ma lasciata Poitiers, fu catturata da Ugo IX di Lusignano, partigiano del pretendente al trono: liberata, proseguì il viaggio attraverso i Pirenei e giunse a destinazione nel gennaio del 1200. Due mesi più tardi rientrò a Bordeaux con Bianca di Navarra, sotto scorta del celebre Mercadier il cui assassinio la sconvolse al punto da ritirarsi nell’abbazia di Fontevrault dopo aver affidato la giovane al Primate di Bordeaux.
Alla ripresa della guerra franco/inglese, Arturo di Bretagna tentò ancora di assumere il controllo dell’Aquitania e, durante il viaggio verso Poitiers, internò la nonna nel castello di Mirabeau: fu Giovanni, ora sposo della tredicenne Isabella d’Angoulême, a soccorrerla e a sconfiggere ed arrestare il ribelle, morto avvelenato in carcere nel 1203 forse per suo stesso ordine. A quel punto, l’ottantaduenne Eleonora tornò nel convento di Fontevrault; vi prese il velo e vi si spense nel 1204, dopo aver dato sepoltura a ben otto dei suoi dieci figli e dopo una vita intensa e lunga, accompagnata alla definizione di donna/scandalo ma anche di leggendaria protagonista del secolo.
Il monaco Alberico scrisse della sua indomabile propensione alla lussuria propria del suo sesso ... Luigi l’aveva lasciata per la sua incontinenza, infatti questa donna non si comportava da regina ma piuttosto da puttana....

Molti, al contrario, la ritennero vittima della freddezza dell’inadeguato Luigi e della brutalità dell’intemperante Enrico.

In realtà ella fu una irriducibile anticonformista, ostile al Clero e ad ogni sorta di bigottismo ipocrita; abile diplomatica; Regina illuminata e rispettosa delle esigenze dei sudditi; raffinata, affascinante e sensibile mecenate, tale da dare propulsione al modello ed alle tematiche dell’ amor cortese che concorse a diffondere nel Nord della Francia ed in Inghilterra con intellettuali come Benedetto di Saint-Maure; Bernard de Ventadour e Chrètien de Troyes.

Taliesin, il bardo

Bibliografia:
G. Duby: Medioevo maschio. Amore e matrimonio
J. Le Goff: L’immaginario medievale
J. Markale: Eleonora d’Aquitania, la Regina dei Trovatori

Taliesin
24-05-2012, 14.09.44
La Poetessa di Re Artù: Maria di Francia

Maria di Francia nacque nella seconda metà del XIII sec e fu una poetessa francese del Medioevo, celebre per i suoi lai -novella in versi - scritti in antico francese

Visse nella seconda metà del XII secolo e si crede sia stata badessa di un convento (probabilmente quello di Barking). La sua opera sviluppa le tematiche dell'amor cortese trascrivendo leggende della Materia di Britannia. Prima scrittrice francese, di lei non si sa praticamente nulla, se non ciò che essa stessa scrive nell'epilogo della sua opera: Marie ai num, si sui de France ("Il mio nome è Maria e sono di Francia"): vissuta probabilmente alla corte di Enrico II d'Inghilterra e di Eleonora di Aquitania.
Numerose sono state le ipotesi sulla sua identità:

Marie di Meulan, ipotetica figlia di Garelan IV de Meulan, studioso e letterato, a cui è dedicata la Historia regum britannie, il quale però non risulta che avesse avuto una figlia di nome Marie. È esistita una badessa Marie di Meulan, ma sarebbe morta entro il 1000, mentre i Lais sono stati scritti fra il 1160 e il 1175.
Marie d'Ostillie, badessa e secondo alcuni sorellastra di Enrico II, secondo altri figlia di un uomo di fiducia del re. Entrata in tenera età in convento, mentre la cultura dell'Autrice dei Lais mostra chiaramente la sua vicinanza all'ambiente di corte di Enrico II e alle querelles letterarie coeve.
Marie di Blois, principessa d'Inghilterra, badessa del monastero di Romsey, ma in pessimi rapporti con Enrico II, quindi non si spiegherebbe, oltre la vicinanza culturale all'ambiente di corte, anche la dedica al "nobile re" presente nel prologo.
Marie sorella di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury. Maria sarebbe diventata badessa del monastero di Barking, monastero che conservava la tomba della badessa sorella dell'arcivescovo. Questa ipotesi, formulata da Carla Rossi, è la più probabile perché innanzitutto è quella più compatibile con i dati anagrafici: la badessa non sarebbe entrata da piccola in convento, ma da vedova, secondo un uso molto diffuso all'epoca. In secondo luogo i testi di Maria di Francia sono stati più volte trasmessi da manoscritti tramandanti testi strettamente legati a Thomas Becket.
Marie di Francia, secondo R. Baum, non è mai esistita e il suo nome è una pura invenzione letteraria che mette insieme un primo nome "Maria" che vuole indicare un'identità letteraria portatrice della cultura e dei valori cristiani all'indicazione "de France" che non deve essere interpretata in senso geografico, ma culturale: l'autore si richiama direttamente alla cultura e ai valori celebrati in quello che era allora il centro culturale più prestigioso: Ille de France. Tra gli studiosi che hanno fatto propria questa ipotesi, non è mancato chi ha veduto la raccolta di Lais come opera di diversi autori, cosa che stride notevolmente con la palese unità stilistica dell'opera.
I lais

Il capolavoro di Maria è una raccolta di dodici lais, scritti tra il 1160 e il 1175, brevi racconti in ottosillabi a rima baciata, dei quali il più corto è il Lai du Chèvrefeuille, che narra un episodio della leggenda di Tristano e Isotta in 118 versi, e il più lungo è l'Eliduc di 1184. Secondo Avalle, l’ottosillabo deriverebbe dal dimetro giambico, metro caratterizzato da un ritmo veloce.

L'etimologia della parola "lai" (singolare di "lais") è tuttora incerta. Una delle ipotesi più credibili è la derivazione dalla parola (ricostruita) celtica "laid" con il significato di "canto" da cui deriverebbe anche il tedesco "lied" (canto). Questa ipotesi etimologica è supportata dal fatto che i lais venivano cantati o recitati con l'accompagnamento di arpa o viola. Il dittongo –ai si pronuncia [ε], monottongamento molto precoce nel francese antico.
I lais di Maria di Francia presentano un prologo in forma poetica, cosa molto frequente durante il Medioevo, epoca in cui anche testi didattici, filosofici, precettistici venivano redatti in versi. Il metro usato per questi componimenti è l'ottosillabo che secondo Avalle deriverebbe dal dimetro giambico latino. Questi racconti in versi presentano ciascuno un piccolo prologo e un epilogo ed una struttura costante: un'introduzione, uno svolgimento, una conclusione. I luoghi citati a volte sono mitici altre volte reali.
Le fonti dei suoi componimenti sono diverse: in alcuni lais si tratta di fonte orale, in altre di fonte scritta, altre volte la storia viene presentata semplicemente con l'accenno dell'Autrice: "Secondo il racconto che conosco". Maria dichiara nel prologo di aver scritto i suoi testi derivandoli da leggende bretoni: in effetti uno solo è propriamente arturiano, il Lai de Lanval in cui compaiono eroi tipici del mondo arturiano, come Galvano e Ivano.
Tutti i suoi racconti narrano vicende d'amore, spesso adultero, che sono poi sistematicamente il motore dell' "aventure" che si svolge sullo sfondo del mondo reale, ma che vedono la presenza di elementi del meraviglioso, mescolando tematiche e tono cortesi, alla magia delle leggende celtiche, ad immagini e topoi evangelici a elementi tipicamente ovidiani.
Alcuni dei lais possono essere raggruppati secondo un tema dominante, per esempio: Yonec, Lanval e Bisclavret sono accomunati dalla presenza del paranormale, Milun e Fresne dalla tematica del rapporto genitori-figli, Deus amanz e Laustic dall'amore triste.
I protagonisti non sono grandi eroi o famosi re, ma semplici cavalieri e semplici dame spesso in situazioni drammatiche che tendono a ripresentarsi in situazioni topiche come il caso della donna malmaritata, del marito vecchio e geloso, genitori che allontanano il figlio, luoghi magici riservati a iniziati.
La raccolta di lais, nell'ordine tramandato dal manoscritto Harley 978, presenta i seguenti testi:

Prologo. Nel prologo L’Autrice afferma di aver ricavato la materia da leggende bretoni. Un solo Lai è, infatti, propriamente arturiano: Lanval. Questo prologo è tramandato dal codice Harley 978 (siglato H), redatto in un monastero anglonormanno in Inghilterra nella seconda metà del XII secolo. Verosimilmente, il prologo è stato scritto dopo i lais e contiene costanti riferimenti alle auctoritas evangeliche e tardo latine. l’Autrice ricorre al topos della sapienza come lucerna, e come tale va tenuta in alto, in modo da portar luce a quante più persone possibili.
Lai de Yonec. Risalente ad un’antica leggenda irlandese del IX sec. Racconta la storia dell’amore adulterino con elementi fantastici.
Lai de Frêsne. In seguito ad un parto gemellare,Fresne(Frassino), giovane dolce e remissiva, viene abbandonata. Questo lai è accomunato a Milun dalla tematica dello scontro generazionale. I modelli sono rintracciabili nella commedia nuova di Menandro e Terenzio.
Lai du Chaitivel (Quattre dols). “Cattivello” detto anche “Quatre dols” ( Quattro dolori). Sviluppa il tema della donna affascinante, seduttiva e pericolosa.
Lai de Lanval. È accomunato a Yonec dalla presenza del meraviglioso. È la storia di una fata che si innamora di un essere umano e che lo porterà con sé ad Avalon. Presenta numerosi elementi arturiani. I modelli vanno rintracciati in racconti biblici, e in racconti classici come Fedra e Ippolito.
Lai de Milun. Il tema dominante è quello dello scontro genitori-figli. Milun, nato da una relazione extraconiugale, viene fato allevare dalla zia lontana. Come in Fresne, anche qui appare il motivo del segno di riconoscimento di impronta arturiana.
Lai des deus Amanz. Sviluppa il tema dell’amore e morte, con modelli rintracciabili in “Piramo e Tisbe”.
Lai d'Eliduc. Versione con patina bretone del tema del marito con due mogli. L’etimologia del nome va ricondotta a “Eles deus” .
Lai du Bisclavret. Narra la storia di un uomo che si trasforma in lupo. I modelli che hanno ispirato questo lai si possono rintracciare in Erodoto, Plinio e Petronio. L’etimo del nome è incerto; secondo Rychner, deriverebbe da “bleiz lavaret” ( lupo parlante); un’altra ipotesi è da “bisc lavret” (coi calzoni corti).
Lai de Guigemar.
Lai d'Equitan. Un cavaliere si innamora della moglie del vassallo, e quindi, insieme alla donna, tenta di uccidere il marito di lei, ma il piano va male e saranno loro a morire. Si ha in questo lai un ricorso al triviale e si riscontra la presenza di un proverbio finale. Il tono sardonico che lo caratterizza lo accomuna a Chaitivel.
Lai du Chievrefoil. Narra un episodio della storia di Tristano e Isotta assente negli altri manoscritti che tramandano la vicenda, ad eccezione di un riecheggiamento in un codice tedesco.
Lai du Laustic o Lai de l'eostic (dal bretone eostig = "usignolo"). Tratta dell’amore contrastato e, come Yonec, della figura della malmaritata. È presente il motivo antico del cuore mangiato.
Favole

Oltre ai Lai, Maria di Francia è autrice di un Ysopet, una raccolta di favole esopiche in prosa (scritte tra il 1167 e il 1189): si tratta del primo adattamento in lingua francese delle favole di Esopo (di qui il termine ysopet), o che si presumeva fossero di Esopo. La principale fonte degli ysopet di Maria è la silloge Romolus in lingua latina.
Maria attinse tuttavia anche a un volgarizzamento in antico inglese attribuito adAlfredo il Grande. Il genere si è sviluppato in epoca medievale, soprattutto nella Piccardia (da qui la "i" del termine "fabliaux" che derivando dal latino "fabula" dovrebbe evolversi in "fableau").
Taliesin, il bardo

Carla Rossi, Marie, ki en sun tens pas ne s'oblie; Maria di Francia: la Storia oltre l'enigma, Rome, Bagatto Libri, 2007.

Carla Rossi, Marie de France et les èrudits de Cantorbéry, Paris, Editions Classiques Garnier, 2009.

Léopold Hervieux, Les fabulistes latins depuis le siècle d'Auguste jusqu'à la fin du moyen âge. Paris : Firmin-Didot, 1899

Taliesin
24-05-2012, 16.22.22
La Pulzella di Dio: Giovanna d'Arco

Giovanna d'Arco, la figlia più piccola di una famiglia di contadini del villaggio di Domrémy, in Francia, nacque nel 1412, in un periodo in cui la nazione era sotto la dominazione inglese a seguito della sanguinosa Guerra dei Cent'anni. Inoltre, la regione era stravolta da una guerra civile che vedeva gli Armagnacchi, partigiani del re, schierati con gli inglesi contro i Borgognoni. Uno dei fattori decisivi di questo conflitto interno era rappresentato dal controllo della città di Orléans, situata in posizione strategica sulla riva della Loira. Una sola cosa avrebbe potuto salvare la Francia e farle superare il suo periodo più oscuro... un miracolo.
Alla morte dei re Enrico V di Inghilterra e Carlo VI di Francia, avvenute entrambe nel 1422, gli inglesi proclamarono Enrico VI, allora ancora bambino, re di Inghilterra e di Francia. L'erede legittimo al trono francese, Carlo VII, si rifiutò di abdicare ribadendo i suoi diritti di successione al trono, ma non potè far celebrare la sua incoronazione secondo il rito ufficiale che avrebbe dovuto tenersi nella città di Reims, allora sotto il dominio inglese.
Nel frattempo, nel villaggio di Domrémy, la tredicenne Giovanna d'Arco trascorreva la sua adolescenza in preghiera. La giovinetta non solo era solita confessarsi più volte al giorno, ma spesso udiva "voci" celesti e aveva strane e sorprendenti visioni.
Ella stessa racconta:
La voce mi disse che dovevo lasciare il mio paese per recarmi in Francia. E aggiunse che avrei posto in assedio la città di Orléans. Mi ordinò di recarmi a Vaucouleurs, da Robert de Baudricourt, capitano della città, che avrebbe affidato alcuni uomini al mio comando. Risposi di essere una semplice ragazza che non sapeva andare a cavallo e ignorava come si conduce una guerra.

Sin dall'inizio le fu comunicata la sua missione: era stata scelta da Dio per salvare la Francia e aiutare il Delfino Carlo VII, erede legittimo al trono. Per portare a compimento quanto le era stato comandato avrebbe dovuto indossare abiti maschili, brandire le armi e condurre un esercito.
Un giorno, al suo ritorno dai giochi nei campi, Giovanna scopre che gli inglesi hanno invaso il suo villaggio. Nascosta in una credenza, assiste alla morte della sorella diciottenne, violentata e uccisa da alcuni soldati inglesi. In seguito a questo tragico evento, Giovanna viene mandata a vivere dagli zii in un villaggio vicino. Può sembrare alquanto improbabile che questa giovane ragazza innocente, che non era mai andata a scuola e non sapeva né leggere né scrivere, avrebbe un giorno condotto l'esercito francese alla vittoria sulla grande potenza inglese. Eppure nel maggio del 1428, Giovanna, eliminato ogni dubbio sulla sua chiamata divina in aiuto del re, scende in campo.
Dopo aver lasciato per sempre l'unica casa che avesse mai conosciuto, Giovanna si reca a Chinon per incontrare il Delfino. In un primo momento, il re e i suoi sudditi non sanno cosa pensare delle parole di Giovanna. Informato sulle presunte "visioni" della ragazza, ma nutrendo al tempo stesso dei sospetti sulle sue intenzioni, Carlo incarica il suo migliore arciere, Jean D'Aulon, di prendere il suo posto. Arrivata al castello, Giovanna si accorge dello scambio e lo rivela apertamente, suscitando lo stupore del re che le concede un colloquio privato.
Queste le sue parole a Carlo:
Vi porto notizie dal nostro Dio. Il Signore vi renderà il vostro regno, voi sarete incoronato a Reims e scaccerete i nostri nemici. In questo sono la messaggera di Dio: concedetemi la possibilità e io organizzerò l'assedio della città di Orléans.
Persuaso a credere alle parole di Giovanna, Carlo la mette a capo di un esercito con il quale raggiungere la vittoria sugli inglesi e assicurare la città di Reims per l'incoronazione. Nonostante siano molti a ritenere che la ragazza sia, nella migliore delle ipotesi, un'isterica innocua e, nella peggiore, una vera e propria minaccia non solo al trono, ma alla stessa vita del re, tutti percepiscono in lei un'aurea magica e un'irresistibile capacità di persuasione.
Giovanna si presenta sul campo di battaglia con indosso un'armatura bianca e con un proprio vessillo. L'apparizione impressiona profondamente entrambi gli eserciti, non abituati a vedere una donna impegnata nei combattimenti. Schierata nelle trincee al fianco dei suoi uomini, la Pulzella d'Orléans conduce alla vittoria i francesi, rinvigoriti e ispirati dal loro nuovo comandante. Ma la battaglia non è ancora finita: Giovanna, determinata a sferrare un altro attacco, raduna nuovamente le truppe per liberare per sempre la città di Orléans dalla dominazione inglese. Nonostante il valore con cui viene condotto l'attacco, gli uomini del suo esercito, già esausti, perdono ogni speranza quando la ragazza viene colpita in pieno petto da una freccia. 1 francesi si ritirano e si prendono cura della giovane donna ferita.
Gli eserciti di Francia continuano a trionfare sugli inglesi, sempre più indeboliti, ma, ben presto, alla vista della carneficina causata dai numerosi scontri, Giovanna inizia a provare un profondo rimorso. Sopraffatta dall'entità del massacro, la Pulzella contatta gli inglesi proponendo loro di ritirarsi. Un estratto della lettera inviata da Giovanna al re d'Inghilterra nel 1429 ce la mostra come una paladina della fede:
Sovrano d'Inghilterra, rendete conto delle vostre azioni al Re dei Cieli che vi ha conferito il vostro sangue reale. Restituite le chiavi di tutte quelle care città che avete strappato alla Pulzella. Ella è stata inviata dal Signore per reclamare il sangue reale ed è pronta alla pace se le darete soddisfazione rendendo giustizia e restituendo quanto avete preso.
Sovrano d'Inghilterra, se non agirete in siffatta maniera, io mi porrò a capo dell'esercito e, ovunque sul territorio di Francia trovi i vostri uomini, li costringerò a lasciare il paese, anche contro la loro stessa volontà. Se non dovessero obbedire a questo ordine, allora la Pulzella comanderà che vengano uccisi. Ella è inviata dal Signore dei Cieli per scacciarvi dalla Francia e promette solennemente che se non lascerete la Francia, ella, al comando delle truppe, solleverà un clamore quale non si è mai udito in questo paese da mille e mille anni. E confidate che il Re dei Cieli le ha conferito un potere tale da rendervi incapaci di nuocere a lei o al suo coraggioso esercito.
Come per miracolo l'esercito inglese si ritira. Si tratta di una vittoria sorprendente che consente l'incoronazione di Carlo a Reims.
Una volta incoronato, Carlo VII sembra pienamente soddisfatto. Non altrettanto Giovanna, che decide di continuare a combattere. Le sue truppe, ridottesi ormai da varie migliaia a poche centinaia di uomini, sono stanche e affamate. Aulon la informa che non soltanto Carlo ha abbandonato l'intenzione di fare una guerra, ma sta ordendo dei piani per tradirla. Rinnovando la sua fede in Dio, la giovane si sente obbligata a continuare a combattere con determinazione fino a quando le "voci" non le ordinino altrimenti.
Contro ogni parere, la Pulzella fa volta verso Compiègne dove ha luogo una battaglia durante la quale viene fatta prigioniera dai Borgognoni, un gruppo di mercenari che sostengono gli inglesi. Venduta al suo nemico, Giovanna si risveglia in una cella insieme alla sua Coscienza, che le appare nelle vesti di un misterioso uomo incappucciato. L'uomo incrina la volontà ferrea della giovane e le pone delle domande che la spingono a mettere in dubbio la veridicità delle sue visioni.
Abbandonata da tutti, Giovanna viene accusata di eresia e di stregoneria. Ha quindi inizio il processo per dimostrare che è una strega. Più e più volte le vengono poste domande sulle sue visioni e sulla sua fede nella Chiesa Cattolica. Fra una seduta e l'altra, la giovane conferisce con la Coscienza, che critica la sua fiducia in lui e la sua ingenuità.
Giovanna ne è devastata e comincia a perdere le speranze.

Poco prima che il processo si concluda, viene chiesto alla Pulzella di rinunciare ai suoi intenti passati e di giurare di non indossare più armi o abiti maschili, pena la morte sul rogo. Giovanna acconsente e viene condannata alla prigione a vita. All'ultimo momento, però, la giovane donna si rifiuta di sottomettersi al giudizio di una corte inglese. La sua decisione fa di lei un'eretica impenitente e la destina a morte certa.
Nel maggio del 1431, Giovanna d'Arco venne bruciata sul rogo nella piazza del Mercato Vecchio di Rouen.

Taliesin, il bardo

tratto da: tiscalinet.appuntiericerche

Taliesin
25-05-2012, 12.44.25
La Spina e La Rosa: Rita degli Impossibili

Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza.
La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità.
Si racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione.

Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante.

E un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio.

Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo.

Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente.
Frequentava anche la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento.
Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto.

Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie.

I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta.

E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite.
Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito, erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita.

Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre.

La violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia.

Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero.

Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso, si narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro.

Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni.
La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere.

Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione.
La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio.

E in questa fase finale della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile, ma Rita insisté.

Tornata a Roccaporena la parente si recò nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle meravigliate consorelle.
Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli.

Il 22 maggio 1447 Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura.
Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per intercessione della santa.

Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia.
Accanto al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della “Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita.
Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte.

Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò solennemente.

Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino.

Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia, Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra.

Taliesin, il bardo



Giovetti Paola, Santa Rita da Cascia (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788821573507/santa-rita-da-cascia.html), San Paolo Edizioni, 2012 - 112 pagine
Pisapia Aligi F., Margherita Lotti (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788821571305/margherita-lotti.html), San Paolo Edizioni, 2011 - 96 pagine
Polia Mario, Chiappini Massimo, Santa Rita da Cascia. La vita e i luoghi (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788821566639/santa-rita-da-cascia-la-vita-e-i-luoghi.html), San Paolo Edizioni, 2010 - 304 pagine
Piccolomini Remo, Santa Rita. Monaca agostiniana (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788884041180/santa-rita-monaca-agostiniana.html), Shalom, 2009 - pagine
Cristina Tessaro, Santa Rita da Cascia (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788831535656/santa-rita-da-cascia.html), Paoline Edizioni, 2009 - 176 pagine
Piccolomini Remo, Monopoli Natalino, Santa Rita da Cascia. Il respiro del perdono (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788831153584/santa-rita-da-cascia-il-respiro-del-perdono.html), Città Nuova, 2004 - 140 pagine
Siccardi Cristina, Santa Rita da Cascia e il suo tempo (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788821551819/santa-rita-da-cascia-e-il-suo-tempo.html), San Paolo Edizioni, 2004 - 232 pagine
Peri Vittorio, Marzi Franco, Maraffa Augusto, Rita da Cascia (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788801028454/rita-da-cascia.html), Elledici, 2003 - 48 pagine
Ferraresso Luigi, Rita da Cascia (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788825011470/rita-da-cascia.html), Edizioni Messaggero, 2002 - 156 pagine
Bergadano Elena, Rita da Cascia. La santa di tutti (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788831521680/rita-da-cascia-la-santa-di-tutti.html), Paoline Edizioni, 2001 - 136 pagine
Ferrari Curzia, Santa Rita da Cascia. Vita e miracoli (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788871525310/santa-rita-da-cascia-vita-e-miracoli.html), Gribaudi, 1999 - 144 pagine
Cuomo Franco, Santa Rita degli impossibili. La storia... (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788838427473/santa-rita-degli-impossibili-la-storia-damore-e-di-sangue-di-vendetta-e-di-perdono-di-rita-da.html), Piemme, 1997 - 348 pagine
Sala Stefano R., Santa Rita da Cascia (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788821532870/santa-rita-da-cascia.html), San Paolo Edizioni, 1996 - 46 pagine
Dell'Orto Stefano, Santa Rita da Cascia (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788821530951/santa-rita-da-cascia.html), San Paolo Edizioni, 1996 - 56 pagine
Trapè Agostino, Santa Rita e il suo messaggio. «Tutta a Lui... (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788821512681/santa-rita-e-il-suo-messaggio-tutta-a-lui-si-diede.html), San Paolo Edizioni, 1996 - 208 pagine

Taliesin
25-05-2012, 13.46.43
La Gemma di Maremma: Pia De' Tolomei

Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
e riposato de la lunga via",
seguitò 'l terzo spirito al secondo,
"Ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria
disposando m'avea con la sua gemma".

(Purgatorio V, 130-136)


E’ una storia d’amore tragica quella di Pia de’Tolomei, sospesa tra fantasia e realtà, della quale oltre alla celebre citazione nel canto del purgatorio della Divina Commedia Dantesca, si trovano molteplici tracce nella secolare tradizione popolare di quelle terre incastonate tra Siena e Maremma che ne vissero le ipotetiche gesta per terminare ai giorni nostri con una appassionata canzone recentemente dedicatale da una sua moderna e roccheggiante concittadina, Gianna Nannini.
Nobildonna Senese, Pia intreccia ben presto il suo destino con quello del bello quanto rude, ma a tratti gentile, signore del Castello di Pietra roccaforte Senese nel cuore della Maremma, Nello di Inghiramo Pannocchieschi, capace condottiero e abile politico spesso impegnato in quelle campagne militari che contraddistinguono l’irrequieto periodo storico che vede contrapposte la Signoria Senese con quella Fiorentina e assiste alle sanguinose lotte tra Guelfi e Ghibellini delle quali anche un giovane Dante fu protagonista.

Il contesto storico all’interno del quale la leggenda nasce e si esaurisce merita un breve approfondimento che risulterà sicuramente superficiale data la complessità politica che contraddistingue questo periodo medievale ma che può contribuire a far comprendere meglio il periodo storico ma anche le zone geografiche direttamente interessate.
La nascita delle fazioni di Guelfi e Ghibellini si ha in Germania nella prima metà del XII secolo quando alla morte di Enrico V e in assenza di eredi diretti si contrapposero la Casa di Baviera e quella dei Duchi di Svevia aventi indirizzi politici assolutamente opposti, la casa di Baviera si schiera a favore dell’ingerenza Papale nella speranza di un sostegno diretto alla propria politica mentre quella di Svevia non accetta tali interferenze nella politica dell’impero.
Il ramo cadetto dei Duchi di Baviera denominato Welfen si scontra quindi con quello dei Waiblingen (nome derivato dal Castello omonimo origine del casato Svevo), ma a prescindere dalla connotazioni politiche le lotte risultarono quasi esclusivamente causate dalla incerta successione dinastica che da una effettiva volontà di legittimare l’interferenza Papale, quello che però a noi interessa è la nascita dei termini noti come Guelfi e Ghibellini che dalle due fazioni sopraelencate trova precisa origine grazie alla trasposizione linguistica dei termini.
Il conflitto tra Chiesa ed impero coinvolge Feudatari e Comuni tesi ad ottenere favori dall’una o dall’altra fazione in caso di supremazia, Firenze in questa situazione si dichiarò Guelfa perché già sostenitrice di Matilde di Canossa e del Papa della scomunica sia per il contrasto con Pisa dichiaratamente Ghibellina, ma la valenza politica degli scontri servì ben presto a giustificare lotte intestine di potere anche all’interno della stessa città tra famiglie e fazioni assetate di potere e di sangue, Siena invece sposa la causa Ghibellina accogliendo tra le sue mura gli esuli Fiorentini di tale fazione e godendo del sostegno dell’impero.
Lo scontro tra le due città si risolse infine a favore della Guelfa Firenze dopo che primato militare Senese trovò la sua massima espressione con la vittoria la battaglia di Monteaperti del 1260, ad iniziare dalla quale prese in via anche il suo declino causato anche dalle conseguenze economiche derivate dalla immediata scomunica Papale inferta ai Senesi, declino che terminerà con la sconfitta di Colle 1269 che sancì la definitiva supremazia Fiorentina sulla Toscana
Le lotte inziate nel 1100 si trascineranno con alterne motivazioni fino ad oltre il 1350 coinvolgendo le città Toscane in battaglie famose quanto sanguinarie come quella di, appunto, Monteaperti, Campaldino in Casentino o Montecatini.

Ma torniamo alla Pia e alla sua leggenda, se sulle sue ipotetiche origini e la sua giovanile esistenza le varie versioni trovano un comune accordo è sulla sua fine che le versioni invece ampiamente discordano e la fantasia si sovrappone alla leggenda in un inestricabile intreccio, sarà comunque il Castello di Pietra a vedere la sua prematura fine.
Non è chiaro infatti se la Nobildonna perita per volere del marito Nello si sia resa colpevole di adulterio tradendolo con un suo amico
durante una delle tante campagne guerriere, e se effettivamente il tradimento si sia consumato oppure la cieca gelosia del Pannocchieschi sia rimasta sorda alla voce della verità influenzata dalla volontà di vendetta dell’amante sdegnosamente respinto, o la sua scomparsa si sia stata richiesta dalla fredda e cinica logica delle alleanze che voleva sposo il Nello ad una esponente di una potente famiglia: Margherita Aldobrandeschi.
La stessa modalità della sua morte risulta controversa, gettata dalla rupe del castello detta “della Contessa” dallo stesso Nello anelante la mano di Margherita, oppure morta di stenti e di malaria rinchiusa nel castello eretto in una terra aspra ed ostile dove la bonifica da paludi e malaria non sarebbe arrivata che tra molti secoli.
Oltre ai luoghi già citati nel complicato intreccio, probabilmente più per errata attribuzione che per effettiva storicità, si inserisce anche un ponte romanico ricostruito in epoca medievale noto appunto con il nome di “Ponte della Pia” e dal quale si narra abbia avuto inizio, con il suo attraversamento, il viaggio di Pia verso la sua ultima e malsana dimora.

Quello che però a questo punto più interessa in questo contesto descrittivo è il suo inserimento in un percorso turistico assolutamente entusiasmante dal punto di vista storico e paesaggistico ma anche da quello meno nobile della guida motociclistica sulle orme della nobile e sfortunata Madonna Senese che prende il suo avvio proprio dalla città dal Palio per raggiungere rapidamente nei pressi di Rosia sulla SS73 i resti del Ponte della Pia per poi incunearsi sinuosa in terra di Maremma fino a Roccastrada da dove si raggiunge la zona di Gavorrano e i ruderi del Castel di Pietra, Maniero di antica datazione prima possesso dei Pannocchieschi e successivamente degli Aldobrandeschi e che ha progressivamente perso importanza ed infine esser abbandonato venuta meno la sua funzione militare.

Abbandonato da tutti meno che dalla eterna leggenda di una triste fanciulla che inseguendo i romantici sogni d’amore giovanile si vide imprigionata dal destino ad una serie di drammatici eventi che ne vedranno la triste e prematura fine ma non la consegna della sua memoria all’oblio e alla dimenticanza.

Taliesin, il bardo

p.s. di Gabriele "Frevax". Grazie a Gabrilele, Ladro di Ombre, amico di perduta memoria campestre

Guisgard
25-05-2012, 15.57.42
Taliesin, mio buon bardo, vi sono debitore per averci parlato di una delle donne più straordinarie di ogni tempo.
Il culto di Santa Rita è fortissimo nelle mie terre, dove ella da sempre è stata amica devota, benigna protettrice e pietosa dispensatrice di doni.
Il suo appellativo, ossia Santa degli Impossibili, è dovuto alla grandezza dei suoi interventi, soprattutto in casi disperati, a dimostrazione dell'infinita Carità Cristiana che benedisse il suo cuore.

Taliesin
29-05-2012, 09.35.42
Audite Poverelle: Chiara d'Assisi

Chiara nasce nel 1194 da una nobile famiglia d'Assisi, figlia di Favarone di Offreduccio di Bernardino e di Ortolana. La madre, recatasi a pregare alla vigilia del parto nella Cattedrale di San Rufino, sentì una voce che le predisse la nascita della bambina con quest eparole :"Donna non temere, perchè felicemente partorirai una chiara luce che illuminerà il mondo". Per questo motivo la bambina fu chiamata Chiara e battezzata in quella stessa chiesa. Si può senza dubbio affermare che una parte predominante della educazione di questa fanciulla è dovuta alla grande spiritualità che pervadeva l'ambiente familiare di Chiara ed in particolare la figura della madre che fu tra quelle dame che ebbero la grande fortuna di raggiungere la Terra Santa al seguito dei crociati.

L'esperienza della completa rinuncia e delle predicazioni di San Francesco , la fama delle doti che aveva Chiara per i suoi concittadini, fecero sì che queste due grandi personalità s'intendessero perfettamente sul modo di fuggire dal mondo comune e donarsi completamente alla vita contemplativa.

La notte dopo la Domenica delle Palme, il 18 marzo 1212, Chiara, accompagnata da Pacifica di Guelfuccio, si recherà di nascosto alla Porziuncola, dove era attesa da Francesco e dai suoi frati. Qui Francesco la vestì del saio francescano, le tagliò i capelli consacrandola alla penitenza e la condusse presso le suore benedettine di San Paolo a Bastia Umbra, dove il padre inutilmente tentò di persuaderla a far ritorno a casa.

Chiara si rifugiò in seguito, su consiglio di Francesco, nella Chiesetta di San Damiano che divenne la Casa Madre di tutte le sue consorelle chiamate dapprima "Povere Dame recluse di San Damiano" e, dopo la morte di Chiara, Clarisse. Qui visse per quarantadue anni, quasi sempre malata, iniziando alla vita religiosa molte sue amiche e parenti compresa la madre Ortolana e le sorelle Agnese e Beatrice.

Nel 1215 Francesco la nominò badessa e formò una prima regola dell'Ordine che doveva espandersi per tutta Europa. La grande personalità di Chiara non passò inosservata agli alti prelati, tanto che il legato pontificio, Cardinale Ugolino, formulò la prima regola per i successivi monasteri e più tardi le venne concesso il privilegio della povertà con il quale Chiara rinunciava ad ogni tipo di possedimento.

La fermezza di carattere, la dolcezza del suo animo, il modo di governare la sua comunità con la massima carità e avvedutezza, le procurarono la stima dei Papi che vollero persino recarsi a visitarla.

La morte di Francesco e le notizie che alcuni monasteri accettavano possessi e rendite amareggiarono e allarmarono Chiara che sempre più malata volle salvare fino all'ultimo la povertà per il suo convento componendo una Regola simile a quella dei Frati Minori, approvata dal Cardinale Rainaldo (poi papa Alessandro IV) nel 1252 e alla vigilia della sua morte da Innocenzo IV, recatosi a San Damiano per portarle la benedizione e consegnarle la bolla papale che confermava la sua regola; il giorno dopo, 11 agosto 1253, Chiara muore, officiata dal Papa che volle cantare per lei non l'ufficio dei morti, ma quello festivo delle vergini.

Il suo corpo venne sepolto a San Giorgio ed in seguito trasferito nella chiesa che porta il suo nome. Nonostante l'intenzione di Innocenzo IV fosse quella di canonizzarla subito dopo la morte, si giunse alla bolla di canonizzazione nell'autunno del 1255, dopo averne seguito tutte le formalità, per mezzo di Alessandro IV

Taliesin, il bardo

tratto da: Famiglia Cristiana, 1981.

Taliesin
29-05-2012, 12.09.53
E diceva parole tanto dolci... : Caterina da Siena

Nasce a Siena nel rione di Fontebranda (oggi Nobile Contrada dell'Oca) il 25 marzo 1347: è la ventiquattresima figlia delle venticinque creature che Jacopo Benincasa, tintore, e Lapa di Puccio de’ Piacenti hanno messo al mondo. Giovanna è la sorella gemella, ma morirà neonata. La famiglia Benincasa, un patronimico, non ancora un cognome, appartiene alla piccola borghesia. Ha solo sei anni quando le appare Gesù vestito maestosamente, da Sommo Pontefice, con tre corone sul capo ed un manto rosso, accanto al quale stanno san Pietro, san Giovanni e san Paolo. Il Papa si trovava, a quel tempo, ad Avignone e la cristianità era minacciata dai movimenti ereticali.

Già a sette anni fece voto di verginità. Preghiere, penitenze e digiuni costellano ormai le sue giornate, dove non c’è più spazio per il gioco. Della precocissima vocazione parla il suo primo biografo, il beato Raimondo da Capua (1330-1399), nella Legeda Maior, confessore di santa Caterina e che divenne superiore generale dell’ordine domenicano; in queste pagine troviamo come la mistica senese abbia intrapreso, fin da bambina, la via della perfezione cristiana: riduce cibo e sonno; abolisce la carne; si nutre di erbe crude, di qualche frutto; utilizza il cilicio...

Proprio ai Domenicani la giovanissima Caterina, che aspirava a conquistare anime a Cristo, si rivolse per rispondere alla impellente chiamata. Ma prima di realizzare la sua aspirazione fu necessario combattere contro le forti reticenze dei genitori che la volevano coniugare. Aveva solo 12 anni, eppure reagì con forza: si tagliò i capelli, si coprì il capo con un velo e si serrò in casa. Risolutivo fu poi ciò che un giorno il padre vide: sorprese una colomba aleggiare sulla figlia in preghiera. Nel 1363 vestì l’abito delle «mantellate» (dal mantello nero sull'abito bianco dei Domenicani); una scelta anomala quella del terz’ordine laicale, al quale aderivano soprattutto donne mature o vedove, che continuavano a vivere nel mondo, ma con l’emissione dei voti di obbedienza, povertà e castità.

Caterina si avvicinò alle letture sacre pur essendo analfabeta: ricevette dal Signore il dono di saper leggere e imparò anche a scrivere, ma usò comunque e spesso il metodo della dettatura.

Al termine del Carnevale del 1367 si compiono le mistiche nozze: da Gesù riceve un anello adorno di rubini. Fra Cristo, il bene amato sopra ogni altro bene, e Caterina viene a stabilirsi un rapporto di intimità particolarissimo e di intensa comunione, tanto da arrivare ad uno scambio fisico di cuore. Cristo, ormai e in tutti i sensi, vive in lei (Gal 2,20).

Ha inizio l’intensa attività caritatevole a vantaggio dei poveri, degli ammalati, dei carcerati e intanto soffre indicibilmente per il mondo, che è in balia della disgregazione e del peccato; l’Europa è pervasa dalle pestilenze, dalle carestie, dalle guerre: «la Francia preda della guerra civile; l’Italia corsa dalle compagnie di ventura e dilaniata dalle lotte intestine; il regno di Napoli travolto dall’incostanza e dalla lussuria della regina Giovanna; Gerusalemme in mano agli infedeli, e i turchi che avanzano in Anatolia mentre i cristiani si facevano guerra tra loro» (F. Cardini, I santi nella storia, San Paolo, Cinisello Balsamo -MI-, 2006, Vol. IV, p. 120). Fame, malattia, corruzione, sofferenze, sopraffazioni, ingiustizie…

Le lettere

Le lettere, che la mistica osa scrivere al Papa in nome di Dio, sono vere e proprie colate di lava, documenti di una realtà che impegna cielo e terra. Lo stile, tutto cateriniano, sgorga da sé, per necessità interiore: sospinge nel divino la realtà contingente, immergendo, con una iridescente e irresistibile forza d’amore, uomini e circostanze nello spazio soprannaturale.

Ecco allora che le sue epistole sono un impasto di prosa e poesia, dove gli appelli alle autorità, sia religiose che civili, sono fermi e intransigenti, ma intrisi di materno sentire: «Delicatissima donna, questo gigante della volontà; dolcissima figlia e sorella, questo rude ammonitore di Pontefici e di re; i rimproveri e le minacce che ella osa fulminare sono compenetrati di affetto inesausto» (G. Papàsogli, Caterina da Siena, Fabbri Editori RCS, Milano 2001, p. 201). Usa espressioni tonanti, invitando alla virilità delle scelte e delle azioni, ma sa essere ugualmente tenerissima, come solo uno spirito muliebre è in grado di palesare.

La poesia di colei che scrive al Papa «Oimé, padre, io muoio di dolore, e non posso morire» è costituita da sublimi altezze e folgoranti illuminazioni divine, ma nel contempo, conoscendo che cosa sia il peccato e dove esso conduca, tocca abissi di indicibile nausea, perché Caterina intinge il pensiero nell’inchiostro della realtà tutta intera, quella fatta di bene e male, di angeli e demoni, di natura e sovranatura, dove il contingente si incontra e si scontra nell’Eterno.

Per la causa di Cristo

Una brulicante «famiglia spirituale», formata da sociae e socii, confessori e segretari, vive intorno a questa madre che pungola, sostiene, invita, con forza e senza posa, alla Causa di Cristo, facendo anche pressioni, come pacificatrice, su casate importanti come i Tolomei, i Malavolti, i Salimbeni, i Bernabò Visconti…

Lotte con il demonio, levitazioni, estasi, bilocazioni, colloqui con Cristo, il desiderio di fusione in Lui e la prima morte di puro amore, quando l’amore ebbe la forza della morte e la sua anima fu liberata dalla carne… per un breve spazio di tempo.

I temi sui quali Caterina pone attenzione sono: la pacificazione dell’Italia, la necessità della crociata, il ritorno della sede pontificia a Roma e la riforma della Chiesa. Passato il periodo della peste a Siena, nel quale non sottrae la sua attenta assistenza, il 1° aprile del 1375, nella chiesa di Santa Cristina, riceve le stimmate incruente. In quello stesso anno cerca di dissuadere i capi delle città di Pisa e Lucca dall’aderire alla Lega antipapale promossa da Firenze che si trovava in urto con i legati pontifici, che avrebbero dovuto preparare il ritorno del Papa a Roma. L’anno seguente partì per Avignone, dove giunse il 18 giugno per incontrare Gregorio XI (1330–1378), il quale, persuaso dall’intrepida Caterina, rientrò nella città di san Pietro il 17 gennaio 1377. L’anno successivo morì il Pontefice e gli successe Urbano VI (1318–1389), ma una parte del collegio cardinalizio gli preferì Roberto di Ginevra, che assunse il nome di Clemente VII (1342– 1394, antipapa), dando inizio al grande scisma d’Occidente, che durò un quarantennio, risolto al Concilio di Costanza (1414-1418) con le dimissioni di Gregorio XII (1326–1417), che precedentemente aveva legittimato il Concilio stesso, e l’elezione di Martino V (1368–1431), nonché con le scomuniche degli antipapi di Avignone (Benedetto XIII, 1328–1423) e di Pisa (Giovanni XXIII, 1370–1419).

All’udienza generale del 24 novembre 2010 Benedetto XVI ha affermato, riferendosi proprio a santa Caterina: «Il secolo in cui visse - il quattordicesimo - fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa e dell’intero tessuto sociale in Italia e in Europa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento».

Amando Gesù («O Pazzo d’amore!»), che descrive come un ponte lanciato tra Cielo e terra, Caterina amava i sacerdoti perché dispensatori, attraverso i Sacramenti e la Parola, della forza salvifica. L’anima di colei che iniziava le sue cocenti e vivificanti lettere con «Io Catarina, serva e schiava de' servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo», raggiunge la beatitudine il 29 aprile 1380, a 33 anni, gli stessi di Cristo, nel quale si era persa per ritrovare l’autentica essenza.

Taliesin, il bardo



Caterina da Siena (santa), Preghiere di Santa Caterina da Siena (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788831114479/preghiere-di-santa-caterina-da-siena.html), Città Nuova, 2011 - pagine
Carnea Maria Francesca, Libertà e Politica in S. Caterina da Siena (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788872633755/liberta-e-politica-in-s-caterina-da-siena.html), Vivere In, 2011 - pagine
Zanardi Elena, A immagine di colui che è. La persona umana... (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788870947274/a-immagine-di-colui-che-e-la-persona-umana-in-caterina-da-siena.html), ESD Edizioni Studio Domenicano, 2010 - 320 pagine
Angelo Belloni, L'arte della preghiera (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788872293942/larte-della-preghiera.html), OCD, 2008 - 246 pagine
Cavallini Giuliana, Caterina da Siena. La vita, gli scritti, la... (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788831173414/caterina-da-siena-la-vita-gli-scritti-la-spiritualita.html), Città Nuova, 2008 - 276 pagine
Royo Marín Antonio, Tre donne sante dottori della Chiesa. Teresa... (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788821559655/tre-donne-sante-dottori-della-chiesa-teresa-davila-caterina-da-siena-teresa-di-lisieux.html), San Paolo Edizioni, 2007 - 308 pagine
Santucci Giulio C., Caterina da Siena (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788825018318/caterina-da-siena.html), Edizioni Messaggero, 2007 - 192 pagine
Caterina da Siena (santa), Dialogo della divina provvidenza (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788870947113/dialogo-della-divina-provvidenza.html), ESD Edizioni Studio Domenicano, 2006 - 470 pagine
Caterina da Siena (santa), Le orazioni di s. Caterina da Siena (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788882722555/le-orazioni-di-s-caterina-da-siena.html), Cantagalli Edizioni, 2005 - 174 pagine
Ascoli M. Elena, Caterina. Un cuore di fuoco per l'Europa (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788825012736/caterina-un-cuore-di-fuoco-per-leuropa.html), Edizioni Messaggero, 2005 - 108 pagine
Caterina da Siena (santa), Le lettere ai papi e ai vescovi (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788831529723/le-lettere-ai-papi-e-ai-vescovi.html), Paoline Edizioni, 2005 - 208 pagine
Anodal Gabriella, Caterina da Siena. Patrona d'Europa (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788882721831/caterina-da-siena-patrona-deuropa.html), Cantagalli Edizioni, 2004 - 216 pagine
Bianco Enzo, Santa Caterina da Siena (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788801031003/santa-caterina-da-siena.html), Elledici, 2004 - 32 pagine
Bianco Enzo, Zonta Luigi, Le tre sante patrone della nostra Europa.... (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788801072280/le-tre-sante-patrone-della-nostra-europa-brigida-di-svezia-caterina-da-siena-e-edith-stein.html), Elledici, 2004 - 36 pagine
Peri Vittorio, Maraffa Augusto, Caterina da Siena (http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788801030761/caterina-da-siena.html), Elledici, 2004 - 48 pagine

Taliesin
29-05-2012, 12.35.46
Scito Vias Domini: Ildegarda di Bingen

Ildegarda di Bingen (1098-1176) è una delle poche donne che occupino a buon diritto un posto nella filosofia occidentale prima dell’età contemporanea. Fin da bambina subì fenomeni visionari, legati ad uno stato di salute molto fragile; l’accettazione e l’elaborazione in senso cognitivo di queste esperienze le permisero di produrre un pensiero originale e molto incisivo nella realtà del suo tempo.

Trascorse tutta la sua lunga vita nel contesto monastico: oblata all’età di sette anni presso l’abbazia benedettina di Disibodenberg nella regione del Reno, dove ricevette un’educazione accurata, divenne in seguito maestra delle monache e poi badessa. Distaccandosi dal monastero in cui era cresciuta, creò una fondazione femminile nuova nelle vicinanze, a Rupertsberg e, successivamente, una seconda fondazione ad Eibingen.

A partire dalla fine degli anni ’40 legò la sua opera di scrittura e, nei decenni successivi, di predicazione pubblica all’opera di riforma della chiesa promossa da Bernardo da Chiaravalle; a questo scopo compì numerosi viaggi, allargando il suo raggio d’azione nella Germania centrale e nelle Fiandre. Esercitò la medicina e fu consigliera spirituale non solo di monaci e monache, ma anche di sovrani (fra cui Federico Barbarossa) e potenti laici ed ecclesiastici. Le sue opere principali sono i tre scritti profetici: Liber Scivias (da una contrazione di "Scito vias Domini", "conosci le vie del Signore", 1141-51); il Liber vitae meritorum (Libro dei meriti della vita, 1158-63); e il Liber divinorum operum (Libro delle opere divine 1164-74). L’opera naturalistica invece (Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum, Libro che indaga gli aspetti sottili delle nature diverse delle creature, ca. 1158-70) fu scritta in forma diretta; nei secoli successive venne smembrata in due tronconi: la Physica (Fisica, enciclopedia naturalistica) e Causae et curae (Le cause e le cure, dove le conoscenze fisiologiche e mediche relative al corpo umano sono connesse ai principi cosmologici). Ildegarda compose anche musica su propri testi: una raccolta di liriche ispirate a figure sacre (fra cui spicca Maria, “fiammeggiante aurora”), la Symphonia harmoniae caelestium revelationum (Armonioso concerto delle rivelazioni celesti, ca. 1151-58); e una sacra rappresentazione di contenuto morale, Ordo virtutum (L’ordine delle virtù, la cui prima stesura è contenuta nell’ultima parte del Liber Scivias).

La conoscenza delle opere divine. Nei suoi libri profetici e naturalistici Ildegarda espone idee cosmologiche di grande rilievo e di notevole originalità ed elabora una visione profetica della storia. Il suo approccio alla conoscenza della realtà non segue la modalità scolastica di lettura e commento dei testi, ma si basa sull' esperienza intuitiva di cui essa riferisce il carattere visionario in più luoghi della sua opera. Le visioni sono considerate di origine divina e portatrici di conoscenza nell’ambito della natura, della storia e della vita spirituale umana: i diversi livelli di significato delle visioni (letterale, allegorico, tropologico) sono esposti da Ildegarda in ampie spiegazioni, da lei ricondotte ad una costante ispirazione divina che si serve come tramite del suo “fragile corpo di donna”. La sua esperienza è dunque propriamente profetica, non una mistica unione dell' anima con Dio, ma l' assunzione di un ruolo di intermediaria fra Dio e l’umanità del suo tempo. Il fatto che essa non avesse avuto una formazione scolastica non significa che fosse incolta, ma che era stata educata secondo le linee della cultura monastica, fondata sulla lettura dei libri scritturali e patristici; questo fatto permette di comprendere perché Bernardo da Chiaravalle, venuto a conoscenza delle sue visioni, ne riconobbe subito l’importanza per la propria opera di riforma, in cui si opponeva frontalmente alla nuova cultura delle scuole.

Tuttavia i contenuti della nuova filosofia non erano ignoti ad Ildegarda, che li elaborò in termini originali, sottolineando il carattere creaturale della natura: il valore del mondo e dell’esperienza umana in esso, asserito in termini analoghi a quelli dei filosofi naturalisti del tempo, non si accompagna all’idea dell’autonomia della natura e della ragione umana, ma si radica nella dipendenza del mondo e dell’uomo dal Dio creatore. Nella terza visione dello Scivias Ildegarda presenta un' immagine del cosmo che, se ha alcune affinità con quelle dei filosofi coevi, presenta però anche importanti differenze; fra queste in primo luogo la “forma di uovo” del cosmo ildegardiano, che conferisce realtà fisica al simbolo tradizionale della vita del mondo, presente anche in una fonte importante della cultura delle scuole basata sulle artiliberali, il De nuptiis Mercurii et Philologiae.

Procedendo verso l' interno della struttura incontriamo i vari strati cosmici degli elementi, analoghi a quelli della cosmologia tradizionale ma con due importanti differenze: l’elemento superiore, il fuoco, si sdoppia in un fuoco luminoso e un fuoco nero, per rendere ragione della duplicità delle forze, positive e negative, che s’intersecano nel macrocosmo. Fra queste hanno un ruolo rilevante, oltre naturalmente al sole e ai pianeti della tradizione astronomica, i venti che, convergendo verso il centro, la terra, esercitano la loro funzione primaria nel conferire vita e movimento a questa complessa struttura . Nel Liber divinorom operum (1174) la forma del cosmo, generato nel petto di una figura divina a carattere antropomorfo, è rotonda e, per quanto gli strati successivi siano gli stessi che nell' opera precedente, ciò che ora tiene insieme la struttura sono raggi che s’intersecano unendo la circonferenza con il centro; questo è costituito da una figura umana, che rappresenta il microcosmo.

L’uomo e il suo mondo. Il tema centrale della riflessione cosmologica del XII secolo, la centralità dell'uomo e il suo rapporto con la vita del cosmo, si affermano anche nell' opera di Ildegarda, mostrando che, nonostante questa sia l' epoca in cui la razionalità scientifica comincia a divaricarsi nettamente rispetto alle fonti sapienziali di conoscenza, gli stessi temi di riflessione s' impongono, per quanto diversi siano gli strumenti e i metodi conoscitivi impiegati. Sviluppando un tema presente già nell’antropologia eriugeninana e centrale nelle nuove fonti ermetiche acquisite nel XII secolo, in particolare nell’Asclepius, Ildegarda afferma la superiorità dell’uomo sulle creature spirituali angeliche, perché nella duplice composizione – anima e corpo - che rispecchia la divinità e l’umanità di Cristo, risiede la possibilità che l’umanità ha di collaborare con Dio: con l’opera della creazione, mediante la generazione, che porterà il numero degli uomini a colmare il posto lasciato vuoto dagli angeli ribelli, ricostituendo la pienezza del creato; e con l’opera della salvezza, mediante il perfezionamento morale e spirituale dell’umanità al seguito di Cristo nella storia, che porterà alla piena vittoria sul demonio alla fine dei tempi.

La storia, infatti, è lo svolgimento delle vicende dell’intero creato, dalla caduta dell’angelo ribelle alla vittoria finale sull’Anticristo. In queste vicende (per la cui descrizione Ildegarda utilizza uno schema di ‘età del mondo’ affine a quello di Gioachino da Fiore) la razionalità umana, che ha lo stesso carattere igneo dello Spirito Creatore, ha il compito di riunificare il mondo corporeo e quello spirituale nella vita morale e nella realizzazione della salute, attraverso la conoscenza e l’utilizzazione del mondo naturale: in questo contesto è centrale la nozione di viriditas (che sostantifica il carattere simbolico del colore verde), in cui si esprime la vitalità e fecondità non solo del mondo vegetale, ma anche di quello sensibile e spirituale. All’essere umano è possibile inoltre sperimentare, nell’armonia della voce, l’esperienza immediata dell’unità di anima e corpo, che tende a riprodurre la perfezione dell’umanità prima del peccato originale: nella musica e nel canto la ricomposizione della dualità infatti è già in atto e il fine della vita umana è realizzato: “il corpo attraverso la voce canta con l'anima lodi a Dio”.

Taliesin, il bardo



Bibliografia

Edizioni
Hildegardis abbatisse Opera, Patrologia Latina ac. J.P. Migne, vol. CXVII, Parigi 1895
Hildegardis Scivias, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, vol. 43-43A, Brepols, Turnhout 1991
Hildegardis Liber Vitae Meritorum, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, vol. 90 (1995)
Hildegardis Liber divinorum operum, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, vol. 92 (1996)
Hildegardis Epistolae, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, voll. 91-91A 1\991.93
Vita Sanctae Hildegardis, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, vol. 126 (1993)
Hildegard von Bingen, Causae et curae, ed. P. Kaiser, Leipzig 1903
Traduzioni italiane
Ildegarda di Bingen, Cause e cure delle infermità, a cura di P. Calef, Palermo, 1997
Ildegarda di Bingen, Il centro della ruota. Spiegazione della regola di S. Benedetto, a cura di A. Carlevaris, Milano, 1997
Ildegarda di Bingen, Come per lucido specchio. Libro dei meriti di vita, a c. di L. Ghiringhelli, Milano 1998
Ildegarda di Bingen, Ordo virtutum. Il cammino di Anima verso la salvezza, a c. di M. Tabaglio, Verona 1999
Ildegarda di Bingen, Il libro delle opere divine, a c. di M. Cristiani e M. Pereira, Mondadori, Milano 2003
Ildegarda di Bingen, Cantici spirituali, Demetra edizioni, Milano 1995

Taliesin
30-05-2012, 13.01.26
La Vergine del Monte Tauro: Innocenza da Rimini

Il culto della martire Innocenza, è autorevolmente documentato in un periodo antecedente, alla successiva leggendaria letteratura agiografica.
Infatti una Cappella di S. Innocenza o “monasterium”, esistente nel centro religioso di Rimini, vicino al vescovado, viene ricordata già in un documento del 6 maggio 996 (Privilegio di Ottone III al vescovo Uberto) e in una ‘Bolla’ di papa Lucio II del 21 maggio 1144.
Inoltre nel secolo XIV si riteneva che vi fosse sepolta la santa martire e gli “Statuti” locali, prescrivevano che nel giorno della sua festa il 16 settembre, si facesse l’offerta di un pallio; ma nei secoli successivi si ebbe qualche dubbio sull’esistenza della tomba o arca di s. Innocenza; a volte indicata nella cattedrale o nella chiesa di S. Gaudenzio, ma soprattutto nella sua chiesa, ricostruita nel 1477, divenuta parrocchia fino al 1797 e poi cappella del Seminario vescovile.

Altri documenti del 1059 e del 1144, ricordano un altro insigne monumento al culto di Rimini per santa Innocenza, che è la Pieve di S. Innocenza sul Monte Tauro a ca. otto miglia dalla città, senz’altro anteriore all’XI secolo.

Seconda una tradizione tramandata dagli storici locali del Cinquecento, la chiesa urbana di S. Innocenza, sarebbe stata costruita sulla sua casa natale, dallo stesso vescovo s. Gaudenzio nel IV secolo; mentre la Pieve sul Monte Tauro, sarebbe stata costruita sulle terre del contado del castello dove abitava.

La ‘Vita’ racconta che l’imperatore Diocleziano (243-313), durante una sua spedizione contro gli Ungari o altro popolo del Nord, passando da Rimini, sentì parlare di questa nobile, bella e ricca fanciulla di diciassette anni, come una fiera e fervente cristiana e quindi mandò i suoi soldati a prelevarla dal castello di Monte Tauro, insieme ad un’ancella.
Portata alla sua presenza, l’imperatore tentò senza successo, di farla apostatare e alla fine la fece uccidere a Rimini un 16 settembre forse del 303, anno in cui emanò l’editto di persecuzione contro i cristiani.

Quello che è certo, è che il culto per s. Innocenza è anteriore al 1000 e che a Rimini si sono sempre venerate le reliquie di una santa martire con questo nome.
L’esistenza nelle città di Ravenna e Vicenza di un culto per s. Innocenza, ha fatto creare un po’ di confusione; si tratta di una sola s. Innocenza, cioè quella di Rimini, oppure come sembra plausibile di altre due sante omonime?.

Bisogna aggiungere che s. Innocenza potrebbe anche non essere una martire ma solo una vergine riminese, magari fondatrice o donatrice di qualche complesso monumentale, adatto alla vita monastica femminile, volendo ricordare che la sua chiesetta è chiamata nei testi più antichi “monasterium”.

Per a tutti quegli Umini e quelle Donne che nella disperazione di questi giorni, lottano contro ogni elemento e contro gni avversità...

Taliesin, il bardo

tratto da: “Della storia civile e sacra riminese” di L. Tonini, Rimini, 1856.

Guisgard
19-06-2012, 18.43.19
Taliesin, il poco tempo a disposizione mi aveva impedito di leggere i nuovi sviluppi di questo vostro notevole lavoro.
Davvero intensi i meravigliosi ritratti che ci avete mostrato di queste grandi donne.
Vi sono poi debitore e riconoscente perchè tra queste straordinarie figure avete narrato di una Santa e di una donna a me molto cara.
Grazie, amico mio :smile:

Taliesin
20-06-2012, 08.50.23
LA MISTICA DELL'OGNIBENE: ANGELA DA FOLIGNO

La data di nascita non si conosce (molti, non si sa perché, indicano il 1248), mentre è certo che è morta il 4 gennaio 1309.
Verso il 1291, aderì al "Terzo Ordine Francescano", ora denominato "Ordine Francescano Secolare".

La sua "conversione", nel Sacramento della Penitenza, celebrato nella Chiesa Cattedrale di San Feliciano, a Foligno, era avvenuta, come comunemente si afferma, verso il 1285, dopo una vita cristiana mediocre e anche segnata dal peccato.
Angela, in quel periodo, era già sposata, aveva dei figli e viveva insieme a sua madre.
Successivamente, in breve tempo, perse tutti i famigliari e cominciò il cammino di "penitenza", che la spinse a liberarsi di tutti i beni, a fare vita comune in casa sua con una certa Masazuola e a professare la Regola del Terzo Ordine.

Al termine di un pellegrinaggio comunitario ad Assisi, poco dopo l'adesione al movimento francescano, uscì in grida rivolte all'"Amore", sulla soglia della Chiesa Superiore di San Francesco: si concludeva, così, una lunghissima, mirabile esperienza mistica.
Questo evento clamoroso assisano, a cui assistettero in molti, fu all'origine del singolare colloquio, che durò quasi sei anni, con un Frate Minore, parente e confessore di Angela, del cui nome si conosce solo la lettera iniziale A.

Il "Memoriale", che riporta le confidenze della Folignate e le annotazioni di Frate A., preceduto da un "Prologo", è la prima parte di quell'opera singolare, a cui si è soliti dare il titolo "Il libro della beata Angela da Foligno".
Esso contiene anche "Documenti", che testimoniano l'esistenza di una piccola cerchia di discepoli della Poverella di Foligno: lettere, discorsi, pensieri, relazioni su esperienze mistiche successive alla chiusura del "Memoriale", la notizia della morte di Angela e un singolare "Epilogo".
Dal "Libro" si possono individuare tutte le tappe fondamentali del cammino ascetico e dell'itinerario mistico della Folignate.
Le reliquie della Beata sono conservate nella Chiesa di San Francesco, retta dai Frati Minori Conventuali di Foligno.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.beataangela.it (http://www.beataangela.it)

p.s. dedicato alla terra di meraviglie del Cavaliere dell'Intelletto, cullata da una rarissima spiritualità che avvolge i campi di grano, le bianche chiesette di confine, le dirute mura delle orgogliose cittadelle, racchiusa tra il regno degli Etruschi ed il mare dei Tirreni.

Taliesin
20-06-2012, 09.20.05
IL CUORE DELLA PASSIONE: CHIARA DA MONTEFALCO

Seconda figlia di Damiano e di Giacoma, Chiara nacque a Montefalco, in provincia di Perugia, nel 1268. Presa d'amor divino, fin dall'età di quattro anni mostrò una così forte inclinazione all'esercizio della preghiera da trascorrere intere ore immersa nell'orazione, ritirata nei luoghi più riposti della casa paterna. Sin da allora ella ebbe anche una profonda devozione per la Passione di Nostro Signore e la sola vista di un Crocifisso era per lei come un monito di continua mortificazione, a cui si abbandonava volentieri infliggendo al corpo innocente le più dure macerazioni con dolorosi cilizi, tanto che sembrava quasi incredibile che una bimba di sei anni potesse avere non già il pensiero, ma la forza di sopportarne il tormento.

Consacratasi interamente a Dio, Chiara volle seguire l'esempio della sorella Giovanna, chiedendo di entrare nel locale reclusorio, dove fu accolta nel 1275. La santità della piccola e le elette virtù di Giovanna fecero accorrere nel reclusorio di Montefalco sempre nuove aspiranti, per cui ben presto si dovette intraprendere la costruzione di uno più grande, che, cominciata nel 1282, si protrasse per otto anni tra opposizioni, contrasti e difficoltà di varia natura. A causa delle ristrettezze finanziarie, per qualche tempo durante i lavori Chiara fu incaricata anche di andare alla questua. Nel 1290, allorché il nuovo reclusorio fu terminato, si pensò che sarebbe stato più opportuno fosse eretto in monastero, affinché la comunità potesse entrare a far parte di qualche religione approvata. Giovanna ne interessò il vescovo Gerardo Artesino, che, con decreto del 10 giugno 1290, riconobbe la nuova famiglia religiosa, dando ad essa la regola di s. Agostino e autorizzando in pari tempo l'accettazione di novizie. Il novello monastero fu chiamato "della Croce", su proposta della stessa Giovanna, che ne venne subito eletta badessa.

Alla morte della sorella (22 novembre 1291), Chiara fu chiamata immediatamente a succederle nella carica, contro la sua volontà e nonostante la giovane età. Durante il suo governo, che esercitò sempre con illuminata fermezza, seppe tenere sempre vivo nella comunità, con la parola e con l'esempio, un gran desiderio di perfezione. Ebbe da Dio singolari grazie mistiche, come visioni ed estasi, e doni soprannaturali che profuse dentro e fuori il monastero, venendo,- inoltre, favorita dal Signore col dono della scienza infusa, per cui poté offrire dotte soluzioni alle più ardue questioni propostele da teologi, filosofi e letterati.
Alla sua pronta azione, si deve poi la scoperta e l'eliminazione, tra la fine del 1306 e gli inizi del 1307, di una setta eretica chiamata dello "Spirito di libertà", che andava diffondendo per tutta l'Umbria errori quietistici.

Tanta era la fama di sé e delle sue virtù suscitata in vita da Chiara che subito dopo la morte, avvenuta nel suo monastero della Croce in Montefalco il 17 agosto 1308, fu venerata come santa.

Una tradizione leggendaria, fondata su una accesa pietà e su una ingenua nozione dell'anatomia, riferisce che nel cuore di Chiara, di eccezionali dimensioni, si credette di scorgere i simboli della Passione: il Crocifisso, il flagello, la colonna, la corona di spine, i tre chiodi e la lancia, la canna con la spugna. Inoltre nella cistifellea della santa si sarebbero riconosciuti tre globi di uguali dimensioni, peso e colore, disposti in forma di triangolo, come un simbolo della Santissima Trinità.

Erano trascorsi solo dieci mesi dalla morte di Chiara, quando il vescovo di Spoleto, Pietro Paolo Trinci, ordinò il 18 giugno 1309 di iniziare il processo informativo sulla sua vita e sulle virtù; poiché, però, avvenivano sempre nuovi miracoli e aumentava la devozione per la pia suora di Montefalco, molti fecero viva istanza presso la Santa Sede per la canonizzazione di Chiara; procuratore della causa fu Berengario di S. Africano, che a tal fine si recò nel 1316 ad Avignone da Giovanni XXII, il quale deputò il cardinale Napoleone Orsini, legato a Perugia, a informarsi e riferire.

Il nuovo processo, cominciato il 6 settembre 1318 e dal quale sarebbe dipesa certamente la canonizzazione di Chiara, per cause del tutto esterne non poté tuttavia aver seguito. Fu solo nel 1624 che Urbano VIII concesse, dapprima all'Ordine (14 agosto), poi alla diocesi di Spoleto (28 settembre), di recitare l'Ufficio e la Messa con preghiera propria in onore di Chiara, il cui nome Clemente X fece inserire, il 19 aprile 1673, nel Martirologio Romano. Nel 1736, Clemente XII ordinò la ripresa della causa e l'anno seguente la S. Congregazione dei Riti approvò il culto ab immemorabili; nel 1738, fu istruito il nuovo processo apostolico sulle virtù e i miracoli, ratificato dalla S. Congregazione dei Riti il 17 settembre 1743. In tal modo si poteva procedere all'approvazione delle virtù eroiche, che si ebbe, tuttavia, solo un secolo più tardi, dopo un ulteriore processo apostolico, incominciato il 22 ottobre 1850, conclusosi il 21 novembre 1851 e approvato dalla S. Congregazione dei Riti il 25 settembre 1852; solo l'8 dicembre 1881, però, la beata Chiara da Montefalco fu solennemente canonizzata da Leone XIII.

Il 17 agosto si commemora la santa, mentre il 30 ottobre si celebra la festa "Impressio Crucifixi in corde s. Clarae".

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) autore Nicolò De Re.

Taliesin
20-06-2012, 09.52.10
LA SANTUZZA DI SICILIA: ROSALIA DA PALERMO

In Sicilia vi è un intensissimo culto per tre giovani sante vergini, Lucia di Siracusa, Agata patrona di Catania e Rosalia patrona di Palermo. Il loro culto si è diffuso in tutti Paesi in cui sono arrivate le schiere di emigrati siciliani, che hanno portato con loro il ricordo struggente della natia Isola e delle loro tradizioni, unitamente al culto sincero e profondo per le tre sante siciliane.

Ma se s. Lucia di Siracusa († 304) e s. Agata di Catania († 250 ca.) furono martirizzate durante le persecuzioni contro i primi cristiani, s. Rosalia è una vergine non martire, vissuta molti secoli dopo e divenuta patrona di Palermo nel 1666 con culto ufficiale esteso a tutta la Sicilia.

Ciò nonostante la “Santuzza”, come affettuosamente viene chiamata dai palermitani, si affermò come una delle sante più conosciute e venerate nella cristianità siciliana e in particolare in quella palermitana; ancora oggi in qualsiasi parte del mondo s’incontrino i palermitani, si scambiano il saluto “Viva Palermo e santa Rosalia!”.

Purtroppo sulla sua vita vi sono poche notizie in parte leggendarie, ma piace considerare con lo scrittore fiorentino Piero Bargellini che: “È ben vero che le leggende sono come il vilucchio (pianta rampicante) attorno al fusto della pianta; la pianta già c’era prima che il vilucchio l’avvolgesse. Così la santità già esisteva, prima che la leggenda la rivestisse con i suoi fantastici fiori”.
E questo vale per tutti i santi che in tanti secoli e luoghi, hanno donato la loro vita, spesso patendo il martirio, sono rimasti ignorati a volte anche per lungo tempo, finché la loro esistenza, il loro sacrificio, le loro virtù eroiche non sono pervenuti a conoscenza del popolo di Dio e della Chiesa.

È il caso di s. Rosalia che nacque a Palermo nel XII secolo e, secondo antichi libri liturgici, morì il 4 settembre del 1160 a 35 anni.

La leggenda dice che era figlia del Duca Sinibaldo, feudatario, signore di Quisquinia e delle Rose, località ubicate fra Bivona e Frizzi, nel Palermitano, e di Maria Guiscarda, cugina del re normanno Ruggero II; giovanissima fu chiamata nel Palazzo dei Normanni, alla corte della regina Margherita, moglie di Guglielmo I di Sicilia (1154-1166); la sua bellezza attirava l’ammirazione dei nobili cavalieri; il più assiduo pretendente, sempre secondo la tradizione popolare, si vuole che fosse Baldovino, futuro re di Gerusalemme.

Rosalia visse in quel felice periodo di rinnovamento cristiano-cattolico, che i re Normanni ristabilirono in Sicilia, dopo aver scacciato gli Arabi che se n’erano impadroniti dall’827 al 1072; favorendo il diffondersi di monasteri Basiliani nella Sicilia Orientale e Benedettini in quella Occidentale; apprezzando inoltre l’opera religiosa e monastica del certosino s. Brunone e del cistercense s. Bernardo di Chiaravalle.
In quest’atmosfera di fervore e rinnovamento religioso, s’inserì la vocazione eremitica della giovane nobile Rosalia; bisogna dire che in quel tempo l’eremitismo era fiorente in quei secoli, sia nel campo maschile sia in quello femminile.

Seguendo l’esempio degli anacoreti, che lasciati gli agi e la vita attiva si ritiravano in una grotta o in una cella, di solito nei dintorni di una chiesa o di un convento, così da poter partecipare alle funzioni liturgiche e avere nel contempo un’assistenza religiosa dai vicini monaci; così Rosalia si ritirò in una grotta del feudo paterno di Quisquinia a circa 20 km. da Palermo sulle Madonie, vicina a dei Benedettini.
Da lì la giovane eremita, dopo un periodo di penitenza non definito, si trasferì in una grotta sul Monte Pellegrino, stupendo promontorio palermitano; accanto ad una preesistente chiesetta bizantina, in una cella costruita sopra il pozzo tuttora esistente.
Anche qui nei dintorni, i Benedettini avevano un convento e poterono seguire ed essere testimoni della vita eremitica e contemplativa di Rosalia, che visse in preghiera, solitudine e mortificazioni; molti palermitani, salivano il monte attratti dalla sua fama di santità.

Secondo la tradizione morì il 4 settembre, che si presume, dell’anno 1160. In seguito fu oggetto di culto con l’edificazione di chiese a lei dedicate in varie zone siciliane, oltre la cappella già sul Monte Pellegrino e riprodotta in immagine nella cattedrale di Palermo e di Monreale; una chiesa sorse lontano, a Rivello (Potenza) nella diocesi di Policastro.
Ma all’inizio del 1600 il suo culto era talmente scaduto al punto che non veniva più invocata nelle litanie dei santi patroni di Palermo; ciò non esclude comunque un culto ininterrotto anche se di tono minore, durato nei quattro secoli e mezzo, che vanno dalla sua morte al 1600.
Sul Monte Pellegrino fino al primo Cinquecento erano vissuti i cosiddetti “romiti di s. Rosalia” dimoranti in alcune grotte vicine a quella, dove per tradizione era vissuta e morta la giovane eremita.

Verso la metà del sec. XVI, il viceré Giovanni Medina, fece costruire per l’”Ordine Francescano Riformato di Santa Rosalia e del Monte Pellegrino”, un convento accanto alla grotta adattata a chiesa. Ad ogni modo studiosi agiografi hanno trovato documenti che testimoniano, che già nel 1196 e decenni successivi, l’eremita veniva chiamata “Santa Rosalia”.

E arriviamo al 26 maggio 1624, quando una donna (Girolama Gatto) ridotta in fin di vita, vide in sogno una fanciulla vestita di bianco, che le prometteva la guarigione se avesse fatto voto di salire sul Monte Pellegrino per ringraziarla.
La donna salì sul monte con due amiche, era di nuovo in preda alla febbre quartana, ma appena bevve l’acqua che gocciola dalla grotta, si sentì guarita, cadendo in un riposante torpore e qui le riapparve la giovane vestita di bianco, ravvisata come in s. Rosalia, che le indicò il posto dove erano sepolte le sue reliquie.

La cosa venne riferita ai frati eremiti francescani del vicino convento, i quali già nel Cinquecento con il loro superiore s. Benedetto il Moro (1526-1589), avevano tentato di trovare le reliquie senza riuscirvi, quindi ripresero le ricerche, aiutati da tre fedeli, finché il 15 luglio 1624 a quattro metri di profondità, trovarono un masso lungo sei palmi e largo tre, a cui aderivano delle ossa.
Per ordine del cardinale arcivescovo di Palermo Giannettino Doria, il masso fu trasferito in città nella sua cappella privata, dove fu esaminato con i resti trovati, da teologi e medici; il risultato fu deludente, avendo convenuto che le ossa potevano appartenere a più corpi e poi nessuno dei tre teschi trovati, sembrava appartenere ad una donna.
Il cardinale non convinto, nominò una seconda commissione; intanto Palermo fu colpita dalla peste nell’estate del 1624 mietendo migliaia di vittime (la stessa epidemia che colpì Milano e descritta dal Manzoni nei ‘Promessi sposi’). Il cardinale radunò nella cattedrale popolo e autorità e tutti insieme chiesero aiuto alla Madonna, facendo voto di difendere il privilegio dell’Immacolata Concezione di Maria, che era argomento contrastante nella Chiesa di allora e nel contempo di dichiarare s. Rosalia patrona principale di Palermo, venerando le sue reliquie, quando si sarebbero riconosciute.

A tutto ciò si aggiunge la scoperta di due muratori palermitani, che lavorando nel convento dei Domenicani di S. Stefano, trovarono in una grotta di Quisquinia, il 25 aprile 1624, un’iscrizione latina a tutti ignota, che si credette incisa dalla stessa s. Rosalia, quando vi aveva abitato e che diceva: “Io Rosalia, figlia di Sinibaldo, signore della Quisquina e (del Monte) delle Rose, per amore del Signore mio Gesù Cristo, stabilii di abitare in questa grotta”; che confermava il precedente eremitaggio, seguito poi da quello sul Monte Pellegrino.

L’11 febbraio 1625 la nuova commissione, stabilì che le ossa erano di una sola persona chiaramente femminile, dei tre crani, si scoprì che due erano un orciolo di terracotta e un ciottolone, mentre il terzo che sembrava molto grande, era invece ingrossato da depositi calcarei, che una volta tolti rivelarono un cranio femminile; anche la prima commissione ne riesaminò i resti e concordò con il risultato della seconda commissione.

A ciò si aggiunse un prodigio, un uomo Vincenzo Bonelli essendogli morta la moglie di peste e non avendolo denunziato, fuggì sul Monte Pellegrino e qui gli apparve la “Santuzza” predicendogli la morte per peste e ingiungendogli, se voleva la sua protezione per l’anima, di dire al cardinale che non dubitasse più dell’autenticità delle reliquie e le portasse in processione per la città, solo così la peste sarebbe finita.
Tornato in città, effettivamente si ammalò di peste e prima di morire confessò ciò che gli era stato rivelato. Il 9 giugno del 1625, l’urna costruita apposta per le reliquie, fu portata in processione con la partecipazione di tutta la popolazione e con grande solennità; la peste cominciò a regredire e il 15 luglio quando si fece il pellegrinaggio sul Monte Pellegrino, nell’anniversario del ritrovamento delle reliquie, non comparve più nessun caso di appestato.
Il cardinale fece costruire nella cattedrale un magnifico altare, dove venne sistemata la fastosa urna d’argento massiccio con le reliquie della santa, il cui nome fu per tradizione interpretato come composto da ‘rosa’ e ‘lilia’, rosa e gigli, simboli di purezza e di unione mistica; per questo la ‘Santuzza’ è rappresentata con il capo cinto di rose.

Da quel 1625 il culto fu autorizzato e rinverdito dalla Chiesa palermitana per la vergine eremita orante e contemplante sul Monte Pellegrino, quale testimonianza di eccezionale ascesi cristiana, che nei secoli non è stato mai dimenticata dal popolo palermitano. Da 350 anni i pellegrini salgono sul monte, definito da Goethe nel suo ‘Viaggio in Italia’, il promontorio più bello del mondo.

Si saliva a piedi faticosamente, finché il Senato palermitano fece costruire nel 1725 un’ardita strada fra pini ed eucalipti. Palermo ha sempre onorato s. Rosalia, secondo le due festività stabilite nel 1630 da papa Urbano VIII, che le inserì nel ‘Martirologio Romano’, cioè il 15 luglio anniversario del ritrovamento delle reliquie e il 4 settembre giorno della morte della ‘Santuzza’; le feste specie quella di luglio durano una settimana, con la partecipazione di tutto il popolo e di tanti emigranti che ritornano per l’occasione.

La statua della ‘Santuzza’ circondata da altre statue, troneggia sulla cima della cosiddetta ‘macchina’ che è un carro a forma di nave, sul quale vi è anche una banda musicale, che viene trasportato per la città, il tutto viene chiamato “U Fistinu”.

La seconda festa del 4 settembre si svolge come un pellegrinaggio al santuario sul Monte Pellegrino, dove conglobando la grotta, si costruì un Santuario, la cui pittoresca facciata risale al XVII secolo, all’interno si sono accumulate tante opere d’arte dei vari secoli successivi; una parte è ancora a cielo aperto, le pareti sono coperte di ex voto e lapidi lasciate da illustri visitatori.
Una cancellata divide questa prima parte del santuario, dalla grotta nella quale sono presenti altari e opere d’arte singolari, che ricordano la presenza della santa; di fronte al luogo dove furono trovate le reliquie della ‘Santuzza’ sorge lo stupendo altare coperto da un baldacchino, con un sontuoso tabernacolo sormontato da una statua d’argento della santa, donati dal Senato di Palermo nel 1667. Sotto l’altare si venera la statua del 1625, che rappresenta s. Rosalia giacente in atto di esalare l’ultimo respiro e che fu rivestita d’oro per disposizione del re Carlo III di Borbone (1716-1788).

Alla grotta sul monte, insieme agli anonimi pellegrini, salirono a venerare la santa eremita, anche tanti illustri visitatori; autorità ecclesiastiche, principi, re, imperatori, letterati, poeti, musicisti, artisti.

Le reliquie deposte nell’artistica e massiccia urna d’argento, sono conservate nel Duomo di Palermo.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Antonio Borrelli

p.s. dedicato alla terra di meraviglie, di Milady Elisabeth, che ha cullato le grandi civiltà del mondo antico e moderno, sospesa tra il profumo di petali di rose e ghirlande di agrumi, di genti genuine che di torri si coronano il capo, di letteratura e poesia scondinata all'ombra di sospirosi cipressi...

Taliesin
20-06-2012, 10.06.45
LA SIGNORA DI TURINGIA: ELISABETTA D'UNGHERIA

A quattro anni di età è già fidanzata. Suo padre, il re Andrea II d’Ungheria e la regina Gertrude sua madre l’hanno promessa in sposa a Ludovico, figlio ed erede del sovrano di Turingia (all’epoca, questa regione tedesca è una signoria indipendente, il cui sovrano ha il titolo di Landgraf, langravio). E subito viene condotta nel regno del futuro marito, per vivere e crescere lì, tra la città di Marburgo e Wartburg il castello presso Eisenach.

Nel 1217 muore il langravio``di Turingia, Ermanno I. Muore scomunicato per i contrasti politici con l’arcivescovo di Magonza, che è anche signore laico, principe dell’Impero. Gli succede il figlio Ludovico, che nel 1221 sposa solennemente la quattordicenne Elisabetta. Ora i sovrani sono loro due. Lei viene chiamata “Elisabetta di Turingia”. Nel 1222 nasce il loro primo figlio, Ermanno. Seguono due bambine: nel 1224 Sofia e nel 1227 Gertrude. Ma quest’ultima viene al mondo già orfana di padre.

Ludovico di Turingia si è adoperato per organizzare la sesta crociata in Terrasanta , perché papa Onorio III gli ha promesso di liberarlo dalle intromissioni dell’arcivescovo di Magonza. Parte al comando dell’imperatore Federico II.``Ma non vedrà la Palestina: lo uccide un male contagioso a Otranto.

Vedova a vent’anni con tre figli, Elisabetta riceve indietro la dote, e c’è chi fa progetti per lei: può risposarsi, a quell’età , oppure entrare in un monastero come altre regine , per viverci da regina, o anche da penitente in preghiera , a scelta. Questo le suggerisce il confessore. Ma lei dà retta a voci francescane che si fanno sentire in Turingia , per dire da che parte si può trovare la “perfetta letizia”. E per i poveri offre il denaro della sua dote (si costruirà un ospedale). Ma soprattutto ai poveri offre l’intera sua vita. Questo per lei è realizzarsi: facendosi come loro. Visita gli ammalati due volte al giorno, e poi raccoglie aiuti facendosi mendicante. E tutto questo rimanendo nella sua condizione di vedova, di laica.

Dopo la sua morte, il confessore rivelerà che, ancora vivente il marito, lei si dedicava ai malati, anche a quelli ripugnanti: "Nutrì alcuni, ad altri procurò un letto, altri portò sulle proprie spalle, prodigandosi sempre, senza mettersi tuttavia in contrasto con suo marito".

Collocava la sua dedizione in una cornice di normalità, che includeva anche piccoli gesti “esteriori”, ispirati non a semplice benevolenza, ma a rispetto vero per gli “inferiori”: come il farsi dare del tu dalle donne di servizio. Ed era poi attenta a non eccedere con le penitenze personali ,che potessero indebolirla e renderla meno pronta all’aiuto. Vive da povera e da povera si ammala, rinunciando pure al ritorno in Ungheria, come vorrebbero i suoi genitori, re e regina.

Muore in Marburgo a 24 anni, subito “gridata santa” da molte voci, che inducono papa Gregorio IX a ordinare l’inchiesta``sui prodigi che le si attribuiscono. Un lavoro reso difficile da complicazioni anche tragiche: muore assassinato il confessore di lei; l’arcivescovo di Magonza cerca di sabotare le indagini. Ma Roma le fa riprendere.

E si arriva alla canonizzazione nel 1235 sempre a opera di papa Gregorio. I suoi resti, trafugati da Marburgo durante i conflitti al tempo della Riforma protestante, sono ora custoditi in parte a Vienna. E’ compatrona dell’Ordine Francescano secolare assieme a S. Ludovico.


Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Domenico Agasso

Taliesin
20-06-2012, 12.20.31
MARIA, MATER GRATIAE: ELISABETTA DEL PORTOGALLO

Elisabetta nacque a Saragozza (Spagna) nel 1271 da Pietro III d'Aragona, e da Costanza, figlia di Manfredi, successo al padre, l'imperatore Federico II, nel regno di Sicilia. Al fonte battesimale le fu imposto il nome della santa prozia, regina d'Ungheria. Dopo la sua nascita si riconciliarono tra loro il padre e il nonno, Giacomo I il Conquistatore che, fino alla morte (1276), volle prendersi cura della educazione di lei. A otto anni, Elisabetta aveva già imparato a recitare ogni giorno l'ufficio divino, a soccorrere i poveri e a praticare rigorosi digiuni. La sua infanzia fu di corta durata perché, a dodici anni fu data in sposa a Dionisio il Liberale, re di Portogallo, fondatore dell'università di Coimbra e dell'ordine del Cristo.

Alla corte della casa reale di Portogallo, Elisabetta non tralasciò le buone abitudini prese pur non trascurando i nuovi doveri di regina e di sposa. Continuò a levarsi di buon mattino per andare in cappella ad ascoltare la Messa in ginocchio, fare sovente la comunione, e dire l'ufficio della SS. Vergine e dei morti. Dopo pranzo ritornava in cappella per terminare l'ufficio divino, fare letture spirituali e abbandonarsi a svariate orazioni tra un profluvio di lacrime. Il tempo libero lo impegnava a confezionare suppellettili per le chiese povere, con l'aiuto delle dame di corte.

A queste buone opere altre ne aggiunse di mano in mano che veniva a conoscenza delle pubbliche necessità. Non ci furono difatti chiese, ospedali o monasteri alla cui costruzione ella non contribuisse con regale generosità. Alcuni ne fece costruire, ella stessa, a Santarém e a Coimbra.
La sua ultima fondazione fu una cappella in onore della SS. Vergine nel convento della Trinità, a Lisbona. Essa fu il primo santuario in cui si sia venerata l'Immacolata Concezione. Prima di morire volle pure istituire una confraternita intitolata alla SS. Trinità.

Perché il suo spirito fosse sempre pronto alla contemplazione, Elisabetta digiunava abitualmente tre volte alla settimana, tutta la quaresima, tutto l'avvento e dalla festa di S. Giovanni Battista all'Assunta. I venerdì e i sabati che precedevano le feste della SS. Vergine si cibava soltanto di pane e acqua. Nella sua sete di penitenza, ella si sarebbe data ad altre austerità, se il marito glielo avesse permesso. I medici le ordinarono, per un certo tempo almeno, di abbandonare le mortificazione di gola, ma ella continuò a bere dell'acqua. Un giorno però Iddio intervenne a favore dei discepoli di Esculapio, mutando in vino una brocca d'acqua che le era stata portata.

Anche la carità di Elisabetta per i poveri e i nobili decaduti fu incomparabile. Al suo elemosiniere aveva dato ordine di non mandare mai via nessun bisognoso a mani vuote. Ella fece inviare dei viveri a monasteri poveri e a regioni colpite dalle avversità; protesse gli orfani; soccorse le giovani pericolanti; tutti i venerdì di quaresima, dopo aver lavato e baciato i piedi a tredici poveri, li faceva vestire di abiti nuovi; il giovedì santo compiva la medesima opera buona a favore di tredici donne. A contatto delle sue mani e delle sue labbra, una malata guarì da una piaga al piede e uno storpio lebbroso, da entrambe le infermità.

Nel 1290 Elisabetta diede alla luce una figlia, Costanza, che in seguito fu maritata a Ferdinando IV di Castiglia. L'anno dopo partorì l'erede al trono, Alfonso IV il Valoroso. Per la sua famiglia Elisabetta fu un vero angelo tutelare. Ella non si accontentò di dare dei buoni consigli ai figli, ma esortò anche il marito a governare i sudditi con giustizia e mitezza senza dare ascolto ai vani discorsi degli adulatori o ai falsi rapporti degli invidiosi. Tuttavia, dopo qualche anno passato nella concordia e nella più dolce intimità con lui, Dio permise che cominciasse, per Elisabetta, un vero calvario a causa degli illeciti amori ai quali il re, a poco a poco, si abbandonò. Elisabetta se ne afflisse più per l'offesa fatta a Dio che per l'affronto fatto a lei. Con dolcezza cercò di ricondurlo sul retto cammino e, senza uscire in amari lamenti, spinse il suo eroismo fino a curare l'educazione dei figli naturali di lui come se fossero propri. La nobiltà, temendo che i bastardi del re acquistassero troppo ascendente nel paese, eccitarono alla rivolta il figlio ereditario. Alfonso prese difatti le armi contro il padre, con immenso dolore di Elisabetta, la quale si schierò dalla parte del sovrano e cercò ripetutamente di rappacificare i due avversari. Siccome erano sordi alle sue esortazioni, ella moltiplicò le preghiere, i digiuni e anche le lettere di rimprovero al figlio.

Ciononostante cortigiani mal intenzionati giunsero a far credere al re che la sua consorte aiutava segretamente il figlio ribelle. La calunnia fu creduta dal sovrano, il quale privò Elisabetta della signoria di Leiria, che le apparteneva e la confinò nella fortezza di Alemquer. Parecchi grandi del regno andarono ad offrirle i loro servigi, ma la Santa preferì affidarsi alle mani della divina Provvidenza anziché permettere di venire reintegrata nei suoi diritti con le armi. Il re riconobbe al fine il suo torto, richiamò Elisabetta e le diede in appannaggio la città di Torres-Vedras.

La regina continuò ad adoperarsi affinchè nella sua famiglia ritornasse la pace. Al tempo dell'assedio di Coimbra (1319), da parte di suo figlio, la madre si portò a cavallo in mezzo ai soldati delle opposte fazioni, con un crocifisso in mano, e riuscì a riconciliare padre e figlio. La guerra ricominciò più violenta poco tempo dopo a Lisbona. Elisabetta, che preferiva la pace a tutto l'oro del mondo, montò sopra una mula e si slanciò tra i due eserciti per scongiurarli, con le parole e con le lacrime, a scendere a patti. In quelle circostanze la Santa riuscì a pacificare per sempre i due contendenti.

Elisabetta aveva iniziato il suo compito di pacificatrice in occasione delle contese sorte tra suo marito e suo cognato, il turbolento Alfonso di Portalegre, a motivo di qualche possedimento. La santa aveva evitato che venissero alle mani cedendo a Dionisio parte delle sue rendite, per risarcirlo delle terre che era stato costretto a cedere al fratello. Anche presso il rè di Spagna l'intrepida regina svolse opera di pace affinchè potessero fare blocco nella lotta contro i mori. Impedì difatti una guerra tra suo marito e il genero, Ferdinando IV di Castiglia.

Dionisio, alla preghiera della sposa, si convertì e passò accanto a lei gli ultimi anni di vita. Al tempo dei suoi disordini, la regina si serviva di un paggio di fiducia per far giungere le elemosine ai bisognosi. Un paggio del re, geloso di quella preferenza, decise di perderlo, accusandolo al sovrano di illecite relazioni con la regina . Dionisio gli prestò fede, se ne adombrò e decise segretamente di far morire il favorito. Un giorno, uscito a cavallo, s'imbatté in una fornace di calce. Si avvicinò agli operai e diede ad essi l'ordine di gettare subito nel fuoco il paggio che si sarebbe presentato a chiedere loro se fosse già stato eseguito il comando del sovrano.

L'indomani vi mandò il paggio della regina, ma costui, passando davanti ad una chiesa, sentì suonare la campanella e vi entrò per ascoltare la Messa.
Dopo un po' di tempo il re, che smaniava di sapere che fine avesse fatto il paggio, chiamò il calunniatore e lo mandò a chiedere ai fochisti della fornace se il comando del re era stato eseguito. Gli operai, credendo che quello fosse il paggio di cui il re aveva parlato loro, lo presero e lo buttarono vivo nel fuoco. Poco dopo si presentò pure il paggio votato alla morte. Appena seppe che l'ordine del re era stato eseguito, ritornò a darne notizia a chi lo aveva mandato. Il re, constatato con stupore che la sua macchinazione, per disposizione divina, aveva avuto un esito diverso da quello che si era proposto, cominciò da allora a rinsavire.

Dopo la morte del marito (1325), Elisabetta rinunciò al mondo, si tagliò i capelli, vestì l'abito del terz'ordine Francescano e andò pellegrina a San Giacomo de Compostela. In suffragio del re defunto, offrì al santuario la corona d'oro che aveva portato il giorno del matrimonio, con altri ricchissimi doni. Il vescovo della città le diede in cambio un bastone di pellegrino e una borsa che la santa volle portare con sé nella tomba.

Appena rientrò a corte fece fondere le sue argenterie a favore delle chiese, divise i diademi e le altre insegne regali tra la sovrana Beatrice e le sue nipoti e, a Coimbra, fece terminare la costruzione del monastero di Santa Chiara. In esso intendeva terminare la vita, ma ne fu distolta da savi sacerdoti, per ragioni di stato e per non privare tanti poveretti dei suoi aiuti. Elisabetta si accontentò di portare sempre l'abito della penitenza e di fare costruire presso il monastero un appartamento che le consentisse, con il permesso della Santa Sede, di ritirarvisi sovente a pregare, a conversare e a pranzare con le religiose. Abitualmente ne teneva cinque con sé per la recita corale dell'ufficio e la vita in comune.
Nel pomeriggio Elisabetta dava udienza con una pazienza e una bontà illimitata, ai poveri, ai malati, ai peccatori che ricorrevano a lei. Per tutti aveva una parola di consolazione, un'abbondante elemosina. Nel 1333 gli abitanti di Coimbra furono ridotti, dalla carestia, a cibarsi di sorci.

Elisabetta, senza prestare ascolto agli amministratori dei suoi beni che le raccomandavano la parsimonia, fece comperare per loro grandi quantità di cibarie e provvide persino che fossero seppelliti i morti, abbandonati nelle case per la grande desolazione. Quando era libera dalle opere di carità e nella notte, ella si ritirava in una stanzetta segreta. Lontana dagli sguardi indiscreti dava libero sfogo alle sue preghiere e alle sue contemplazioni. Altre volte andava a visitare i degenti nell'ospedale che aveva fatto costruire in onore di S. Elisabetta d'Ungheria e a curarli con le sue stesse mani.

L'ultimo anno di vita Elisabetta pellegrinò, una seconda volta, a San Giacomo de Compostela, con due donne. Volle fare a piedi il lungo viaggio nonostante i suoi 64 anni e mendicare di porta in porta il vitto quotidiano.

Al ritorno le fu annunziato che suo figlio, Alfonso re del Portogallo, e suo nipote Alfonso, re di Castiglia, si erano dichiarati guerra. Elisabetta si portò a Estremoz nella speranza di strappare parole di pace dalla bocca del figlio da portare al nipote in Castiglia, ma una violenta febbre non le lasciò nessuna speranza di vita. Si mise a letto, fece testamento alla presenza del figlio e della nuora, e ricevette il Viatico tra sospiri e lacrime, rivestita del suo abito di penitenza, inginocchiata, nonostante l'estrema debolezza, davanti all'altare eretto nel suo appartamento. Alla regina Bianca, che l'assisteva e che era stata la compagna delle sue visite ai poveri e ai malati, ella chiese che avvicinasse al suo letto una sedia per Maria SS. la quale le era apparsa radiosa, vestita di bianco, in compagnia di S. Chiara e di altre sante. Morì il 4-7-1336 dopo aver recitato il Credo e mormorato: Maria, mater gratiae.

Il corpo di Elisabetta fu trasportato a Coimbra e seppellito nella chiesa delle Clarisse dove si è conservato incorrotto. Urbano VIII la canonizzò il 24 giugno 1626

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Guido Pettinati

Taliesin
20-06-2012, 12.30.19
AI CONFINI DEL MEDIOEVO: BEATRICE DEL PORTOGALLO

E' una santa del Portogallo, vissuta in quel periodo di grande movimento politico, storico, culturale e religioso che precedette e fu contemporaneo dell’impresa di Cristoforo Colombo e della scoperta dell’America, avvenuta nel 1492.

Beatrice nacque a Campo Mayor nel 1424 in una famiglia nobile, sorella del beato Amedeo de Silva e imparentata con la famiglia reale portoghese. Accompagnò l’Infante Isabella del Portogallo come dama di onore, quando questa nel 1447 sposò Giovanni II di Castiglia; la sua bellezza e la sua virtù, attirò i nobili castigliani, che si contesero la sua amicizia e il suo amore; ciò suscitò la gelosia della regina Isabella che la maltrattò, fino a chiuderla per tre giorni in una cassapanca, mettendola a rischio di perdere la vita.

Una volta liberata, fece voto di castità e di nascosto, partì diretta a Toledo; la tradizione dice che l’accompagnarono nel viaggio le apparizioni di s. Francesco d’Assisi e di s. Antonio di Padova; giunta a Toledo entrò nel monastero domenicano di S. Domenico "El Real", dove visse per circa 30 anni.

Ma in lei già da tempo vi era il desiderio di fondare un nuovo Ordine religioso in onore dell’Immacolata Concezione, per questo scopo ottenne l’appoggio di Isabella la Cattolica (1451-1504), figlia di Giovanni II e dal 1474 regina di Castiglia e poi regina di Spagna nel 1479, dopo l’unione dei due regni di Castiglia e d’Aragona; la regina le donò il suo palazzo di Galiana in Toledo, con l’annessa chiesa di Santa Fè.

Beatrice nel 1484 si trasferì nella nuova residenza con dodici compagne, dando così inizio ad una nuova Famiglia monastica, l'Ordine della Immacolata Concezione, la cui Regola venne scritta da lei stessa. L'Ordine fu approvato da papa Innocenzo VIII il 30 aprile 1489.

Dopo aver ricevuto l’abito ed emesso i voti religiosi, morì a Toledo il 1° settembre 1490, alla vigilia della professione religiosa del primo gruppo del nuovo Ordine; precursore del culto e della teologia del dogma dell’Immacolata Concezione, che sarà proclamato circa 400 anni dopo da Pio IX.

Il suo culto instauratosi spontaneamente nel mondo francescano e iberico, fu confermato con il titolo di beata il 28 luglio 1926; papa Paolo VI l’ha canonizzata il 3 ottobre 1976.

Proclamandola santa nel 1976, PaoloVI ricordava ancora: «Nessuna parola di questa santa è pervenuta a noi nelle sue sillabe testuali, nessuna eco della sua voce»; ma la sua opera è viva nella«nuova e tuttora fiorentissima famiglia religiosa da lei fondata».

Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Antonio Borrelli

Taliesin
20-06-2012, 12.37.43
AGLI ALBORI DEL MEDIOEVO: GENOVEFFA DALLE BIANCHE GUANCE

La vita della vergine parigina Genèvieve è narrata nella Vita Genovefae, scritta circa venti anni dopo la sua morte. Il documento, seppur non scritto da uno storico e contenente aspetti leggendari, è considerato attendibile.

Genèvieve o Genoveffa è nata a Nanterre, nei dintorni di Parigi, intorno al 422. A sei anni fu consacrata a Dio da san Germano di Auxerre, in transito per recarsi in Inghilterra, dove dilagava l'eresia pelagiana. A 15 anni Genoveffa si consacrò definitivamente a Dio, entrando a far parte di un gruppo di vergini votate a Dio che, pur vestendo un abito che le distingueva dalle altre donne, non vivevano in convento, ma nelle loro case, dedicandosi ad opere di carità e penitenze.

Genoveffa faceva molto sul serio: prendeva cibo solo il giovedì e la domenica e dalla sera dell'Epifania al giovedì santo non usciva mai dalla sua cameretta. Nel 451 Parigi era sotto la minaccia degli Unni di Attila ed i parigini si apprestavano alla fuga. Genoveffa li convinse a restare in città, confidando nella protezione del cielo. Non tutti erano però daccordo con Genoveffa, al punto che la vergine rischiò di essere linciata, ma la minaccia degli Unni passò, lasciando però un altro problema serio, quello della carestia. Genoveffa, salì allora su un battello, risalì la Senna e procurò le granaglie presso i contadini, distribuendole poi generosamente.

Entrata in amicizia con i re Childerico e Clodoveo, sfruttò la sua posizione per ottenere la grazia per numerosi prigionieri politici.
Morì intorno al 502.

Sulla sua tomba venne eretto un modesto oratorio di legno, che fu il primo nucleo di una celebre abbazia, trasformata in basilica da re Luigi XV. Genoveffa era particolarmente invocata in occasione di gravi calamità, come la peste, per implorare la pioggia e contro le inondazioni della Senna.

Durante la rivoluzione francese i giacobini trasformarono la basilica di S. Genoveffa nel mausoleo dei francesi illustri, con il classico nome di Pantheon, distruggendone parzialmente le reliquie. Il culto a santa Genoveffa continuò nella vicina chiesa di Saint-Etienne-du-Mont e rimase molto popolari in tutta la Francia e in particolarmente a Parigi, città di cui la santa è patrona.

Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Maurizio Masinato

Taliesin
20-06-2012, 12.56.33
ORGOGLIO DI FAMIGLIA: CESARIA DI ARLES

Nata nei dintorni di Chalon-sur-Saone intorno al 465, C. visse per un certo tempo in un chiostro di Marsiglia; il fratello s. Cesario, creato vescovo di Arles nel 502, pensò a lei come alla futura superiora della comunità monastica femminile che intendeva introdurre nella sua città.

Il primo monastero di religiose, però, costruito nei pressi di Arles, non era ancora ultimato che fu distrutto nella guerra tra Franchi e Burgundi (508) Cesario non si perse di coraggio e, terminate le lotte, fece costruire un secondo edificio nella stessa località del primo: dedicato a s. Giovanni, il monastero fu inaugurato il 26 agosto 512 e la sua direzione venne affidata a Cesaria, chiamata da Marsiglia.

Per questa comunità Cesario redasse un'eccellente regola, i cui cardini sono la rinunzia a ogni proprietà personale, la perpetua clausura, I'esenzione dalla giurisdizione episcopale, I'ubbidienza alla superiora, detta matèr.

Cesaria ebbe: molte discepole e molte discepole e governò la comunità per oltre dieci anni: morì, infatti, poco ternpo dopo la dedicazione: della basilica di S. Maria (524), forse nel 525, e fu sepolta presso il sarcofago che il fratello si era riservato.

Onorata come santa già ai tempi di Venanzio Fortunato, che ne associa il nome a quello di Agnese, Cesaria è ricordata nel Martirologio Romano al 12 gennaio.


Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Gilbert Bataille

Taliesin
20-06-2012, 13.08.03
LE CAMPANE DI CASTELFIORENTINO: VERIDIANA ATTAVANTI

S. Verdiana (o Veridiana e Viridiana) è personaggio ben diverso da quello immortalato da Luis Bunuel in uno dei suoi film più caratteristici.

La santa nacque a Castelfiorentino nel 1182, ed è perciò coetanea di S. Francesco d'Assisi, che secondo la tradizione le fece visita nel 1221, ammettendola al Terz'ordine Francescano.

Benchè decaduta, la nobile famiglia degli Attavanti da cui ella nacque a Castelfiorentino godeva ancora di un certo prestigio. Un ricco parente la volle perciò accanto come amministratrice. Dedita però fin dall'infanzia all'orazione e all'astinenza, ella non poteva concepire questo suo incarico che come un'accresciuta possibilità di esercitare la carità.

Qualche volta la Provvidenza dovette intervenire con dei prodigi. Si racconta che un giorno suo zio aveva accumulato e rivenduto una certa quantità di derrate, il cui prezzo era salito alle stelle a causa di una grave carestia. Ma quando il compratore si presentò a ritirare il materiale acquistato, il magazzino risultò vuoto, perché nel frattempo Verdiana aveva donato tutto ai poveri. L'irritata reazione dello zio ebbe come unica risposta l'invito ad attendere ventiquattr'ore: effettivamente il giorno dopo Dio premiava la carità e la confidenza della fanciulla facendo ritrovare intatto il raccolto così generosamente donato.

Verdiana si recò poi in pellegrinaggio a Compostella, presso la tomba di S. Giacomo, che insieme a Roma era la grande meta dei pellegrini, specie dopo la perdita definitiva della Terrasanta. Ritornata a Castelfiorentino e sentendo vivo desiderio di solitudine e di penitenza, i suoi paesani, per trattenerla vicino, le edificarono in riva all'Elsa, attigua all'oratorio di S. Antonio, una celletta nella quale S. Verdiana rimase reclusa per 34 anni.

Da una finestrella assisteva alla Messa, parlava con i visitatori e riceveva lo scarso cibo di cui si nutriva. Attraverso questo spiraglio, secondo una tradizione raccolta pure dai pittori, penetrarono negli ultimi anni della sua vita due serpenti, che tormentarono la santa, la quale, ad accrescimento delle sue mortificazioni, mai ne rivelò la presenza.

Si racconta che la sua pia morte, avvenuta il 1° febbraio 1242, venne annunciata dal suono improvviso e simultaneo delle campane di Castelfiorentino non mosse da mano umana.

Il culto di S. Verdiana, rappresentata con gli abiti della congregazione Vallombrosana, venne approvato da Clemente VII nel 1533 ed è tuttora popolare in Toscana.


Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Piero Bargellini

Taliesin
20-06-2012, 13.12.39
I DIALOGHI DI UNA COLOMBA: SCOLASTICA DA NORCIA

Il nome di Scolastica, sorella di Benedetto da Norcia, richiama al femminile gli inizi del monachesimo occidentale, fondato sulla stabilità della vita in comune. Benedetto invita a servire Dio non già "fuggendo dal mondo" verso la solitudine o la penitenza itinerante, ma vivendo in comunità durature e organizzate, e dividendo rigorosamente il proprio tempo fra preghiera, lavoro o studio e riposo.

Da giovanissima, Scolastica si è consacrata al Signore col voto di castità. Più tardi, quando già Benedetto vive a Montecassino con i suoi monaci, in un altro monastero della zona lei fa vita comune con un gruppetto di donne consacrate.

La Chiesa ricorda Scolastica come santa, ma di lei sappiamo ben poco. L’unico testo quasi contemporaneo che ne parla è il secondo libro dei Dialoghi di papa Gregorio Magno (590-604). Ma i Dialoghi sono soprattutto composizioni esortative, edificanti, che propongono esempi di santità all’imitazione dei fedeli mirando ad appassionare e a commuovere, senza ricercare il dato esatto e la sicura referenza storica. Inoltre, Gregorio parla di lei solo in riferimento a Benedetto, solo all’ombra del grande fratello, padre del monachesimo occidentale.

Ecco la pagina in cui li troviamo insieme.
Tra loro è stato convenuto di incontrarsi solo una volta all’anno. E Gregorio ce li mostra appunto nella Quaresima (forse) del 542, fuori dai rispettivi monasteri, in una casetta sotto Montecassino. Un colloquio che non finirebbe più, su tante cose del cielo e anche della terra. L’Italia del tempo è una preda contesa tra i Bizantini del generale Belisario e i Goti del re Totila, devastata dagli uni e dagli altri. Roma s’è arresa ai Goti per fame dopo due anni di assedio, in Italia centrale gli affamati masticano erbe e radici. A Montecassino passano vincitori e vinti; passa Totila attratto dalla fama di Benedetto, e passano le vittime della violenza, i portatori di tutte le disperazioni, gli assetati di speranza...

Viene l’ora di separarsi. Scolastica vorrebbe prolungare il colloquio, ma Benedetto rifiuta: la Regola non s’infrange, ciascuno torni a casa sua. Allora Scolastica si raccoglie intensamente in preghiera, ed ecco scoppiare un temporale violentissimo che blocca tutti nella casetta. Così il colloquio può continuare per un po’ ancora. Infine, fratello e sorella con i loro accompagnatori e accompagnatrici si separano; e questo sarà il loro ultimo incontro.

Tre giorni dopo, leggiamo nei Dialoghi, Benedetto apprende la morte della sorella vedendo la sua anima salire verso l’alto in forma di colomba. I monaci scendono allora a prendere il suo corpo, dandogli sepoltura nella tomba che Benedetto ha fatto preparare per sé a Montecassino; e dove sarà deposto anche lui, morto in piedi sorretto dai suoi monaci, intorno all’anno 547.

Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Domenico Agasso

Taliesin
20-06-2012, 13.21.25
L'IMPERATRICE DI FERRO: CUNEGONDA DI BAVIERA
Le Chiese d’Oriente e d’Occidente in due millenni di cristianesimo hanno attribuito l’aureola della santità quale corona eterna a non poche imperatrici, e talvolta anche ai loro mariti, che sedettero sui troni di Roma, di Costantinopoli e del Sacro Romano Impero.

Sfogliando le pagine dell’autorevole Bibliotheca Sanctorum e della Bibliotheca Sanctorum Orientalium possiamo trovare i loro nomi: Adelaide, Alessandra e Serena (presunte mogli di Diocleziano), Ariadne, Basilissa (o Augusta), Cunegonda, Elena, Eudossia, Irene d’Ungheria (moglie di Alessio I Comneno), Irene la Giovane (moglie di Leone IV Chazaro), Marciana, Pulcheria, Placilla, Riccarda, Teodora (moglie di Giustiniano), Teodora (moglie di Teofilo l’Iconoclasta), Teofano. Anche nel XX secolo non sono mancate sante imperatrici: Sant’Alessandra Fedorovna, moglie dell’ultimo zar russo canonizzata dal Patriarcato di Mosca, la Serva di Dio Elena di Savoia, imperatrice d’Etiopia, ed in fama di santità è anche Zita di Borbone, moglie del Beato Carlo I d’Asburgo ed ultima imperatrice d’Austria.

Santa Cunegonda, oggi festeggiata, è venerata anche insieme al marito, l’imperatore Enrico II, la cui festa è però celebrata separatamente al 13 luglio. Le fonti relative a questa santa sono purtroppo costituite da notizie sparse, tramandate da alcuni cronisti contemporanei quali Tietmaro di Mersburgo e Rodolfo il Glabro, nonché da una vita composta da un canonico di Bamberga oltre un secolo dopo la morte.

I genitori diedero alla figlia, sin dai primi anni, una profonda educazione cristiana. All’età di circa vent’anni, Cunegonda sposò il duca di Baviera, Enrico appunto, che nel 1002 venne incoronato re di Germania e nel 1014 sacro romano imperatore.
Su questo matrimonio, specialmente al principio del XX secolo, sono sorte parecchie polemiche: in alcuni testi antichi infatti, tra i quali la bolla di papa Innocenzo III, si narra che i due coniugi fecero voto di perpetua verginità e si parlò così di “matrimonio di San Giuseppe” e per tale motivo a Cunegonda è stato talvolta attribuito il titolo di “vergine”, ma secondo altri autori moderni una simile qualifica non corrisponderebbe alle narrazioni di contemporanei come Rodolfo il Glabro. Secondo quest’ultimo, I fatti, Enrico si accorse della sterilità della moglie, ma nonostante il matrimoniale germanico ammettesse il ripudio, non volle usare questo diritto per la grande pietà e santità che riscontrava nella consorte e preferì continuare a vivere insieme a lei pur senza speranza di prole.

Fu proprio ciò, unitamente alla fama di santità che circondò i due coniugi, a far nascere in seguito la leggenda del cosiddetto “matrimonio di San Giuseppe”.

Nella Vita e nella bolla pontificia di canonizzazione si legge che Cunegonda fu oggetto di una grande calunnia di infedeltà coniugale ed Enrico, per provarne l’innocenza, decise di sottoporla alla prova del fuoco. La moglie accettò e passò miracolosamente indenne a piedi nudi sopra vomeri infuocati. L’imperatore chiese perdono all’augusta consorte per aver dato troppo credito agli accusatori e da quel momento visse in piena stima e fiducia nei suoi confronti. Non ci è dato sapere quale validità storica abbia concretamente questo episodio, resta comunque il suo alto valore simbolico.

Il 10 agosto 1002 a Paderborn Cunegonda fu incoronata regina e nel 1014 si recò a Roma con il marito per ricevere la corona imperiale dalle mani di papa Benedetto VIII, il 14 febbraio di quell’anno.

La vita dell’imperatrice costituì un mirabile esempio di carità, umiltà e mortificazione, virtù che la caratterizzarono in molteplici manifestazioni. Assecondata dal pio marito, nel 1007 fece erigere il duomo di Bamberga e nel 1021 il monastero di Kaufungen, fondato in seguito ad un voto fatto durante una gravissima malattia da cui uscì pienamente ristabilita.

Proprio in questo monastero benedettino volle ritirarsi nel 1025, addolorata per la perdita del marito. Nel giorno anniversario della morte di Enrico II, Cunegonda convocò parecchi vescovi per la dedicazione della chiesa di Kaufungen, cui donò una reliquia della Santa Croce. Dopo la lettura del Vangelo, si spogliò delle insegne e degli abiti imperiali, si fece tagliare i capelli e vestì il rozzo saio benedettino. Continuò, come già aveva fatto in precedenza, a spendere il suo patrimonio nell’edificazione di nuovi monasteri, decorando chiese ed aiutando i poveri. Intrapresa dunque la vita monastica, visse in assoluta umiltà come se mai fosse stata addirittura imperatrice. Prese a trascorrere gran parte delle sue giornate in preghiera e nella lettura delle Sacre Scritture, non disdegnando però i lavori manuali ed i servizi più umili. Un compito assegnatole che gradì particolarmente fu la visita alle consorelle ammalate per portare loro conforto ed assistenza.
Si distinse inoltre per la pratica severa della penitenza: asumeva infatti esclusivamente il cibo indispensabile per sopravvivere, rifiutando ciò che poteva solleticare in qualche maniera il palato.
Sino al termine dei suoi giorni Cunegonda condusse questo stile di vita.

Morì infine il 3 marzo di un anno imprecisato, generalmente viene preferito il 1033 anziché il 1039. Le sue spoglie mortali trovarono degna sepoltura presso quelle del marito nella cattedrale di Bamberga. Nei primi anni non fu oggetto di grande culto, ma dal XII secolo la venerazione nei suoi confronti crebbe grandemente fino a superare quella tributata già in precedenza ad Enrico.

La causa di canonizzazione fu introdotta sotto il pontificato di Celestino III, ma solo Innocenzo III con bolla del 29 marzo 1200 ne approvò ufficialmente il culto. Nella diocesi di Bamberga nel XV secolo ben quattro solenni celebrazioni erano dedicate alla memoria della santa imperatrice: il 3 marzo (anniversario della morte), il 29 marzo (anniversario della canonizzazione), il 9 settembre (traslazione delle reliquie) ed il 1° agosto (commemorazione del primo miracolo).


Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Fabio Arduino

Taliesin
20-06-2012, 14.07.40
LA FANCIULLA DEGLI ANGELI: COLETTA DI CORBIE
Chiamata Nicoletta (familiarmente Colette) in onore di Nicola di Bari, intraprende la sua particolare esperienza religiosa a 18 anni, dopo la morte dei genitori. E la conclude a 25 su consiglio del francescano Enrico di Baume, tornando fra le clarisse, dopo essere stata tra le beghine e le terziarie francescane e aver tentato anche una esperienza da eremita, perché si sente chiamata alla riforma degli ordini religiosi istituiti da san Francesco e santa Chiara.

Questa santa francescana, fu per molti aspetti una bambina prodigiosa e dotata di straordinari carismi: della vita di questa suora, che con eroica fede compì le richieste di Dio, sono note le estasi, levitazioni, profezie, sguardo al cuore e rivelazioni sulla vita dei defunti nell’aldilà nonché sorprendenti miracoli, fra cui anche resurrezioni.

Fu anche nota la sua straordinaria volontà nel rispettare le originali leggi severe dell’ordine delle clarisse. Non può quindi stupire il fatto che, in tale esistenza, si siano verificate diverse volte interventi da parte degli angeli.

Questa santa fu regalata ai suoi genitori, in quanto sua madre la ebbe quando aveva già 60 anni, nonostante il suo desiderio di un figlio e anni di preghiera per averlo, non era mai stato mai esaudito. Dopo l’intercessione dell’allora tanto venerato S. Nicola di Bari, l’anziana signora il 13 gennaio 1381 concepì la bambina, che chiamò, per ricordare il Santo, Nicoletta, abbreviata con Coletta.

Il luogo di nascita della santa Coletta fu Corbie nelle Fiandre, dove suo padre Roberto Boellet lavorava come carpentiere nel monastero benedettino.

Già da bambina, Coletta fu particolarmente seria e si impegnava in opere di carità e mortificazione. La ragazza, dopo varie esperienze religiose, entrò, dopo la morte dei genitori, nel terzo ordine di S. Francesco, conducendo, in seguito, una vita di ancora maggiore abnegazione e penitenza. Dalla divina provvidenza le venne assegnato il compito di riformare l’ordine delle clarisse, la cui disciplina lasciava in alcune parti a desiderare. Per questo scopo passò all’ordine delle clarisse e fece nel 1406 a Nizza, davanti a Papa Benedetto XIII (Petrus de Luma), la professione dei voti. Da egli ottenne tutti i permessi per le necessarie riforme dell’ordine. Noncurante di tutti gli ostacoli, riuscì a realizzarle, riportando molti monasteri alla originale severità delle regole dell’ordine. Fondò inoltre 17 nuovi monasteri, le cui religiose si chiamano da allora ‘le colette’.

Il francescano Pietro de Vaux, che la conosceva personalmente molto bene e che fu presente al momento della sua morte, il 6 marzo del 1447 a Gent (Belgio) racconta anche, oltre a tanti altri miracolosi eventi della vita di S. Coletta, di diverse apparizioni angeliche: diversi benefattori di S. Coletta, attaccati nel peggior dei modi da persone di animo cattivo, furono, in seguito alle preghiere di S. Coletta, protetti e tutelati dagli angeli.

Anche lei stessa ricevette più di una volta l’aiuto e la protezione, tangibili e vistosi, degli angeli durante difficili prove ed afflizioni, soprattutto in momenti un cui fu perseguitata da spiriti maligni.

Durante la morte di S. Coletta si sentì nei monasteri riformati e da lei particolarmente amati un canto meraviglioso degli angeli, durante il quale uno di loro diffuse il messaggio: ”la venerabile suora Coletta è tornata dal Signore.” Una suora, avente anch’essa particolari virtù e carismi, vide, al momento della morte della S. Coletta, una grande schiera celeste, nel cui centro l’anima della defunta venne portata con meravigliose melodie alla beatitudine di Dio.

Papa Pio VII santificò Coletta, che giustamente viene chiamata la seconda madre delle clarisse, il 24 maggio del 1807.
Il suo corpo riposa a Poligny.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Don Marcello Stanzione

Taliesin
20-06-2012, 14.14.42
LA PRINCIPESSA POVERA: AGNESE DI BOEMIA

Giovanni Paolo II, durante il suo lungo pontificato, se da un lato non ha mancato di proporre agli uomini di oggi dei modelli di santità a loro vicini nel tempo, non ha però disdegnato anche di elevare agli onori degli altari alcune significative figure visute nei primi secoli del secondo millenio, tra le quali la principessa Sant’Agense di Boemia.

Figlia del sovrano boemo Premysl Otakar I e della regina Costanza, sorella di Andrea II re d'Ungheria, Agnese nacque a Praga nel 1211.

Sin dall’infanzia fu oggetto di svariati progetti di fidanzamento
indipendentemente dalla sua volontà, cosa comune a quel tempo meramente per speculazioni politiche e convenienze dinastiche. All’età di tre anni fu affidata alle cure della duchessa di Slesia, la celebre Santa Edvige, che l’accolse nel monastero cistercense di Trzebnica e le insegnò i primi elementi della fede cristiana. Tre anni dopo fece ritorno a Praga e venne poi affidata alle monache premonstratensi di Doksany ove ricevette un’adeguata istruzione.

Nel 1220, essendo promessa sposa di Enrico VII, figlio dell'imperatore Federico II Barbarossa, Agnese fu condotta a Vienna presso la corte del duca d’Austria: qui visse sino al 1225 rimanendo sempre fedele ai principi e ai doveri della morale cristiana. Rescisso infine il patto di fidanzamento, ritornò a Praga ove poté dedicarsi ad una più intensa vita di preghiere e di opere caritative. Dopo una matura riflessione, decise di consacrare a Dio la sua verginità. Pervennero alla corte di Praga nuove proposte nuziali per la giovane principessa boema: quella del re inglese Enrico III, che svanì, e quella del Barbarossa presentata prima a re Otakar nel 1228 ed una seconda volta a re Venceslao nel 1231.

Papa Gregorio IX, cui Agnese aveva chiesto protezione, intervenne riconoscendo il voto di castità della principessa, che in tal modo acquistò la libertà e la felicità di consacrarsi a Dio libera dai sotterfugi del mondo secolare. In quel periodo giungevano a Praga quali predicatori i Frati Minori, grazie ai quali venne a conoscenza della vita spirituale che conduceva in Assisi la vergine Santa Chiara secondo lo spirito francescano. Rimase affascinata da questo modello e decise di imitarne ad ogni costo l’esempio: usufruendo dei propri beni fondò tra il 1232 ed il 1233 a Praga l’ospedale di San Francesco e per dirigerlo l’Ordine dei Crocigeri della Stella Rossa. Allo stesso tempo fondò il monastero di San Francesco per le “Sorelle Povere o Damianite”, ove lei stessa entrò l’11 giugno 1234, giorno di Pentecoste.

Agnese professò duqnue solennemente i voti solenni di castità, povertà ed obbedienza, pienamente consapevole del valore eterno di questi consigli evangelici, e si cimentò nel praticarli con esemplare fedeltà per tutti i suoi giorni. La verginità finalizzata al regno dei cieli costituì l’elemento fondamentale della sua spiritualità. Lo spirito di povertà, che già in precedenza l’aveva indotta a distribuire ai poveri i suoi beni, la spinse a rinunciare totalmente ad ogni proprietà per seguire Cristo povero ed ottenne inoltre che nel suo monastero si praticasse addirittura l’esproprio collettivo.

Lo spirito di obbedienza la condusse a conformare sempre più la sua volontà a quella divina che scopriva nella lettura del Vangelo e nella Regola di vita che la Chiesa le aveva donato. Insieme a Santa Chiara si adoperò per ottenere l’approvazione di una nuova ed apposita Regola che, dopo fiduciosa attesa, ricevette e professò con estrema fedeltà.

Poco dopo la professione Agnese divenne badessa del monastero, ufficio che dovette conservare per tutta la vita, esercitandolo con umiltà e carità, con saggezza e zelo, considerandosi sempre come “sorella maggiore” delle monache sottoposte alla sua autorità. La notizia dell’ingresso di Agnese in monastero suscitò ammirazione in tutta ammirazione Europa e tutti coloro che ebbero modo di entrare in contatto con lei poterono testimoniare le sue virtù, come concordemente attestano anche le memorie biografiche: specialmente ammirato era l’ardore della sua carità verso Dio e verso il prossimo, “la fiamma viva dell’amore divino che ardeva continuamente nell'altare del cuore di Agnese, la spingeva tanto in alto, per mezzo dell'inesauribile fede, da farle ininterrottamente cercare il suo Diletto” e si esprimeva in modo peculiare nel fervore con cui adorava i misteri dell’Eucaristia e della Croce del Signore, nonché nella devozione filiale alla Madonna contemplata nel mistero dell’Annunciazione.

L’amore del prossimo, continuò anche dopo la fondazione dell’ospedale a tenere spalancato il suo cuore generoso ad ogni forma di aiuto cristiano. Amò la Chiesa implorando dalla bontà di Dio per i suoi figli i doni della perseveranza nella fede e della solidarietà cristiana. Collaborò con i papi del sue tempo, che per il bene della Chiesa non mancavano di sollecitare le sue preghiere e le sue mediazioni presso i sovrani boemi, suoi familiari.

Nutrì sempre un profondo amore per la sua patria, che beneficiò con opere caritative individuali e sociali, nonché con la saggezza dei suoi consigli sempre volti ad evitare conflitti di ogni sorta ed a promuovere la fedeltà alla religione cattolica dei suoi padri.

Negli ultimi anni di vita Agnese sopportò con immutata pazienza i molteplici dolori che afflissero lei e l’intera famiglia reale, il monastero e la Boemia, causati da un infausto conflitto e dalla conseguente anarchia, nonché dalle calamità naturali che si abbatterono sulla regione e la conseguente carestia. Morì infine santamente nel suo monastero il 2 marzo 1282.

Numerosi miracoli furono attribuiti all’intercessione della principessa defunta, ma il culto tributatole sin dalla morte ebbe il riconoscimento papale solo il 28 novembre 1874 con decreto del Beato Pio IX.

Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, il Papa del Secolo, ha infine canonizzato Agnese di Boemia il 12 novembre 1989 nella Basilica Vaticana.


Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Fabio Arduino

Taliesin
20-06-2012, 14.25.39
LA POVERELLA DI TRASTEVERE: FRANCESCA ROMANA

La nobile Francesca Bussa de’ Buxis de’ Leoni, nacque a Roma nel 1384, in una famiglia abitante nei pressi di Piazza Navona e fu battezzata nella chiesa romanica di Sant’Agnese in Agone.

Ebbe un’educazione elevata per una fanciulla del suo tempo, grandicella accompagnava la madre Jacovella de’ Broffedeschi, nelle visite alle varie chiese del suo rione, ma spesso fino alla lontana chiesa di santa Maria Nova sull’antica Via Sacra, gestita dai Benedettini di Monte Oliveto, dai quali la madre era solito confessarsi e in questa chiesa, anche Francesca trovò il suo primo direttore spirituale, padre Antonello di Monte Savello, che ben presto si accorse della vocazione della fanciulla alla vita monastica, nonostante vivesse negli agi di una ricca e nobile famiglia.

Ma fu proprio questo benedettino a convincerla ad accettare la volontà del padre, Paolo Bussa de’ Buxis de’ Leoni, che secondo i costumi dell’epoca, aveva combinato per la dodicenne Francesca, un matrimonio con il nobile Lorenzo de’ Ponziani; il padre, in quel periodo conservatore del Comune di Roma, intendeva così allearsi ad un’altra famiglia nobile.

I Ponziani si erano arricchiti con il mestiere di macellai, comprando case e feudi nobilitandosi, essi risiedevano in un palazzo di Trastevere al n. 61 dell’attuale via dei Vascellari, che nel Medioevo si chiamava contrada di Sant’Andrea degli Scafi; dell’antico palazzo più volte trasformato nei secoli, rimangono le ampie cantine e al pianterreno l’ambiente quattrocentesco con il soffitto a cassettoni.

Una volta sposata, Francesca andò ad abitare nel palazzo dei Ponziani, ma l’inserimento nella nuova famiglia non fu facile, e questa difficoltà si aggiunse alla sofferenza provata per aver dovuto rinunciare alla sua vocazione religiosa; ne scaturì uno stato di anoressia che la sprofondò nella prostrazione.

Si cercò di sollevarla da questa preoccupante situazione ma invano; finché all’alba del 16 luglio 1398 le apparve in sogno sant’Alessio che le diceva: “Tu devi vivere… Il Signore vuole che tu viva per glorificare il suo nome”.
Al risveglio Francesca, accompagnata dalla cognata Vannozza, si recò alla chiesa dedicata al santo pellegrino sull’Aventino, per ringraziarlo e da allora la sua vita cambiò, accettando la sua condizione di sposa e a 16 anni ebbe il primo dei tre figli, che amò teneramente, ma purtroppo solo uno arrivò all’età adulta.

Con la cognata Vannozza, prese a dedicare il suo tempo libero dagli impegni familiari, a soccorrere poveri ed ammalati; erano anni drammatici per Roma, gli ecclesiastici discutevano sulla superiorità o meno del Concilio Ecumenico sul Papa; lo Scisma d’Occidente devastava l’unità della Chiesa e lo Stato Pontificio era politicamente allo sbando ed economicamente in rovina.

Roma per tre volte fu occupata e saccheggiata dal re di Napoli, Ladislao di Durazzo e a causa delle guerriglie urbane, la città era ridotta ad un borgo di miserabili.
Papi ed antipapi di quel periodo di scisma, si combattevano fra loro e spesso mancava un’autorità centrale ed autorevole, per riportare ordine e prosperità.
Francesca perciò volle dedicarsi a sollevare li misere condizioni dei suoi concittadini più bisognosi; nel 1401 essendo morta la moglie, il suocero Andreozzo Ponziani le affidò le chiavi delle dispense, dei granai e delle cantine; Francesca ne approfittò per aumentare gli aiuti ai poveri e in pochi mesi i locali furono svuotati.
Il suocero allibito decise di riprendersi le chiavi, ma ecco che essendo rimasta nei granai soltanto la pula, Francesca, Vannozza e una fedele serva, per cercare di soddisfare fino all’ultimo le richieste degli affamati, fecero la cernita e distribuirono anche il poco grano ricavato; ma pochi giorni dopo sia i granai che le botti del vino erano prodigiosamente pieni.
Andreozzo che comunque era un uomo caritatevole, che già nel 1391 aveva fondato l’Ospedale del Santissimo Salvatore, utilizzando la navata destra di una chiesa in disuso, oggi chiamata Santa Maria in Cappella, restituì le chiavi alla caritatevole nuora.

A questo punto Francesca decise di dedicarsi sistematicamente all’opera di assistenza; con il consenso del marito Lorenzo de’ Ponziani, vendette tutti i vestiti e gioielli devolvendo il ricavato ai poveri e indossò un abito di stoffa ruvida, ampio e comodo per poter camminare agevolmente per i miseri vicoli di Roma.

Era ormai conosciuta ed ammirata da tutta Trastevere, che aveva saputo del prodigio dei granai di nuovo pieni, e un gruppo di donne ne seguirono l’esempio; con esse Francesca andava a coltivare un campo nei pressi di San Paolo, da cui ricavava frutta e verdura trasportate con un asinello e che poi elargiva personalmente alla lunga fila di poveri, che ormai ogni giorno cercava di sfamare.

Alla morte del suocero Andreozzo de’ Ponziani, Francesca si prese cura dell’Ospedale del Ss. Salvatore, ma senza tralasciare le visite private e domiciliari che faceva ai poveri.
Incurante delle critiche e ironie dei nobili romani a cui apparteneva, si fece questuante per i poveri, specie quelli vergognosi e per loro chiedeva l’elemosina all’entrata delle chiese; mentre si prodigava instancabilmente in queste opere di amore concreto, tanto che il popolino la chiamava paradossalmente “la poverella di Trastevere”, Francesca riceveva dal Signore il dono di celesti illuminazioni, che lei riferiva al suo confessore Giovanni Mariotto, parroco di Santa Maria in Trastevere che le trascriveva.
Queste confidenze, pubblicate poi nel 1870, riguardavano le frequenti lotte della santa col demonio; del suo viaggio mistico nell’inferno e nel purgatorio; delle tante estasi che le capitavano; e poi dei prodigi e guarigioni che le venivano attribuite.

Ma questi doni straordinari che il Signore le aveva donato, furono pagati a caro prezzo, la sua vita spesa tutta per la famiglia ed i poveri di Roma, fu funestata da molte disgrazie; già quando aveva 25 anni nel 1409, suo marito Lorenzo, comandante delle truppe pontificie, durante una battaglia contro l’invasore Ladislao di Durazzo re di Napoli, contrario all’elezione di papa Alessandro V (1409-1410), venne gravemente ferito rimanendo semiparalizzato per il resto della sua vita, accudito amorevolmente dalla moglie e dal figlio.

Nel 1410 la sua casa venne saccheggiata e i loro beni espropriati, mentre il marito sebbene invalido fu costretto a fuggire, per sottrarsi alla vendetta di re Ladislao, che però prese in ostaggio il figlio Battista.

Poi a Roma ci fu l’epidemia di peste, morbo ricorrente in quei tempi, che funestava alternativamente tutta l’Europa, il suo slancio di amore verso gli ammalati, le fece commettere l’imprudenza di aprire il suo palazzo agli appestati; la pestilenza le portò così via due figli, Agnese ed Evangelista e lei stessa si contagiò, riuscendo però a salvarsi; passata l’epidemia poté ricongiungersi con il marito e l’unico figlio rimasto Battista.

È di quel periodo l’apparizione in sogno del piccolo figlio Evangelista, insieme con un Angelo misterioso, che s. Francesca da allora in poi avrebbe visto accanto a sé per tutta la vita.

Francesca Bussa, continuando ad aiutare i suoi poveri ed ammalati, senza fra l’altro trascurare la preghiera, tanto da dormire ormai solo due ore per notte, prese a dirigere spiritualmente il gruppo di amiche, che la coadiuvavano nella carità quotidiana e si riunivano ogni settimana nella chiesa di Santa Maria Nova.

E durante uno di questi incontri, Francesca le invitò ad unirsi in una confraternita consacrata alla Madonna, restando ognuna nella propria casa, impegnandosi a vivere le virtù monastiche e di donarsi ai poveri.

Il 15 agosto 1425 festa dell’Assunta, davanti all’altare della Vergine, le undici donne si costituirono in associazione con il nome di “Oblate Olivetane di Maria”, in omaggio alla chiesa dei padri Benedettini Olivetani che frequentavano, pronunziando una formula di consacrazione che le aggregava all’Ordine Benedettino.

Nel marzo del 1433 Francesca poté riunire le Oblate sotto un unico tetto a Tor de’ Specchi, composto da una camera ed un grande camerone, vicino alla chiesa parrocchiale di Sant’Andrea dei Funari; e il 21 luglio dello stesso 1433, papa Eugenio IV eresse la comunità in Congregazione, con il titolo di “Oblate della Santissima Vergine”, in seguito poi dette “Oblate di Santa Francesca Romana”, la cui unica Casa secondo la Regola, era ed è quella romana.

Si recava ogni giorno nel monastero da lei fondato, ma continuò ad abitare nel Palazzo Ponziani, per accudire il marito malato; dopo la morte del marito, con il quale visse in armonia per 40 anni, il 21 marzo 1436 lasciò la sua casa, affidandone l’amministrazione al figlio Battista e a sua moglie Mabilia de’ Papazzurri, e si unì alle compagne a Tor de’ Specchi dove fu eletta superiora.

Trascorse gli ultimi quattro nel convento, dedicandosi soprattutto a tre compiti: formare le sue figlie secondo le illuminazioni che Dio le donava; sostenerle con l’esempio nelle opere di misericordia alle quali erano chiamate; pregare per la fine dello scisma nella Chiesa.

Prese il secondo nome di Romana e così fu sempre chiamata dal popolo e dalla storia, perché Francesca fu tra i grandi che seppero riunire in sé, la gloria e la vitalità di Roma; il popolo romano la considerò sempre una di loro nonostante la nobiltà, e familiarmente la chiamava “Franceschella” o “Ceccolella”.

Francesca Romana insegnò alle sue suore la preparazione di uno speciale unguento, che aveva usato e usava per sanare malati e feriti; unguento che viene ancora oggi preparato nello stesso recipiente adoperato da lei più di cinque secoli fa.

Ma la ‘santa di Roma’ non morì nel suo monastero, ma nel palazzo Ponziani, perché da pochi giorni si era spostata lì per assistere il figlio Battista gravemente ammalato; dopo poco tempo il figlio guarì ma lei ormai sfinita, morì il 9 marzo 1440 nel palazzo di Trastevere.

Le sue spoglie mortali vennero esposte per tre giorni nella chiesa di Santa Maria Nova, una cronaca dell’epoca riferisce la partecipazione e la devozione di tutta la città; fu sepolta sotto l’altare maggiore della chiesa che avrebbe poi preso il suo nome.

Da subito ci fu un afflusso di fedeli, tale che la ricorrenza del giorno della sua morte, con decreto del Senato del 1494, fu considerato giorno festivo.

Fu proclamata santa il 29 maggio 1608 da papa Paolo V; e papa Urbano VIII volle nella chiesa di Santa Francesca Romana, un tempietto con quattro colonne di diaspro, con una statua in bronzo dorato che la raffigura in compagnia dell’Angelo Custode, che l’aveva assistita tutta la vita.

Santa Francesca Romana è considerata compatrona di Roma, viene invocata come protettrice dalle pestilenze e per la liberazione delle anime dal Purgatorio e dal 1951 degli automobilisti.
La sua festa liturgica è il 9 marzo.

Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Antonio Borrelli

Taliesin
20-06-2012, 14.31.32
LA REGINA DEI MISERICORDIOSI: MATILDE DI SASSONIA

Santa Matilde, discendente del duca Viduchindo, che aveva guidato i sassoni nella loro lunga battaglia contro Carlo Magno, nacque verso l’895 presso Engern in Sassonia da Teodorico, un conte della Westfalia, e da Rainilde, originaria della real casa danese. Ben presto Matilde fu affidata alle cure della nonna paterna, badessa di Herford, sotto la cui guida crebbe sana e forte, divenendo una donna bella, istruita e devota. Felice si rivelò il matrimonio con il figlio del duca Ottone di Sassonia, Enrico, detto “l’uccellatore” per la sua passione nella caccia del falco. Subito dopo la nascita del loro primogenito Ottone, Enrico succedette al padre e verso il 919, quando re Corrado di Germania morì senza prole, eredito anche il trono tedesco.

A causa delle frequenti guerre Enrico si allontanava spesso da casa e sia lui che i suoi sudditi attribuivano le vittorie conseguite alle preghiere ed al coraggio della regina Matilde, che nel suo palazzo conduceva a tutti gli effetti una vita monacale, generosa e caritatevole verso tutti. Suo marito nutriva nei suoi confronti una cieca fiducia e difficilmente si prendeva la briga di controllare le sue elemosine o si risentiva per le sue pratiche religiose. Nel 936, rimasta vedova, Matilde si spogliò immediatamente di tutti i suoi gioielli rinunciando ai privilegi tipici del suo rango.

Dall’unione tra Enrico e Matilde erano nati cinque figli: Enrico il Litigioso, il futuro imperatore Ottone I, San Bruno arcivescovo di Colonia, Gerburga moglie del re Luigi IV di Francia ed Edvige madre di Ugo Capeto. Enrico avrebbe preferito lasciare il trono al fratello Ottone, ma Matilde tentò di convincere i nobili ad eleggere comunque lui, suo prediletto, ma infine la spuntò Ottone. Enrico inizialmente si ribellò al fratello, ma infine riconobbe la sua supremazia e questi allora, per intercessione di Matilde, lo perdonò e lo nominò duca di Baviera. Suo figlio divenne poi imperatore col nome di Enrico II alla morte di Ottone I.

La regina Matilde conduceva una vita assai austera ed a causa delle sue ingenti elemosine si attirò le ire dei figli: Ottone la accusò infatti di sperperare il tesoro delal corona, le richiese un rendiconto delle sue spese e la fece spiare per tenere sotto controllo ogni suo movimento, ma con suo grande dolore anche il figlio favorito Enrico si schierò con il fratello appoggiando la proposta di far entrare la madre in convento onde evitare ulteriori danni al patrimonio familiare. Matilde sopportò con estrema pazienza tuttò ciò, constatando amaramente come i suoi figli si fossero riappacificati solo per perseguire i loro interessi a suo discapito. Lasciò allora tutta la sua eredità ai figli e si ritirò nella residenza di campagna ove era nata.

Era però destino che la Germania non potesse fare ameno di questa santa donna: appena partita, infatti, Enrico cadde ammalato e sorsero nuovi problemi politici. Sotto pressione del clero e dei nobili, la moglie di Ottone convinse questi a chiedere perdono alla madre, a restituirle il maltolto e richiamarla a partecipare agli affari di stato. Matilde tornò così a corte e riprese anche le sue opere di carità. Enrico continuò comunque ad essere per lei fonte di tormenti: si ribellò nuovamente al fratello Ottone e soppresse in modo sanguinoso una ribellione dei suoi sudditi bavaresi. Nel 955, quando Matilde lo vide per l’ultima volta, ne predisse la morte ed invano lo invitò a tornare sui suoi passi prima che fosse troppo tardi. Ottone invece mostrò rinnovata fiducia nella regina madre, lasciando a lei tutto il potere quando nel 962 dovette recarsi a Roma per ricevere la corona imperiale.

L’ultima riunione di famiglia ebbe luogo tre anni dopo a Colonia, in occasione della Pasqua, poi Matilde si ritirò definitivamente nei monasteri da lei fondati, in particolare a Nordhausen. Verso la fine del 967 una febbre che la disturbava ormai da tempo si aggravò ulteriormente e Matilde, presagendo la sua prossima fine, mandò a cercare Richburga, sua ex dama di compagnia ed ora badessa di Nordhausen, per spiegarle che doveva partire per Quedlinburg, luogo scelto con suo marito per la loro sepoltura. Nel gennaio 968 dunque si trasferì e suo nipote, Guglielmo di Magonza, le fece visita per darle l’assoluzione e l’estrema unzione. Desiderando ricompensarlo, non le restò però che donargli il suo sudario prevedento che ne avrebbe avuto bisogno prima lui: Guglielmo morì infatti dodici giorni prima di lei.

La santa regina spirò il 14 marzo 968 e le sue spoglie mortali erano state appena deposte in chiesa quando giunse una coperta intessuta d’oro mandata dalla figlia Gerburga per adornare il feretro. Il corpo di Matilde venne sepolto accanto a quello del marito e subito iniziò la venerazione popolare nei suoi confronti. Nelle diocesi tedesche di Paderborn, Fulda e Monaco è ancora oggi particolarmente vivo il suo culto.

L’iconografia è solita raffigurare Santa Matilde con in mano il modelino di una chiesa o una borsa di denaro, simboli della sua generosità e delle sue fondazioni monastiche, quali Poehlde, Enger, Nordhausen e ben due presso Quedlinburgo.

Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Fabio Arduino

Taliesin
20-06-2012, 14.36.22
LA SIGNORA DEI CERVI: CATERINA DI SVEZIA
Catarina Ulfsdotter, meglio conosciuta col nome di Caterina di Svezia, era la secondogenita degli otto figli di S. Brigida, la grande mistica svedese che molta influenza ebbe nella storia, nella vita e nella letteratura del suo Paese, assai più della regale compatriota Cristina, che riempì delle sue stranezze le cronache mondane della Roma rinascimentale. Anche Brigida e la figlia Caterina legarono il loro nome alla città di Roma, ma con ben altri meriti.

Caterina, nata nel 1331, in giovanissima età si era maritata con Edgarvon Kyren, nobile di discendenza e soprattutto di sentimenti, poiché acconsentì al desiderio della giovane e graziosa consorte di osservare il voto di continenza, anzi, con commovente emulazione nella pratica della cristiana virtù della castità, si legò egli stesso a questo voto.

Caterina, non certo per rendere più agevole l'osservanza del voto, all'età di diciannove anni raggiunse la madre a Roma, in occasione della celebrazione dell'Anno santo. Qui la giovane apprese la notizia della morte del marito.

Da questo momento la vita delle due straordinarie sante scorre sullo stesso binario: la figlia partecipa con totale dedizione all'intensa attività religiosa di S. Brigida. Questa aveva creato in Svezia una comunità di tipo cenobitico, nella cittadina di Vadstena, per accogliervi in separati conventi di clausura uomini e donne sotto una regola di vita religiosa ispirata al modello del mistico S. Bernardo di Chiaravalle. Durante il periodo romano che si protrasse fino alla morte di S. Brigida, il 23 luglio 1373, Caterina fu costantemente accanto alla madre, nei lunghi pellegrinaggi intrapresi, spesso tra gravi pericoli, dai quali le due sante non sarebbero uscite indenni senza un intervento soprannaturale.

S.Caterina viene spesso rappresentata accanto a un cervo, che, secondo la leggenda, più volte sarebbe comparso misteriosamente per trarla in salvo. Riportata in patria la salma della madre, nel 1375 Caterina entrò nel monastero di Vadstena, di cui venne eletta badessa, nel 1380.

Era rientrata allora da Roma da un secondo soggiorno di cinque anni, per seguire da vicino il processo di beatificazione della madre, che si concluse positivamente nel 1391.

A Roma, narra una tradizione leggendaria, Caterina avrebbe prodigiosamente salvato la città dalla piena del Tevere, che aveva già abbattuto gli argini.
L'episodio è raffigurato in un dipinto conservato nella cappella a lei dedicata nell'abitazione di piazza Farnese. Papa Innocenzo VIII ne permise la solenne traslazione delle reliquie; ma sarà l'unanime e universale devozione popolare a decretarle il titolo di santa e a festeggiarla nel giorno anniversario della morte, avvenuta il 24 marzo 1381.


Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Piero Bargellini

Taliesin
20-06-2012, 14.50.13
PELLEGRINA DI PACE: BRIGIDA DI SVEZIA

Brigida o Brigitta o Birgitta, nacque nel giugno 1303 nel castello di Finsta presso Uppsala in Svezia; suo padre Birgen Persson era ‘lagman’, cioè giudice e governatore della regione dell’Upplan, la madre Ingeborga era anch’essa di nobile stirpe.

In effetti Brigida apparteneva alla nobile stirpe dei Folkunghi e discendeva dal pio re cristiano Sverker I; ebbe altri sei fratelli e sorelle e le fu imposto il nome di Brigida, in onore di santa Brigida Cell Dara († 525), monaca irlandese, della quale i genitori erano devoti.

Dopo la morte della madre, a 12 anni fu mandata presso la zia Caterina Bengtsdotter, a completare la propria formazione; ancora fanciulla, Brigida dopo aver ascoltato una predica sulla Passione di Gesù, ebbe con Lui un profondo colloquio che le rimase impresso per sempre nella memoria.

Alla domanda: “O mio caro Signore, chi ti ha ridotto così?”, si sentì rispondere: “Tutti coloro che mi dimenticano e disprezzano il mio amore!”.

La bambina decise allora di amare Gesù con tutto il cuore e per sempre.
Presso la zia, Brigida trascorse due anni, dove apprese le buone maniere delle famiglie nobili, la scrittura e l’arte del ricamo; durante questi anni non mancarono nella sua vita alcuni fenomeni mistici, come la visione del demonio sotto forma di mostro dai cento piedi e dalle cento mani.

A 14 anni, secondo le consuetudini dell’epoca, il padre la destinò in sposa del giovane Ulf Gudmarsson figlio del governatore del Västergötland; in verità Brigida avrebbe voluto consacrarsi a Dio, ma vide nella disposizione paterna la volontà di Dio e serenamente accettò.
Le nozze furono celebrate nel settembre 1316 e la sua nuova casa fu il castello di Ulfasa, presso le sponde del lago Boren; il giovane sposo, nonostante il suo nome, che significava ‘lupo’, si dimostrò invece uomo mite e desideroso di condurre una vita conforme agli insegnamenti evangelici.

Secondo quanto scrisse e raccontò poi la figlia s. Caterina di Svezia, al processo di canonizzazione, i due sposi vissero per un biennio come fratello e sorella nella preghiera e nella mortificazione; soltanto tre anni dopo nacque la prima figlia e in venti anni Brigida diede al marito ben otto figli, quattro maschi (Karl, Birger, Bengt e Gudmar) e quattro femmine (Marta, Karin, Ingeborga e Cecilia).

Nel 1330 il marito Ulf Gudmarsson fu nominato “lagman” di Närke e successivamente i due coniugi divennero anche Terziari Francescani; dietro questa nomina, c’era tutto l’impegno di Brigida, che gli aveva insegnato a leggere e scrivere e Ulf approfittando della spinta culturale della moglie, aveva approfondito anche lo studio del diritto, meritando tale carica.

Per venti anni Ulfasa fu il centro della vita di Brigida e tutta la provincia dell’Ostergötland divenne il suo mondo, il suo ruolo non fu solo quello di principessa di Närke, ma senza ostentare alcuna vanagloria, fu una ottima massaia, dirigeva il personale alle sue dipendenze, mescolata ad esso svolgeva le varie attività domestiche, instaurando un benefico clima di famiglia.

Si dedicava particolarmente ai poveri e alle ragazze, procurando a quest’ultime una onesta sistemazione per non cadere nella prostituzione; inoltre fece costruire un piccolo ospedale, dove ogni giorno si recava ad assistere gli ammalati, lavandoli e rammendando i loro vestiti.

In questo intenso periodo, conobbe il maestro Matthias, uomo esperto in Sacra Scrittura, di vasta cultura e zelante sacerdote; ben presto divenne il suo confessore e si fece tradurre da lui in svedese, buona parte della Bibbia per poterla leggere e meditare meglio; la sua presenza apportò a Brigida la conoscenza delle correnti di pensiero di tutta l’Europa, giacché don Matthias aveva studiato a Parigi, e tutto ciò si rivelerà utile per la conoscenza delle problematiche del tempo, preparandola alla sua futura missione.

Quando però nel 1335, il re di Svezia Magnus II sposò Bianca di Dampierre, Brigida che era lontana cugina del sovrano, fi invitata a stabilirsi a corte, per ricevere ed assistere la giovane regina, figlia di Giovanni I, conte di Namur.
L’invito non si poteva respingere e quindi Brigida affidati due figlie e un figlio a monasteri cistercensi, lasciò temporaneamente la sua casa di Ulfasa e si trasferì a Stoccolma, portando con sé il figlio più piccolo, bisognoso ancora delle cure materne.

Ebbe grande influenza sui giovani sovrani e finché fu ascoltata, la Svezia ebbe buone leggi e furono abolite ingiuste ed inumane consuetudini, come il diritto regio di rapina su tutti i beni dei naufraghi, inoltre furono mitigate le tasse che opprimevano il popolo.

Poi man mano, mentre la regina cresceva, manifestando una eccessiva frivolezza favorita dalla debolezza del marito, Brigida si trovò messa da parte e la vita di corte divenne molto mondana.

A questo punto, senza rompere i rapporti con i sovrani, approfittando di momenti propizi e del lutto che l’aveva colpita con la morte nel 1338 del figlio Gudmar, Brigida lasciò la corte e se ne ritornò a casa sua, ritrovando nel castello di Ulfasa nella Nericia, la gioia della famiglia e della convivenza e con il marito si recò in pellegrinaggio a Nidaros per venerare le reliquie di sant’Olav Haraldsson (995-1030) patrono della Scandinavia.

Quando nel 1341 i due coniugi festeggiarono le nozze d’argento, vollero recarsi in pellegrinaggio a Santiago di Compostella; quest’evento segnò una svolta decisiva nella vita dei due coniugi, che già da tempo vivevano vita fraterna e casta.

Nel viaggio di ritorno, Ulf fu miracolosamente salvato da sicura morte grazie ad un prodigio e i due coniugi presero la decisione di abbracciare la vita religiosa, era una cosa possibile in quei tempi e parecchi santi e sante provengono da questa scelta condivisa.
Al ritorno, Ulf fu accolto nel monastero cistercense di Alvastra, dove poi morì il 12 febbraio 1344 assistito dalla moglie; Brigida a sua volta, avendo esaurito la sua missione di sposa e di madre, decise di trasferirsi in un edificio annesso al monastero di Alvastra, dove restò quasi tre anni fino al 1346.

Fu l’inizio del periodo più straordinario della sua vita; dopo un periodo di austerità e di meditazione sui divini misteri della Passione del Signore e dei dolori e glorie della Vergine, cominciò ad avere le visioni di Cristo, che in una di queste la elesse “sua sposa” e “messaggera del gran Signore”; iniziò così quello straordinario periodo mistico che durerà fino alla sua morte.

Ai suoi direttori spirituali come il padre Matthias, Brigida dettò le sue celebri “Rivelazioni”, sublimi intuizioni e soprannaturali illuminazioni, che ella conobbe per tutta la vita e che furono poi raccolte in otto bellissimi volumi.

Durante le visioni, Cristo la spingeva ad operare per il bene del Paese, dell’Europa e della Chiesa; non solo tornò a Stoccolma per portare personalmente al re e alla regina “gli ammonimenti del Signore”, ma inviò lettere e messaggi ai sovrani di Francia e Inghilterra, perché terminassero l’interminabile ‘Guerra dei Trent’anni’.

Suoi messaggeri furono mons. Hemming, vescovo di Abo in Finlandia e il monaco Pietro Olavo di Alvastra; un altro monaco omonimo divenne suo segretario.

Esortò anche papa Clemente VI a correggersi da alcuni gravi difetti e di indire il Giubileo del 1350, inoltre di riportare la Sede pontificia da Avignone a Roma.

Nella solitudine di Alvastra, concepì anche l’idea di dare alla Chiesa un nuovo Ordine religioso che sarà detto del Santo Salvatore, composto da monasteri ‘doppi’, cioè da religiosi e suore, rigorosamente divisi e il cui unico punto d’incontro era nella chiesa per la preghiera in comune; ma tutti sotto la guida di un’unica badessa, rappresentante la Santa Vergine e con un confessore generale.

Ottenuto dal re, il 1° maggio 1346, il castello di Vadstena, con annesse terre e donazioni, Brigida ne iniziò i lavori di ristrutturazione, che durarono molti anni, anche perché papa Clemente VI non concesse la richiesta autorizzazione per il nuovo Ordine, in ottemperanza al decreto del Concilio Ecumenico Lateranense del 1215, che proibiva il sorgere di nuovi Ordini religiosi.

Per questo già nell’autunno del 1349, Brigida si recò a Roma, non solo per l’Anno Santo del 1350, ma anche per sollecitare il papa, quando sarebbe ritornato a Roma, a concedere l’approvazione, che fu poi concessa solo nel 1370 da papa Urbano V.
L’Ordine del Ss. Salvatore, era costituito ispirandosi alla Chiesa primitiva raccolta nel Cenacolo attorno a Maria; la parte femminile era formata da 60 religiose e quella maschile da 25 religiosi, di cui 13 sacerdoti a ricordo dei 12 Apostoli con s. Paolo e 2 diaconi e 2 suddiaconi rappresentanti i primi 4 Padri della Chiesa e otto frati.
Riassumendo, ogni comunità doppia era composta da 85 membri, dei quali 60 suore che con i 12 monaci non sacerdoti rappresentavano i 72 discepoli, più i 13 sacerdoti come sopra detto.
Il gioco di numeri, rientrava nel gusto del tempo per il simbolismo, rappresentare gli apostoli e i discepoli, spingeva ad un richiamo concreto a vivere come loro erano vissuti; senza dimenticare che in quell’epoca non esisteva crisi vocazionale e ciò permetteva di raggiungere senza difficoltà il numero di monache e religiosi prescritto per ogni doppio monastero.

Arrivata a Roma insieme al confessore, al segretario Pietro Magnus e al sacerdote Gudmaro di Federico, alloggiò brevemente nell’ospizio dei pellegrini presso Castel Sant’Angelo, e poi nel palazzo del cardinale Ugo Roger di Beaufort, fratello del papa, che vivendo ad Avignone, aveva deciso di metterlo a disposizione di Brigida, la cui fama era giunta anche alla Curia avignonese.

Roma non fece una buona impressione a Brigida, ne migliorò in seguito; nei suoi scritti la descriveva popolata di rospi e vipere, le strade piene di fango ed erbacce, il clero avido, immorale e trascurato.
Si avvertiva fortemente la lontananza da tanto tempo del papa, al quale descriveva nelle sue lettere la decadente situazione della città, spronandolo a ritornare nella sua sede, ma senza riuscirci.

Vedere l’Europa unita e in pace, governata dall’imperatore e guidata spiritualmente dal papa, era il sogno di Brigida e dei grandi spiriti del suo tempo.

Dopo quattro anni, si trasferì poi nella casa offertale nel suo palazzo, dalla nobildonna romana Francesca Papazzurri, nelle vicinanze di Campo de’ Fiori; Roma divenne così per Brigida la sua seconda patria.
Trascorreva le giornate studiando il latino, dedicandosi alla preghiera e alle pratiche di pietà, trascrivendo in gotico le visioni e le rivelazioni del Signore, che poi passava subito al suo segretario Pietro Olavo perché le traducesse in latino.

Dalla dimora di Campo de’ Fiori, che abiterà fino alla morte, inviava lettere al papa, ai reali di Svezia, alle regine di Napoli e di Cipro e naturalmente ai suoi figli e figlie rimasti a Vadstena.

Si spostò in pellegrinaggio a vari santuari del Centro e Sud d’Italia, Assisi, Ortona, Benevento, Salerno, Amalfi, Gargano, Bari; nel 1365 Brigida andò a Napoli dove fu artefice e ispiratrice di una missione di risanamento morale, ben accolta dal vescovo e dalla regina Giovanna che seguendo i suoi consigli, operò una radicale conversione nei suoi costumi e in quelli della corte.

Napoli ha sempre ricordato con venerazione la santa del Nord Europa, e a lei ha dedicato un bella chiesa e la strada ove è situata nel centro cittadino; recentemente le sue suore si sono stabilite nell’antico e prestigioso Eremo dei Camaldoli che sovrasta Napoli.

Brigida, si occupò anche della famosa abbazia imperiale di Farfa nella Sabina, vicino Roma, dove l’abate con i monaci “amava più le armi che il claustro”, ma il suo messaggio di riforma non fu ascoltato da essi.
Mentre era ancora a Farfa, fu raggiunta dalla figlia Caterina (Karin), che nel 1350 era rimasta vedova e che rimarrà al suo fianco per sempre, condividendo in pieno l’ideale della madre.

Ritornata a Roma, Brigida continuò a lanciare richiami a persone altolocate e allo stesso popolo romano, per una vita più cristiana, si attirò per questo pesanti accuse, fino ad essere chiamata “la strega del Nord” e a ridursi in estrema povertà, e lei la principessa di Nericia, per poter sostenere sé stessa e chi l’accompagnava, fu costretta a chiedere l’elemosina alla porta delle chiese.

Nel 1367 sembrò che le sue preghiere si avverassero, il papa Urbano V tornò da Avignone, ma la sua permanenza a Roma fu breve, perché nel 1370 ripartì per la Francia, nonostante che Brigida gli avesse predetto una morte precoce se l’avesse fatto; infatti appena giunto ad Avignone, il 24 settembre 1370 il papa morì.

Durante il breve periodo romano, Urbano V concesse la sospirata approvazione dell’Ordine del Ss. Salvatore e Caterina di Svezia ne diventò la prima Superiora Generale.
Brigida continuò la sua pressione epistolare, a volte molto infuocata, anche con il nuovo pontefice Gregorio XI, che già la conosceva, affinché tornasse il papato a Roma, ma anche lui pur rimanendo impressionato dalle sue parole, non ebbe il coraggio di farlo.

Ma anche Brigida, ormai settantenne, si avviava verso la fine; ottenuto il via per il suo Ordine religioso, volle intraprendere il suo ultimo e più desiderato pellegrinaggio, quello in Terra Santa.
L’accompagnavano il vescovo eremita Alfonso di Jaén custode delle sue ‘Rivelazioni’ messe per iscritto, di cui molte rimaste segrete, poi i due sacerdoti Olavo, Pietro Magnus e i figli Caterina, Birger e Karl e altre quattro persone, in totale dodici pellegrini.

Verso la fine del 1371, la comitiva partì da Roma diretta a Napoli, dove trascorse l’inverno; in prossimità della partenza, nel marzo 1372 Brigida vide morire di peste il figlio Karl, ma non volle annullare il viaggio e dopo aver pregato per lui e provveduto alla sepoltura, s’imbarcò per Cipro, dove fu accolta dalla regina Eleonora d’Aragona, che approfittò del suo passaggio per attuare una benefica riforma nel suo regno.

A maggio 1372 arrivò a Gerusalemme, dove in quattro mesi poté visitare e meditare nei luoghi della vita terrena di Gesù, poi ritornò a Roma col cuore pieno di ricordi ed emozioni e subito inviò ad Avignone il vescovo Alfonso di Jaén, con un’ulteriore messaggio per il papa, per sollecitarne il ritorno a Roma.

A Gerusalemme, Brigida contrasse una malattia, che in fasi alterne si aggravò sempre più e in breve tempo dal suo ritorno a Roma, il 23 luglio 1373, la santa terminò la sua vita terrena, con accanto la figlia Caterina alla quale aveva affidato l’Ordine del Ss. Salvatore; nella sua stanza da letto si celebrava l’Eucaristia ogni giorno e prima di morire ricevette il velo di monaca dell’Ordine fa lei fondato.

Unico suo rimpianto era di non aver visto il papa tornare a Roma definitivamente, cosa che avverrà poco più di tre anni dopo, il 17 gennaio 1377, per mezzo di un’altra donna s. Caterina da Siena, che continuando la sua opera di persuasione, con molta fermezza, riuscì nell’intento.

Fu sepolta in un sarcofago romano di marmo, collocato dietro la cancellata di ferro nella Chiesa di S. Lorenzo in Damaso; ma già il 2 dicembre 1373, i figli Birger e Caterina, partirono da Roma per Vadstena, portando con loro la cassa con il corpo, che fu sepolto nell’originario monastero svedese il 4 luglio 1374.

A Roma rimasero alcune reliquie, conservate tuttora nella Chiesa di San Lorenzo in Panisperna e dalle Clarisse di San Martino ai Monti.

La figlia Caterina e i suoi discepoli, curarono il suo culto e la causa di canonizzazione; Brigida di Svezia fu proclamata santa il 7 ottobre 1391, da papa Bonifacio IX.

Del suo misticismo rimangono le “Rivelazioni”, raccolte in otto volumi e uno supplementare, ad opera dei suoi discepoli. A questi scritti la Chiesa dà il valore che hanno le rivelazioni private; sono credibili per la santità della persona che le propone, tenendo sempre conto dei condizionamenti del tempo e della persona stessa.

Come tante spiritualità del tardo medioevo, Brigida ebbe il merito di mettere le verità della fede alla portata del popolo, con un linguaggio visivo che colpiva la fantasia, toccava il cuore e spingeva alla conversione; per questo le “Rivelazioni” ebbero il loro influsso per lungo tempo nella vita cristiana, non solo dei popoli scandinavi, ma anche dei latini.

Papa Giovanni Paolo II, il Papa del Secolo, la proclamò compatrona d’Europa il 1° ottobre 1999.
Santa Brigida è inoltre patrona della Svezia dal 1° ottobre 1891.


Il suo Ordine del SS. Salvatore, le cui religiose sono dette comunemente “Suore Brigidine”, ebbe per due secoli un grande influsso sulla vita religiosa dei Paesi Scandinavi e nel periodo di maggiore fioritura, contava 78 monasteri ‘doppi’, nonostante le rigide regole numeriche, diffusi particolarmente nei Paesi nordici. Declinò e fu sciolto prima con la Riforma Protestante luterana, poi con la Rivoluzione Francese; in Italia le due prime Case si ebbero a Firenze e a Roma.

L’antico Ordine è rifiorito nel ramo femminile, grazie alla Beata Maria Elisabetta Hesselblad (1870-1957), che ne fondò un nuovo ramo all’inizio del Novecento; ora è diffuso in vari luoghi d’Europa, fra cui Vadstena, primo Centro dell’Ordine; le Suore Brigidine si riconoscono per il tipico copricapo, due bande formano sul capo una croce, i cui bracci sono uniti da una fascia circolare e con cinque fiamme, una al centro e quattro sul bordo, che ricordano le piaghe di Cristo.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Antonio Borrelli

Taliesin
20-06-2012, 14.59.34
LA DUCHESSA DI BAVARIA: EDVIGE DI SLESIA

I genitori Bertoldo e Agnese, di alta nobiltà bavarese, la preparano a un matrimonio importante, facendola studiare alla scuola delle monache benedettine di Kitzingen, presso Würzburg. E a 16 anni, infatti, Edvige sposa a Breslavia (attuale Wroclaw, in Polonia) il giovane Enrico il Barbuto, erede del ducato della Bassa Slesia. Quattro anni dopo, Enrico succede al padre Boleslao e così lei diventa duchessa.

Questo territorio slesiano fa parte ancora del regno di Polonia, ma si sta germanizzando.I suoi duchi, già dal tempo di Federico Barbarossa (morto nel 1190) gravitano nell’orbita dell’Impero germanico; la feudalità locale è invece di stirpe polacca, come la maggioranza degli abitanti, ai quali però si sta mescolando una forte immigrazione di tedeschi. Edvige mette al mondo via via sei figli: Boleslao, Corrado, Enrico detto il Pio, Agnese, Sofia e Gertrude. E si rivela buona collaboratrice del marito nel difficile governo del ducato: guadagna la simpatia dei sudditi polacchi imparando la loro lingua, promuove l'assistenza ai poveri, come fanno e faranno molte altre sovrane; ma con una differenza: lei vive la povertà in prima persona, giorno per giorno, con le regole severe che si impone, eliminando dalla sua vita tutto quello che può distinguerla da una donna di condizione modesta. A cominciare dall’abbigliamento.

I biografi parlano degli abiti usati che indossa, delle calzature logore, delle cinture simili a quelle dei carrettieri.

È poco fortunata con i figli, che non avranno rapporti affettuosi con lei, e che moriranno quasi tutti ancora giovani, tranne Gertrude. Suo marito, Enrico il Barbuto, muore nel 1238, e gli succede il figlio Enrico il Pio, che già nel 1241 viene ucciso in combattimento contro un’incursione mongola presso Liegnitz (attuale Legnica).

Disgrazie in serie, dunque. Ma i biografi dicono che lei le affronta ogni volta senza lacrime. Forse perché è tedesca.E fors’anche perché è molto legata all’ambiente monastico del tempo, con tutto il suo rigore. (Alle molte preghiere e pie letture, Edvige accompagna anche penitenze fisiche durissime). Eppure, quando si ritrova sola, non pensa di “fuggire dal mondo” subito, entrando in monastero. No, prima bisogna pensare ai poveri, come dirà alla figlia Gertrude, non per motivi di buona politica, ma perché i poveri sono “i nostri padroni”. E questo linguaggio richiama «la spiritualità degli Ordini mendicanti e in particolare quella dei Francescani, tra i quali Edvige, negli ultimi anni della sua esistenza, scelse il proprio confessore» (A. Vauchez, La santità nel Medioevo, ed. Il Mulino).

Entra infine nel monastero cistercense di Trebnitz (l’attuale Trzebnica) fondato da lei nel 1202. E qui vive da monaca. Anzi, da monaca superpenitente. Muore anche da monaca, chiedendo di essere sepolta nella tomba comune del monastero. Tedeschi e polacchi di Slesia sono concordi nel chiamarla santa: nel 1262, sotto papa Urbano IV, incomincia la causa per la sua canonizzazione, e nel 1267 papa Clemente IV la iscrive tra i santi. Il corpo sarà in seguito trasferito nella chiesa del monastero.

Taliesin, il bardo

tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Domenico Agasso

Taliesin
20-06-2012, 15.21.56
NOBILISSIA SENATIX: EMMA DI SASSONIA
Nel monastero di S. Ludgero a Werden, nella Ruhr, presso Dusseldorf, inspiegabilmente lontano dalla Sassonia, si conserva una reliquia della santa: una mano prodigiosamente intatta.

Un cronista tedesco dello stesso secolo, Adamo di Brema, nella sua Storia ecclesiastica, ci dà notizia di una "nobilissima senatrix Emma", sorella di Meinwerk, vescovo di Paderborn (morto nel 1036) e moglie del conte Ludgero di Sassonia.

Rimasta vedova, ancor giovane e bella, ricca e senza figli, non ambì a seconde nozze e si mantenne costante nel suo nuovo programma di vita, fondato sulla totale dedizione alle opere di carità.
Generosa nel donare e nel soccorrere, ma austera e intransigente con se stessa, puntò alla perfezione nel difficile stato di vedovanza, una condizione assai scomoda per una donna, rimasta sola ma non libera, esposta a mille insidie perché priva di appoggio e fatta segno, se ricca, dei calcoli interessati di parenti vicini e lontani.

"Sei tu giovane? - si legge in una infervorata predica di S. Bernardino da Siena, rivolta alle vedove cristiane - fa' che tu imbrigli la carne tua in discipline. Io voglio che tu impari a vivere come una religiosa. Sii verace, dentro nell'anima tua. Vuoi marito? Va' e piglialo, in nome di Dio, e spacciatene. Ma non avrai mai consolazione. Dunque, non ci vedi meglio che di rimanere vera vedova, e servire a Dio in ogni modo che tu puoi, tutto il tempo della tua vita".

Emma aveva scelto quest'ultima maniera di tendere alla perfezione, la più difficile e rara. La sua mano, giunta fino a noi intatta dopo nove secoli e mezzo dalla morte di questa santa dal nome fresco e pieno, è un segno emblematico della sua più cospicua virtù: la generosità. Anzitutto una generosità fattiva, di opere più che di parole.

Vera ancella di Cristo, ella ha servito il suo celeste sposo con la preghiera e la carità, meritando la devozione non di un marito ma di milioni di cristiani che da oltre nove secoli la onorano di culto pubblico. Il suo corpo, privo della mano di cui si è parlato, riposa nella cattedrale di Brema.


Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Piero Bargellini

Taliesin
21-06-2012, 10.57.55
Sull'orlo del precipizio che i dotti e saggi Uomini dei Lumi vollero confinare l'epoca delle barbarie, dei cosiddetti Secoli Bui, ho voluto inserire la Sua storia, dolce e piena di sentimento, in un mondo che stava mutando....

Taliesin, il bardo

MATER SPIRITUALIUM: TERESA DI GESU'

Al secolo Teresa de Cepeda y Ahumada, riformatrice del Carmelo, Madre delle Carmelitane Scalze e dei Carmelitani Scalzi; "mater spiritualium" (titolo sotto la sua statua nella basilica vaticana); patrona degli scrittori cattolici (1965) e Dottore della Chiesa (1970): prima donna, insieme a S. Caterina da Siena, ad ottenere tale titolo; nata ad Avila (Vecchia Castiglia, Spagna) il 28 marzo 1515; morta ad Alba de Tormes (Salamanca) il 4 ottobre 1582 (il giorno dopo, per la riforma gregoriana del calendario fu il 15 ottobre); beatificazione nel 1614, canonizzazione nel 1622; festa il 15 ottobre.

La sua vita va interpretata secondo il disegno che il Signore aveva su di lei, con i grandi desideri che Egli le mise nel cuore, con le misteriose malattie di cui fu vittima da giovane (e la malferma salute che l'accompagnò per tutta la vita), con le "resistenze" alla grazia di cui lei si accusa più del dovuto. Entrò nel Carmelo dell'Incarnazione d'Avila il 2 novembre 1535, fuggendo di casa. Un pò per le condizioni oggettive del luogo, un pò per le difficoltà di ordine spirituale, faticò prima di arrivare a quella che lei chiama la sua "conversione", a 39 anni. Ma l'incontro con alcuni direttori spirituali la lanciò a grandi passi verso la perfezione.

Nel 1560 ebbe la prima idea di un nuovo Carmelo ove potesse vivere meglio la sua regola, realizzata due anni dopo col monastero di S. Giuseppe, senza rendite e "secondo la regola primitiva": espressione che va ben compresa, perchè allora e subito dopo fu più nostalgica ed "eroica" che reale. Cinque anni più tardi Teresa ottenne dal Generale dell'Ordine, Giovanni Battista Rossi - in visita in Spagna - l'ordine di moltiplicare i suoi monasteri ed il permesso per due conventi di "Carmelitani contemplativi" (poi detti Scalzi), che fossero parenti spirituali delle monache ed in tal modo potessero aiutarle. Alla morte della Santa i monasteri femminili della riforma erano 17.

Ma anche quelli maschili superarono ben presto il numero iniziale; alcuni con il permesso del Generale Rossi, altri - specialmente in Andalusia - contro la sua volontà, ma con quella dei visitatori apostolici, il domenicano Vargas e il giovane Carmelitano Scalzo Girolamo Graziano (questi fu inoltre la fiamma spirituale di Teresa, al quale si legò con voto di far qualsiasi cosa le avesse chiesto, non in contrasto con la legge di Dio). Ne seguirono incresciosi incidenti aggravatisi per interferenze di autorità secolari ed altri estranei, sino all'erezione degli Scalzi in Provincia separata nel 1581. Teresa potè scrivere: "Ora Scalzi e Calzati siamo tutti in pace e niente ci impedisce di servire il Signore". Teresa è tra le massime figure della mistica cattolica di tutti i tempi.

Le sue opere - specialmente le 4 più note (Vita, Cammino di perfezione, Mansioni e Fondazioni) - insieme a notizie di ordine storico, contengono una dottrina che abbraccia tutta la vita dell'anima, dai primi passi sino all'intimità con Dio al centro del Castello Interiore. L' Epistolario, poi, ce la mostra alle prese con i problemi più svariati di ogni giorno e di ogni circostanza. La sua dottrina sull'unione dell'anima con Dio (dottrina da lei intimamente vissuta) è sulla linea di quella del Carmelo che l'ha preceduta e che lei stessa ha contribuito in modo notevole ad arricchire, e che ha trasmesso non solo ai confratelli, figli e figlie spirituali, ma a tutta la Chiesa, per il cui servizio non badò a fatiche. Morendo la sua gioia fu poter affermare: "muoio figlia della Chiesa".

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Anthony Cilia

elisabeth
21-06-2012, 17.42.04
La storia e' scritta dall' uomo....e per questo parla poco delle donne, eppure voi Taliesin....siete un uomo che ha riportato alla luce la storia di donne...............vi sono infinitamente grata per questo bellissimo lavoro

Altea
21-06-2012, 21.28.12
sir Taliesin mi unisco a lady Elisabeth per ringraziarvi per questi "ritratti" di grandi donne ..grazie per questo dono fattoci.

Taliesin
21-06-2012, 21.35.12
Milady Elisabhet e Milady Altea,
il dono più grande è il vostro volteggiare inquieto e sereno nell'aria opalescende di questa bizzarra realtà virtuale, dove i vostri cuori pulsanti, come quelle magnifiche Donne che hanno scavato la Storia del Tempo, regalano ogni istante di splendore il rispecchiarsi di cotanta Bellezza...

...presto...presto riprenderò il mio Viaggio...

Taliesin, il bardo

Morris
21-06-2012, 22.10.14
Grazie Taliesin per i vostri altruistici e galanti scritti!
Profumano di umana coscienza e divina veritade!

Attualmente la città di Camelot è abitata da 19 Messeri e 33 Dame, indi per cui, la sostanza di queste sacre mura è composta più dal sensibil animo di donna.

Con gioia e speranza!

Sir Morris

ladyGonzaga
21-06-2012, 23.05.40
La Spina e La Rosa: Rita degli Impossibili

Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza.
La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità.
Si racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione.

Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante.

E un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio.

Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo.

Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente.
Frequentava anche la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento.
Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto.

Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie.

I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta.

E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite.
Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito, erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita.

Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre.

La violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia.

Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero.

Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso, si narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro.

Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni.
La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere.

Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione.
La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio.

E in questa fase finale della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile, ma Rita insisté.

Tornata a Roccaporena la parente si recò nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle meravigliate consorelle.
Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli.

Il 22 maggio 1447 Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura.
Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per intercessione della santa.

Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia.
Accanto al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della “Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita.
Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte.

Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò solennemente.

Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino.

Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia, Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra.

Taliesin, il bardo




tra tutte le grandi donne da voi citate questa da me scelta è quella che più mi ha sempre incantata..sin da bambina.
Grazie Taliesin per averne lasciato una bellissima traccia.

Taliesin
22-06-2012, 10.04.21
Sir Morris,
come avete osservato in maniera impeccabile ed arguta l'Altra metà del Cielo ha solcato veramente i canali della Storia e della Fede, spesso celati dietro l'ufficialità degli eventi vinti o persi solo dagli Uomini...
Grazie per il vostro sapiente intervento...

Lady Gonzaga,
attendevo il vostro passaggio di nudi calzari che ammorbidiscono le sempreverdi vie dell'animo...Rita vi sta sorridendo come quando eravate bambina, accarezzando quelle bambole di pezza con cui le sue fanciulle danzavano al vento, lasciando tracce di splendore....
Grazie per la vostra traccia...

Taliesin, il bardo

Taliesin
22-06-2012, 12.52.12
Sul confine incerto dei Secoli Bui e dell'Età della Rinascita, ho voluto inserire la figura di un'altra Donna, il cui calamaio ha pesato come una spada di Damocle sulla testa dei rispettabili Uomini del suo tempo che ne scrissero la Storia...mentre in lontananza il suono degli archibugi rubava al Medioevo la sua Leggenda.

Dedicato a Milady Chantal...nell'attesa del suo ritorno

Taliesin, il bardo



NOSTRA BUONA SIGNORA: GIOVANNA FRANCESCA DI CHANTAL

Nella storia della Chiesa troviamo alcuni casi in cui uomo e donna hanno agito insieme nel cammino della santità, ricordiamo così Francesco e Chiara, Elzeario di Sabran e Delfina di Glandève, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, Benedetto e Scolastica, Luigi e Zelia Martin (genitori di santa Teresina di Lisieux), Giulia e Carlo Tancredi di Barolo, i coniugi Beltrame. Altra “coppia” sorprendente fu quella composta da san Francesco di Sales e Giovanna Francesca Frémyot de Chantal. Fu infatti grazie all’incontro con il vescovo di Ginevra che Giovanna definì il suo percorso di santità.

I francesi la chiamano sainte Chantal e la venerano ad Annecy, dove riposa accanto a san Francesco di Sales.

Nasce a Digione il 23 gennaio 1572 in una famiglia dell’alta nobiltà borgognona. Suo padre è Benigno Frémyot, secondo presidente del Parlamento. Rimasta ben presto orfana di madre, crescerà sotto l’educazione e la morale paterne.

Il 29 dicembre 1592 Giovanna sposa Cristoforo II, barone di Chantal. Il loro è un matrimonio felice. Viene da subito chiamata «la dama perfetta» per quel suo prodigarsi nella tenuta di Bourbilly e per le attenzioni e premure che riserva al consorte. Da questa unione perfetta nascono sei figli: i primi due muoiono alla nascita, poi arrivano Celso Benigno, Maria Amata, Francesca e Carlotta.

Dolce, serena, affabile, Giovanna è amata dai suoi familiari, come dalla servitù. Quando Cristoforo si assenta dal castello per adempiere ai suoi impegni di corte, Giovanna lascia gli abiti eleganti e si dedica ai poveri, ai quali non offre solo denaro, ma la propria persona, servendoli. La sua carità si fa immensa durante la carestia che colpisce la Borgogna nell’inverno 1600-1601. È qui che la baronessa, senza ascoltare i borbottii di molti e incoraggiata dal consorte, trasforma il maniero in un vero e proprio ospedale per ospitare madri e bambini in difficoltà e si occupa della costruzione di un nuovo forno per poter distribuire il pane a tutti coloro che bussano alla sua porta. Un giorno le viene detto che nel granaio non è rimasto che un solo sacco di segala… e lei, senza esitazioni, ordina di proseguire la distribuzione del pane, come prima… la segala finirà al nuovo raccolto.

Ma ecco giungere la prima grande prova, la morte di Cristoforo, ucciso da un colpo di archibugio durante una battuta di caccia.

Resta vedova a soli 29 anni, vedova e madre di quattro creature di cui la prima ha solo cinque anni e l’ultima pochi giorni. Matura, in questo tempo di lutto e di dolore, il desiderio di consacrarsi a Cristo, ma i doveri familiari non le permettono una scelta di vita così drastica. In attesa di conoscere la volontà di Dio, Giovanna si dedica totalmente ai figli, all’amministrazione della casa e alla preghiera.

Il suocero, barone di Chantal, la informa che deve subito trasferirsi da lui, a Monthélon se desidera che i figli prendano parte all’eredità e lei accetta, pur sapendo che nella residenza dell’anziano barone comanda una «servapadrona». Per lungo tempo dovrà sopportare le angherie di quest’ultima.

Il suo nome inizia a rendersi noto per la sua carità. Non è più chiamata «dama perfetta», ma la «nostra buona signora».

Un’altra difficile prova deve ora affrontare: la sua guida spirituale non comprende la sua persona, non sa leggere la sua anima. Un giorno suo padre la invita a Digione, questa volta per ascoltare il quaresimale del vescovo di Ginevra, Francesco di Sales, la cui fama si diffonde sempre più in Savoia e in tutta la Francia. Il primo incontro fra Giovanna e il vescovo avviene il 5 marzo del 1604. Da allora si instaura un camino di unione fraterna e spirituale straordinario. La direzione spirituale di Francesco di Sales si realizza soprattutto attraverso l’epistolario, dove l’umano è «divinizzato» e il divino «umanizzato».

In una lettera inviata al vescovo ginevrino Giovanna scrive: «… tutto quello che di creato c’è quaggiù non è niente per me se paragonato al mio carissimo Padre… Un giorno mi comandaste di distaccarmi e di spogliarmi di tutto. Oh Dio, quanto è facile lasciare quello che è attorno a noi, ma lasciare la propria pelle, la propria carne, le proprie ossa e penetrare nell’intimo delle midolla, che è, mi sembra, quello che abbiamo fatto è una cosa grande, difficile e impossibile se non alla grazia di Dio».

Nel 1610 firma di fronte al notaio un atto con il quale si spoglia di tutti i beni in favore dei figli. Lascia dunque la famiglia e parte per Annecy e il 6 giugno, insieme a due compagne, Giacomina Favre e Giovanna Carlotta de Bréchard entra nella piccola ed umile «casa della Galleria», culla dell’Ordine della Visitazione.

Rimarrà sempre “madre”, continuando ad amare profondamente e teneramente i suoi figli. Nuove morti, nuovi lutti… tanto che soltanto la figlia Francesca le sopravviverà tra figli, fratelli, generi e nuora. Perciò Dio diventa per lei l’unica ricerca, l’unico fine della sua attuale vita. Alla scomparsa di Francesco di Sales (28 dicembre 1622), Giovanna si trova sola alla guida della nuova famiglia religiosa della Visitazione. Si fa pellegrina sulle strade di Francia, fondando ben 87 case visitandine.

Consumata «nell’amore di opera e nell’opera di amore», come usava dire, si spegne il 13 dicembre 1641 nel monastero di Moulins.

Le «Lettere di amicizia e direzione» (tradotte per la prima volta in italiano, a cura dei monasteri della Visitazione d’Italia) sono la testimonianza più viva della grande spiritualità di Madre Chantal ed è la prova che fosse persona troppo intelligente e “libera” per ridursi ad un’ombra anonima di san Francesco di Sales.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Cristina Siccardi

Guisgard
22-06-2012, 18.00.28
p.s. dedicato alla terra di meraviglie del Cavaliere dell'Intelletto, cullata da una rarissima spiritualità che avvolge i campi di grano, le bianche chiesette di confine, le dirute mura delle orgogliose cittadelle, racchiusa tra il regno degli Etruschi ed il mare dei Tirreni.


Taliesin, vi sono grato per questo ritratto ideale e sognante con cui avete descritto le mie terre.
Il mio cuore corre proprio lungo quei confini nei quali siete riuscito a racchiudere quel mondo fatto di infinite meraviglie.
E per questo vi sono debitore :smile:

Taliesin
23-06-2012, 21.47.47
AMOR, CH'A NULLO AMATO AMAR PERDONA: FRANCESCA DA POLENTA

«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense»
(Inferno V, 100-107)
tratto da la Commedia di Dante Alighieri

Francesca da Polenta era figlia di Guido Minore Signore di Ravenna e Cervia “…siede la terra dove nata fui, sulla marina dove ‘l Po discende…..” e lì viveva tranquilla e serena la sua fanciullezza , sperando che il padre le trovasse uno sposo gradevole e gentile.

Siamo nel 1275 e Guido da Polenta decise di dare la mano di sua figlia a Giovanni Malatesta (detto Giangiotto Johannes Zoctus – Giovanni zoppo) che lo aveva aiutato a cacciare i Traversari, suoi nemici. Il capostipite, Malatesta da Verucchio detto il Mastin Vecchio o il Centenario, concorda ed il matrimonio è combinato. Fu detto a Guido:
“-…voi avete male accompagnato questa vostra figliuola, ella è bella e di grande anima, ella non starà contenta di Giangiotto… Messer Guido insistette: - Se essa lo vede soltanto quando tutto è compiuto, non può far altro che accettare la situazione”.

Per evitare il possibile rifiuto da parte della giovane Francesca i potenti signori di Rimini e Ravenna tramarono l’inganno.
Mandarono a Ravenna Paolo il Bello “piacevole uomo e costumato molto”, fratello di Giangiotto. Francesca l’aveva visto “…fu una damigella di là entro, dimostrato da un pertugio d’una finestra a madonna Francesca, dicendole – madonna, quegli è colui che dee esser vostro marito – e così si credea la buona femmina, di che madonna Francesca incontamente in lui pose l’anima e l’amor suo…”

Francesca accettò con gioia ed il giorno delle nozze, senza dubbio alcuno, pronunciò felice il suo “sì” senza sapere che Paolo la sposava “artificiosamente” per procura ossia a nome e per conto del fratello Giangiotto. “…non s’avvide prima dell’inganno, che essa vide la mattina seguente al dì delle nozze levare da lato a sè Giangiotto…” Pensate alla sua disperazione!

Ma ben presto si rassegnò, ebbe una figlia che chiamò Concordia, come la suocera, e cercava di allietare come poteva le sue tristi giornate. Paolo, che aveva possedimenti nei pressi di Gradara, sovente faceva visita alla cognata e forse si rammaricava di essersi prestato all’inganno!
Uno dei fratelli, Malatestino dell’Occhio, così chiamato perchè aveva un occhio solo “ma da quell’uno vedeva fin troppo bene”, spiando, s’accorse degli incontri segreti tra Paolo e Francesca.

Ed eccoci all’epilogo della nostra storia: un giorno del settembre 1289, Paolo passò per una delle sue solite visite e qualcuno (forse Malatestino “quel traditor”)avvisò Giangiotto.

Quest’ultimo che ogni mattina partiva per Pesaro ad espletare la sua carica di Podestà, che per maggior equanimità non doveva avere appresso la famiglia, per far ritorno a tarda sera, finse di partire ma rientrò da un passaggio segreto e …mentre leggevano estasiati la storia di Lancillotto e Ginevra, “come amor li strinse” si diedero un casto bacio (questo è quello che Dante fa dire a Francesca!) proprio in quell’istante Giangiotto aprì la oporta e li sorprese. Accecato dalla gelosia estrasse la spada, Paolo cercò di salvarsi passando dalla botola che sitrovava vicino alla porta ma, si dice, che il vestito gli si impigliasse in un chiodo, dovette tornare indietro e, mentre Giangiotto lo stava per passare a fil di spada, Francesca gli si parò dinnanzi per salvarlo ma…Giangiotto li finì entrambi.

Dante mette gli sventurati amanti all’inferno perchè macchiati di un peccato gravissimo, ma li fa vagare assieme: oltre la pena, che non abbiano anche quella della solitudine eterna. “…io venni men così com’io morisse; e caddi come corpo morto cade”.

Gli sventurati amanti vengono così immortalati da Dante nella Divina Commedia – V canto dell’Inferno.

Nel corso dei secoli poeti, musicisti, letterati, pittori e scultori si sono ispirati alla tragedia di Paolo e Francesca (da Pellico a D’Annunzio, da Zandonai a Scheffer, ecc.) ed ancor oggi la loro storia d’amore, avvolta in un alone di mistero, affascina migliaia di persone.

Taliesin, il bardo

tratto da www.gradara.org (http://www.gradara.org)

elisabeth
24-06-2012, 19.58.22
La storia di Paolo e Francesca e' una storia che racchiude molte sfaccettature del comportamento umano.....quando ama o quando egoisticamente la parola amore non diventa altro che possesso ed egoismo ..spinto alle volte dal tragico interesse.....ma desidero una cosa da voi mio caro Bardo....

" Amor, ch’a nullo amato amar perdona"......

Ditemi..........che significato date a queste parole ?

Taliesin
25-06-2012, 09.45.33
" Amor, ch’a nullo amato amar perdona"......
Ditemi...che significato date a queste parole ?

L'inclinazione naturale all'Amare qualcuno o qualcosa, non consente a chi è Amato di non Amare...
Questo è quello che spiegano le carte dei posteri uomini di letteratura.

Anche il Ghibellin Fuggiasco dovette ricredersi difronte a questa sublime massima poetica che immortalò i suoi scritti nell'eternità, poichè anch'egli, usando la sua Poesia come mezzo d'Amore e di evasione, non condivise mai nel mondo reale un significato d'Amore così vero e così grande, tanto da idealizzare la sua Divina Creatura, con una fanciulla incontrata due sole volte tra gli infratti di Ponte Vecchio e Santissima Trinità: Beatrice Portinari.

Il mio modesto giudizio Milady Elisabhet è che spesso questa frase si è appropriata della vita altrui in un vortice assurdo di Amore suicida ed Amore assassino che, per una sorta di masochismo ancestrale, a fatto sì che coloro che fossero stati poco amati avessero sprigionato uno stato d'Amore idelaizzato...

Per questo mio giudizio prenderò le critiche più acerrime ma nessuna massima, anche la più sublieme e poetica, può contenere un mondo edi emozioni...

Taliesin, il bardo

elisabeth
25-06-2012, 09.56.42
Niente di piu' vero...dalle vostre parole avrei potuto leggere.....il male peggiore dell' uomo....utilizzare questa frase, profanando ogni concetto d' Amore......

Grazie mio buon Bardo.....

Taliesin
25-06-2012, 13.41.10
Grazie a voi Elisabetta la Buona,
per avere compreso le mie parole ancor prima che il sapiente calamaio virtuale potesse imprimerle sulla bizzarra pergamena...

Taliesin, il bardo

Taliesin
25-06-2012, 13.56.51
VESTITA DI COLOR DI FIAMMA VIVA: BEATRICE PORTINARI

"Sovra candido vel cinta d'uliva
donna m'apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva."

(Dante Alighieri, La Commedia, Canto, Purgatorio XXX)



Sebbene non unanime, la tradizione che identifica Bice di Folco Portinari con la Beatrice amata da Dante è ormai molto radicata.
Lo stesso Giovanni Boccaccio, nel commento alla Divina Commedia esplicitamente riferimento alla giovane.

I documenti certi sulla sua vita sono sempre stati molto scarsi, arrivando a far persino dubitare della sua reale esistenza. L'unico che si conoscesse fino a poco tempo fa era il testamento di Folco Portinari datato 1287.

Vi si legge: ...item d. Bici filie sue et uxoris d. Simonis del Bardis reliquite [...], lib.50 ad floren, cioè si parla di una lascito in denaro alla figlia Bice maritata a Simone de' Bardi. Folco Portinari era stato un banchiere molto ricco e in vista nella sua città, nato a Portico di Romagna. Trasferitosi a Firenze, viveva in una casa vicina a Dante ed ebbe sei figlie. Folco ebbe il merito di fondare quello che tutt'oggi è il principale ospedale nel centro cittadino, l'Ospedale di Santa Maria Nuova.

La data di nascita di Beatrice è stata ricavata per analogia con quella presunta di Dante (coetanea o di un anno più piccola del poeta, che si crede nato nel 1265); la data di morte è ricavata dalla Vita Nuova di Dante stesso e forse non è altro che una data simbolica. Anche molte delle notizie biografiche provengono unicamente dalla Vita Nuova, come l'unico incontro con Dante, il saluto, il fatto che i due non si scambiarono mai parola, ecc.

Beatrice, figlia di un banchiere, si era imparentata con un'altra famiglia di grandi banchieri, i Bardi (http://it.wikipedia.org/wiki/Bardi_(famiglia)), andando in sposa ancora giovanissima, appena adolescente, a Simone, detto Mone. È recentissimo il ritrovamento di nuovi documenti nell'archivio Bardi su Beatrice e suo marito da parte dello studioso Domenico Savini. Tra questi un atto notarile del 1280, dove Mone de' Bardi cede alcuni terreni a suo fratello Cecchino con il beneplacito della moglie Bice, che all'epoca doveva avere circa quindici anni. Un secondo documento del 1313, quando cioè Beatrice doveva essere già morta, cita il matrimonio tra una figlia di Simone, Francesca, e Francesco di Pierozzo Strozzi per intercessione dello zio Cecchino, ma non è specificato se la madre fosse stata Beatrice o la seconda moglie di Simone, Bilia (Sibilla) di Puccio Deciaioli. Altri figli conosciuti di Simone sono Bartolo e Gemma, la quale venne maritata a un Baroncelli.

Un'ipotesi plausibile è che Beatrice sia morta così giovane forse al primo parto.

Il luogo di sepoltura di Beatrice viene tradizionalmente indicato nella Chiesa di Santa Margherita de' Cerchi, vicina alle abitazioni degli Alighieri e dei Portinari, dove si troverebbero i sepolcri di Folco e della sua famiglia. Ma questa ipotesi, sebbene segnalata da una lapide moderna che colloca la data di morte di Beatrice al 1291, è incoerente perché Beatrice morì maritata e quindi la sua sepoltura avrebbe dovuto avere luogo nella tomba della famiglia del marito. Infatti Savini indica come possibile luogo il sepolcro dei Bardi situato nella Basilica di Santa Croce, sempre a Firenze, tutt'oggi segnalato nel chiostro da una lapide con lo stemma familiare, vicino alla Cappella dei Pazzi.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.wikipedia.org (http://www.wikipedia.org)

Taliesin
26-06-2012, 08.58.56
MULIERES SALERNITANAE: TROTULA DE RUGGIERO

I dettagli della vita di Trotula sono sconosciuti.

Di lei si sa che visse attorno al 1050 a Salerno, città aperta agli scambi economici e culturali con tutto il Mediterraneo, uno dei luoghi più vitali del mondo allora conosciuto. Discendeva dall'antico casato dei “de Ruggiero” e , come membro della nobiltà, ebbe la possibilità di frequentare le scuole superiori e di specializzarsi in medicina. Non ci sono testimonianze dirette dei suoi studi, ma diverse annotazioni si riferiscono a lei in tal senso. Sposò il medico Giovanni Plateario da cui ebbe due figli che continuarono l'attività dei genitori.

La Scuola Medica di Salerno fu il primo Centro di Cultura non controllato dalla Chiesa e divenne talmente rinomata da essere considerata la prima università d'Europa. In quel luogo si cominciò a tradurre dall'arabo in latino i testi di medicina degli antichi scienziati greci, rendendoli nuovamente accessibili agli studiosi occidentali. La Scuola era aperta anche alle donne che la frequentavano sia come studentesse che come insegnanti e Trotula fu uno dei suoi membri. Le sue lezioni furono incluse nel De agritudinum curatione, una raccolta degli insegnamenti di sette grandi maestri dell'università e collaborò con il marito ed i figli alla stesura del manuale di medicina Practica brevis.

Trotula ebbe idee innovative sotto molti aspetti: considerava che la prevenzione fosse l'aspetto principale della medicina e propagava nuovi e per l'epoca insoliti metodi, sottolineando l'importanza che l'igiene, l'alimentazione equilibrata e l'attività fisica rivestono per la salute. Non ricorse quasi mai a pratiche medievali rivolte all'astrologia, alla preghiera e alla magia. In caso di malattia consigliava trattamenti dolci che includevano bagni e massaggi, in luogo dei metodi radicali spesso utilizzati a quel tempo. I suoi consigli erano di facile applicazione e accessibili anche alle persone meno abbienti.

Le sue conoscenze in campo ginecologico furono eccezionali e molte donne ricorrevano alle sue cure. Fece nuove scoperte anche nel campo dell'ostetricia e delle malattie sessuali. Cercò nuovi metodi per rendere il parto meno doloroso e per il controllo delle nascite. Si occupò del problema dell'infertilità, cercandone le cause non soltanto nelle donne, ma anche negli uomini, in contrasto con le teorie mediche dell'epoca.

Annotò queste scoperte nella sua opera più conosciuta il De passionibus Mulierum Curandarum (Sulle malattie delle donne), divenuto successivamente famoso col nome di Trotula Major, quando venne pubblicato insieme al De Ornatu Mulierum (Sui cosmetici), un trattato sulle malattie della pelle e sulla loro cura, detto Trotula Minor.
I due testi erano scritti in latino medievale, una lingua diffusa in tutta l'Europa. Il primo le fu richiesto da una nobildonna e si rivolgeva alle donne, “ché non parlano volentieri delle loro malattie agli uomini, per un sentimento di pudore”.

La trattazione risulta straordinaria anche perchè, per la prima volta, una medica parla esplicitamente di argomenti sessuali, senza coinvolgervi nessun accento moralistico. Accanto all'elaborazione teorica delle esperienze, nel testo si trovano numerosi esempi pratici. Poichè Trotula conosceva gli insegnamenti di Ippocrate di Kos (460-377 a.C.) e di Claudio Galeno (129-200 d.C.), vi faceva riferimento nelle sue diagnosi e nei suoi trattamenti, agendo una antica concezione della natura che legava le caratteristiche della persona all'intero cosmo.

Nel Trotula Minor, l'autricesi occupa della bellezza: scrive di rimedi per il corpo, di pomate e di erbe medicamentose per il viso ed i capelli e dispensa consigli su come migliorare lo stato fisico con bagni e massaggi. Questo argomento non rappresenta un aspetto frivolo dei suoi testi, per Trotula lo sguardo sulla bellezza di una donna ha a che fare con la filosofia della natura cui si ispira la sua arte medica: la bellezza è il segno di un corpo sano e dell'armonia con l'universo.

Nel XIII secolo le idee e i trattamenti di Trotula erano conosciuti in tutta l'Europa e facevano già parte della tradizione popolare. I suoi scritti vennero utilizzati fino al XVI secolo come testi classici presso le Scuole di medicina più rinomate. Il Trotula Maior, in particolare, venne trascritto più volte nel corso del tempo subendo numerose modificazioni, inoltre, come altri testi scritti da una donna, venne impropriamente attribuito ad autori di sesso maschile: ad un anonimo, al marito o ad un fantomatico medico “Trottus”.

Nel XIX secolo alcuni storici, tra cui il tedesco Karl Sudhoff, negarono la possibilità che una donna avesse potuto scrivere un'opera così importante e cancellarono la presenza di Trotula dalla storia della medicina. La sua esistenza fu però recuperata, con gli studi di fine Ottocento, dagli storici italiani per i quali l'autorità di Trotula e l'autenticità delle Mulieres Salernitanae sono sempre state incontestabili.

Taliesin, il bardo

tratto da: "Scienziate nel Tempo. 60 biografie di Sesti Sara e Moro Liliana, Ediz. LUD, Milano, 2006.

Taliesin
26-06-2012, 09.23.00
LA CONTESSA DELLA POESIA: BEATRICE DE DIA

Tra i meandri diroccati della virtuale pergamena di Camelot, tra anfratti ombrosi e sentieri a me inesplorati, ho ritrovato Morrigan con la sua maglifica presentazione di un'altra Donna delle Arti.
Ascoltiamo la sua storia...

Taliesin, il bardo
“La comtessa de Dia si fo moiller d'En Guilem de Peitieus, bella domna e bona. et enamoret se d'En Rambaut d'Aurenga, e fez de lui mantas bonas cansos.”

(La Contessa di Dia era la moglie di Guglielmo di Poitiers, una signora bella e buona. E si innamorò di Raimbaud d'Orange, e scrisse molte belle canzoni in suo onore - (Margarita Egan, Les vies des troubadours)


Del ristretto gruppo di trovatori donna (trobairitz) che di cui si ha notizia e che composero tra il XII e il XIII secolo, la più famosa fu Beatrice, contessa di Dia.
Della sua vita si hanno scarne notizie. Nata probabilmente nel 1140 in Provenza, fu sposa di Guillem o Guilhem de Poitiers, conte di Viennois, anche se un’altra versione meno accreditata la identifica con Isoarda, moglie di Raimon d'Agout e figlia di un conte di Dia.

Si innamorò di Raimbaud d’Orange (Raimbaut d’Aurenga in Occitanico), signore di Orange e Aumelas e trovatore a sua volta (contribuì alla creazione del Troubar clus, ovvero quella poesia trobadorica di stile oscuro e complesso).
A lui e al suo amore dedicò la sua opera, di cui ci sono pervenute cinque canzoni:

· Ab joi et ab joven m'apais
· A chantar m'er de so qu'ieu non volria
· Estât ai en greu cossirier
· Fin ioi me don'alegranssa
· Amics, en greu consirier

Le canzoni erano probabilmente pensate per essere accompagnate con il faluto. A sostegno di questa teoria, il ritrovamento della musica per i primi versi di A chantar, trovata ne Le manuscript di roi, una collezione di canzoni copiate nel 1270 per Charles of Anjou, fratello di Louis IX.

http://img535.imageshack.us/img535/540/achantar.png

In esse, la contessa canta in un linguaggio molto aperto e appassionato di questo amore, inizialmente da lei rifiutato per mantenere fede alle proprie promesse matrimoniali, quindi in seguito rimpianto.

I temi trattati sono in tutto aderenti ai canoni dell’amor cortese: l’amore visto come rapporto di equilibrio tra la dama (che deve custodire la propria dignità) e il suo cavaliere (che deve meritare il suo amore grazie al proprio onore), l’amore corrisposto come premio per il valore dimostrato dal cavaliere.

Ne Estât ai en greu cossirier, tuttavia, il tono è molto diverso e per certi aspetti molto moderno. In essa, la contessa sembra quasi voler gridare a tutto il mondo il suo amore, un amore passionale, impossibile da ritenere nei legacci della ragionevolezza, del quale essa canta anche gli aspetti più apertamente sensuali.

"Estat ai en greu cossirier
per un cavallier qu'ai agut,
e vuoil sia totz temps saubut
cum ieu l'ai amat a sobrier;
ara vei qu'ieu sui trahida
car ieu non li donei m'amor
don ai estat en gran error
en lieig e quand sui vestida.

Ben volria mon cavallier
tener un ser en mos bratz nut,
qu'el s'en tengra per ereubut
sol qu'a lui fezes cosseillier;
car plus m'en sui abellida
no fetz Floris de Blanchaflor:
ieu l'autrei mon cor e m'amor
mon sen, mos huoillis e ma vida.

Bels amics avinens e bos,
cora.us tenrai en mon poder?
e que jagues ab vos un ser
e qu'ie.us des un bais amoros;
sapchatz, gran talen n'auria
qu'ie.us tengues en luoc del marit,
ab so que m'aguessetz plevit
de far tot so qu qu'ieu volria."
(da http://www.recmusic.org/lieder/get_text.html?TextId=1113 (http://www.recmusic.org/lieder/get_text.html?TextId=1113))



"Vivo io in doloroso stato
Per un cavaliere che ho avuto
E voglio che sia da tutti saputo
Che l’ho amato oltre misura;
ora vedo che sono tradita
perché non gli ho donato il mio amore
per cui mi trovo in grande errore
sia nel letto che quando son vestita

Ben vorrei il mio cavaliere
stringere nudo, una sera, fra le mie braccia,
e che lui si sentisse felice
solo ch’io gli facessi da cuscino,
perch’è lui che mi piace più di quanto
non sia piaciuto Florio a Biancofiore.
Io gli concedo il mio cuore e il mio amore,
il mio sonno, i miei occhi e la mia vita.

Bell’amico, gentile e valoroso,
quando vi avrò in mio potere?
Solo una sera insieme a voi giacere
Per farvi dono di un bacio d’amore;
sappiate che avrei grande desiderio
di possedervi in luogo di marito
a condizione che mi promettiate
di fare tutto ciò che voglio"

Taliesin, il bardo
__________________
"E tu, Morrigan, strega da battaglia, cosa sai fare?"
"Rimarrò ben salda. Inseguirò qualsiasi cosa io veda. Distruggerò coloro su cui avrò poggiato gli occhi!"
Ultima modifica di Morrigan : 10-09-2010 alle ore 21.05.10.
http://www.camelot-irc.org/forum/images-camelot/statusicon/user_offline.gif

Taliesin
26-06-2012, 13.53.55
LA CITTA' DELLE DAME: CHRISTINE DE PIZAN


Dalle evidenti origini italiane, come si desume dal cognome (
Pizzano è un comune a sud est di Bologna), Christine de Pizan era nata a Venezia ma ancora bambina si era trasferita a Parigi, doveresterà tutta la vita. Il padre, Tommaso de Pizan, era infatti medico e astrologo di corte (all'epoca le due carriere erano intimamente legate) di re Carlo V di Francia, diventando anzi ben presto suo consigliere personale.

La piccola Christine a 4 anni venne presentata al re, le sage Roy Charles, per il quale avrà sempre buone parole. Christine crebbe in un ambiente di corte stimolante ed intellettualmente vivace: lo stesso Carlo V,
sensibile alle tematiche intellettuali, aveva fondato la Biblioteca Reale del



Louvre, a cui Christineaveva libero accesso e che descriverà anni più tardi come la belle assemblée des notables livres (la bella collezione di libri importanti), una biblioteca senza pari in Europa per la qualità e quantità di

preziosi libri con splendide


miniature. Incoraggiata dal padre ma osteggiata dalla più tradizionale madre, ebbe sicuramente una educazione letteraria approfondita, per l'epoca assai rara per una donna, e compose poesie molto apprezzate a corte.


Sposò a 15 anni nel


1379 Etienne de Castel, notaio e segretario del re, con cui ebbe tre figli, una femmina e due maschi, di cui uno morì in giovane età. Un matrimonio tuttavia sereno e felice, che Christine rimpiangerà spesso nei suoi scritti. Il marito infatti morì per una epidemia nel 1390.

Espresse il suo dolore in molte poesie, la cui più famosa è probabilmente


Seulete sui.


Christine de Pizan educa suo figlio Seulete sui et seulete vueil estre,


Sono sola, e sola voglio rimanere.

Seulete m'a mon douz ami laissiee; Sono sola, mi ha lasciata il mio dolce amico;
Seulete sui, sanz compaignon ne maistre sono sola, senza compagno né maestro,
Seulete sui, dolente et courrouciee,



sono sola, dolente e triste,

Seulete sui, en langueur mesaisiee,


sono sola, a languire sofferente,

Seulete sui, plus que nulle esgaree,


sono sola, smarrita come nessuna,

Seulete sui, sanz ami demouree.


sono sola, rimasta senz’ amico.

Seulete sui a uis ou a fenestre,


Sono sola, alla porta o alla finestra,

Seulete sui en un anglet muciee,


sono sola, nascosta in un angolo,

Seulete sui pour moi de pleurs repaistre,


sono sola, mi nutro di lacrime,

Seulete sui, dolente ou apisiee;


sono sola, dolente o quieta,

Seulete sui, rien n'est qui tant messiee;


sono sola, non c’è nulla di più triste,

Seulete suis, en ma chambre enserree,


sono sola, chiusa nella mia stanza,

Seulete sui, sanz ami demouree.


sono sola, rimasta senz’ amico

Seulete sui partout et en tout estre;


Sono sola, dovunque e ovunque io sia;


Seulete sui, ou je voise ou je siee;


sono sola, che io vada o che rimanga,

Seulete sui plus qu'aultre riens terrestre,


sono sola, più d'ogni altra creatura della terra


Seulete sui, de chascun delaissiee,


sono sola, abbandonata da tutti,

Seulete sui durement abaissiee,


sono sola, duramente umiliata,

Seulete sui, souvent toute esplouree,


sono sola, sovente tutta in lacrime,

Seulete sui, sanz ami demouree.


sono sola, senza più amico.

Prince, or est ma douleur commenciee:


Principi, iniziata è ora la mia pena:


Seulete sui, de tout deuil manaciee,


sono sola, minacciata dal dolore,

Seulete sui, plus teinte que moree:


sono sola, più nera del nero,

Seulete sui, sanz ami demouree.


sono sola, senza più amico, abbandonata.

Sola dunque, senza nemmeno la protezione del padre (morto nel


1385, qualche anno prima) e del re


Carlo V (morto a sua volta nel


1380), con tre figli e una anziana madre da accudire, con la famiglia caduta in disgrazia presso il nuovo sovrano Carlo VI detto Le Fou (il pazzo) e completamente all'oscuro degli aspetti pratici dell'esistenza, a 25 anni Christine compie una simbolica metamorfosi

e


diventa un uomo, intendendo con questa metafora il passaggio ad una vita più autonoma e responsabilizzata, per i tempi prerogativa esclusiva del maschio.


Or fus jee vrais homs, n'est pa fable,/De nefs mener entremettable
(allora diventai un vero uomo, non è una storia,/capace di condurre le navi)




Mentre era impegnata in estenuanti cause legali e in una apprezzata attività di copista e miniaturista (fu la responsabile di uno


scriptorium con maestri miniatori specializzato in riproduzioni, non esistendo ancora la stampa), compose in soli due anni Le Livre des cent ballades, che ebbe un

grande successo e grazie al quale ottenne la protezione e committenze di illustri personaggi, quali il Duca


Filippo di Borgogna e Jean, Duca di Berry, entrambi fratelli del compianto Carlo V, e la regina Isabella di Baviera.


Queste protezioni le permisero di dedicarsi esclusivamente alla stesura di
diversi libri e alla sua attività di poetessa e intellettuale, che ebbe numerosi riconoscimenti e attestazioni di stima, per esempio nei filosofi allora in auge



Jean de Gerson e Eustache Deschamps.

Scrisse moltissimo, aiutata da una facilità di scrittura notevole: tra gli altri


Le Livre de Corps de Police, in cui incoraggia i principi ad aiutare le vedove (chiaro il riferimento alle sue vicende personali), l'autobiografico L'Avision-Christine, L'Epistre au Dieu d'Amours, in cui condanna chi

usando l'amore inganna e diffama le donne,


Le Livre de Trois Vertus, ideale continuazione del citato La Città delle Dame, nel quale incoraggia le donne ad essere forti e ad uscire dagli stereotipi sessuali.


Christine de Pizan offre una copia dei suoi lavori alla Regina Isabella di Baviera, moglie del re Carlo VI.
Dopo il suo ultimo lavoro sulla sua contemporanea



Giovanna D'Arco del 1429, il primo entusiastico poema su Giovanna D'Arco e l'unico ad essere composto mentre era ancora viva, all'età di 65 anniChristine de Pizan si ritirò in un convento.


La data della morte è sconosciuta, ma dovrebbe aggirarsi intorno al 1430.



La Città delle Dame
Scritto nei mesi invernali tra il 1404 e il 1405, il



Livre de la Cité des Dames (la Città delle Dame) è probabilmente l'opera più famosa di Christine de Pizan. Venne scritto in risposta ai libri di Giovanni

Boccaccio


(De mulieribus claris, Sulle donne famose), Jean de Meun (autore del Roman de la Rose, un testo del tredicesimo secolo che dipingeva le donne solo come seduttrici) e del filosofo Mateolo,

nonché di altri testi misogini e chiaramente avversi alla condizione femminile, intrisa secondo loro solo di dubbio, malinconia e intemperanza.



...Sembrano tutti parlare con la stessa bocca, tutti d'accordo nella medesima conclusione, che il
comportamento delle donne è incline ad ogni tipo di vizio...




Pizan presenta invece una società utopica e allegorica in cui la parola


dama indica una donna non di sangue nobile, ma di spirito nobile. Nella città fortificata e costruita secondo le indicazioni di Ragione, Rettitudine e Giustizia, la Pizan racchiude un elevato numero di sante, eroine, poetesse,

scienziate, regine etc che offrono un esempio dell'enorme, creativo e indispensabile potenziale che le donne possono offrire alla società.
Tra le altre



Semiramide e Didone, fondatrici di Babilonia e Cartagine, l'eroina Griselda, Lucrezia che si suicidò dopo lo stupro e che offre lo spunto per emettere una legge giusta e santa che condanna a morte gli stupratori, Pentesilea che si oppone alla barbarie etc.


Centrale nella Città delle Dame è poi il tema della


educazione femminile, che Christine de Pizan avvertiva come fondamentale. L'impossibilità infatti di imparare, unita all'isolamento tra le mura domestiche, avevano causato la presunta inferiorità femminile e la sua assenza dalla scena culturale.


Ma è una inferiorità di tipo culturale e non naturale, come si desume dai vari esempi che porta la scrittrice (


Saffo, Proba, Novella, Ortensia e altre), visto che "...una donna intelligente riesce a far di tutto", e anzi gli uomini "...ne sarebbero molto irritati se una donna ne sapesse più di loro".


Ispirato chiaramente a


La città di Dio di Sant'Agostino, di agevole lettura nonostante l'evidente alto livello nozionistico e culturale, La Città delle Dame resta ancora oggi, per i temi e la passione che traspare dal testo, un libro attualissimo e affascinante.

...Sono certa che quest'opera farà chiacchierare a lungo i maldicenti...

Taliesin, il bardo


...questo modesto incontro con la divina scrittrice Cristina de Pizan, è dedicato idealmente alla frazione di Pizzano in Emilia, a quelle Donne coraggiose ed altruiste, gente sana senza boria nè buriana,
genuina come un buon bicchiere di vino rosso.

Taliesin, il bardo

tratto da :http://www.pinn.net/~sunshine/march99/pizan3.html (http://www.pinn.net/~sunshine/march99/pizan3.htmlhttp://home.infionline.net/~ddisse/christin.htmlhttp://www.csupomona.edu/~plin/ls201/christine1.htmlhttp://faculty.msmc.edu/lindeman/piz1.htmlhttp://www2.uni-wuppertal.de/FB4/romanistik/CdeP/welcome.html)
http://home.infionline.net/~ddisse/christin.html
http://www.csupomona.edu/~plin/ls201/christine1.html
http://faculty.msmc.edu/lindeman/piz1.html
http://www2.uni-wuppertal.de/FB4/romanistik/CdeP/welcome.html (http://www.pinn.net/~sunshine/march99/pizan3.htmlhttp://home.infionline.net/~ddisse/christin.htmlhttp://www.csupomona.edu/~plin/ls201/christine1.htmlhttp://faculty.msmc.edu/lindeman/piz1.htmlhttp://www2.uni-wuppertal.de/FB4/romanistik/CdeP/welcome.html)

Taliesin
26-06-2012, 14.14.47
L'INIZIO DEL CAMMINO LETTERARIO: COMPIUTA DONZELLA

Resta un enigma storico Compiuta Donzella, il nome, o lo pseudonimo, sotto cui si cela una rimatrice fiorentina del Duecento, probabilmente la prima donna che compose poesia d’arte in volgare italiano, della quale ci sono pervenuti solo tre sonetti di gusto trobadorico e giullaresco, due dei quali di una perfezione formale molto vicina a quella del Petrarca.

Per mancanza di altri riscontri, letterari o biografici, la Compiuta (nome, peraltro, usuale nella Firenze del tempo in cui visse) è stata a lungo oggetto d’inattendibili ipotesi spesso di carattere romanzesco.

Si tratta, forse, della prima poetessa italiana: la prima cioè a comporre versi in volgare. Nulla si sa con certezza della sua vita, tranne che visse nell'ambiente toscano della seconda metà del XIII secolo. L'autenticità viene confermata dalla presenza del suo nome fra i sonetti del Torrigiano e per un abbastanza esplicito richiamo ad essa in una lettera di Guittone d'Arezzo. Ebbe un'educazione e una cultura rare in tempi in cui l'analfabetismo era molto diffuso, specialmente tra le donne.

Le Opere
A la stagion che 'l mondo foglia e fiora (http://www.interbooks.eu//poesia/duecento/compiutadonzella/A%20la%20stagion%20che%20'l%20mondo%20foglia%20e%2 0fiora.html). Di maniera provenzaleggiante, si lamenta per un amore impossibile (amore che fiorisce nel cuore della poetessa in concerto con la primavera esultante)

Lasciar vorria lo mondo e Dio servire (http://www.interbooks.eu//poesia/duecento/compiutadonzella/Lasciar%20vorria%20lo%20mondo%20e%20Dio%20servire. html). Emerge il contrasto fra il suo proposito di diventare monaca e quello del padre deciso ad obbligarla ad un matrimonio.

Ornato di gran pregio e di valenza (http://www.interbooks.eu//poesia/duecento/compiutadonzella/Ornato%20di%20gran%20pregio%20e%20di%20valenza.htm l).

Taliesin, il bardo

tratto da www.interbooks.eu (http://www.interbooks.eu)

Taliesin
26-06-2012, 14.25.24
LA REGINA DI NAPOLI: GIOVANNA II D'ANGIO'

GIOVANNA II d'Angiò, regina di Sicilia. - Figlia di Carlo III d'Angiò Durazzo e Margherita di Durazzo (la parente più prossima di Giovanna I regina di Napoli, in quanto figlia di Maria d'Angiò, sorella minore di questa) nacque in Ungheria nel 1371; i suoi genitori si erano sposati a Napoli il 24 genn. 1370, per poi fare ritorno alla corte magiara di Luigi I il Grande, che era intenzionato a fare di Carlo d'Angiò il suo successore.

G. visse in Ungheria sino all'età di cinque anni, allorquando la madre partì, recandola con sé, alla volta di Napoli per salvaguardare le pretese alla successione dei Durazzo. Giunte a destinazione, nel luglio 1376, accolte dal cauto benvenuto della vecchia regina Giovanna I d'Angiò, Margherita diede alla luce un altro figlio, Ladislao. Il Grande Scisma del 1378 portò Carlo e Giovanna I in fazioni papali contrapposte e aprì la strada alla lunga lotta per il trono napoletano tra le forze dei Durazzo, sostenitori del Papato di 0bbedienza romana, da una parte, e degli Angioini, sostenitori del Papato di obbedienza avignonese, dall'altra. Margherita e i suoi figli furono tenuti in pratica ostaggi finché nel giugno 1381 non fuggirono a Morcone (Benevento). Lì attesero le armate durazzesche, che stavano frattanto avanzando; il 2 giugno 1381 Carlo fu infine investito a Roma del Regno di Sicilia da Urbano VI. A settembre, Margherita, divenuta ora regina, e i suoi figli poterono entrare in trionfo nella capitale e prendere residenza a Castelnuovo.

La nuova condizione reale non pose fine agli eventi drammatici che contraddistinsero l'infanzia di Giovanna. Per tre anni le armate di Luigi I d'Angiò, fratello del re di Francia Giovanni II, nominato dalla regina Giovanna I suo erede, minacciarono di detronizzare Carlo III, mentre i piani per assassinare il sovrano e i suoi congiunti gettarono la famiglia reale nel sospetto e nel timore di rappresaglie. La tensione si allentò solo quando Luigi d'Angiò morì inaspettatamente nel settembre 1384. Ma fu un sollievo di breve durata, poiché già un anno più tardi Carlo entrò in contesa con Sigismondo di Lussemburgo per il trono d'Ungheria sul quale sedeva, dopo la morte di Luigi il Grande (settembre 1382), la figlia Maria; e in quel paese fu assassinato nel febbraio 1386.

Margherita, donna di grande forza di volontà e già temprata all'esercizio del potere, dovette difendere come reggente il trono del figlio Ladislao, che aveva in quel momento dieci anni, contro il ritorno dei sostenitori degli Angiò. Inevitabilmente G., ora quindicenne e in età da matrimonio, divenne una pedina nelle lotte di successione dinastica. I Fiorentini la descrissero come "la generosa figliuola di Carlo III, donna bellissima e graziosa" (Faraglia, p. 19), ma non ci è giunto alcun ritratto che possa convalidare la loro diplomatica adulazione, finalizzata a ricomporre la pace attraverso il matrimonio tra G. e il nuovo duca d'Angiò, Luigi II, un fanciullo di dieci anni. Sebbene Margherita avesse dato la sua approvazione, a partire dal gennaio 1387 fu chiaro che i successi che gli Angioini stavano ottenendo avevano dissipato ogni loro propensione al compromesso. A luglio Margherita fu costretta ad abbandonare la capitale e a rifugiarsi a Gaeta, che divenne il quartier generale dei Durazzo lungo tutta la durata della guerra civile. G. trascorse i cinque anni seguenti in circostanze dure e difficili, tra disfatte militari e ristrettezze economiche, finché nell'estate del 1392, quando la peste costrinse la corte a rifugiarsi nel solitario monastero della Ss. Trinità di Cava de' Tirreni, le fortune della guerra cominciarono a volgere a favore dei Durazzo, tanto che gli Angioini mandarono degli emissari per discutere la pace sulla base di una proposta di matrimonio.
Questi negoziati non ebbero esito. Ladislao, nell'aprile del 1393, propose la sorella con una dote di 300.000 fiorini al marchese di Monferrato, nella speranza che il principe ostacolasse il passaggio dei rinforzi francesi. Tuttavia, le trattative politiche per un matrimonio con G. si fecero ancora più interessanti nella prospettiva di una vittoria dei Durazzo.

Nel 1395, una fazione di nobili ungheresi chiese a Firenze di fare da intermediaria per concordare il matrimonio tra la principessa napoletana e il loro re Sigismondo, vedovo, in vista di una pacificazione tra questo e Ladislao. Ma Sigismondo, sospettando un piano segreto dei Durazzo, non proseguì ulteriormente nelle trattative. In seguito si fece avanti Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano, il quale verso la fine del 1396 prospettò un matrimonio del figlio, Giovanni Maria, con Giovanna. In questa occasione fu Firenze a opporsi, preoccupata delle ambizioni dei Visconti. Perciò G. trascorse gli anni della giovinezza nell'ozio, in una corte sempre più licenziosa, mentre il fratello, il nuovo padrone della corte, si faceva intanto uomo.

Una nuova fase si aprì con la vittoria dei Durazzo e la resa di Napoli a Ladislao nel luglio 1399. Subito il giovane re rivolse le sue ambizioni verso l'Ungheria, e a questo scopo stabilì di sposare G. a un esponente della casata degli Asburgo, Guglielmo, duca d'Austria: con i suoi domini che si estendevano sino al Friuli e all'Adriatico, questi sarebbe stato un utile alleato contro Sigismondo. Gli accordi matrimoniali furono conclusi nel dicembre 1399 nel momento in cui la corte, dopo un'assenza di dodici anni, faceva il suo ritorno a Napoli, e in tale occasione Ladislao impose la tassa del maritagium.

Tuttavia, invece di inviare la promessa sposa in Austria, il re cominciò a mostrarsi riluttante, anche perché i suoi piani di sposarsi con una principessa cipriota rendevano difficoltoso reperire i 300.000 fiorini promessi per la dote di Giovanna. Nonostante le minacce di Guglielmo di annullare il matrimonio, Ladislao aspettò finché riuscì ad assicurarsi la sposa cipriota con la sua ricca dote, prima di autorizzare la firma del contratto nuziale, che ebbe luogo il 6 giugno 1403. Nel luglio dello stesso anno G. salpò con il fratello da Manfredonia alla volta di Zara, dove Ladislao dette il via alla sua scalata alla corona ungherese con un'incoronazione improvvisata. Sebbene, da parte sua, Guglielmo non si decidesse a intervenire contro Sigismondo, G. fu comunque mandata da lui in settembre. Venezia le tributò gli onori dovuti quando questa passò per la città diretta a Trieste, in territorio austriaco.

Appena tre anni più tardi, il 15 luglio 1406, Guglielmo morì. Non avendo avuto figli che la legassero alla corte degli Asburgo, G. decise di tornare in Italia. Vi fece ritorno all'inizio del 1407. Nei sette anni successivi G., ormai troppo vecchia per attirare altre offerte di matrimonio, non aveva molto altro da fare se non divertirsi alla corte libertina del fratello. Il suo coppiere, Pandolfello Piscopo (noto anche con il nome di Alopo), assunse il ruolo di amante. Tuttavia, gradualmente, in questa esistenza dissipata cominciò a farsi strada l'eventualità che Ladislao non avesse figli e che G., perciò, fosse l'unica erede della linea dei Durazzo. Fu così che un trattato di pace, sottoscritto da Ladislao e da papa Giovanni XXIII nel giugno del 1412, riconobbe esplicitamente il suo diritto al trono.

Eppure nessuno poteva prevedere la prematura scomparsa di Ladislao, il 6 ag. 1414, che pose questa donna di 43 anni in una posizione per la quale era rimasta completamente impreparata.

La crudeltà del fratello, feroce verso i nemici e prodigo verso i sudditi fedeli, gli aveva procurato la sottomissione del popolo; mentre le sue mire territoriali, vanificate in Ungheria, avevano potuto prosperare nel caos in cui versava l'Italia centrale. La stabilità del trono, sia in patria sia all'estero, dipendeva in ultima analisi dalle qualità essenzialmente maschili di un re guerriero. Una volta che una tale personalità venne meno, si disintegrò con essa anche il potere militare che sosteneva lo Stato, senza lasciare alcuna efficace alternativa nelle mani della nuova regnante. G. ereditò un corpo di consiglieri abituati ad assecondare la volontà di un autocrate, mentre lei stessa non poteva fare conto su persone fidate con l'esperienza necessaria. La nomina del Piscopo all'ufficio di gran camerlengo, avvenuta subito dopo la sua salita al trono, illustra molto chiaramente la natura del suo dilemma.

G. e i suoi consiglieri compresero bene che non si potevano permettere di perseverare nella politica che aveva contraddistinto il regno di Ladislao; si rendeva necessario, perciò, ricomporre i conflitti con le potenze che egli aveva sfidato. Fra i primi a subire le conseguenze di tale cambiamento fu Ladislao stesso, o meglio il suo corpo, per il quale la regina volle una cerimonia funebre ridotta al minimo, come si addiceva a una persona morta in contrasto con la Chiesa. Il primo a beneficiare della nuova situazione fu invece il condottiero Paolo Orsini, che Ladislao le aveva ingiunto di mettere a morte per tradimento. Anche i suoi sudditi furono inizialmente avvantaggiati da questa nuova situazione: a essi fu promesso un alleggerimento del carico fiscale, nonostante il deficit cronico nelle entrate dello Stato e la mancanza immediata del denaro necessario per pagare le forze rimaste a Roma e in Umbria.

Tra le preoccupazioni principali di G. vi era la necessità di ottenere il riconoscimento papale del suo titolo. Nel giro di due settimane i suoi emissari partirono alla volta di Bologna per incontrare Giovanni XXIII, facendo tappa a Firenze per rassicurare la Repubblica del favore della nuova regnante di Napoli. Altrove G. poteva contare su ben pochi amici. Sigismondo, da sempre nemico dei Durazzo, nel 1410 era diventato imperatore del Sacro Romano Impero e teneva nelle sue mani il futuro della Chiesa al concilio di Costanza; la Francia, inoltre, cercò subito di fare valere le pretese angioine su Napoli, pretese che Giovanni XXIII era incline ad appoggiare contro quella che ai suoi occhi era ormai solo una dinastia che lo aveva umiliato, tenendolo per la maggior parte del suo pontificato lontano da Roma, e che deteneva tuttora posizioni chiave nel Patrimonio. Firenze tuttavia riuscì a persuadere il pontefice a mandare una missione esplorativa a Napoli, accompagnata dai propri rappresentanti. G. rispose con entusiasmo, noleggiando delle galee per il trasferimento dell'ambasceria, anche se affidò poi le negoziazioni ai suoi favoriti, il Piscopo e il conte di Troia. In seguito dovette approvare lei stessa una misura piuttosto rischiosa, finalizzata a compiacere il pontefice, quale l'arresto del condottiero Muzio Attendolo Sforza, capo delle armate durazzesche nell'Italia centrale, poiché si opponeva al ritiro delle sue truppe dai territori papali.

Tutto ciò sortì però un modesto effetto. I Fiorentini rimasero insoddisfatti delle riparazioni per le perdite subite dai loro mercanti al tempo di Ladislao. G. li licenziò con questo sconsolato commiato: "Io veggo bene che i vostri signori non si fidano di me, ma se ne fideranno più di qui ad un anno, quando mi avranno provata" (Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, p. 279). Dal pontefice, che tuttora si rivolgeva a lei come duchessa d'Austria, riuscì a strappare una tregua di due mesi e mezzo. Frattanto aveva provocato la collera dei capitani dello Sforza e non era riuscita a mettere un freno alle propensioni anarchiche dei potenti del suo Regno. Il duca di Sessa, i conti di Celano, Fondi, Altavilla e Tagliacozzo e la città dell'Aquila la osteggiarono tutti; Giulio Cesare Di Capua poteva impunemente fare scorrerie nella campagna circostante la capitale. La maggior parte di essi giustificava la ribellione come lealtà verso la causa di Luigi II d'Angiò che essi reclamavano al trono di Napoli. Il Piscopo riuscì in breve a persuadere la sua amante che solo lo Sforza poteva salvarla; in questo modo nel marzo 1415 fu raggiunto un accordo: in cambio del suo rilascio e di generose remunerazioni lo Sforza avrebbe sedato i ribelli.

In autunno li aveva già ridotti all'obbedienza guadagnandosi la carica di connestabile.

Poiché G. aveva già superato l'età in cui poteva ancora avere figli, ed era priva di un erede, l'interesse dei suoi sudditi e delle potenze coinvolte si era rapidamente rivolto alla questione di un matrimonio che potesse determinare la successione. Alcune delle voci che giravano a Napoli nel dicembre del 1414 sostenevano che fosse lo stesso Sforza ad aspirare alla sua mano, mentre secondo altre il papa aveva in progetto di darla in sposa a Luigi d'Angiò. Solo il suo Consiglio sapeva che la scelta era già stata fatta. L'avversione nei confronti del nemico di sempre e le divisioni interne esclusero che la scelta cadesse sull'Angiò. Ella si rivolse invece a una potenza rivale in tempi più lontani, l'Aragona, che aveva frattanto ristabilito il controllo sulla Sicilia, e che, sotto la nuova dinastia dei Trastamara, poteva assicurarle un sostegno militare e navale. All'inizio di ottobre del 1414 i rappresentanti di G. si recarono a sistemare la questione con Ferdinando I d'Aragona, che accolse con entusiasmo la proposta. Un contratto fu sottoscritto a Valenza il 4 genn. 1415, in cui si conveniva che il secondo figlio del re, Giovanni, raggiungesse con forze consistenti Napoli per la fine di febbraio diventando marito di G. e suo erede. Non è possibile stabilire quanto G. avrebbe persistito di sua volontà nel progetto di un matrimonio-farsa con un giovane di soli sedici anni. Comunque furono i suoi consiglieri che si opposero con forza alla richiesta che Giovanni fosse incoronato e regnasse congiuntamente con G., rifiutandosi di ratificare il contratto.

Venne invece proposto un marito che non avrebbe danneggiato nessuno: Giacomo di Borbone, conte della Marche, quarantacinquenne e imparentato alla lontana con la famiglia reale francese. Egli non avrebbe dovuto assumere il titolo reale, in modo da lasciare aperta la questione della successione al beneplacito delle fazioni interne, del Papato e degli Angiò. Ma coloro che avevano orchestrato questa manovra così ingenua sottovalutarono la perfidia dei loro stessi connazionali: la fazione angioina della nobiltà si affrettò ad acclamare Giacomo re di Napoli appena fu sbarcato a Manfredonia. Bastò un semplice tranello per fare prigioniero lo Sforza a Benevento con il risultato che, quando Giacomo e i suoi sodali raggiunsero Napoli il 15 ag. 1415, G. si ritrovò completamente indifesa. Ancora prima del loro arrivo, il castellano di Castelnuovo l'aveva già tradita: irrompendo nella sua camera da letto e ignorando le grida di protesta, riuscì a catturare Pandolfello e lo gettò nelle segrete.

A G. non rimaneva altra scelta se non quella di ordinare un'entrata solenne per il conte e disporre che il matrimonio fosse celebrato immediatamente dall'arcivescovo, fino all'umiliazione finale di proclamare Giacomo sovrano e coregnante. Le fu negato anche il conforto della compagnia: Giacomo non provava alcuna attrazione fisica per questa donna ormai vecchia ("senio confecta, flatus oleret": Faraglia, p. 59) e i suoi sostenitori volevano che non fosse di ostacolo alle loro mire. Il suo isolamento fu reso completo dall'uccisione di Pandolfello, decapitato a sua insaputa per colpe che confessò sotto tortura. Lo Sforza, imprigionato in Castel dell'Ovo, sopravvisse poiché seppe resistere alla tortura, e la fiera lealtà dei suoi capitani indusse i suoi aguzzini a una certa cautela. G. viveva sotto stretta sorveglianza, disprezzata dal marito e nell'impossibilità di comunicare con i suoi amici e consiglieri.

Il potere ebbe la meglio sul carattere peraltro arrogante e instabile di Giacomo, che cominciò a distribuire a pioggia ai suoi seguaci francesi cariche, terre e privilegi in modo così vistoso da alienarsi rapidamente l'approvazione di coloro che gli avevano dato il trono. Questi ultimi erano capeggiati dal Di Capua, il quale cercò quindi la vendetta. In un incontro che riuscì ad avere con la regina si offrì di uccidere Giacomo, attendendosi in cambio la sua gratitudine e una ricompensa futura. G., tuttavia, era così impaurita dalla sua condizione di prigioniera e dai tradimenti che aveva dovuto patire che sospettò si trattasse di una trappola e rivelò il nome del cospiratore al marito. L'8 genn. 1416, dopo un processo sommario, il Di Capua e il suo segretario venivano decapitati. Trascorsero molti mesi prima che qualcun altro osasse venire in suo aiuto.

Fu però un periodo sufficiente perché i suoi guardiani allentassero la vigilanza e si facesse particolarmente vivo a Napoli il risentimento contro lo strapotere della fazione francese. La celebrazione di un matrimonio che si tenne nella casa di un mercante fiorentino, Agostino Bonciaini, il 13 sett. 1416, fornì ai nemici di Giacomo l'occasione agognata. Egli si scusò di non potervi prendere parte ma concesse a G. di presenziare. Ella fu accolta per le strade da grida che inneggiavano "Viva la regina" e la sera, al momento di tornare a Castelnuovo, un servo fedele guidò le urla di protesta che scandivano: "Non vogliamo altro re che la regina" (Faraglia, p. 70). Alla fine G. osò chiedere loro aiuto: "Non mi abbandonate, mio marito mi maltratta" (Diurnali del duca di Monteleone, p. 93). Le parole della regina offrirono a Ottino Caracciolo e Annechino Mormile, che avevano architettato il piano, il pretesto di cui avevano bisogno per scortare G. al sicuro nel palazzo dell'arcivescovo. Il giorno seguente G. si trasferì a Castelcapuano, mentre Giacomo, davanti alla rivolta popolare, giudicò prudente ritirarsi a Castel dell'Ovo.

Da questa data in poi la Cancelleria rogò documenti in nome della sola G., che nel mese di ottobre riuscì, dietro pagamento del castellano francese che lo presiedeva, a riottenere Castelnuovo, tornando così a ristabilirsi nella sua consueta residenza. Giacomo tuttavia seppe difendersi con successo e G., sapendo che suo marito poteva ancora servire come catalizzatore del diffuso sentimento di avversione contro i Durazzo, accettò di scendere a patti con lui. Fu stabilito che egli conservasse solo quaranta dei suoi servitori francesi, che liberasse lo Sforza e che rinunciasse al titolo regale; in cambio avrebbe ricevuto una provvisione annuale di 40.000 ducati e tutti gli onori specificati nel contratto matrimoniale. Su questa base il marito umiliato tornò quindi a stabilirsi a Castelnuovo il 20 dic. 1416; qualsiasi possibilità di ristabilire buoni rapporti tra i coniugi era svanita e Giacomo si trovò presto sorvegliato e minacciato con la "prigione più dura" (Faraglia, p. 75). Il suo seguito francese partì rapidamente lasciando libere cariche e onorificenze per coloro che si erano dimostrati leali a G.; lo Sforza e Annechino Mormile raccolsero i frutti migliori di questo cambiamento. Ma vi fu anche la preoccupazione di placare gli antichi nemici: la famiglia Sanseverino riottenne terre che le erano state confiscate da Ladislao, il conte di Matera tornò in libertà dopo dieci anni di prigionia; alla città dell'Aquila fu concesso di demolire il proprio castello. Tornarono a corte antichi favoriti, come molti presunti amanti di G.; tra questi vi era innanzitutto Gianni Caracciolo (noto anche con l'appellativo di ser Gianni): proveniente da una ramo minore dei Caracciolo, della stessa età della regina, già capitano con Ladislao, avrebbe esercitato la sua influenza lungo quasi tutto l'arco di regno di G., sia come compagno di letto sia come mentore in tutte le questioni di Stato. Lo spettacolo della regina divenuta un pupazzo nelle mani del Caracciolo provocò il biasimo pubblico ed erose ulteriormente l'autorità regale.

G. nel frattempo, alla fine di questo movimentato periodo, non era stata ancora incoronata e rimaneva incerto quale atteggiamento avrebbe avuto nei suoi confronti il futuro pontefice, suo signore feudale, che sarebbe stato eletto dai delegati del concilio di Costanza riunitisi per porre fine al perdurante scisma d'Occidente. Perciò rispose con premura alle richieste di aiuto lanciate dal governatore dello Stato pontificio contro il condottiere Andrea Fortebracci (noto con il nome di Braccio da Montone). Muzio Attendolo Sforza, antico rivale di Braccio diventato di recente gran connestabile del Regno, consegnò Roma a Giordano Colonna, guadagnandosi in questo modo i favori del fratello del Colonna, Ottone, che sarebbe diventato papa, con il nome di Martino V, l'11 nov. 1417.

Tuttavia, quando lo Sforza ritornò a Napoli, nel mese di dicembre, trovò il Caracciolo ormai saldamente insediato nel ruolo di padrone della regina e della corte, animato esclusivamente dall'interesse e dall'ambizione personale, al punto da indurre molti, e tra gli altri la famiglia Mormile, alla ribellione. Inevitabilmente, intorno al vecchio soldato si raccolse tutta l'opposizione contro il favorito; prodighe elargizioni in favore dello Sforza, tra cui Benevento e Manfredonia, allentarono temporaneamente la tensione e lo persuasero a volgere la sua azione contro i contadini del Principato e i baroni della Basilicata. Ma nel settembre 1418 la frattura era già riaperta: lo Sforza, Francesco Mormile e i loro sostenitori marciarono su Napoli; ser Gianni e il suo nuovo alleato, Francesco Orsini, comandante militare di Napoli, si prepararono alla battaglia. Tuttavia, i cittadini furono così allarmati dallo svolgersi degli eventi che presero la situazione nelle loro mani e avviarono trattative dirette con lo Sforza, fino alla sigla di un patto che, ratificato ad Acerra dai suoi consiglieri (20 ottobre), G. fu costretta ad accettare. Tra le umiliazioni che esso le imponeva vi era il bando dei suoi consiglieri, incluso il Caracciolo, la liberazione di suo marito, il rilascio dei nobili imprigionati e un accordo, secondo il quale i deputati eletti dalla capitale potevano discutere affari di Stato con il loro sovrano. Solo il 14 febbr. 1419, in seguito alle pressioni di emissari pontifici e stranieri, G. accettò l'amara necessità di rilasciare Giacomo di Borbone, che si rifugiò proprio presso il suo avversario di un tempo, lo Sforza. Il legato pontificio, Pietro Morosini, era intanto giunto in gennaio: recava con sé una bolla di investitura (emessa a Mantova il 28 nov. 1418) e aveva l'autorità di incoronare G. una volta che ella avesse acconsentito alle condizioni impostele da Martino V.

Fra queste era contemplata la consegna di alcune fortezze del Patrimonio (Ostia, Civitavecchia, Castel Sant'Angelo) - compito affidato al Caracciolo -, nonché i servigi di Muzio Attendolo per allontanare una volta per tutte Braccio dallo Stato pontificio. Sia G. sia ser Gianni, che attendeva a Gaeta dopo aver eseguito la sua missione ed essersi recato a ossequiare a Mantova il pontefice, avrebbero volentieri gradito che lo Sforza partisse subito per ottemperare ai suoi obblighi, mentre questi insisteva per ottenere garanzie a cui si dovevano impegnare i deputati napoletani. Il gran connestabile era ancora ad Acerra quando Giacomo di Borbone, il 4 maggio 1419, salpò su un vascello genovese alla volta di Taranto, il principato assegnatogli dal patto sottoscritto nel 1416. Dopo essersi fintamente addolorata per la diserzione - ella temeva in realtà che potesse portare a una sollevazione favorevole alla fazione angioina -, G. richiamò con riluttanza lo Sforza a Napoli e incoraggiò gli Orsini, i precedenti signori di Taranto, ad assediare il marito fuggitivo. Alla fine del 1419 Giacomo ripartì di nuovo, diretto questa volta alla volta di Corfù, per poi recarsi a Venezia: la sua eccentrica vita ebbe termine nel 1438.

Terre e onorificenze si accumulavano frattanto sui parenti del pontefice, mentre la fiacca campagna condotta contro Braccio nell'estate del 1419 riusciva alla fine ad assicurare a G. la tanto sospirata incoronazione. Questa ebbe luogo il 29 ott. 1419: la regina sedeva su un palco collocato di fronte a Castelnuovo, scortata da molte guardie ma chiaramente visibile dal suo popolo. Tuttavia, solo sei giorni più tardi, Martino V ridimensionò quell'atto con la nomina di Luigi III d'Angiò a suo erede, nel caso, ormai certo, che G. morisse senza lasciare discendenti. Quando poi, nel gennaio 1420, il pontefice persuase lo Sforza a trasferire la sua fedeltà all'Angioino divenne chiaro che egli intendeva che questi prendesse il controllo del Regno mentre la regina era ancora in vita. La nuova ascesa degli Angiò, sostenuta da uno Sforza pieno di rancore, faceva presagire un destino funesto a ser Gianni, che aveva nel frattempo ripreso il suo ruolo di padrone sulla regina e il Consiglio. Perciò egli riuscì a convincere G. che le si aprivano due sole possibilità: dissuadere il pontefice dal suo proposito, oppure cercare un alleato che la difendesse dal prossimo attacco.

L'ambasceria, guidata da Malizia Carafa, che ella inviò a Firenze nel maggio 1420, fu accolta piuttosto freddamente da parte del papa; ma nella città ebbe luogo anche l'incontro con un emissario di Alfonso re d'Aragona, il quale promise di conferire con il suo signore, impegnato in quel momento a consolidare l'autorità aragonese sulla Sardegna. Al ritorno dalla sua missione, Carafa trovò lo Sforza che minacciava Napoli e i baroni che agitavano lo stendardo angioino, mentre circolavano voci di una flotta genovese che si preparava a portare Luigi nel Regno. Piuttosto che inchinarsi alla volontà dei nemici, che minacciavano di colpire il suo favorito e, forse, persino di metterlo a morte, G. decise che doveva rivolgersi nuovamente all'Aragonese. Perciò, nell'agosto 1420, il Carafa salpò alla volta della Sardegna con l'incarico di promettere ad Alfonso l'adozione e la nomina a erede al trono di Napoli, a patto che venisse in persona ad allontanare definitivamente il suo rivale dal Regno.

Mettendo da parte possibili obiezioni, il giovane monarca colse l'occasione che gli si presentava e inviò rapidamente una consistente flotta a riprova del suo impegno. Le galee aragonesi entrarono nel porto di Napoli il 6 sett. 1420, senza trovare resistenza da parte dei Genovesi che avevano sbarcato tre settimane prima Luigi d'Angiò; il giorno seguente G. sottoscrisse davanti agli emissari di Alfonso gli articoli dell'accordo che stabiliva l'adozione. Successivamente lo investì del Ducato di Calabria, appannaggio tradizionale dell'erede al trono, consegnò Castel dell'Ovo a una guarnigione aragonese e fece giurare ai deputati napoletani fedeltà al futuro re. L'effetto fu un momentaneo allentamento della tensione e una ripresa del morale, che doveva fare posto, tuttavia, a nuove preoccupazioni, quando si seppe che Alfonso era salpato alla conquista della Corsica e intendeva spingere Braccio verso Meridione contro lo Sforza. G., in novembre, gli assicurò il controllo dell'intero Regno, a patto che fosse arrivato in tempo, ma nel frattempo, nel timore che la sua mossa si dimostrasse inutile, mantenne prudentemente aperte le trattative con la fazione angioina: "così tenea le mane in doe paste" (Diurnali del duca di Monteleone, p. 105).

Alfonso salpò per la Sicilia nel febbraio 1421 per passare in rassegna le sue truppe e attendere l'arrivo di Braccio a Napoli. Quando ciò avvenne si imbarcò per fare il suo ingresso trionfale nel Regno: l'8 luglio 1421, accompagnato dal Caracciolo e da Braccio, sfilò in processione verso Castelnuovo dove G. lo accolse in modo cordiale, consegnandogli le chiavi della fortezza; la regina e la sua corte trasferirono in seguito la loro residenza a Castelcapuano. Il 20 luglio G. stilò un diploma con il quale venivano conferiti poteri quasi illimitati al suo figlio adottivo.
Per l'ennesima volta l'atmosfera di euforia evaporò nel disincanto, a mano a mano che i mesi passavano senza che fosse intrapresa alcuna azione per spezzare il blocco angioino della capitale; allorquando, in ottobre, Alfonso prese la decisione di intervenire, le sue truppe rimasero impantanate dinanzi ad Acerra. A G. non rimaneva altro che affidarsi a quanto il Caracciolo le comunicava circa i piani degli Aragonesi. A smuovere la situazione di stallo fu l'intervento di Martino V e di Firenze; il primo non aveva i fondi necessari per finanziare il suo protetto angioino ed era preoccupato che Alfonso potesse rinfocolare le spinte scismatiche; Firenze, invece, era interessata al commercio con il Regno e aveva bisogno di Braccio per affrontare l'aggressione dei Visconti. Insieme i loro emissari riuscirono ad arrivare a una tregua che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto portare alla partenza di entrambi gli eredi rivali. Ma il temporeggiare favorì Alfonso: Luigi abbandonò il Regno nel marzo 1422; in maggio, lo Sforza, disposto a tutto per salvare le sue proprietà, firmò una condotta con Alfonso; i sostenitori dell'Angiò, ormai abbandonati al loro destino, si dettero gran pena per raggiungere la pace. G. non aveva altra scelta se non quella di seguire nell'ombra il suo erede trionfante. Quando la peste scoppiò a Napoli, nell'aprile 1422, entrambi trasferirono le loro corti a Castellammare e quindi, in giugno, a Gaeta, dove Alfonso proseguiva nel suo tentativo di ottenere la ratifica papale del suo titolo.

Ma a quel punto le cose cominciarono a muoversi nell'altra direzione. Il legato pontificio a Gaeta morì in una caduta misteriosa, fatto che permise a Martino V di interrompere i negoziati; mentre il Caracciolo, sempre più a disagio nel ruolo di membro passivo del Consiglio di Alfonso, cominciò a complottare per riportare G. fuori dall'orbita del re. Egli iniziò a realizzare il suo proposito separando le corti: quando Alfonso spostò la sua ad Aversa, G. e il suo favorito si trasferirono a Pozzuoli. Al momento del loro ritorno a Napoli, nel Natale 1422, entrambe le fazioni era convinte che fossero in atto dei complotti. Le relazioni si deteriorano al tal punto che ser Gianni non si arrischiava a entrare a Castelnuovo senza un salvacondotto. Tuttavia anche questa cautela si dimostrò inutile poiché fu Alfonso a colpire per primo. Il mattino del 25 maggio 1423 fece prigioniero ser Gianni quando stava per entrare nel castello, poi si diresse immediatamente verso Castelcapuano con l'intenzione, come sostennero alcuni, di giustificare la propria condotta alla regina; mentre altri credevano che intendesse completare il colpo facendo prigioniera anche la sovrana. Comunque, al suo arrivo, trovò le guarnigioni sull'avviso e la città in armi e dovette faticosamente guadagnarsi la via del ritorno a Castelnuovo; ormai persuasa del pericolo che correva, G. fece appello allo Sforza il quale vide in ciò l'occasione per riguadagnare la sua influenza. Il 27 maggio Muzio Attendolo arrivava a Napoli da Benevento e, dopo avere avere sconfitto un raccogliticcio esercito aragonese, occupava la città. La situazione fu rovesciata di nuovo due settimane più tardi quando l'arrivo di una flotta catalana permise ad Alfonso di riconquistare Napoli dopo due giorni di durissima battaglia. Lo Sforza dovette di nuovo salvare G., scortandola dapprima a Pomigliano, quindi al castello degli Orsini a Nola e infine ad Aversa, dove poté finalmente rivedere ser Gianni, liberato in cambio di alcuni baroni aragonesi fatti prigionieri dalle armate dello Sforza.

Il piano di sfidare il papa e l'Angiò era andato clamorosamente fallito e non lasciava a G. altra possibilità che una trattativa. In primo luogo, ruppe i contatti con l'Aragonese: con un decreto del 25 giugno venivano confiscate le proprietà dei sudditi di Alfonso; il 1° luglio revocò l'adozione. Al suo posto subentrò Luigi III d'Angiò che fu adottato con una cerimonia ufficiale svoltasi di fronte al Consiglio riunito il 14 settembre. Nel frattempo, Alfonso si difendeva strenuamente nelle sue roccaforti sulla costa, riuscendo persino, in agosto, a conquistare Ischia; tuttavia, le prospettive in Italia, sempre più incerte, sommate alle pressioni spagnole che lo richiamavano incessantemente in patria per ridare maggiore stabilità alla Corona aragonese, lo spinsero ad abbandonare il paese il 15 ottobre. Egli sosteneva comunque che la sua adozione a erede al trono costituiva un atto irrevocabile e incaricò pertanto il fratello minore, l'infante Pietro, a difendere la sua causa.

Un'altra figura di rilievo doveva venire meno il 3 genn. 1424: lo Sforza morì affogato mentre stava marciando per rompere l'assedio di Braccio all'Aquila. Fu poi Braccio stesso a morire, nel giugno 1424, dopo quella che fu la prima grande vittoria ottenuta dal figlio di Muzio Attendolo, Francesco. In aprile Napoli, Gaeta e altre città erano state strappate al dominio aragonese, sotto cui rimanevano invece Castelnuovo, Castel dell'Ovo e alcune città nel Sud della Calabria. Luigi III, da parte sua, non creò alcun problema e visse pacificamente alla corte di G. fino all'ottobre 1427, allorquando fece ritorno a Napoli, per stabilire quindi la propria residenza a Cosenza, che era la capitale del Ducato di Calabria. Due anni più tardi partì di nuovo, in guerra questa volta, per combattere con i Francesi.

Contro ogni aspettativa, quindi, G. e il suo siniscalco vissero diversi anni di relativa tranquillità, dei quali non ebbero però l'intelligenza di disporre con saggezza. Nel 1425 G. lo investì del ducato di Venosa e della città di Capua e lo nominò gran connestabile. La nobiltà guardò inevitabilmente con sospetto a questa ascesa improvvisa, nonostante le alleanze matrimoniali con cui egli aveva inteso guadagnarsi la loro acquiescenza. Essi trascurarono inoltre di mantenere buoni rapporti con Martino V, non pagando il tributo annuale dovuto a Roma e non consegnando le proprietà che erano state promesse al nipote, Antonio Colonna. Il pontefice accusò il Caracciolo di queste inadempienze, mentre ser Gianni da parte sua si andava convincendo che Martino stesse complottando per eliminarlo e persino per detronizzare G. in favore del nipote, Antonio Colonna. I suoi timori crebbero allorquando la salute fragile della regina, che aveva dovuto affrontare una seria malattia nel 1428 e la cui vista si stava sempre più indebolendo, metteva a serio rischio il suo controllo sul Regno. Con un tentativo disperato di evitare il pericolo il Caracciolo si affidò ad Alfonso. Le ambascerie che furono inviate in Spagna, apparentemente da parte della regina stessa, assicuravano il re che ella lo amava ancora "com si fos son propri e natural fill" (Barcellona, Archivo de la Corona de Aragón, reg. 2692, c. 126v) e lo incoraggiavano a ritornare "com a bon fill e hereu e successor legitim" (ibid.). Ser Gianni fece ampie promesse che avrebbe fornito gli uomini e il denaro necessari per riconquistare il trono che si sarebbe presto reso vacante, "car madama era ja molt malata" (ibid., c. 127v). Ma Alfonso preferì temporeggiare non volendo gettarsi in tale avventura senza maggiori garanzie.

Ciò che salvò la cricca regnante dai suoi incubi non fu però l'invasione aragonese ma la morte di Martino V nel febbraio 1431. Il suo successore, Eugenio IV, caldamente assecondato dalla corte napoletana, si volse risolutamente contro la famiglia Colonna. Fedele alla propria indole, ser Gianni sfruttò la situazione a suo vantaggio per impadronirsi del ducato di Venosa; avrebbe anche consegnato il principato di Salerno a suo figlio se G., contro ogni attesa, non si fosse a questo punto opposta. Il rifiuto, che fu probabilmente occasione di un violento scontro tra i due, segnò una cesura radicale nella loro relazione. L'intimità sessuale era cessata da tempo, e sebbene ser Gianni avesse continuato a esercitare la sua influenza sul Consiglio per tutta l'estate fino all'inverno del 1431, mentre la corte risiedeva ad Aversa e a Pozzuoli, il suo potere diminuì rapidamente dopo che G. fece ritorno a Castelcapuano nel febbraio 1432. In età avanzata, la regina subiva ormai in maniera sempre maggiore l'influenza della cugina Covella Ruffo, duchessa di Sessa, dalla personalità decisa e nemica di lunga data del Caracciolo. Attorno alla duchessa si stringeva la fazione angioina, ostile ai legami che il siniscalco coltivava con l'Aragonese, e divenuta ancora più sospettosa quando Alfonso preparò la spedizione che lo portò in Sicilia nel luglio 1432.

Non ci volle molto a convincere G., da sempre abituata a che fossero gli altri a decidere al suo posto, che anche ser Gianni dovesse cadere. Con qualche apprensione ordinò che l'arresto coincidesse con una grande festa che si teneva a Castelcapuano per celebrare le nozze della figlia del Caracciolo. I suoi nemici, invece, fecero in modo che venisse ucciso nella sua camera da letto, nella notte del 19 ag. 1432, inscenando una sua resistenza all'arresto. La sentenza, che lo colpì dopo la morte, lo condannava per tradimento e usurpazione del potere reale. G. accettò tutto questo con la sua consueta passività.

Ben più pericoloso del favorito di G., ora assassinato, si doveva rivelare invece per il partito angioino Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, principe di Taranto, in quel momento dichiarato sostenitore dell'Aragonese. In risposta ai suoi inviti e a quelli dei suoi seguaci, Alfonso giunse a Ischia scortato da una grande flotta nel dicembre 1432, chiedendo di essere riconosciuto come successore di Giovanna. Tuttavia, venne a mancare il previsto sostegno dei baroni mentre il principe, da parte sua, esitò, cosicché la corte fu in grado di trascinare i negoziati finché Alfonso, reso impotente da una malattia che si era diffusa tra la sua flotta, acconsentì, il 7 luglio 1433, a una tregua di dieci anni e fece ritorno in Sicilia. Il principe di Taranto si trovava ora esposto a una ritorsione, che G., ignorando l'ammonimento del papa - "Tu hai spesso fatto esperimento dell'incertezza dell'esito d'una guerra" (Faraglia, p. 411) -, gli volle invece infliggere. La regina lo dichiarò ribelle e fece muovere contro di lui il suo capitano Giacomo Caldora, a cui si unì Luigi d'Angiò che ella richiamò a tale scopo dalla Calabria nell'estate del 1434. Essi stanarono l'Orsini da una città all'altra finché fu Taranto stessa a essere messa sotto assedio. Proprio nel corso dell'assedio il duca di Calabria si ammalò gravemente; riportato a Cosenza, vi morì il 15 nov. 1434 alla giovane età di trentun anni.

G. espresse la sua disperazione per questo tiro del destino: "Figliuol mio, ché non sono morta io? Mai sarò consolata quanto vivrò" (Faraglia, p. 413). Tuttavia, già dal 1427 G. aveva permesso che l'erede designato fosse messo in secondo piano; al punto che alla sua sposa, Margherita di Savoia, in occasione del viaggio che nel luglio del 1434 la doveva portare dal marito in Calabria, non era stato concesso nemmeno di entrare a Napoli.

Non rimase molto tempo per rammaricarsi delle scelte più avvedute che avrebbe potuto fare, poiché G. morì a Napoli il 2 febbr. 1435.
Fu seppellita con semplicità, come ella aveva desiderato, di fronte all'altare maggiore della chiesa dell'Annunziata: la sua lapide era costituita da una pietra semplice con sopra il suo nome, i titoli e la data della morte. Il testamento, che nominava come suo erede Renato d'Angiò (il fratello dello scomparso Luigi, in quel momento prigioniero in Borgogna), rifletteva gli interessi della corte e del Papato, e probabilmente anche le sue ultime volontà. La sfida alle tenaci ambizioni di Alfonso condannarono il suo Regno ad altri sette anni di guerra civile.

G. è stata oggetto di giudizi severi: da quello di Pandolfo Collenuccio che la ritrae come "instabile ed impudica" (p. 330), all'affermazione del Pontieri secondo il quale la regina fu "debole, volubile e per dippiù sensuale" (p. 76). Lungo tutta la sua vita rimase una figura nell'ombra, priva di quelle virtù del carattere necessarie a una regnante e di solide opinioni personali nelle questioni di Stato; giunta al trono impreparata e senza consorte, ella finì con il riporre una fiducia illimitata in uomini che si guadagnarono la sua confidenza attraverso gli affetti e che la sfruttarono per realizzare i loro interessi particolari. In assenza del comando spietato di cui il Regno necessitava, il governo centrale si atrofizzò e il potere cadde nelle mani di avventurieri militari e dei magnati che dominavano le province. I conflitti dinastici durati mezzo secolo spinsero i clan nobiliari a riunirsi in ampie e instabili coalizioni, a favore dei pretendenti al trono, i Durazzo o gli Angioini. L'elevata incertezza che dominò la questione della successione lungo tutto il regno di G. rafforzò inevitabilmente queste fazioni ed esacerbò le violenze tra di loro e contro lo Stato.

Un periodo così prolungato di quasi-anarchia ridusse il Regno a una condizione di indigenza e di insicurezza. Al momento della loro partenza nel dicembre 1421, gli ambasciatori fiorentini si espressero in questo modo: "Ci pare essere oramai fuori dello inferno; et in ogni luogo oltre alla guerra, fame e mortalità non piccola" (Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, p. 360). Non stupisce perciò se furono ben pochi, o quasi nessuno, i segni di vitalità nelle arti e nell'economia che contraddistinsero il regno di Giovanna. Una devozione convenzionale, più che un autentico amore per la musica, spiega verosimilmente la presenza di un piccolo coro che ella volle nella cappella reale. Dei suoi rari interessi per le arti figurative rimane a testimonianza ben poco tranne il monumento in stile gotico decadente che fece erigere in onore del fratello. I progressi nella letteratura furono nulli. In un Regno caratterizzato dall'uso della giustizia sommaria e dalla manipolazione della legge da parte dei favoriti, il sistema legale ebbe a mostrare purtuttavia alcuni progressi dovuti a brillanti giuristi tra cui Marino Boffa. Nel 1428 fu istituito un Collegio di dottori in diritto civile e canonico, che seppe completare negli ultimi anni di regno la codificazione della procedura che atteneva alla Corte suprema, la Magna Curia della Vicaria.
La guerra civile devastò e spopolò la capitale, aggravando in tutto il Regno l'effetto della peste e la penuria dei raccolti. In questa situazione di stagnazione, se non di vera e propria regressione economica, i mercanti fiorentini mantennero il loro dominio negli scambi a lunga distanza, sostenuti nei loro privilegi anche da G. stessa, che si trovava spesso in necessità di chiedere alla Repubblica prestiti e aiuti diplomatici. Le comunità ebraiche, che costituivano uno dei pochi esempi di iniziativa commerciale tra i suoi sudditi, acquistarono concessioni per scuole, sinagoghe, celebrazioni, cimiteri e pratiche commerciali, a eccezione di un breve periodo nel 1427 allorquando l'influenza di Giovanni da Capestrano aprì la strada a un'ondata di persecuzioni negli Abruzzi che ebbe termine, come era tipico, non per la saggezza di G. ma per una reprimenda proveniente dal pontefice.

Taliesin, il bardo

tratto da:www.treccani.it

p.s. La storia di Giovanna è dedicata idelamnete allo Scudiero dal cuore sincero di icona temporale Parsifal25. Ultimo custode di una Terra di maraviglie intrisa di Storia, bistrattata ed umiliata da un tempo moderno troppo distratto ed immaturo per inchinarsi alla maestà della sua corte...

Taliesin, il bardo

Guisgard
28-06-2012, 15.43.22
Taliesin, più volte mi sono complimentato con voi per queste bellissime immagini di meravigliose donne che avete raccolto qui a Camelot.
Donne straordinarie, che davvero hanno fatto la storia e in certi momenti, alcune di esse, hanno reso più vicino il Cielo alla Terra.
Io passo spesso a leggere i nuovi ritratti che aggiungete a questa galleria e voglio ringraziarvi per aver scelto anche Beatrice.
Perchè credo accada sempre qualcosa di magico quando il suo nome ritorna ad illuminare la nostra Camelot.
Di questo passo, amico mio, non smetterò mai di essere in debito con voi :smile:

Taliesin
05-07-2012, 15.39.17
LA SIGNORA DEI VELENI: LUCREZIA BORGIA

Fu davvero così bella Lucrezia Borgia, come asseriva Pietro Bembo tanto da conservare un suo ricciolo d'oro tra le proprie carte?
Non si hanno dati precisi sulla sua nascita, il più attendibile la farebbe risalire al 18 aprile 1480 a Subiaco (in provincia di Roma), terzogenita di Rodrigo Borgia e Vannozza Cattanei, ebbe tre fratelli: Juan, Cesare e Jofrè.

Lucrezia viene educata nel convento di San Sisto e in seguito affidata alla cure della cugina del Papa, Adriana Mila.
A dodici anni viene fatta fidanzare, per procura, con Don Gaspare da Procida, un nobile spagnolo. Vincolo che sarà poi sciolto dal padre che la diede in moglie a Giovanni Sforza.

Il matrimonio, avvenuto nel 1493, non nasce sotto i migliori auspici. Nella primavera del 1494 la coppia, che vive a Roma, si trasferisce a Pesaro, non si sa se a causa di un'epidemia di peste o per paura dei francesi. Il Papa impone che la sua amante Giulia con la suocera si unisca alla coppia.
Tuttavia Giulia contravvenendo agli ordini papali raggiunge il marito Orsino e nonostante Alessandro IV la rimproveri aspramente, non fa convincere a tornare da lui.

Successivamente, dopo la pace tra i due amanti, saranno proprio i francesi a catturare le donne mentre rientrano a Roma e solo grazie alla mediazione degli Sforza e ad un cospicuo riscatto, Alessandro VI potrà riavere le sue donne.

Al Papa le nozze della figlia non sono più tanto convenienti, questo lo intuisce anche Giovanni che torna a Roma per reclamare la moglie. Tutto inutile. E capisce che non gli conviene mettersi contro i Borgia che potrebbero toglierlo di mezzo molto in fretta.
Cerca allora appoggio dallo zio Ludovico il Moro, a Milano, ma è tutto inutile ed iniziano gli scontri e le ingiurie. I Borgia accusano Giovanni di essere un marito solo di nome, quest'ultimo accusa Lucrezia di essere l'amante del padre e del fratello.

I Borgia vogliono annullare il matrimonio, perché non consumato, Giovanni non cede. A Roma, intanto, si decide di far visitare Lucrezia che viene dichiarata virgo intacta. Il matrimonio viene annullato il 20 dicembre 1497, Lucrezia aveva 17 anni. Che motivo aveva il Papa per annullare il matrimonio, suscitando tanto clamore ed esponendo la figlia ai pettegolezzi ed al lubridio della folla? Comunque Lucrezia per riprendersi, si rifugia in convento, ma voci insistenti dicono che è un'altra la ragione.
Lucrezia deve partorire. Ma se il matrimonio non è stato consumato, se lei è stata dichiarata "virgo intacta" com'è possibile tutto ciò?

Si vocifera che il bambino sia di suo padre o di suo fratello Cesare Borgia, altri fanno svariati nomi. Non si ha nemmeno la prova che Lucrezia sia la vera madre, ma che il bambino sia figlio del Papa e della sua amante Giulia Farnese.
Il piccolo, battezzato Giovanni, passerà alla storia come "l'infante romano".

Il 15 giugno 1497 il duca di Gandia, Juan, fratello di Lucrezia, viene ripescato cadavere nel Tevere; subito i sospetti si addensano su Cesare Borgia che ha sempre ambito al posto di capitano delle truppe pontificie occupato da Juan. Alcuni invece affermano che Cesare abbia ucciso Juan, perché quest'ultimo era l'amante di Lucrezia e padre dell'infante romano.

Il 21 luglio 1498 Lucrezia si sposa nuovamente. Anche le nozze celebrate in Vaticano con Alfonso d'Aragona, duca di Risceglie, finiscono tragicamente.
Cesare Borgia, che era stato rifiutato da Carlotta d'Aragona, sposa Carlotta d'Albert di Navarra, re Luigi lo nomina duca di Valentinois in cambio dell'aiuto di Cesare a riconquistare il regno di Napoli.
Alfonso allarmato si rifugia dai suoi parenti, abbandonando Lucrezia che aspetta un bambino.
Sconvolgendo gli alti prelati, il Papa per risollevare il morale di Lucrezia, la nomina governatrice di Spoleto, dove svolgerà diligentemente il suo incarico.

Il 19 settembre 1489 Alfonso, dietro pressione del padre, raggiunge Lucrezia ed insieme tornano a Roma, dove nel mese di Novembre Lucrezia dà alla luce un maschietto che viene chiamato Rodrigo.
Il 15 luglio 1500 Alfonso viene ferito gravemente. Il colpevole è Cesare, motivo la gelosia nei confronti della sorella.
Assistito dai migliori medici del Papa, nonostante le gravi ferite, con grande gioia di Lucrezia, Alfonso riuscirà a guarire.
Durante la degenza Lucrezia non ha mai abbandonato il suo sposo, tuttavia il 18 agosto dopo averla fatta allontanare con un pretesto, Michelotto da Corella, sicario di Cesare Borgia, uccide Alfonso proprio nelle stanze di Lucrezia. Interviene nuovamente il Papa a consolare la vedova nominandola governatrice di Nepi.

Intanto, mentre Lucrezia è lontana, il Papa pensa ad un nuovo matrimonio per lei in cerca di nuove alleanze e incarica Cesare di raggiungerla a Nepi per comunicarglielo. Il candidato è Alfonso d'Este di Ferrara. Forse per Lucrezia, a 21 anni, si può aprire una nuova vita lontana dalla sua famiglia.
Tuttavia gli Este non la pensano così: troppe sono le maldicenze su Lucrezia. Ma nonostante tutte le contrarietà il 30 dicembre 1501 la nozze vengono celebrate: Lucrezia riuscirà, se non proprio a farsi amare dal marito, almeno a farsi rispettare, anche se verrà tradita ripetutamente.
Gli darà sette figli, tre dei quali moriranno subito dopo la nascita.
A Ferrara Lucrezia è finalmente serena, per quanto le sarà possibile continuerà a proteggere il fratello Cesare.
Lucrezia Borgia muore di setticemia a Ferrara, in seguito ad un parto, il 24 giugno 1519 a soli 29 anni.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.itarget.it (http://www.itarget.it)

Altea
05-07-2012, 16.44.58
Sir Taliesin, molto interessante, avete parlato di colei che tanto mi ha affascinato tale da far mettere alla mia pargola il suo nome...grazie mille :smile:

Taliesin
05-07-2012, 17.43.04
Sicuramente la Fanciulla Lucrezia, vostra figlia, avrà gli occhi della madre per poter vedere attraverso le oscurità anche le più recondite, quelle che si legano al nome della "Signora dei Veleni", la cui rispettabile ufficialità della Storia dei vincitori, la volle in passato dipingere con colori che non sono stati mai collocati nel suo vero dipinto.

Montanelli, uno dei pochi Storici contemporanei scrisse di Lei "...Nacqe come una Principessa, visse come Donna di grandi tormenti e grando dolori, pre questo sicuramente morì come Santa"

Taliesin, il bardo

p.s. una carezza alla vostra Lucrezia, da un amico lontano...

Altea
05-07-2012, 17.56.52
grazie per questa carezza...certamente la piccola ha occhi per vedere molto lontano, una bambina di grande personalità direi :smile:

Taliesin
12-07-2012, 16.20.45
LA LEGGENDA DI MONTEBELLO: GUENDALINA MALATESTA

Guendalina (? 1370 - 21 giugno 1375), meglio conosciuta col soprannome di Azzurrina, fu la figlia di un certo Ugolinuccio, signore di Montebello (RN). Solitamente padre e figlia sono indicati col cognome Malatesta, famiglia signorile di Rimini che allora controllava anche Montebello, ma non si hanno fonti storiche che sanciscano tale parentela.

Scomparsa prematuramente, alimenta una leggenda popolare molto conosciuta in Romagna

La leggenda di Azzurrina sarebbe stata tramandata oralmente per tre secoli, presumibilmente venendo di volta in volta distorta, ampliata, abbellita. Solo nel '600 un parroco della zona la mise per iscritto assieme ad altre leggende e storie popolari della bassa Val Marecchia.

Guendalina era albina. La superstizione popolare del tempo collegava l'albinismo con eventi di natura magica se non diabolica. Per questo il padre aveva deciso di farla sempre scortare da un paio di guardie e non la faceva mai uscire di casa per proteggerla dalle dicerie e dal pregiudizio popolare.

La madre le tingeva ripetutamente i capelli con pigmenti di natura vegetale estremamente volatili. Questi, complice la scarsa capacità dei capelli albini di trattenere il pigmento, avevano dato alla bimba riflessi azzurri che ne originarono il soprannome di Azzurrina.

La leggenda narra che il 21 giugno del 1375, nel giorno del solstizio d'estate, Azzurrina giocava nel castello di Montebello con una palla di stracci mentre fuori infuriava un temporale. Era vigilata da due armigeri di nome Domenico e Ruggero. Secondo il resoconto delle guardie la bambina inseguì la palla caduta all'interno della ghiacciaia sotterranea. Avendo sentito un urlo le guardie accorsero nel locale entrando dall'unico ingresso ma non trovarono traccia della bambina. Il suo corpo non venne più ritrovato.

La leggenda vuole che il fantasma della bambina sia rimasto intrappolato nel castello e che torni a farsi sentire nel solstizio d'estate di ogni anno lustro (cioè che finisce per 0 e 5).

p.s. dedicato a quella legione di meravigliose creature così uguali eppure così diverse che hanno sfiorato il respiro della vita, stroncate da un tempo ostile e superstizioso che, dichiarandole streghe e maledette, cancellò loro il sorriso...

Taliesin, il bardo

Altea
12-07-2012, 16.30.46
Sir Taliesin,
la storia di Azzurrina mi fa sempre rabbrividire, la conoscevo già, perchè nel mio piccolo spazio virtuale o regno virtuale addirittura qualcuno vi ha messo le foto di quella quasi grotta sotterranea, che io ho subito preferito non guardare tanto il volto di bambina sembra perfetto. Che sia vero o mistero? Come sempre..è tutta una altra storia.

Taliesin
13-07-2012, 09.37.34
Milady che oggi gli Uomini chiamano Dea,
nell'estate dell'anno del signore duemilatre, un anno molto particolare nel linguaggio degli uomini cacciatori di fantasmi, volli giungere tra le braccia del magnifico maniero del Montefeltro incastonato nella pietra viva...
Riuscii con destrezza a divincolarmi dalle moderne guardie sui torrioni e sui banconi del commercio di portineria e soprattutto dall'improbabile ed immancabile guida turisca, specchietto di una storicità virtuale.
Raggiunsi così il corridoio angusto, ombroso e la famosissima porticina dove la piccola Guendalina sarebbe scomparsa inseguendo la sua palla...

C'erano degli uomini neri dall'aspetto malvagio che con bizzarre tecnologie voleva ricostruire non solo la sua voce ma anche il suo volto, immortalandola nelle loro oscene creature elettroniche, imprigionandola in un universo parallelo, uccidendola per la seconda volta...

Quando mi videro arrivare, forse per il mio vestire bizzarro, forse per lo strumento da cui raramente mi separo, si presero spavento ed indietreggiarono poichè non si aspettavano certo quella visita solitaria e fuori schema convenzionale...

Li tranquillizzai, ma allo stesso tempo ammonii aspramente le loro squallide azioni di disturbo verso la violazione stessa della Morte....

E quando mi chiesero chi credevo di essere per rivolgermi in maniera tanto irriverente a cotanti dottori e tecnici futuristici, io risposi dando loro le spalle "...il suo cantore..."

Nell'uscire dal maniero nello sconforto e nella depressione cosmica che mi aveva invaso, mi parve di vedere sul muro del corridoio due occhi azzurri che mi sorridevano ed io capii che quello che avevo fatto, anche se poco cosa al cospetto della stupidità umana, era cosa buona...

Ma questa, come dite giustamente voi Milady, è davvero un'altra storia...

Taliesin, il bardo

Talia
13-07-2012, 10.50.07
Sebbene raramente io mi permetta di interrompere, devo dirvi, Taliesin, che questa trattazione si fa di giorno in giorno più interessante.
Ringraziandovi, dunque, per tante e tali straordinarie donne di cui ci mostrate con tanta dovizia i volti e gli animi... colgo anche l'occasione per rimandarvi ad una precedente discussione in cui si era parlato dell'affascinante e terribile storia di Azzurrina, qualora vi interessi:
http://www.camelot-irc.org/forum/showthread.php?t=261

:smile:

Taliesin
13-07-2012, 11.21.36
Signora che Danzate tra le Sudate Carte,
come potrebbe non interessarmi il vostro puntuale consiglio, visto che proviene da quell'anima colma di pietas cristiana che solo lo sconfinato universo femminile può trasmettere?

Iniziai a scrivere Donne nel Medioevo tanti anni fa quando il collegamento virtuale che trasmette le emozioni nel tempo e nello spazio non esisteva, attorno ai fuochi d'autunno o presso gli umili bivacchi estivi, all'ombra di una primavera serena e senza acciacchi...

Non è un caso che le mie canzoni spesso parlano di quelle Donne e non è certamente un caso, e lo confesso oggi dopo tanto tempo e senza modestia alcuna, che sapere scrivere qualcosa di Loro l'ho potuto fare solo grazie a quella parte femminile che il Signore del cielo e degli acquitrini ha voluto donarmi...

Grazie per il vostro prezioso aiuto, con rispetto...

Taliesin, il bardo

Altea
13-07-2012, 18.32.08
Sir Taliesin grazie per aver ampliato la storia di Azzurrina con il vostro vissuto..sono certa che ella, vi stia ringraziando con quegli occhi azzurri per il rispetto portato.

Taliesin
19-07-2012, 13.15.09
Continua il nostro viaggio nella memoria di Donne nel Medioevo, e dopo l'emozione scaturita dal sapiente calamaio di Lady Altea, voglio narrarvi la breve storia apocrifa di una fanciulla, la prima colpevole del reato di sapere leggere e scrivere le scienze per far nascere i bambini...

Taliesin, il bardo

IL PRIMO SANTO ROGO: FINNICELLA DA ROMA

Rifugio dei peccatori. Vessillo dei combattenti. Medicina degli infermi. Sollievo dei sofferenti. Onore dei credenti. Splendore degli evangelizzanti. Mercede degli operanti. Soccorso dei deboli. Sospiro dei meditabondi. Aiuto dei supplicanti. Debolezza dei contemplanti. Gloria dei trionfanti. In totale fa dodici.

Esattamente come i raggi del sole che splende d’oro nel campo azzurro ormai quasi sbiadito della tavoletta con la croce. JHS, sta scritto sul legno.

E’ l’emblema della devozione a Nostro Signore. Sua è la croce riprodotta sulla tavoletta. A Lui vanno le labbra dei fedeli, che uno dopo l’altro si inginocchiano supplici a baciare la santa effigie, il Cristogramma che il buon frate porge alle masse adoranti durante e dopo la predicazione. Chi adora la croce si disfa del demonio, salmodia il prete. Chi bacia il legno santo abbandona i mali della terra.

Ed a Roma, nell’estate del 1426 c’è un disperato bisogno di purificazione.

Ora che la peste ha steso le sue ali nere sulla città, ora che i morti si accatastano ai bordi delle strade lerce, ora l’Urbe ha più bisogno dei suoi eroi, e massimamente dei santi che la riavvicinino alla perduta grazia di Dio.

E quel toscano, partorito nel secolo precedente nella casa dei senesi Albizzeschi in quel di Massa Marittima, fa proprio al caso del popolo. Bernardo, si chiamerebbe. Ma un po’ per la statura - che non è certo quella di un gigante, un po’ per quel saio immenso e lacero - indossato quando era ancora poco più che un ragazzino ventiduenne, tutti lo indicano con il diminutivo. Bernardino. E’ diventato adulto in fretta, Bernardino. Rimasto presto orfano, ha fatto ritorno alle sue origini, riparando da Massa a Siena per abitare nel palazzo delle zie, agiate vecchine che lo hanno sostenuto negli studi e rifocillato a dovere. Nel 1402, con l’abito monacale ancora fresco indosso, ha iniziato a girare in lungo ed in largo per l’Italia del nord. E’ solo un fraticello, dicono di lui quando lo incontrano. Poi apre bocca e chi se lo trova davanti allibisce. E’ il fervore di Dio in persona, dicono alla fine, mentre la sua modesta figura si allontana verso una nuova mèta. Cavalca il rinnovamento, quel Frate Minore che fa della religione del Cristo il suo scudo e sostegno contro i tempi avversi, la perdizione, le tentazioni della carne, la miseria. Devoto fino al midollo, non gli riesce di trascurare una virgola della vita del gregge. A partire dai suoi aspetti più pratici. E’ il primo teologo che, dopo Pietro di Giovanni Olivi, si fa carico di firmare di suo pugno un tomo intero dedicato all’economia. Materia sottile, in cui gli alfieri di Cristo al tempo non brillano certo. Ma lui no. Scrive di contratti, di proprietà privata, di etica commerciale, di valore e di prezzo. Abbozza il ritratto del giusto negozio, dell’onestà potenziale dell’imprenditore che non necessariamente è dannato per sua natura. Onestà significa utilità, dice, per l’intera società. Il commercio equo transita attraverso l’efficienza e la responsabilità, afferma, e procede grazie alla laboriosità ed all’assunzione del rischio. La proprietà esiste è ed un bene, almeno finché non appartiene all’uomo ma sussiste per esso, quale strumento per ingenerare miglioramento nel mondo. Non tollera la contesa, Bernardino. Lavora al telaio della diplomazia, piuttosto. Media. Riconcilia. Appiana. E parla contro i nuovi ricchi senza legge. E l’usura, soprattutto. Non sarebbero novità assolute, le sue. Ma quel che gli manca in termini di pensiero inedito lo recupera e surclassa quanto ad acume del ragionamento, con quella lingua tagliente e diretta che è il suo marchio migliore e più autentico.

Nel 1425 è ancora a Siena, e si dà al virtuosismo della predicazione. Legge e rilegge decine di volte i suoi discorsi. Almeno finché non li ha imparati a perfezione. Fino a che non ne è assolutamente convinto. In sette settimane non salta una predicazione giornaliera. Per ogni alba ha un discorso nuovo, rutilante, perfettamente logico e convincente. Pericoloso. Tanto che usurai e gestori delle case da gioco attive in città stringono un pactum sceleris e, a forza di denari, assoldano testimoni per convincere le autorità che egli sia un eretico. I signori di Siena mangiano la foglia e lo incriminano.





Bernardino intanto ha già abbandonato la città, i suoi passi instancabili già consumano l’antica via consolare che conduce a Roma. In Vaticano frattanto siede un Gran Maestro dell’Ordine di Cristo nato genazzanese presso i potentissimi Colonna. Il Papa numero 206 nei registri di Pietro. Ottone, ovvero Martino V, assurto alla gloria del regno di Dio in terra a
furor di concilio di Costanza, mentre la Chiesa cattolica si dibatte nell’ardua impresa di governare le bizze del trasferimento della curia da Avignone di Francia a Roma. Successore di Giovanni XXIII, Martino è l’uomo che ha scritto di suo pugno la parola fine sull’annosa questione dello Scisma d’Occidente. Un uomo che ama la moderazione e non tollera i tumulti. Che difende la pace ed a fatica tollera le turbative. Per questo quel frate ormai famoso non gli va proprio a genio. Eppure, in molti sono disposti a difenderlo a spada tratta. Uno di essi si chiama Paolo da Venezia, ed è un sommo dottore di teologia che si prende la briga di tirare giù un intero trattato in difesa di Bernardino, che nel frattempo è finito nel mirino della Santa Inquisizione complici le voci infami che dilagano sul suo conto in quel di Siena. Il processo formale al toscano si tiene proprio a Roma, e ne segna infine l’assoluzione con formula piena.

Se possibile, l’incidente con la legge non fa che aumentarne la già considerevole fama. Anche perché Bernardino si avvale del diritto di difendersi da sé, e lo fa proprio al cospetto di Martino V. Le sue parole sono ambrosia e fuoco. Riescono a smuovere perfino la pax granitica di quel Pontefice che non vuole scocciatori. Adesso è il Papa in persona ad insistere affinché agli rimanga nell’Urbe. Che diffonda le sacre vampe della fede in ogni dove, se gli riesce. Roma ha la peste. Ed un disperato bisogno di conforto. Il misero frate predica per 80 giorni consecutivi, ed affine se possibile le sue già acutissime arti. A molti dei suoi discorsi Martino presenzia, segretamente per tentare di trovare una falla in quel baluardo di fede. Ma è inutile. Bernardino è un leone di Cristo.

Al Papa non resta che convincersi ed abbandonarsi egli stesso alla malia. Gli si proponga la nomina ufficiale a Predicatore della Casa Pontificia. Un lustro assoluto. Che, come tale, l’umile monaco rifiuta con discrezione, opponendo ai fasti ecclesiastici un’umiltà che gli fa ancora più onore. A Roma diventa in fretta una celebrità, mentre stuoli di fedeli ignorano i già alti rischi di contagio per assieparsi alle sue prediche infinite. Tutti ascoltano, tutti acclamano, tutti si inginocchiano. E tutti posano le labbra sulle tavolette col Cristogramma, che Bernardino reca con sé durante i bagni di folla e che ormai anche la Chiesa più ufficiale ed altolocata ha finito per adottare ed inserire nel novero delle sue simbologie predilette. Dall’estate 1427 Bernardino è di nuovo a Siena, tornato su richiesta dei Signori della Cinta. Il sant’uomo è sfinito, sta sfidando i suoi limiti e con ciò pervertendo la sua stessa natura terrena, ma ha una nuova sfida da raccogliere e non può tirarsi indietro. Il santo va sempre e soltanto avanti. Porterà il verbo di Cristo nel clamore del Comune per 45 giorni a partire dalla metà di agosto. Il popolo lo avrebbe voluto Vescovo della città, ma per tre volte consecutive i nobili gli recano la proposta formale e per tre volte lui rifiuta recisamente. La sua è una virtù che rifugge i titoli. A Siena non esiste luogo di culto che possa aiutare nell’opera immane di contenere tutto il volgo. Dunque i Signori gli ordinano di prendere Piazza del Campo. Parlerà a partire dall’alba, in modo da coinvolgere tutta la popolazione disponibile, stazionando su di un altare improvvisato che viene tirato su in fretta tra due finestroni del Palazzo Comunale, o al massimo sporgendosi dal pulpito in legno che dopo qualche giorno le autorità gli concedono. Alla sua sinistra presenzieranno i Priori della Signoria, raccolti in una tribuna apposita suddivisa in due ali, la destra riservata alle donne e la sinistra agli uomini. Bernardino inizia l’opera, e celebra la Santa Messa per due ore filate, fino alle sette del mattino. A quell’ore, mentre le botteghe iniziano ad aprire i battenti ed i mercato termina il suo acconciarsi per il popolo, inizia instancabile a predicare. Conosce a menadito il latino, come tutti gli uomini di Chiesa del suo tempo. Ma parla al popolo minuto, e quindi preferisce affidarsi alle coloriture del volgare, per raggiungere il cuore e non solo le orecchie del suo uditorio. Finito con Siena, il frate riprende la sua vocazione itinerante di missionario inquieto. Nel 1431 è nella Ferrara degli Estensi, che lo vorrebbero vescovo.

Dal 1435 è in Montefeltro e nelle grazie di Federico, futuro Duca d’Urbino che resta scottato dalla sua profonda e vivida spiritualità. Anche qui rifiuta la nomina a vescovo. Cosa che tuttavia non gli riesce quando, due anni più tardi, viene nominato di prepotenza Vicario Generale dell’Ordine degli Osservanti, per poi divenire nel 1438 Vicario Generale di tutti i Francescani d’Italia. Ormai ha quasi sessanta anni. Sul suo capo, oltre al peso di un’invincibile stanchezza, grava la malattia che attanaglia le sue notti. Ma il vescovo aquilano Amico Agnifili ha un incarico che sembra fatto apposta per lui. Dovrà recarsi in terra d’Abruzzo e tentare di riconciliare le fazioni che insanguinano la città con l’ennesima faida interna.

E’ il maggio del 1444 quando Bernardino comprende che le sue forze stanno venendo meno. I suoi tentativi di mediazione producono buoni frutti, ma il tempo è tiranno ed il 20 Bernardo si riconcilia con la Grazia Divina che l’ha voluto alfiere della potenza e del perdono celeste. Al suo funerale interviene tutta la città, e mentre il sant’uomo viene deposto nella bara, qualcuno tra i presenti leva alte grida al cielo notando che il legno perde sangue vivo. La bara di Bernardino sanguina. Continuerà finché i litiganti aquilani non deporranno le armi. E’ un ritratto sacrale, quello che emerge dalle cronache dedicate a Bernardino da Siena. Infatti, appena sei anni dopo la sua dipartita, il Papa lo canonizza ufficialmente.

[/URL]Un record per un campione della vera Fede. Non altrettanto, però, per l’immagine che sta accanto e dietro a quella del missionario, predicatore, evangelizzatore delle masse. Un’istantanea dai colori molto meno vividi, più oscuri anzi, che restituisce l’indizio di un uomo di Chiesa non esattamente retto ed anzi a tratti accecato dal suo prepotente integralismo.

E’ una strana immagine, quella del Bernardino “collaterale”.

Un quadro che fa a pugni con quello retto e magnifico ricordato negli scritti ecclesiastici ed ostentato nella pietra seicentesca della chiesa a lui dedicata nella romanissima via di Panisperna. Un secondo ritratto che prende le mosse proprio dai suoi giorni migliori, quelli delle prediche di piazza senesi e, soprattutto, romane.

In uno dei suoi capolavori d’ars oratoria, nel 1427, il frate avrebbe ammutolito Piazza del Campo tornando con la mente e col racconto ad alcuni fatti di cui era stato più che testimone negli anni trascorsi a Roma. Fatti riconducibili ad un nome che fece tremare l’Urbe.

Quello di Finnicella.

Prima fattucchiera finita tra le fiamme del Santo Rogo e vittima inaugurale della caccia alle streghe che, partita proprio dalla culla della cristianità, di lì a poco avrebbe insanguinato l’Europa intera, finendo per raggiungere addirittura il Nuovo Mondo. A Roma Bernardino aveva goduto di un pubblico di devoti in numero davvero impressionante, a motivo della sua vicinanza ai problemi quotidiani della plebe e, soprattutto, agli innumerevoli mali che ne minavano il giornaliero vivere. Plasmati da tanti discorsi e spunti ed esportazioni sulla ricerca della virtù e, più ancora, sull’abiura assoluta del male congenitamente presente in seno alla società, i romani avrebbero devotamente riportato al loro buon difensore le loro perplessità circa la condotta di una donna sul cui capo pendevano accuse a dir poco infamanti. Trenta infanti assassinati per suggerne il sangue ancora caldo, cui andava assommato perfino lo stesso figlio della donna, massacrato per farne polvere da ingerire in occasione di nefandi ed oscuri riti. Ce n’era abbastanza, insomma, per spiccare nei confronti di Finnicella un’accusa formale. Quella riservata ad una figlia del demonio. Quella per stregoneria.

Detto fatto, la donna venne portata in ceppi presso Bernardino, la cui eloquenza sembra fosse pari unicamente alla dedizione nella ricerca ad ogni costo della verità più recondita. Denunciata ed interrogata, Finnicella fu condannata alla pubblica morte nel luglio del 1426, in piena epidemia di peste. Forse, mondata l’Urbe della sua nefasta presenza, anche il morbo senza pietà avrebbe preso un’altra via. La sera dell’8 luglio il Campidoglio sprigionò alte vampe. Il prezzo dell’obbedienza cieca del volgo all’ancor più cieca dedizione del suo campione di fede, che assistette fianco a fianco al suo zelante e nutrito pubblico, intervenuto in massa pur di non perdersi lo spettacolo d’eccezione, agli spasmi dell’accusata. A nulla valsero le obiezioni sollevate da alcuni dottori, che testimoniarono come la donna fosse semplicemente un’ostetrica.

Le fiamme consumarono in fretta il suo corpo martoriato, mentre Bernardino consegnava alla storia il primo atto dell’atroce cronaca della caccia alle fattucchiere.

Verità o semplice leggenda? Diceria o evento fondato? A quasi sei secoli di distanza, il dubbio permane, e finisce per avvolgere il protagonista in negativo dell’ipotetica cronaca. Bernardino, l’alfiere della Grazia Divina. O piuttosto il principe dei cacciatori di megere?

Taliesin, il bardo

tratto da: [URL="http://www.sguardosulmedioevo.it/"]www.sguardosulmedioevo.it (http://3.bp.blogspot.com/-85NORXY2h6k/T7ORumcBOnI/AAAAAAAABh4/dy_GQ7_fRYM/s1600/3.jpg) Grazie a Simone Petrelli.

Taliesin
20-07-2012, 12.41.34
TRA IL CANTO DELLE ALLODOLE: JACOPA DE' SETTESOLI

Quando morì, alla Porziuncola, San Francesco non ebbe intorno a sé soltanto i suoi frati. Ci fu anche una donna, l'unica donna e unica estranea presente alla morte del Santo, nella capanna che era stata sua ultima cella. Quella donna non fu Santa Chiara, chiusa tra le mura poverissime di San Damiano. A lei, tornando stremato ad Assisi, Francesco aveva mandato a dire che lo avrebbe rivisto dopo morto. Così fu infatti, quando il suo corpo, durante i funerali, passò e sostò davanti a San Damiano.

Eppure prima di morire Francesco desiderò di avere vicino una donna, un'altra donna.

Volle una presenza quasi materna, una mano affettuosa e forte al tempo stesso. La presenza fu quella di Jacopa de' Settesoli, la seconda delle due donne che, dopo Chiara, il Santo diceva di riconoscere.

Non era una donna giovane, Jacopa - o Giacoma, o Giacomina - de' Settesoli, la nobile vedova del nobile romano Graziano Frangipani. Francesco l'aveva incontrata a Roma nel 1219, durante una predicazione. Ella, donna fatta e vedova di illustre casato, aveva guidato con ferma mano il frate di Assisi per le vie dell'Urbe, come se fosse un figlio, appena maggiore dei suoi.

Da allora, Jacopa de' Settesoli era diventata la più valida collaboratrice dell'Ordine francescano nella città dei Papi. Fu lei a ottenere dai Benedettini la cessione dell'ospedale di San Biagio, che divenne il primo luogo romano dei Francescani, con il nome di San Francesco a Ripa.

Attiva e risoluta, pur essendo devota e affettuosa, Jacopa si poteva quasi dire un uomo, e infatti mentre Francesco chiamava sempre Chiara con il nome di sorella, chiamò Jacopa con il nome di fratello: Frate Jacopa.

Ella fu così la Marta francescana. Un giorno Francesco le regalò un agnellino, figura del Salvatore. Jacopa lo allevò, lo tosò, e con la sua lana tessé una tunica a Francesco. Era questo il carattere di Jacopa, che da ogni cosa sapeva trarre profitto e utilità.

Francesco, come abbiamo detto, la volle vicina prima di morire, e la mandò a chiamare a Roma. Da lei aveva accettato panno, cera e cibo, e anche certi dolci chiamati « mostaccioli », fatti con farina e miele. Anche quell'ultima volta le chiese di portare un lenzuolo, la cera per le esequie, e « quelle cose da mangiare » che ella gli preparava quand'era infermo a Roma.

Il messo era appena partito e Frate Jacopa, accompagnata da un figlio, era già ad Assisi, spinta da un affettuoso presentimento. Per lei, alla Porziuncola, venne tolta la clausura, che non era mai stata soppressa per Chiara.

Oltre al panno color cenere, alla cera e al lenzuolo, la donna forte aveva portato anche un fazzoletto ricamato e colorato, che era appartenuto al suo corredo da sposa. Dopo il transito del Santo, quando il corpo di Francesco restò nudo sulla nuda terra, Frate Jacopa deterse con quel lino il sudore della morte dal suo volto. Né parve strano che per quel gesto ella usasse un ricordo del suo terreno amore.

Dopo la morte del Santo, ella non si sarebbe più allontanata da Assisi.

Sarebbe restata presso la sua tomba, dedicandosi a opere di pietà e di carità. Dopo tredici anni, nel 1239, lo avrebbe seguito nel sepolcro, presso la chiesa di San Giorgio. E poi nella nuova tomba, nelle fondamenta della grande basilica di San Francesco, dove una lapide ancora la ricorda.

Taliesin, il bardo

Taliesin
20-07-2012, 13.12.53
IL GENIO AL SERVIZIO DELLA CHIESA: DONNE NEL MEDIOEVO


http://media01.vatiradio.va/imm/1_0_504016.JPGUn recente ciclo di catechesi che ha impegnato nei mesi scorsi Benedetto XVI, durante i mercoledì dell’udienza generale, ha riguardato la descrizione della vita e dell’opera di alcune grandi Sante del Medioevo. Dal settembre 2010 alla fine del gennaio 2011, il Papa ha offerto una galleria di ritratti di santità femminile che hanno segnato in modo indelebile il percorso del cristianesimo nell’Europa e nel mondo. Alessandro De Carolis ricorda alcune di queste figure presentate da Benedetto XVI:[/URL]

Giovanni Paolo II lo aveva argomentato in termini generali, e con un’ampiezza di gratitudine e di ammirazione quasi mai viste, scrivendo nel 1988 la Mulieris dignitatem. Benedetto XVI ha fatto altrettanto ma in termini specifici, individuali, cercando e scegliendo in quella “enciclopedia” dell’eccellenza umana che sono le vite dei Santi – in questo caso di grandi Sante del tempo antico – per dimostrare, con Papa Wojtyla, che non c'è stata un'epoca in cui il “genio femminile” non sia stato una pietra angolare della Chiesa. Inaugurando all’inizio del settembre 2010 il ciclo di catechesi sulle Sante medievali, Benedetto XVI cita un passaggio della Mulieris dignitatem:

“‘La Chiesa - vi si legge - ringrazia per tutte le manifestazioni del genio femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e a tutte le nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità; ringrazia per tutti i frutti di santità femminile’. Anche in quei secoli della storia che noi abitualmente chiamiamo Medioevo, diverse figure femminili spiccano per la santità della vita e la ricchezza dell’insegnamento”.
(Udienza generale, 1 settembre 2010)

Ciò detto, il Papa si trasforma in un narratore di figure celeberrime, o sconosciute ai più, che accendono di abbaglianti luci di carità e di sapienza gli anni cosiddetti “bui” della storia europea dopo l’anno Mille. Per mesi, attraverso le sue parole, sfilano davanti agli occhi della Chiesa contemporanea le donne che hanno costruito quella di mille anni prima. Dalla poliedrica monaca benedettina Ildegarda di Bingen – che di genio ne aveva da vendere, con le sue doti di letterata, musicista, cosmologa – al cuore di fuoco di Giovanna d’Arco, amica della verità del Vangelo e dunque nemica di ogni suo accomodamento:

“Santa Giovanna d’Arco ci invita ad una misura alta della vita cristiana: fare della preghiera il filo conduttore delle nostre giornate; avere piena fiducia nel compiere la volontà di Dio, qualunque essa sia; vivere la carità senza favoritismi, senza limiti e attingendo, come lei, nell'Amore di Gesù un profondo amore per la Chiesa”.
(Udienza generale, 26 gennaio 2011)

Nel mezzo, ritratti di mistiche e di donne d’azione, dove per entrambi il punto di partenza è l’amore per Gesù e quello d’arrivo l’amore per l’umanità che a Gesù va condotta. Un esempio di cristianesimo che brilla universale dalle ribalte discrete della preghiera e della contemplazione è, dice Benedetto XVI, quello di Chiara d’Assisi:

“‘Chiara infatti si nascondeva; ma la sua vita era rivelata a tutti. Chiara taceva, ma la sua fama gridava’. Ed è proprio così, cari amici: sono i santi coloro che cambiano il mondo in meglio, lo trasformano in modo duraturo, immettendo le energie che solo l’amore ispirato dal Vangelo può suscitare. I santi sono i grandi benefattori dell’umanità”.
(Udienza generale, 15 settembre 2010)

Dalle mura del chiostro a quelle del castello, il Medioevo annovera una Santa regina, Elisabetta d’Ungheria, icona della faccia più nobile del potere: quella che non teme di sporcarsi l’orlo del mantello a contatto con gente di rango inferiore, ma anzi porta di persona il cibo a chi ha fame, risarcimento alle vittime di ingiustizie, dignità nella miseria. Appoggiata in questo dal marito, il re Lodovico; il che – osserva il Papa – dimostra che il segreto della felicità di coppia sta nell’impegno, non nel disimpegno:

“Elisabetta aiutava il coniuge ad elevare le sue qualità umane a livello soprannaturale, ed egli, in cambio, proteggeva la moglie nella sua generosità verso i poveri e nelle sue pratiche religiose (…) Una chiara testimonianza di come la fede e l’amore verso Dio e verso il prossimo rafforzino la vita familiare e rendano ancora più profonda l’unione matrimoniale”.
(Udienza generale, 20 ottobre 2010)

Il Medioevo non è solo un’epoca storica. C’è un Medioevo anche oggi, un buio dello spirito che inquieta. Tutti noi, afferma il Papa durante una di queste catechesi, “siamo a rischio di vivere come se Dio non esistesse”, e questo significa che spesso si hanno per compagni il pessimismo e la sfiducia. Così, Benedetto XVI ricorda che i Santi sono degli ottimisti con delle ottime ragioni per esserlo. E parlando, nel dicembre scorso, della mistica britannica Giuliana di Norwich, ricorda il distillato della sua saggezza: se credi in Dio, tutto non può che finire in bene:

“Le promesse di Dio sono sempre più grandi delle nostre attese. Se consegniamo a Dio, al suo immenso amore, i desideri più puri e più profondi del nostro cuore, non saremo mai delusi. 'E tutto sarà bene', 'ogni cosa sarà per il bene': questo il messaggio finale che Giuliana di Norwich ci trasmette e che anch’io vi propongo quest’oggi.
(Udienza generale, 1 dicembre 2010)

Taliesin, il bardo

tratto da [URL="http://www.raiovaticana.org/"]www.raiovaticana.org (http://212.77.9.15/audio/ra/00270320.RM)

Taliesin
20-07-2012, 15.16.30
IL FASTO E L'ELEMOSINA: LUCREZIA TORNABUONI

Lucrezia Tornabuoni nacque nel 1425 dall'unione di Francesco Tornabuoni e Francesca Pitti. Sposò con Piero di Cosimo De' Medici, figlio di Cosimo De' Medici, nel 1444. Piero, detto il Gottoso, era un uomo intelligente e amante delle arti e della cultura, di nove anni più anziano di lei. La famiglia Tornabuoni era stata tra quelle della fazione medicea che avevano aiutato Cosimo a tornare a Firenze dopo l'esilio, e il matrimonio fu l'evento che suggellò questa alleanza.

I figli nati dalla coppia furono ben sei: Bianca (1445-1488), Lucrezia detta Nannina (1448-1493), Lorenzo (1449-1492), Giuliano (1453-1478) e due maschi di nome ignoto morti subito dopo il parto. Si dimostrò compensiva allevando anche Maria la figlia illegittima del marito. Tutti i figli furono allevati stillando loro gli ideali di bellezza e di uomo novo rinascimentale.



Fu proprio Lucrezia Tornabuoni ad occuparsi della scelta della moglie di suo figlio Lorenzo. Facendosi accettare nelle corti romane, infatti, scelse per il suo primogenito Lorenzo, Clarice Orsini portatrice di una provvidenziale alleanza tra Medici e Orsini; un unione che sarebbe stata particolarmente preziosa in futuro, per ottenere la prima porpora cardinalizia, per suo nipote Giovanni, diventato poi papa Leone X. Sicuramente la politica matrimoniale attuata da Lucrezia fu un aspetto molto importante nella storia della famiglia fiorentina; le cui conseguenze favorirono, infatti, le carriere ecclesiastiche di alcuni Medici garantendo ricchezza e prestigio alla famiglia nei secoli a venire.

Lucrezia era solita scrivere numerose lettere e, grazie al suo epistolario, conosciamo la vita mondana e le feste che si svolgevano a Firenze, oltre alla condizione delle donne fiorentine, che godevano di una certa libertà. Piero le aveva anche dato il compito di occuparsi della distribuzione delle elemosine ai bisognosi, ma anche della compravendita di terreni, finanziamento di mercanti e artigiani.

Molte delle sue elargizioni economiche avevano come beneficiari conventi di suore, donne meritevoli ma senza dote, clero minuto. Queste opere erano anche uno dei motivi del sostegno popolare al partito mediceo, che più di una volta si rivelò cruciale nella loro storia politico-familiare. In una delle sue lettere troviamo scritto che quello che è bene per Firenze e la Toscana, lo è anche per la famiglia Medici.

Lucrezia Tornabuoni muore il 28 marzo 1482, poco dopo la congiura dei
Pazzi che portò alla morte di suo figlio Giuliano.

Taliesin, il bardo

Taliesin
20-07-2012, 16.23.31
ALL'OMBRA DEL GHIBELLIN FUGGIASCO: GEMMA DONATI

Figlia di Manetto Donati, di un ramo della stessa famiglia cui appartenevano Corso, Forese e Piccarda, fu dal padre, secondo l'uso del tempo, promessa in sposa al giovane Dante Alighieri fin dal 1277, con una dote di 200 fiorini. S'ignora l'anno del matrimonio, avvenuto probabilmente dopo il 1290 e prima dell'inizio dell'attività pubblica di Dante (1295 circa). Certo è che al momento dell'esilio (1302) Dante aveva già avuto da lei sicuramente tre figli (Pietro, Iacopo e Antonia) e forse un quarto (Giovanni). Non si ha notizia che abbia raggiunto il marito in esilio, come fecero invece i figli, accomunati al padre nella condanna del 1315; si sa solo che dopo la morte di Dante riottenne la dote che era stata incamerata con i beni del marito.

Gemma Donati, fedele e ligia agli obblighi morali ed istituzionali del suo tempo, moglie del più grande poeta di ogni tempo, visse nel silenzio e nell'ombra dei suoi anni fanciulli spegnendosi nel silenzio delle cronache e dei fasti fiorentini nella primavera del 1340.

Taliesin, il bardo

Morris
20-07-2012, 17.31.46
Biografie storiche di donne eccezionali accarezzano il sorriso mio con grazia.
Bel lavoro, Taliesin! Continuate con passione!

Sir Morris

p.s.: dall'ultimo bizzarro ma matematico conteggio abbiamo "perso" 6 dame...(eran 33 adesso son 27) mentre i messeri sono stabili a 19! :smile:

Taliesin
20-07-2012, 17.59.33
Cavaliere del Crepuscolo, è veramente un piacere ritrovarvi in questo sconfinato orizzonte di emozioni dal tocco femminile. Mi raccomando, voi che all'occorrenza sapete ben dosare la spada e la piuma, non perdetenetene mai il conto, elle sono la nostra unica ancra di salvezza, come sempre è stato nella storia degli Uomini..

Taliesin, il bardo

Guisgard
20-07-2012, 18.58.54
Gemma Donati, fedele e ligia agli obblighi morali ed istituzionali del suo tempo, moglie del più grande poeta di ogni tempo, visse nel silenzio e nell'ombra dei suoi anni fanciulli spegnendosi nel silenzio delle cronache e dei fasti fiorentini nella primavera del 1340.


Taliesin, il bardo



Mio buon bardo, io amo Dante Alighieri in maniera assoluta.
Forse posso dire di essere colui che più ama ed apprezza ogni riflesso del sapere e dell'arte del Sommo Poeta.
Dante è per me quello che Virgilio era per lui, per dirla con un facile parallelo.
Tuttavia, devo dire che molti, nel sentire questa vostra definizione del nostro immenso Dante, potrebbero muovere più di un'obbiezione :smile:
Ma questa cosa non è tema per la nostra discussione, che resta sempre, grazie al vostro impegno, viva, entusiasmante ed estremamente coinvolgente.
Vi rinnovo i miei più vivi complimenti, amico mio :smile_clap:

Morris
21-07-2012, 09.58.10
Caro amico ritrovato, Taliesin, credo che "tener conto" delle dame di Camelot sia la migliore distrazione per non concentrarmi su altre faccende di "poco conto!".;)

Dedico questo video a voi, primo bardo... egli è, a mio avviso, il più grande interprete dell'Alighieri:

http://www.youtube.com/watch?v=6vBc8iWhN-8&feature=related

Sir Morris

Taliesin
21-07-2012, 22.16.32
Cavaliere del Crepuscolo,
dite bene citando il Poeta di Vergaio...
Ieri sera mi sono recato in quel di Santa Croce e posso asicurarvi che riascoltare il Ghibellin Fuggiasco dalle sue parol era come tuffarsi nel passato che ci appprtiene, grazie per il prezioso dono.

Taliesin, il bardo

Morris
23-07-2012, 12.00.23
Come stolti tendeam a spegner la nostra intesa gentilesca!
Quand'ecco che un giullare interpreta per noi : Francesca!

http://www.youtube.com/watch?v=UTeY3dktezg

Sir Morris

Altea
23-07-2012, 12.57.37
Io non lo definirei "giullar", sarebbe sminuire questo grande artista..che è poeta, filosofo, e che con la sua ironia sdrammatizza, forse, quella tristezza di molti artisti elevati come egli.

Grazie ancora Sir Taliesin per farci conoscere donne di cui alcune fino ad ora nemmeno conoscevo l'esistenza:odevo a voi l'avermi istruita.

piccolo O.T. e modifico pure io il messaggio per aggiungere questa postilla..scusatemi sir Morris ma se voi cambiate sopra tutto il discorso messo fino ora le risposte che vengono dopo sembrano senza senso..è ciò che avete fatto ora..spero si possa ovviare a tutto questo!!??grazie mille..è anche rispetto per chi risponde dopo voi a un post diverso che avevate messo precedentemente.

Morris
24-07-2012, 15.42.01
Susanna Berti Franceschi presenta:

http://www.youtube.com/watch?v=scxTMLlqoxo

Sir Morris

Morris
30-07-2012, 18.38.47
Susanna Berti Franceschi presenta: Il Beghinaggio

http://www.youtube.com/watch?v=NiOt2dKsbBQ&feature=relmfu

Sir Morris

Morris
31-07-2012, 11.45.41
Susanna Berti Franceschi presenta: Donne e Potere

http://www.youtube.com/watch?v=yiVujXqmiqQ

Sir Morris

Morris
01-08-2012, 14.15.57
Susanna Berti Franceschi presenta: La Mitologia Celtica

http://www.youtube.com/watch?v=Utz_aAvSo1c&feature=relmfu

Morris
03-08-2012, 14.16.10
Susanna Berti Franceschi presenta: Streghe, Processi e Roghi

http://www.youtube.com/watch?v=x27HO5FXYYI

Taliesin
13-08-2012, 12.26.55
LA DONNA TEMPLARE DI CLY: JOHANNETA CAUDA

Per secoli gli storici valdostani hanno negato la presenza dell'inquisizione nel loro territorio. Solo negli ultimi vent'anni nuovi studi basati sull'analisi di documenti ignoti alla storiografia precedente hanno permesso di concludere diversamente.

Si è infatti osservato che almeno a partire dalla nomina a vescovo di Aosta di Oger Moriset nel 1416 è iniziata un'indagine che ha coinvolto le diverse parrocchie alla ricerca di eretici. Sin dai primi viceinquisitori attestati – Bartholomeus Revettini compare nel 1428 – la direzione delle inchieste pare essere stata saldamente in mano all'Ordine Francescano, salvo un breve periodo intorno al 1460 in cui ha ricoperto la carica Balduynus Scutifferii, vicario generale della Diocesi aostana.

Il vicario generale, rappresentante della diocesi di Aosta, affiancava il viceinquisitore formando con lui l’organo giudicante.

Degno di nota è anche l’importante ruolo svolto dal procuratore fiscale, ecclesiastico con il compito di difendere nella causa la fede cattolica, che si adoperò sia nella fase istruttoria precedente alla formulazione dell’accusa, sia nel corso del processo per richiedere la tortura e la condanna degli inquisiti. E’ da sottolineare, inoltre, che più volte è stato garantito alle persone inquisite il diritto alla difesa: un esperto in diritto le affiancava per fornire un sostegno quanto meno giuridico e per cercare di dimostrare l’infondatezza delle accuse. Altra funzione di garanzia può essere vista nel ruolo del consiglio di providi viri che ordinariamente il viceinquisitore interpellava prima di decidere in merito all’applicazione della tortura.

Bersaglio principale delle inchieste paiono essere state all'inizio le donne che praticavano forme di guarigione attraverso l'uso di formule e rituali particolari. Uno degli aspetti interessanti che risultano dalle inchieste a loro carico sono sicuramente da ricordare le preghiere e le formule impiegate nelle loro attività. Tra le altre cose le formule sono riportate nella forma originale nel volgare dell'epoca, espressione poco conosciuta nella documentazione medievale della Valle.

Assai presto, però, le inquisite videro aggiungersi al carico di reati loro ascritto anche quello di antropofagia, come avvenne nel 1428 per Johanneta Cauda, personaggio emblematico e misterioso probabilmente legato al sacro Ordine dei Cavalieri del Tempio, tanto da comparire non solo nella documentazione della castellania sabauda di Cly, ma anche nell' Errores gazariorum, importante testo relativo alla stregoneria dell'area alpina occidentale risalente all'incirca al primo trentennio del quattordicesimo secolo.

La donna, ritenuta colpevole di aver mangiato i nipoti in compagnia di un'amica, fu bruciata nel borgo di Chambave il giorno del patrono della parrocchia.

A partire dalla metà del secolo alle accuse di infanticidio e antropofagia si aggiunsero quelle di orge che si sarebbero svolte nel corso degli incontri tra adepti del diavolo. Le inquisite vi si sarebbero trasferite in volo grazie all'uso di un unguento particolare e di mezzi di trasporto disparati, bastoni, seggiole, ma anche animali. In questa nuova fase si assiste ad inchieste aperte a carico sia di donne, la maggioranza parrebbe, sia di uomini. Per ambedue i sessi le accuse erano corrispondenti così come le condanne.

Alle precedenti accuse venivano ad aggiungersi, a seconda dei momenti, altri sospetti. Spesso gli inquisiti erano accusati di aver ucciso, dopo averli seviziati, neonati che dormivano nelle culle. In altri casi li si riteneva responsabili di venefici, di aver generato l'impotenza negli uomini, aver procurato l'aborto nelle donne o fatto morire neonati e puerpere.

Obiettivo dei giudici era certamente ottenere la confessione dell’accusato, al fine di provarne la colpevolezza e per questo ricorrevano spesso alla tortura. La procedura prevedeva la richiesta di un parere preventivo ad un consiglio di uomini saggi – presumibilmente la Cour des Connaissances – che, messo al corrente per sommi capi della causa, esprimeva il proprio giudizio in ordine all’opportunità del ricorso ai tormenti. L’inquisito, quindi, veniva condotto nel luogo apposito e torturato. Il metodo utilizzato era la strappata, consistente nel legare le mani della persona ad una corda che era tirata con violenza più volte.

Soltanto Bartholomeus Bertaca subì un trattamento diverso: i suoi piedi furono avvicinati al fuoco e il calore lo convinse subito a parlare.

Frequentemente la sentenza del tribunale impose la condanna al rogo. Su una quarantina di casi esaminati la metà circa risulta aver subito tale supplizio, il numero però potrebbe essere più alto perchè per molti accusati non si conosce la sentenza definitiva. La pena del rogo, cosi come nella fase precedente la tortura, venivano eseguite dal braccio secolare.

Negli altri casi le condanne consistevano nell’esilio dal paese o dalla diocesi, in pellegrinaggi perpetui – condanna assai pesante perché imponeva l’abbandono per sempre della famiglia e della propria abitazione – e in pene cosiddette infamanti, consistenti nell’indossare croci di color porpora o zafferano per mostrare a tutti la propria colpa.

In ogni caso, il condannato era costretto ad abiurare le proprie colpe, promettendo di non ricadervi mai più.

Poco si conosce del periodo che segue alla metà del XVI secolo a causa della scarsità di documentazione presente. Parrebbe però che una nuova posizione presa dalla autorità del ducato abbia ridotto l'influenza dell'inquisizione facendo passare nelle mani del vicario episcopale le procedure per eresia.

Taliesin, il bardo

Taliesin
16-08-2012, 14.16.59
LA PICCOLA ORSA: ORSOLA DI BRITANNIA

Le non poche leggende che avvolgono la figura di S. Orsola potrebbero considerarsi racconti esuberanti, che si diramano da realtà importanti: da una iscrizione nel coro della chiesa omonima in Colonia, ritenuta oggi autentica ed assegnata al IV-V secolo, fino alla protezione degli studi alla Sorbona e nelle università di Coimbra e Vienna.

La collocazione nella storia della santa può oscillare dai tempi di Diocleziano, il dalmata imperatore romano che perseguitò i cristiani nel 303-304, a quelli di Attila (395-453), il re degli Unni e “flagello di Dio” che pure non scherzò affatto coi cristiani. D’altra parte la leggenda medioevale intorno ai santi non va considerata riduttivamente come propaganda dei preti o come esigenza localistica di prestigio.

Orsola o Ursula, figlia di un re di Britannia, era bellissima, segretamente consacrata a Dio. Un re pagano, di nome Aetherius, si fece ben presto avanti per ottenerla in sposa. Il matrimonio avrebbe scongiurato una guerra, quindi diventava politico; perciò il padre fu quasi obbligato a dare il proprio consenso. Ma la giovane pose alcune condizioni: una dilazione di tre anni, la promessa del pretendente che si sarebbe convertito e la programmazione di un pellegrinaggio insieme a Roma.

Scaduti i tre anni,Orsola e undici nobili fanciulle (che diventeranno successivamente undicimila per un errore di trascrizione dell’iscrizione di cui sopra) salparono dai propri lidi e per mare e poi per fiume raggiunsero Colonia. Dopo avere là brevemente soggiornato,le undici giovani, incoraggiate da un angelo, proseguirono, sempre navigando sul Reno, fino a Basilea. Dalla Svizzera raggiunsero a piedi, oranti pellegrine, Roma, dove Orsola fu ricevuta dal Papa. Davanti al Santo Padre comparve anche il promesso sposo che, nel frattempo, si era convertito al cristianesimo.
Nello stesso anno e seguendo il medesimo tragitto, le vergini ritornarono a Colonia. In tale antica e importante città tedesca Orsola e le altre, per la loro manifesta fede cristiana, vennero torturate e messe a morte a colpi di freccia.

Colonia, che pure coltiva dal 1162 un grande culto verso i Magi, la ricorda come propria patrona insieme a S. Cuniberto, vescovo nel VII secolo. Le comunità cattoliche la venerano sempre, anche attualmente, in buona parte del mondo e talora con grandi cerimonie religiose, il 21 ottobre, suo giorno del calendario liturgico. Anche Mantova non ha voluto essere da meno, facendo costruire in suo onore, nel 1608 su progetto dell’architetto di corte Antonio Maria Viani, la chiesa di recente restaurata e che prospetta sul corso Vittorio Emanuele II.

Non marginale il fatto che le Orsoline, fondate nel 1535 da Sant’Angela Merici, abbiano operato per più di un secolo nella città di Virgilio, educando tanta gioventù femminile.
Innumerevoli sono, come in parte già accennato, i patronati di Sant’Orsola; tra loro riveste particolare significato quello sul matrimonio felice.

Considerata la condiscendenza del promesso sposo, la santa può venire invocata infatti dai nubendi per avere un buon matrimonio.

Taliesin, il bardo

tratto da:www.santiebeati.it di Mario Benatti

Taliesin
24-08-2012, 11.02.36
LA SERENISSIMA DEI VAMPIRI: L'ANONIMA FANCIULLA DI VENEZIA.

Recentemente sono stati ritrovati in un sito archeologico nella laguna di Venezia quelli che potrebbero essere considerati i primi resti documentati di una "donna vampiro". Il teschio della donna appare infatti "impalato" con un piccolo mattone in bocca, secondo le "usanze" indotte dalle superstizioni dell'epoca, ovvero in pieno Medioevo, cui risale il teschio.

I resti sono stati rinvenuti dal gruppo di Matteo Borrini dell'Università di Firenze nell'isola del Lazzaretto Nuovo che è un'area di grande interesse storico nella Laguna Nord di Venezia presso S. Erasmo e deve il suo nome al fatto che nel 1468 con decreto del Senato della Serenissima vi fu istituito un Lazzaretto con compiti di prevenzione dei contagi, detto "Novo" per distinguerlo dall'altro già esistente vicino al Lido, dove invece erano ricoverati i casi manifesti di peste.

Quando la peste dilagava, ha spiegato l'esperto al meeting della American Academy of Forensic Sciences tenutosi a Denver, Colorado, "dilagava" anche la credenza che gli untori fossero donne vampiro. L'idea delle vampire veniva probabilmente dal fatto che spesso chi moriva di peste emetteva un rivolo di sangue dalla bocca, come i vampiri appunto. Inoltre secondo l'assurda leggenda le vampire "non-morte", sepolte a fianco dei cadaveri degli appestati, si nutrivano del sangue di questi ultimi per poi riuscire fuori dalla tomba e contagiare altre persone.

Per "scongiurare" il contagio coloro che erano addetti alla "sepoltura" dei cadaveri degli "appestati" inserivano quindi un "palo" nella bocca delle sospette donne vampire per impedire loro di "mangiare".

Ed è esattamente così che è stata ritrovata la "vampira" italiana, con un mattone in bocca che le ha frantumato tutti i denti.

Taliesin, il bardo

Taliesin
24-08-2012, 11.16.12
IL SEGGIO DELLA SANTA: CATERINA DA BOLOGNA.

Figlia di uno stimato giurista bolognese, sui 9 anni deve trasferirsi con la famiglia a Ferrara: suo padre va al servizio di Niccolò III d’Este, che sta costruendo il ducato di Ferrara, Modena e Reggio. E lei è nominata damina d’onore di Margherita, figlia di Niccolò. La città di Ferrara sta diventando una meraviglia, chiama artisti da ogni parte, vengono illustri pittori e architetti italiani (e uno addirittura vi è nato: Cosmé Tura), e letterati francesi, e artisti fiamminghi dell’arazzo...

Caterina va agli studi, si appassiona di musica e pittura, di poesia (anche latina, presto). Ma d’un colpo tutto finisce, sui suoi 14 anni: le muore il padre, la madre si risposa, e riecco lei a Bologna, sola, abbattuta, in cerca di pace nella comunità fondata dalla gentildonna Lucia Mascheroni.

Ma presto il rifugio diventa luogo di sofferenza e travaglio, per una sua gravissima crisi interiore: una “notte dello spirito” che dura cinque anni.

E allora torna a Ferrara, ma non più a corte: nel monastero detto del Corpus Domini. Qui la damina si fa lavandaia, cucitrice, fornaia. Preghiera e lavoro, mai perdere tempo, dice la Regola delle Clarisse che qui si osserva. E a lei va bene: lava i piatti, dipinge, fa le pulizie, scrive versi in italiano e in latino, insegna preghiere nuove, canti nuovi.

Con lei il monastero è un mondo di preghiera e gioia, silenzio e gioia, fatica e gioia. Diventa famoso, tanto che ne vogliono uno così anche a Bologna, dove va a fondarlo appunto Caterina, come badessa.

Porta con sé la madre, rimasta ancora vedova. Siamo nel 1456: anche questo monastero s’intitola al Corpus Domini. Caterina compone testi di formazione e di devozione, e poi un racconto in latino della Passione (cinquemila versi), un breviario bilingue.

Si dice che abbia apparizioni e rivelazioni, e intorno a lei comincia a formarsi un clima di continuo miracolo. Ma anche restando con i piedi per terra, è straordinario quel suo dono di trasformare la penitenza in gioia, l’obbedienza in scelta. C’è in lei una capacità di convincimento enorme.

Garantisce lei che la perfezione è per tutti: alla portata di chiunque la voglia davvero.

Già in vita l’hanno chiamata santa. E questa voce si diffonde sempre più dopo la sua morte, tra moltissimi che non l’hanno mai vista, e la conoscono solo dai racconti di prodigi suoi in vita e in morte. A quattro mesi dal decesso, dice una relazione dell’epoca, durante un’esumazione, sul suo viso riapparvero per un po’ i colori naturali.

Santa da subito per tutti, dunque, anche se la canonizzazione avverrà solo nel 1712, con Clemente XI. Il suo corpo non è sepolto. Si trova collocato tuttora sopra un seggio, come quello di persona viva, in una cella accanto alla chiesa che a Bologna è chiamata ancora oggi “della santa”.


Taliesin, il bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it/) di Domenico Agasso

Taliesin
10-09-2012, 12.39.14
LA SIGNORA DEGLI ONERI E DEI DOVERI: ISOTTA DEGLI ATTI

Isotta degli Atti, nacque a Rimini tra la fine del 1432 e l’inizio del 1433. Figlia di Francesco degli Atti ricco mercante e nobile di Sassofeltrio, che godeva a corte di ragguardevole dignità.

Isotta fu battezzata col nome della madre morta nel darla alla luce, fu l’amante bambina e poi la moglie di Sigismondo, che la sposò senza interesse né politico né dinastico, ma solo e soltanto per amore. Sigismondo appena ventenne s’innamorò di Isotta e l’amore per lei fu il più profondo sentimento che avesse nell’animo, un amore che crebbe col passar del tempo e fu corrisposto altrettanto profondamente.

Infatti fu l’unica donna del Signore di Rimini le cui effige furono impresse su una medaglia appositamente coniata da Matteo da’ Pasti.
Nel 1445 Isotta, alla giovane età di 12 o 13 anni, fu notata e corteggiata da Sigismondo Pandolfo, che la conquistò solo nel 1446.
Un anno dopo, nel 1447, nacque il loro primo figlio Giovanni, che morì in fasce, la loro storia d’amore venne resa pubblica da Sigismondo solo dopo la morte della moglie Polissena Sforza nel 1449.



Molte furono le cantate, le rime, le poesie composte in latino e in volgare per celebrare questo amore, persino lo stesso Sigismondo in panni petrarcheschi cantò il suo amore, si fece poeta per la sua donna:

"O vagha e dolce luce anima altera! Creat~tra gentile o viso degno O lume chiaro angelico e benegno. In cui sola virtu mia mente spera."

Tu sei de mia salute alta e primiera A nchora che mentien mio debil legno Tu sei del viver mio fermo sostegno Turture pura candida e sincera.

Dinanzi a te l'erbetta e i fior s'inchina Vaghi d'essere premi del dolce pede e commossi del tuo ceruleo manto. El sol quando se leva la matina.

Se vanagloria e poi quando te vede Sconficto e smorto se ne va con pianto Isotta era intelligente, colta e anche bella."


L’unione fu regolarizzata solo nel 1456 in forma molto privata, nacquero altri figli e figlie, ma di questi solo Antonia (http://www.castelsismondo.it/antonia-malatesta.php) sopravvisse. Antonia andò sposa a un Gonzaga di Mantova, che la uccise per sospetto adulterio.

Alla fine del 1447 iniziarono i lavori per le prime due Cappelle, quelle oggi chiamate di Sigismondo e di Isotta, nel Tempio Malatestianol.

Sigismondo per motivi politici si sposò due volte ed ebbe molti amanti in parte sconosciute, tranne Vannetta de’ Toschi e Gentile di Giovanni dalle quale ebbe molti figli, tuttavia Isotta rimase sempre il suo unico amore, la donna veramente amate presso la quale cercare rifugio e conforto.

Isotta fu una consigliera prudente e forte, lo consolò nei momenti di sconforto, riparò gli errori politici e stimolò le opere dell’arte e della cultura, ma soprattutto gli fu fedele nella buona e cattiva sorte.

Vigile e accorta resse lo stato in assenza del marito, trattò con gli ambasciatori e diplomatici, vendette i suoi gioielli negli anni del declino del principe, lo sostenne quando fu cacciato da Rimini, fu madre esemplare, sacrificandosi per i figli e i figliastri di Sigismondo.


Nel 1468 a 51 anni Sigismondo morì, assunse il governo della città cercando come meglio poteva di mantenere lo Stato insieme al figliastro Sallustio e tentò inutilmente un accordo con Roberto.

Questi nel 1469 ordinò l'uccisione di Sallustio e conquistò la signoria.
Isotta, lasciò con prudenza il palazzo, morì nel 1474, fu sepolta con tutti gli onori nel Tempio Malatestiano, dove erano già stati sepolti altri Malatesti Signori di Rimini, così era inizialmente il loro nome.

Taliesin, il bardo

tratto da: www.castelsismondo.it (http://www.castelsismondo.it)

Taliesin
22-01-2013, 12.17.37
LA LAVANDAIA DEL PRINCIPE: PIPPA LA CATANESE.

Era una florida popolana nata a Catania, e morta a Napoli. Visse a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Il suo vero nome era Filippa per vezzo familiare detta Pippa. Di mestiere faceva la lavandaia ma il destino le riservò poi un’esistenza quasi splendida conclusa però con una morte atroce. Giovanissima, fù scelta per nutrice di Luigi, figlio di Roberto d’Angiò e Violante d’Aragona nato nel castello Ursino, per cui si addisse al nuovo servizio con entusiasmo di affettuosa mamma siciliana, tirando su con ogni cura il principe, che cresceva vigoroso. Allorché gli Angioini furono cacciati dalla Sicilia e ritornarono a Napoli, Pippa seguì la Corte dove i sovrani l’ebbero in particolare benevolenza, l’arricchirono di doni e la tennero in onore, anche quando il bambino regio improvvisamente morì. Anzi, conquistò un ruolo sempre più importante e frattanto aveva acquistato gentilezza di modi, fino a sposare il siniscalco del regno al quale diede tre figli. Nel 1343 sul trono salì Giovanna I d’Angiò che aveva sposato il principe Andrea d’Ungheria, il quale, ancora prima dell’età dei ventidue anni, volle essere consacrato re di Napoli, ostentando nella cerimonia dell’incoronazione, la minaccia della mannaia per i dissidenti, i quali erano molti e facevano affidamento sull’antipatia e l’intolleranza che la sovrana, che amoreggiava con il cugino Luigi duca di Taranto, nutriva per il marito contro il quale fu ordita una congiura; e il meschino fu strangolato e scaraventato giù da una finestra. Intervenne il Papa, quale supremo signore feudale sul Regno di Napoli, e cominciò, per identificare i congiurati, la caccia all’uomo ma la prima ad essere indiziata fu una donna, Pippa assurta da qualche tempo a rango di confidente della Regina. L’ex lavandaia fu atrocemente torturata, disse di aver saputo della congiura ma di non avervi preso parte. Ma dalla catanese si voleva sapere di più, adoperando tenaglie infuocate per dilaniare le carni di lei, per costringerla a parlare. Ma la donna, o perché veramente non sapeva nulla o per fedeltà alla sua regina, non parlò e spirò fra strazi orrendi. Anche uno dei suoi figli e un nipote furono martirizzati: bruciati vivi sul rogo mentre quelli che avevano assassinato Andrea restarono immuni da qualunque punizione.

Taliesin, il bardo

Taliesin
22-01-2013, 16.25.50
LA VERGINE MARTIRE CAGLIARITANA:

BARBARA A CAPOTERRA.

Il culto di Santa Barbara, Vergine e Martire Cagliaritana, ebbe inizio o rinnovato impulso a partire dal 1620. In quell’anno, infatti, durante gli scavi nella Cripta di Santa Restituta a Cagliari, ordinati dall’allora arcivescovo Francisco Desquivel (1605-1624), il 23 giugno fu ritrovato un loculo terragno con la seguente iscrizione: S(ancta) Barbara V(irgo) et / M(artyr) q(uae) vixit an(n)is / XXX. In traduzione italiana: «Santa Barbara, Vergine e Martire, che visse trent’anni».

Il padre Cappuccino Serafin Esquirro, uno tra gli studiosi maggiormente impegnati nelle ricerche seicentesche dei Cuerpos Santos, che all’epoca interessarono tutta la Sardegna, parlando della scoperta nel suo libro Santuario de Caller, pubblicato nel 1624, spiega come questa gli avesse dato modo di intendere certi riferimenti di antiche tradizioni locali, rimasti sino a quel momento alquanto misteriosi. Secondo tali racconti, una Santa di nome Barbara sarebbe stata decapitata non molto lontano da Cagliari, sulle montagne di Capoterra, in un luogo chiamato La Escap(i)sada a causa appunto di questo martirio. L’Esquirro, inizialmente, aveva ritenuto ridicola questa tradizione (cosa de risa, dice testualmente), perché l’unica Santa Barbara nota al Martirologio Romano, venerata il 4 dicembre, era stata uccisa a Nicomedia di Bitinia (oggi Ismid, in Turchia) e con Cagliari non aveva mai avuto niente a che fare. Alla luce di questo ritrovamento, però, egli dovette ricredersi e ammettere un caso di omonimia, cioè che un’altra cristiana di nome Barbara fosse stata martirizzata in odio alla Fede anche a Cagliari. Durante il medioevo, con lo spopolamento e l’abbandono subito dalla città a causa delle invasioni islamiche (de los iniquos Sarraçinos, scrive l’autore seicentesco), la documentazione storica relativa a questa Santa locale sarebbe dunque andata dispersa, la sua figura dimenticata e progressivamente confusa con quella, ben più famosa, della Martire nicomediense.


A questo primo quadro ricostruttivo aggiunse nuovi elementi Dionisio Bonfant, nel suo Triumpho de los Santos del Reyno de Cerdeña, pubblicato a Cagliari nel 1635, avendoli a propria volta raccolti sia dalla tradizione orale sia tramite sopralluoghi personalmente effettuati. Poiché le reliquie di Santa Barbara e quelle di Santa Restituta erano state ritrovate a breve distanza le une dalle altre, egli ipotizzò che le due fossero state compagne anche nel martirio. Riferendo l’Esquirro, anche il Bonfant accolse la tradizione del martirio della Santa avvenuto sui monti di Capoterra, aggiungendo che la sorgente detta Sa Scabiçada sarebbe scaturita proprio nel momento in cui la testa di Barbara, recisa, cadde al suolo.


Interessantissime notizie furono quindi da lui fornite su certi monaci che avrebbero edificato, a protezione della fonte, la cappillica (cioè la cappellina) ancora esistente, e sugli Eremitani di Sant’Agostino che, nel XIII secolo, eressero poco più a valle la chiesa che tuttora si conserva. Bonfant ricorda inoltre come quei religiosi custodissero una cabeça de marmol desta Santa, ad ulteriore memoria del suo martirio.


Proprio quest’ultimo elemento consente importanti osservazioni. Al contrario di quanto pensavano Esquirro e Bonfant, il toponimo La Escap(i)sada / Sa Scabiçada potrebbe non essere molto antico, ma risalente a dopo l’arrivo in Sardegna dei catalano-aragonesi, nel XIV secolo. Tale toponimo, dunque, sarebbe stato coniato in età abbastanza tarda, probabilmente nel momento in cui i monaci Basiliani, nel 1335, poterono entrare in possesso della chiesa di Santa Barbara grazie alla generosità del re d’Aragona e di Sardegna Alfonso IV il Benigno. Questi religiosi, insediandosi nel romitorio, dovettero probabilmente trovarvi la testa marmorea e, dal tentativo di spiegarne la presenza, potrebbe essersi ingenerata in loro la convinzione che il supplizio della Santa fosse avvenuto proprio in questo luogo.


Dai costruttori romanici la testa marmorea doveva essere stata raccolta tra le rovine di Cagliari o della vicina Nora, assai verosimilmente, per essere utilizzata quale elemento decorativo di reimpiego, secondo un gusto antiquario tipico delle architetture medievali di norma pisana, alla quale per stile si assegna anche la chiesa di Santa Barbara.


Niente esclude, beninteso, che i monaci Agostiniani avessero voluto collocare nella loro chiesa questo pezzo d’antichità anche per avvalorare una tradizione - quella del martirio di Santa Barbara - connessa al sito già prima del loro arrivo. Certo è, in ogni caso, che nel 1365, quando la chiesa di Santa Barbara e le sue pertinenze fondiarie erano divenute proprietà dell’arcivescovo di Cagliari, il loro affittuario era tenuto a corrisponderne il relativo censo in due rate: la prima a settembre, per la festa di San Michele, che anticamente rappresentava l’inizio dell’annata agricola; la seconda il 4 dicembre, giorno della festa di Santa Barbara di Nicomedia, segno che, già all’epoca, la confusione tra le due sante omonime era già cominciata.


Chi storicamente sia stata questa Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana, ormai, non è più dato sapere, ma la conoscenza precisa della sua età, da parte di chi realizzò l’epigrafe funeraria trovata nel 1620, parrebbe poterne suggerire l’ipotetica identificazione con un personaggio locale (o comunque distinto dalla Martire di Nicomedia, che, secondo la passio, morì giovinetta) di cui, per un certo tempo, la Chiesa cagliaritana avrebbe conservato una qualche memoria storica, andata poi disgraziatamente perduta. Nel presente caso, ammettendo che non si sia comunque trattato di un falso realizzato nel medioevo, l’iscrizione avrebbe quindi potuto essere stata compilata ex novo, sulla base di fonti a carattere letterario, o rifatta sulla base di un’epigrafe preesistente ormai distrutta.


tratto da: www.capoterra.net (http://www.capoterra.net)





Il cosiddetto Carcere di Santa Restituta nel quartiere di Stampace, a Cagliari. Si tratta di un vastissimo ambiente ipogeico, scavato nella roccia calcarea, all’interno del quale, in un loculo sotto il pavimento, il 23 giugno 1620 furono ritrovate le reliquie di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana. Nato in età punica come cava di blocchi e poi trasformato in magazzino di anfore, in età romana, alla metà circa del XIII secolo fu adibito a luogo di culto cristiano dedicato al culto di Santa Restituta e di vari altri Martiri.

L’iscrizione di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana negli Actas Originales, cioè nell’atto notarile ufficiale redatto al momento stesso della scoperta delle reliquie. Essendo andata disgraziatamente smarrita la lapide originale, descritta in lingua catalana come una loseta de marbre y en ella el letrero esculpit en lletras maiuscolas entre reglas (cioè «una lastrina marmorea con l’iscrizione incisa in lettere maiuscole, entro linee di guida»), questo documento è l’unico a restituirci il preciso aspetto grafico dell’epigrafe, notevolmente semplificato nelle successive trascrizioni a stampa pubblicate dall’Esquirro e dal Bonfant. La sua testimonianza risulta dunque della massima importanza, perché il formulario dell’epigrafe non può essere paleocristiano, come impropriamente ritenuto dagli scopritori seicenteschi, ma ben più tardo: questo spiega come mai nella sua rappresentazione manoscritta compaiano, assieme alle maiuscole capitali classiche, di tradizione romana, anche varie lettere di tipo indubbiamente successivo, cioè in maiuscola onciale, come la M puntata alla riga 2. Una simile commistione di caratteri potrebbe appunto riportare in piena età medievale, trovando confronti strettissimi in numerose altre epigrafi sarde risalenti ai secoli XI-XIII. Altri importanti indicatori cronologici per l’iscrizione di Santa Barbara sono i segni di interpunzione triangoliformi, sistematicamente apposti a separare non le diverse parti del discorso ma le singole parole l’una dall’altra, ancora secondo l’uso medievale. Altro indizio di datazione tardiva, infine, potrebbe anche essere considerata la parola an(n)is della riga 2, scritta con una sola N, la cui geminazione era probabilmente supplita tramite una tilde orizzontale, non rilevata dal redattore degli Actas forse perché confusa con le reglas, le righe, entro le quali risulta essere stato ordinato il testo originale.


L’iscrizione di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana nel Santuario de Caller del cappuccino p. Seraffin Esquirro, ponderoso volume di oltre 500 pagine pubblicato a Cagliari nel 1624. Rispetto al disegno riportato nei documenti manoscritti seicenteschi, si può constatare come il tipografo avesse regolarizzato la forma del testo, eliminando tutte quelle particolarità grafiche che gli risultava difficoltoso riprodurre con fedeltà assoluta. Anche per questo motivo, non potendosi riportare il formulario dell’epigrafe ad epoca paleocristiana né potendosene intuire la reale datazione ad età medievale (quando ancora non era noto agli studiosi il manoscritto degli Actas Originales, conservato presso l’Archivio Arcivescovile di Cagliari), tutta la critica più recente, addirittura accusando di frode l’Esquirro e il Bonfant, la considerò una falsificazione, assieme a tutte le altre iscrizioni da essi pubblicate. La condanna più grave venne da parte di Theodor Mommsen, autorità indiscussa nel campo della storia antica e dell’epigrafia latina, dietro il quale perciò si disposero, sino a tempi ormai immediatissimi, quasi tutti gli altri studiosi.


Effigie di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana, in legno intagliato e policromato, custodita presso la chiesa parrocchiale di Capoterra ed utilizzata per le processioni. Secondo la particolare iconografia diffusa a partire dall’età bizantina, la Santa è qui raffigurata nelle ricche vesti di un’appartenente alla corte celeste di Cristo Re dell’universo, con tunica di broccato verde pallido trapunta d’oro, cintura pure d’oro stretta alla vita e mantello di porpora elegantemente panneggiato sulle spalle e ripiegato sul braccio destro. La mano destra stringe il ramo di palma, simbolo del martirio, ed è portata verso il cuore a significare il dono della vita per amore di Cristo. Lo sguardo della Santa, illuminato di gioia, è infatti rivolto verso l’alto, a contemplare le realtà celesti, mettendo ancor più in evidenza il taglio sanguinoso che le segna la gola, a ricordo della decapitazione subita. Tutta pervasa di grazia settecentesca, sotto la lunga veste, la snella e leggiadra figuretta della Martire accenna palesemente un passo di danza, una movenza da minuetto, mentre il braccio sinistro si allarga con eleganza come per cogliere fiori: non si tratta di una semplice leziosaggine dell’anonimo scultore napoletano, di una sua scontata concessione al gusto del tempo, ma di un preciso richiamo alle figure contenute nell’inno liturgico Jesu Corona Virginum, attribuito a Sant’Ambrogio (339-397), che la Chiesa da secoli intona nelle ricorrenze festive delle Sante Vergini. In tale composizione infatti, con immagini tratte specie dal Cantico dei Cantici e dal libro dell’Apocalisse, viene cantato Cristo che, nel giardino del Paradiso, pergit inter lilia, «incede tra i gigli», (Cant. 2, 16) septus choreis Virginum, «contornato dalle danze delle Vergini» (cfr. Ger. 31, 13; Ap. 14, 4), elette sue compagne per tutta l’eternità.


Taliesin, il bardo

elisabeth
22-01-2013, 18.54.08
Non conoscevo nessuna delle due storie.....ma avendo studiato la nascita del Castel Ursino.....adesso mi sembra piu' completa potendovi aggiungere la storia della Lavandaia.....

Grazie buon Bardo...

Taliesin
23-01-2013, 12.52.01
Grazie e voi Lady Elisabeth,
quella piccola lavandaia vi sta già sorridendo dalla sommità del Vulcano.

Taliesin, il bardo

Taliesin
23-01-2013, 13.16.48
LA FIORAIA DELL'ETNA: BILLONIA DA CATANIA.

Anche se temporaneamente distante dal cosidetto Medioevo, è mia intenzione presentare un sigolare personaggio popolare e pittoresco della Catania a cavallo tra i secoli, XIX e il XX.

Era una donna minuta, tutt’altro che sgraziata, era la fioraia della Villa, sfiorita per conto suo, ma con la camicetta ostinatamente sfavillante di dorati lustrini. Andava anche su e giù per via Etnea con i fasci di fiori di campo, le margherite, le rose, che offriva alle coppiette di fidanzati sperando di ricevere una ricompensa, e di sera si piazzava davanti ai teatri. In fondo, era un’immagine gentile con i suoi coloratissimi costumi ricchi di nastri, un’immagine che sotto i lustrini tentava di nascondere un’immensa povertà. Ma c’era anche un pizzico di femminile civetteria in quello strano abbigliamento! Andava spesso in giro con la madre ma gli stenti le avevano rese uguali e sarebbe stato difficile capire, a vederle, chi di esse fosse la più vecchia. D’inverno trascorrevano gran parte delle giornate sui gradini della chiesa di San Biagio, in piazza Stesicoro, ma d’estate si trasferivano al giardino Bellini, sempre popolato di catanesi che accorrevano ad ascoltare i concerti della banda: e lì Billonia poteva raggranellare qualche soldino in più. Poi la madre morì, e poco dopo scoppiò il primo conflitto mondiale: e, mentre il mondo dava addio ai divertimenti e alle spensieratezze di un tempo, neanche Billonia, la semplice e inutile fioraia, travolta dai tempi e dalla guerra, ebbe più motivo di sopravvivere. Nessuno la vide più.

tratto da: www.vocedelletna.com (http://www.vocedelletna.com)

Taliesin, il bardo

p.s. dedicato alla mia cara amica Marcella, depositaria di scienze perdute racchiuse all'interno del nostro cratere spento, antica e saggia alchimista di essenze fiori ed erbe preistoriche, dal carattere mite e socievole, dagli strani abiti dipinti a festa, forte scudo contro ciarlatanesche ugole di stolte e moderne civette di montagna.

Taliesin
23-01-2013, 13.48.44
L'ULISSE DELL'ETNA: LA LEGGENDA DI JANA DI MOTTA.

Nel 1409 la vedova Bianca di Navarra divenne Vicaria del regno, e l’anziano conte di Mòdica, Bernardo Cabrera, avrebbe voluto prenderla in sposa, per aumentare il suo potere, dato che era già Gran Giustiziere del Regno. La regina Bianca, però, non voleva sentirne; e allora il conte la inseguì per tutto il regno; la regina esausta si rivolse al suo fedele ammiraglio Sancio Ruiz de Livori, che catturò il focoso Giustiziere, e lo fece rinchiudere mel castello di Motta; dove al danno della prigionia si unì la beffa che ai suoi danni ordì una giovane donna di Motta Jana, che era una fedele e astuta damigella di corte della regina Bianca. D’accordo con l’ammiraglio Sancio, e ottenuto il permesso dalla regine, Jana si travestì da paggio, e si fece assumere al servizio del conte, entrando nelle sue grazie, e convincendolo a tentare un’evasione per riprendere i suoi tentativi di sposare la regina Bianca. Il conte abboccò all’amo e una notte, fattolo travestire da contadino, la diabolica Jana lo fece calare da una finestra del castello, sostenendolo con una corda;ma ad un certo punto,Jana mollò la corda,e il povero conte cadde dentro una grossa rete,a bella posta preparata,dove rimase tutta la notte al freddo e al mattino fu beffato dai contadini, che lo presero per un ladro, e lo derisero. Jana, riprese le sue vesti femminili, e rivelatasi chi era, lo fece inviare prigioniero al Castello Ursino di Catania, dove sbollirono definitivamente i suoi ardori per la regina Bianca.

tratto da: www.vocedelletna.com (http://www.vocedelletna.com)

Taliesin, il bardo

elisabeth
23-01-2013, 19.09.58
Non conoscevo per nulla queste storie....attraverso voi, finiro' per conoscere parte delle storie che appartengono ai luoghi dove vivo........:smile_clap: grazie

Taliesin
23-01-2013, 21.20.42
...o semplicemente attraverso me ritroverete molto che vi appartiene, oltre i confini geografici e gli spazi temporali imposti dagli uomini.
Felice di avervi regalato un altro affresco della vostra collina.

Taliesin, il bardo

Taliesin
30-01-2013, 08.54.43
LA PASSIONE DEL CRISTO: MADONNA GIULIANA DI NORWICH

Di questa beata si ignorano il nome di Battesimo e quello della sua famiglia. Oltre al libro delle Rivelazioni, sulla sua esistenza ci è giunta solo un'altra testimonianza coeva, che è stata recentemente scoperta nella singolare autobiografia di Margery Kempe, altra santa donna del tempo.

Ella, nel 1413, si era recata, nel romitaggio di Norwich, a visitare "Madonna Giuliana" per averne consigli e direttive spirituali. "Madonna Giuliana" o "signora Giuliana", è il nome sotto il quale la beata era conosciuta in vita e che poi le è rimasto; potrebbe averlo adottato in onore di s. Giuliano, patrono della chiesa presso cui trascorse gran parte della sua vita, chiesa che apparteneva al monastero di Benedettine dei SS. Maria e Giovanni a Carrow, dentro la città di Norwich. Si è avanzata l'ipotesi, ma senza prove valide, che Giuliana fosse una monaca di quel priorato.

Tutto ciò che realmente è noto su Giuliana, che si dice "una semplice creatura che non conosce le lettere", simile in ciò a s. Caterina da Siena, pure illetterata, sono le notizie che si possono trarre dal suo notevole libro, pervenuto in due distinte versioni: "testo lungo" e "testo breve". Attualmente si concorda generalmente nel considerare la versione "breve" come la piú antica, sebbene sia stata la "lunga" ad essere edita per prima, nel 1670, a cura del benedettino Serenus Cressy, dal ms. di Parigi. Tra le numerose riedizioni, seguiamo qui quella del 1901, annotata da Grace Warrack. Il "testo breve" è stato edito per la prima volta da D. Harford nel 1911, da un ms. del British Museum, ed è stato riedito da A. M. Reynolds nel 1958. In questo secolo sono stati scoperti altri due mss., uno per ogni versione.

In tempi recenti sono stati pubblicati molti studi sulle Rivelazioni di Giuliana, alla quale si riconosce universalmente una personalità fuori del comune.
Ella è la prima scrittrice che usi il volgare, cosa questa che aggiunge uno speciale interesse linguistico al suo libro e, come mistica, Giuliana occupa davvero un posto eminente. Preliminarmente meritano di essere ricordate le sue continue dichiarazioni di lealtà verso l'insegnamento della Chiesa. Per misurare adeguatamente ]a sua statura, è fondamentale la conoscenza degli autori che hanno scritto di lei in questi ultimi tempi, soprattutto il gesuita Paolo Molinari (1958).

La data cruciale nella vita di Giuliana fu l'8 o il 13 maggio 1373: i mss. non concordano sul giorno del mese. Della sua vita precedente, sappiamo solo che ella era teneramente devota alla madre e che era una donna molto pia. Questa seconda caratteristica si delinea in rapporto alle affermazioni della beata secondo cui, in un tempo non specificato, ma anteriore alle sue "visioni", ella aveva chiesto a Dio tre doni e cioè: una "veduta materiale" della Passione di Cristo, cosí da partecipare alle sue sofferenze come Maria e l'esperienza di una "malattia del corpo", perché fosse purificata da ogni amore per le cose terrene.
La terza grazia concerneva tre "ferite" (wounds): di dolore per il peccato, di sofferenza con Cristo e di brama di Dio. Le prime due grazie erano chieste con la condizione "se questa è la volontà di Dio", ma la terza senza alcuna riserva. Tutto ciò presuppone una insolita disposizione dell'anima, preparata a ricevere straordinarie grazie mistiche.

La malattia che aveva chiesta la colpí quasi all'improvviso nel giorno cui si è già accennato. Non è detta l'esatta natura del male, ma che fosse molto grave lo prova il fatto che giunse in punto di morte. "Io giacqui tre giorni e tre notti e la quarta presi tutti i sacramenti della Santa Chiesa e pensai che non avrei vissuto fino all'alba. E dopo ciò, io languii per due giorni e due notti e la terza notte pensai di essere per morire e cosí pensarono quelli che erano con me...E essendo ancora giovane, pensai esser molto doloroso morire...ma consentii in pieno, con tutta la volontà del mio cuore ad essere alla mercè di Dio...Si mandò a cercare il mio curato perché assistesse alla mia fine. Egli mise la croce dinanzi al mio volto e disse: "Ti ho portato l'immagine del tuo Creatore e Salvatore; guardala e siine confortata"".

Giuliana si sforzò di assecondarlo e vi riuscí, ma "non seppe come". L'immagine sembrò diventare viva, col sangue che gocciava giú dal volto del Salvatore. Poco dopo, quando ella pensava di essere proprio morta "tutto ad un tratto la mia pena fu rimossa da me e io fui cosí come ero prima". Quindi Giuliana ricordò il desiderio di sperimentare sul suo corpo le sofferenze della Passione di Nostro Signore (cap. XVII) "la quale visione delle pene di Cristo mi empí di pena. Perché io sapevo bene che Egli aveva sofferto una sola volta, ma era come se Egli volesse mostrarmelo e riempirmi col pensiero, come avevo prima richiesto. Cosí pensai: io sapevo ben poco che pene fossero quelle che io chiesi, e, come una disgraziata, mi pentii, pensando: se io avessi saputo ciò che era stato, ci avrei pensato a chiederlo. Perché mi parve che le mie pene avessero oltrepassata la pena corporea. Io pensai: c'è qualche pena come questa? E mi risposi nella mia ragione: l'Inferno è un'altra pena, perché non c'è speranza.
Ma di tutte le pene che guidano alla salvezza, questa è la maggiore, vedere il tuo Amore soffrire...".

Questa fu la prima delle quindici Rivelazioni, riferita quella mattina dopo la sua mi steriosa malattia e improvvisa guarigione. "La prima cominaò la mattina presto, circa le quattro, e continuò la visione con processo pieno, chiaro e netto, una di seguito all'altra fino a oltre le nove del giorno". L'ultima manifestazione ebbe luogo la notte successiva, e quando finí le tornarono i sintomi della malattia, e Giuliana cominciò a nutrire dubbi sulla realtà della sua esperienza e spesso desiderò "di conoscere che significato desse il Nostro Signore a tutto quello". Ella dovette aspettare quindici anni e piú prima di ricevere una risposta diretta: "Volevi conoscere il disegno del tuo Signore in questa cosa? Amore. Imparalo bene: Amore era il Suo disegno. Cosa ti mostrò? Amore. Perché te lo mostrò? Per Amore. Tienilo dentro e imparerai e conoscerai di piú insieme...Cosí fu che pensai che Amore era il disegno di Nostro Signore".

Queste visioni dovevano essere per Giuliana come semi celesti piantati da Nostro Signore stesso nella sua anima e essi si svilupparono interiormente nel corso della vita. Tutto il libro non è altro che un commentario su ciò che le fu mostrato durante quelle poche ore nel suo letto di malata, nel trentunesimo anno della vita. Ella visse a lungo, chiusa nel suo romitorio presso la chiesa di S. Giuliano a Norwich, curata negli ultimi anni da due donne che provvedevano alle sue necessità. Là Giuliana fu visitata da molte persone di ogni rango e grado, che venivano a lei per aver un consiglio nelle loro pene. Il suo amore per Nostro Signore ispirò quello per i suoi evenchristians, come li chiamava.

Il libro deve essere stato dettato a qualche chierico competente che, nel frattempo, deve averle reso familiari i migliori scritti spirituali dei santi Padri e Dottori cattolici. Ci sono anche ragioni per pensare che le lettere della sua piú giovane contemporanea, s. Caterina da Siena, debbano esserle state portate a conoscenza, ma nessuna influenza esterna adulterò l'originalità della sua sapienza "data da Dio" (God-given): il libro che alla fine ella scrisse, rimane la piú dolce esposizione clel. l'amore divino che sia mai stata scritta nella lingua inglese. Alcuni dei suoi capitoli possono essere descritti solo come "sublimi", con un messaggio per ogni generazione di devoti cristiani, in tutto il mondo.

Non c'è alcuna traccia cdi una eventuale beatificazione di Giuliana, e nemmeno di culto pubblico: tuttavia ella è talvolta chiamata beata e ricordata il 13 o il 14 maggio.

tratto da:"Enciclopedia dei Santi" di John Stéphan

Taliesin, il bardo

Taliesin
15-02-2013, 14.12.26
LA FORZA DELLA RINASCITA DAL DOLORE: ARTEMISIA GENTILESCHI.

Artemisia Gentileschi nasce a Roma l'8 luglio del 1593, figlia primogenita del http://www.pittart.com/grandi-maestri-pittori/imm/gentil/artemisiaAllegoriaPittura300.jpgpittore Orazio Gentileschi (nato a Pisa) e di di Prudenzia Montone (morta prematuramente). Nonostante che all'epoca, l’arte pittorica fosse rigorosamente riservata agli uomini (in genere le donne erano escluse da quasi tutti i lavori non domestici), Artemisia impara nella bottega paterna, le tecniche pittoriche vivendo in un ambiente impregnato di pittori, spesso (come il padre) di scuola caravaggesca.

Del resto pare che Artemisia abbia conosciuto personalmente Caravaggio, che sembra usasse prendere in prestito strumenti dalla bottega del padre, durante il periodo nel quale Caravaggio lavorava nella Basilica di Santa Maria del Popolo e nella Chiesa di San Luigi dei Francesi. La prima opera attribuita a Artemisia è “Susanna e i vecchioni” realizzata probabilmente con riferimenti “autobiografici”. L’episodio di Susanna è narrato nell’Antico Testamento (Libro di Daniele) e descrive la casta Susanna, sorpresa al bagno da due vecchi che la sottoporranno a ricatto sessuale per soddisfare i loro appetiti.

Ma per Artemisia l’opera “Susanna e i vecchioni”, vorrebbe alludere allo stupro da lei subito ad opera di Agostino Tassi maestro di prospettiva, che frequentava la casa del padre, per gli impegni che aveva con Orazio Gentileschi, nella decorazione a fresco delle volte del Casino del Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma.

Lo scandalo avviene nel 1611, quando Orazio inizia una causa contro Agostino Tassi, per “aver violentato Artemisia più e più volte”.

Questa la testimonianza di Artemisia al processo: "Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l'altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne."

Durante il processo Artemisia viene anche torturata, ma non ritratta le accuse, tanto che vince (cosa molto strana per una donna) la causa e il pittore Agostino viene condannato a scontare una pena di alcuni anni di carcere.http://www.pittart.com/grandi-maestri-pittori/imm/gentil/artemisiaGiudittaDecapitaOloferne300.jpg La reputazione di Artemisia (per gli usi dell’epoca) è comunque altamente compromessa e abile è il padre Orazio, che riesce comunque a combinare per la figlia, un matrimonio (1612) con il modesto artista fiorentino Pierantonio Stiattesi.

Artemisia dunque si trasferisce a Firenze, dove avrà 4 figli (tre tuttavia muoiono nei primi anni di vita) e solo la figlia Prudenzia accompagnerà la madre nei suoi viaggi a Napoli, Londra e naturalmente Roma. A Firenze, comunque Artemisia verrà accettata (prima donna in assoluto) all’Accademia delle Arti del Disegno. Il padre comunque non le farà mancare il suo appoggio, come dimostra la lettera scritta alla Granduchessa Cristina di Lorena (1612) “questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”. A Firenze conosce dunque un lusinghiero successo, riuscendo anche a frequentare i più reputati artisti e personaggi del tempo (uno per tutti: Galileo Galilei) e a conquistare il favore della famiglia Medici. Negli anni Artemisia raffina e elabora la sua tecnica pittorica, prediligendo realismo, tinte violente e magistrali giochi di luce.

Appartengono al periodo fiorentino le opere “Conversione della Maddalena” e “Giuditta con la sua ancella “ e la seconda versione di “Giuditta che decapita Oloferne” , la prima versione era stata dipinta con “rabbia” tra il 1612 e il 1613 ed è impressionante per la violenza che emana. Nonostante il successo, il periodo fiorentino è tormentato da problemi finanziari e dunque, un poco per sfuggire ai creditori e un po' per sfuggire alla convivenza con il marito, Artemisia torna nel 1621 a Roma, ma non coabiterà con il padre che in quel periodo vive a Genova. Molti sono gli amanti che si attribuiscono a Artemisia Gentileschi anche se pare che il suo grande amore fosse il musicista Nicholas Lanier al quale è forse da attribuire la paternità della figlia Francesca, nata intorno al 1627.

A Roma intanto è crescente il successo del classicismo e delle ispirazioni barocche di Pietro da Cortona e Artemisia entra a far parte dell'Accademia dei Desiosi (Inaugurata nel 1624 da Agostino Mascardi e aperta a poeti e teorici del nuovo gusto barocco ). In questo periodo Artemisia conosce anche il collezionista Cassiano dal Pozzo, ma ciò nonostante le commesse non sono numerose, a lei sono comunque precluse le grandi opere e le grandi pale d'altare, così intorno al 1629 cambia nuovamente città, stabilendosi a Venezia. Risalgono al periodo veneziano le opere: “Giuditta con la sua ancella”, il “Ritratto di gonfaloniere”, “la Venere http://www.pittart.com/grandi-maestri-pittori/imm/gentil/artemisiaSusannaVecchioni300.jpgdormiente” e “Ester e Assuero”. Tuttavia la vita di Artemisia, come quella di tanti grandi maestri pittori, è caratterizzata da continui spostamenti e nel 1630, troviamo Artemisia a Napoli dove realizza “L'Annunciazione”, la “Nascita di San Giovanni Battista”, “Corisca e il satiro” e instaura buoni rapporti con il Duca d'Alcalà e un'ottima collaborazione artistica con il pittore casertano Massimo Stanzione. A Pozzuoli poi realizza per la prima volta il suo sogno di dipingere per una cattedrale, saranno i dipinti dedicati alla vita si San Gennaro. Intanto il padre Orazio si era fatto un nome presso la corte di Carlo I a Londra, era infatti riuscito a avere l'incarico di decorare il soffitto della “Casa delle Delizie di Greenwich” della regina Enrichetta Maria e dunque Artemisia pensa bene, nel 1638, di raggiungerlo. Tra i due, sarà un ritrovarsi breve, poiché nel 1639 il padre muore. Artemisia resterà a Londra probabilmente fino al 1641 ed è certo, come risulta dalle lettere intercorse con il collezionista siciliano Antonio Ruffo che nel 1649 è a Napoli. Le ultime opere che risultano realizzate da Artemisia Gentileshi in questo periodo sono la “Madonna e Bambino con rosario”, "David e Betsabea" , "Lot e le sue figlie" e “Lucrezia”, poi non ci sono ulteriori notizie, molti, forse troppi critici, hanno ignorato per anni la sua arte e così neppure la data della sua morte risulta certa 1652 o 1653. Di lei rimangono esposte al pubblico circa 40 bellissime e vibranti opere.

tratto da: "Artemisia" di Alexandra Le Pierre - Oscar Mondadori

p.s. nell'ipocrita ed osannata giornata della celebrazione dell'amore, San Valentino, assediato da tutte le sue sfaccettature e contraddizioni, possa l'esempio di Artemisia sconfiggere tutti i tipi di violenza sulle Donne di ogni tempo, specialmente quello attuale, civilizzato e moderno.

Taliesin, il bardo

elisabeth
15-02-2013, 18.19.43
Quanto riguardo c'e' nelle vostre parole......sapete peche' nella sua atrocita' Artemisia e' una donna fortunata ?.....perche' ebbe una famiglia che la sosteneva...che le credeva..........oggi cosi' moderni, cosi' aperti di mente....riusciamo a diventare cosi' ottusi e atroci che non riusciamo a supportare un'atrocita' cosi' grande......forse la parola piu' giusta e' che la famiglia....ha paura di reggere questo grande mostro che e' la violenza....

Taliesin
15-03-2013, 16.15.42
Madonna Elisabetta,
in questo contesto virtuale di anime in disuso e vortici di parole spesso oltraggiate dalla futilità e della convenienza, chiedo venia alla vostra smisurata sensibilità nella storia da me trattata, per essermi perso nei meandri lessicali e temporali e non avere letto la vostra emozione, ma, come si suol dire, non è mai troppo tardi per rimediare...

Taliesin, il bardo

Taliesin
15-03-2013, 16.21.57
LE FIGLIE DELLA CARITA': LUISA DE MARRILLAC.

Si racconta che Napoleone, in un giorno di quiete, si trovò ad ascoltare un gruppo di persone qualificate culturalmente che cominciarono a discettare di filosofia, di politica, di scienza e con entusiasmo esaltavano l’Illuminismo che aveva prodotto nella società un sentimento filantropico. L’imperatore li ascoltava ma si mostrava sempre più impaziente e anche infastidito da tutte quelle parole.
Ad un certo punto li interruppe dicendo: “Tutto questo è bello e buono, ma non farà mai una Suora Grigia!”.

Si chiamavano così le Figlie della Carità, fondate, nel 1633, da Vincenzo de’ Paoli e da Luisa de Marrillac, da più di un secolo già famosissime e stimatissime in Francia per la loro opera di carità verso i più bisognosi e per i poveri rottami della società, che pure si fregiava dell’appellativo di illuminista, cioè illuminata dal lume della ragione.

Una seconda curiosità. Verso la metà del 1600, quando ormai le Suore Grigie operavano già da qualche decennio, alleviando tante sofferenze e salvando tante vite umane, viveva a Parigi, nella quiete e nella sicurezza, il filosofo inglese Thomas Hobbes.
Di lui è rimasta la teorizzazione filosofica dell’assolutismo dello Stato (il Dio mortale sulla terra) nella sua opera Il Leviathan (1651). Tutto doveva essere sottomesso allo Stato (anche l’autorità religiosa). Uno Stato assoluto con poteri assoluti sui singoli individui era necessario per evitare che gli uomini si sbranassero a vicenda alla ricerca inevitabile dei propri diritti. Sua è la famosa frase: “Homo homini lupus”, l’uomo è un lupo per l’altro uomo, pronto, pur di affermare i propri diritti alla sopravvivenza, a sbranarlo.

Le Figlie della Carità o Suore Grigie, sapendo che lo Stato non è tutto, erano dei veri angeli, che alleviavano il dolore in ogni angolo dove l’autorità politica e civile non entrava o ne ignorava il bisogno. E in questa loro opera così importante e socialmente così utile e illuminata seguivano le orme e gli esempi dei loro fondatori: San Vincenzo de’ Paoli e Santa Luisa de Marillac. Due grandi figure che hanno illuminato con la loro santità operante socialmente quel secolo francese grande anche per altre figure come Pascal e Cartesio, Richielieu e Mazzarino, Moliere e Corneille, card. De Berulle e Jacques Bossuet, San Giovanni Eudes e altri.

Santa Luisa, che per più di trenta anni lavorò con San Vincenzo de' Paoli ebbe con lui lo stesso obiettivo: mostrare il volto misericordioso e buono di Dio verso i bisognosi, specialmente quelli più abbandonati e soli, e in questo erano ambedue mossi dallo stesso e unico grande amore a Gesù Cristo.

Il matrimonio sbagliato e per interesse

Louise de Marillac nacque nel 1591. Non ebbe come si dice un’infanzia e un’adolescenza serena. Il padre apparteneva ad una delle più importanti famiglie della Francia. Della madre non si sa niente: era quindi una figlia naturale, riconosciuta premurosamente dal padre ed anche aiutata da lui con una rendita che le assicurasse una certa sicurezza. Era una bambina intelligente e saggia. I suoi primi studi furono fatti nel convento delle domenicane di Poissy. L’atmosfera raccolta, devota e culturalmente stimolante le piacque da subito. Ma, forse, la spesa era eccessiva per lei. Venne infatti ritirata e affidata ad una maestra abile anche nell’insegnarle i lavori tipici femminili.

Perdette il padre all’età di 11 anni, e, fatto che complicò ancora il suo stato di orfana, la famiglia della matrigna e gli altri parenti (sembra) non si preoccuparono eccessivamente di lei e del suo destino.
La ragazza cresceva molto devota e aveva fatto voto di consacrarsi al Signore: all’età di 18 anni Luisa si preparava quindi ad entrare in un convento. Fu però sconsigliata e respinta in questo suo proposito a causa della sua salute non robusta. Se non poteva diventare suora allora bisognava maritarla. E così fu. Ecco quindi un matrimonio non voluto da lei ma combinato da altri, quindi solo di interesse.

Era il 1613 e Luisa aveva 22 anni. Il nome del marito Antoine Le Gras, senza alcun titolo nobiliare. Nacque ben presto anche un figlio. Luisa conduceva una vita di devota nel bel mondo che la portava a frequentare prelati, signori dell’ambiente dei Marillac e di Madame Acarie, il tutto mentre si prendeva cura del figlio, debole di salute. Sembrava tutto facile. Ma Luisa cresceva negli scrupoli, nei rimorsi per non essere potuta entrare in convento sempre oppressa da quelli che lei credeva peccati. Era in crisi, insomma. Aveva una buona formazione intellettuale e spirituale, ed una vita cristiana buona. E purtroppo il matrimonio non era diventato un sostegno per lei ma fonte di difficoltà e di ansietà. Cercava quindi la salvezza nell’ascesi, nell’umiltà, nell’abnegazione. Spesso anche in maniera esagerata. E in più aveva sviluppato un attaccamento verso suo figlio che qualche autore chiama addirittura di natura nevrotica. Era un’anima in difficoltà spirituale, in grande pena e dalla psicologia ferita profondamente.
Ebbe anche la possibilità di incontrare addirittura due santi (e anche grandi): il vescovo di Ginevra, Francesco di Sales, e specialmente Vincenzo de’ Paoli. Avrà con quest’ultimo l’incontro decisivo e provvidenziale per la sua vita.

E veniamo all’anno 1623, anno importante per Luisa. Quello dell’illuminazione. Scrisse lei stessa: “Compresi che... sarebbe venuto un tempo in cui sarei stata nella condizione di fare i tre voti di povertà, castità e obbedienza, e questo assieme ad altre persone... Compresi che doveva essere in un luogo per soccorrere il prossimo, ma non riuscivo a capire come ciò si potesse fare, per il fatto che doveva esserci un andare e venire...”. Un segno dall’alto di avere un po’ di pazienza per coronare il suo sogno di diventare religiosa.

Luisa capì il messaggio e infatti cominciò ad aderire, con umiltà e serenità e nella pace interiore, alle circostanze della vita, che in quel momento significava stare a fianco del marito (dal quale pensava di separarsi). La malattia del marito intanto continuava e Luisa lo assistette con molta più dedizione e tenerezza di prima, per altri due anni, rimanendogli accanto fino alla morte santa (1626), della quale lei parlava come di una grande grazia del Signore.

L’incontro con Vincenzo de’ Paoli

Fu certamente la Provvidenza, che non lascia niente al caso per realizzare i propri progetti di salvezza, a far incontrare Luisa con Vincenzo (intravisto, senza capire di chi si trattasse, in quella famosa illuminazione del 1623).
Avvenne nel 1624, durante gli ultimi due anni della malattia del marito. Lei 33 anni, lui 43, famoso in tutta la Francia, che trattava con re, regine, ministri e grandi personaggi. Una coppia che avrebbe funzionato molto bene per il Regno di Dio e che sarebbe rimasta unita indissolubilmente e animata visibilmente dall’unico e indistruttibile e comune amore per il Signore Gesù.

Luisa sarebbe diventata la vera compagna di Vincenzo per le opere di carità sociale. Le fu vicino con molta discrezione, con molta saggezza e anche tenerezza spirituale, rasserenando il suo spirito col richiamo continuo all’amore di Dio per ciascuno di noi e quindi anche per lei (per farle vincere il suo moralismo, gli scrupoli e il ricordo dei propri errori). La invitava sempre ad esser lieta, semplice ed umile, le ricordava continuamente l’importanza della “santa indifferenza” davanti a quello che Dio avrebbe voluto per lei. Lei stessa avrebbe trovata la strada e la missione che Dio voleva. Un po’ di pazienza. Anche Dio ha i suoi tempi per agire e per far capire il suo progetto.

Il Cristo non era vissuto trent’anni nell’oscurità di Nazaret prima della missione? Anche Luisa poteva e doveva aspettare.
Intanto conosceva sempre di più l’opera e la metodologia di Vincenzo con i poveri. E il miracolo avvenne. Arrivò proprio il giorno in cui Luisa intuì il proprio compito o meglio la missione nella Chiesa.
Lei, Luisa de Marillac, di madre sconosciuta, orfana a 11 anni del padre, una suora mancata, una giovane donna maritata per interesse, madre di un figlio che dava e aveva problemi... sarebbe diventata la “Madre dei poveri”. Grazie a Dio (e a Vincenzo, mandato da Dio) una trasformazione totale. Naturalmente comunicò l’intuizione a Vincenzo. Era proprio quello che aspettava. Le rispose: “Sì che acconsento, mia cara damigella, acconsento sicuramente. Perché non dovrei volerlo io pure, se Nostro Signore vi ha dato questo santo sentimento?... Possiate essere sempre un bell’albero di vita che produce frutti d’amore!”. E così sarà veramente per Luisa, per tutta la vita e per tanti poveracci che incontrerà e aiuterà.
L’opera maggiore (che continua ancora oggi) che questa santa “coppia di Dio” ha fatto insieme è stata la fondazione delle Figlie della Carità, nel 1633. Un Istituto religioso, diretto da loro due insieme per 27 anni fino al 1660, quando morirono entrambi a poca distanza di mesi.

Fu una vera rivoluzione per la Chiesa (uscire fuori dai conventi e per di più donne), perché andava al di là dai soliti schemi mentali e gabbie organizzative ecclesiali vigenti fino a quel tempo. Vincenzo e Luisa a tutti chiedevano quello che potevano dare: ai re e regine, ai borghesi e alle dame dell’alta società francese, ai nobili ricchi e ai ricchi non nobili. Alle figlie chiedevano di essere “serve dei poveri”, come se essi fossero i veri padroni. Ma tutto questo Luisa lo chiedeva dicendo o scrivendo “In nome di Dio, sorelle... siate molto affabili e dolci con i vostri poveri. Sappiate che sono i nostri padroni...”. E questi poveri erano i derelitti, gli abbandonati, i senza dimora, i malati, i pazzi, i galeotti, bambini trovatelli, feriti di guerra e altre categorie affini a forte disagio sociale.

Era un’assistenza piena di amore e di carità, che nessuna ideologia o anche filosofia illuminista poteva inventare o giustificare ma solo l’amore di Dio. Ed era un lavoro che le Figlie della Carità, quelle suore grigie che Napoleone “sognava”, facevano, e sempre faranno, “in nome di Dio”.

tratto da:www.santiebeati.it di Mario Scudu

Taliesin, il bardo



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elisabeth
15-03-2013, 17.16.54
Vi ringrazio per aver risposto ad un mio pensiero verso cio' che avete scritto....ma non averei mai temuto che foste dimenticato di me......cio' che ancor oggi avete postato mi ha incantata.....la donna a cui ogni giorno mi ispiro e' Madre Teresa......una grande forza per la sofferenza...ed ecco che oggi ne ho conosciuta un'altra......vi ringrazio mio Amato Bardo...

Hastatus77
19-03-2013, 13.30.05
@Taliesin
Negli ultimi post, sempre interessanti, siete uscito dal contesto del topic.

Taliesin
19-03-2013, 14.30.48
Cavaliere della Carretta,
vi ringrazio per la vostra continua e paziente presenza che qualvolta riesce a ricondurmi nel giusto sentiero. La cosa è molto gradita anche se prefisco il fatto che troviate interessanti questi miei scritti e relativi commenti.

Taliesin, il bardo

Taliesin
16-04-2013, 12.57.25
BOADICEA, LA REGINA DEGLI ICENI.

Giulio Cesare aveva iniziato l'invasione della Gran-Bretagna in 55 a.C., ma non era mai realmente riuscito ad imporre la sua dominazione sopra i Britanni.
Nel 43 d.C. che l'imperatore Claudio ha ordinato che la Gran-Bretagna dovesse essere conquistata. È durante questa seconda invasione che nasce la storia di Boadicea.
Boadicea è stato descritta come donna potente.
Questa descrizione viene da uno scrittore romano, Dione Cassio:
"...era molto alta. La sua voce era dura ed alta. I suoi capelli spessi e bruno-rossastro sono appesi giù sotto la sua vita. Ha portato sempre un torc dorato grande intorno il suo collo e un mantello tartan fluente fissato con un brooch."

http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/altro/boadicea.jpg
Boadicea

Boadicea o Boudicca , sposa di Prasutago, re della città di Iceni (ora Norfolk) ancora indipendente al potere di Roma. Quando Prasutago morì nel 60 d.C. senza eredi maschi lasciò tutte le sue ricchezze alle sue due figlie ed all'imperatore Nerone, confidando con ciò di guadagnarsi la protezione imperiale per la sua famiglia.
Invece i Romani annetterono il suo regno,umiliarono la sua famiglia, e saccheggiarono il territorio. Mentre il governatore della provincia, Svetonio Paulino, era assente nel 60 Boudicca organizzò una ribellione in tutta la regione dell'Anglia Orientale. Gli insorti bruciarono Comulodunum Verulamium (Colchester), e parte di Londium (Londra) e molti avamposti militari, massacrarono (come riporta Tacito) 70.000 tra Romani e Bretoni simpatizzanti romani facendo a pezzi la Nona Legione.

L'esercito comandato da Paulino si scontra con i rivoltosi nella zona corrisponde oggi al centro di Londra e in una disperata battaglia riconquista e sottomette di nuovo la provincia. Si dice Boudicca morì per l'enorme dolore, assumendo de veleno.
Dai documenti è riportato che questa donna fosse alta e possente dalla voce decisa. Durante la battaglia si spostava sul carro combattendo con la lancia. Essa era anche dotata di un'ottima eloquenza e attraverso le sue parole inspirava sia coraggio che lealtà.

Si dice che ha tenuto questo discorso a loro prima della battaglia:
"Britannici siamo usati ai comandanti delle donne nella guerra. Sono la figlia degli uomini d'onore. Ma ora non sto combattendo per la mia alimentazione reale... Sto combattendo come persona ordinaria che ha perso la sua libertà. Sto combattendo per il mio corpo battuto. Gli dei ci assegneranno la vendetta che ci meritiamo. Pensate a quanto di noi stanno combattendo ed al perchè. Allora vincerete questa battaglia o morirete..."
Taliesin, il bardo

Hastatus77
16-04-2013, 13.25.19
@Taliesin
Mi ricollego a quanto detto in precedenza. Siete ancora off topic.

Taliesin
16-04-2013, 13.48.17
Cavaliere della Carretta,
spero che crediate alle mie precedenti parole, la mia non è una domanda irriverente o sarcastica, ma reale...cosa vuol dire quel sistema di parole e cosa debbo fare per rimediare?

Taliesin, il bardo

Hastatus77
16-04-2013, 13.55.36
Vi riferite a "Off topic"? Beh, semplicemente siete fuori argomento.
La discussione è incentrata su "Donne nel Medioevo", quindi di queste dovreste parlare.

Taliesin
16-04-2013, 14.45.17
Avete ragione Cavaliere della Carretta...
Ma dovete perdonare la mia memoria diroccata in cui mi rimane spesso difficile identificare in un semplice spazio temporale creato di dotti illuninisti compreso tra la caduta dell'Imero Romano d'Occidente e la scoperta delle Americhe.

Comunque grazie per la vostra puntuale supervisione, come sempre...

Taliesin, il bardo

Taliesin
18-04-2013, 12.24.53
GIULIA FARNESE, LA DAMA DEL LIOCORNO.

Nata nel 1475 a Canino (Viterbo) da Pier Luigi Farnese e Giovannella Caetani, Giulia Farnese è passata alla storia come una delle donne più affascinanti e misteriose della sua epoca. Vero e proprio emblema della femminilità rinascimentale, in vita fu assunta a modello ideale di bellezza da molti pittori. Tanto più appare singolare il fatto che di lei non sia pervenuto a noi alcun ritratto certo.

La leggenda vuole che lo stesso Raffaello si sia ispirato a lei per dare il volto alla celebre Dama con il liocorno , essendo la bella Giulia e la sua casata, tradizionalmente associati alla figura del mitologico animale. Ma questa è solo una delle numerose ipotesi.
Appartiene invece alla storia che fu l'amante di Alessandro VI e per questo era usualmente indicata dai cronisti del tempo come Concubina del Papa o addirittura con l'espressione - colorita quanto blasfema - di Sponsa Christi .

Fu sorella di Alessandro Farnese, destinato a passare alla storia come papa Paolo III. Ed è fatto ormai risaputo che nella sua nomina a cardinale da parte di Alessandro VI - punto di inizio dell'inarrestabile ascesa della famiglia Farnese nelle principali corti europee – determinanti furono proprio i favori e le intercessioni della bella Giulia.

A partire dal 1495 ridusse molto la frequentazione di Alessandro VI decidendo di raggiungere il legittimo marito Orsino Orsino a Bassanello. Alla morte di quest'ultimo si trasferì nel castello di Carbognano ove si risposò. Rimasta nuovamente vedova, negli ultimi due anni della sua vita si stabilì ancora a Roma, dove morì il 23 marzo 1524 all'età di 49 anni.

tratto da: Pinturiccio.org

Taliesin, il bardo

Taliesin
18-04-2013, 12.39.50
GIULIA GONZAGA, LA CONTESSA DI FONDI.

Giulia era figlia di Ludovico, duca di Sabbioneta, e di Francesca Fieschi.
Nel 1526, a tredici anni, sposò Vespasiano Colonna che aveva quaranta anni, era vedovo e con una figlia probabilmente più anziana della moglie. Il contratto di nozze era stato sottoscritto da Isabella d’Este che rappresentava il padre di Giulia. Dopo solo due anni di matrimonio, nel 1528, la giovanissima sposa rimase vedova, erede di tutto il patrimonio del marito e tutrice della figliastra.

Dalla morte del marito sino al 1535 Giulia, che resisteva a qualunque progetto di nuovo matrimonio, visse nella contea di Fondi mentre la fama della sua bellezza e del suo spirito si diffondevano per tutta Italia grazie anche a Ludovico Ariosto che la ricorda insieme alle dame e ai cavalieri della sua epoca. La fama della castellana di Fondi si diffuse anche oltre il mare, tanto che si parlò di un tentativo di rapimento da parte del pirata Barbarossa che intendeva fare omaggio della bella preda al sultano Solimano I. Il territorio fu saccheggiato dai turchi ma Giulia si salvò fuggendo in tempo… L’episodio non fece che rafforzare il mito della sua bellezza e fu celebrato dall’egloga di Francesco Maria Molza La ninfa fuggitiva.

Nel castello di Fondi si raccoglieva una piccola corte, ricordata e celebrata da quanti si recavano a far visita alla signora. Con Giulia viveva la figlia del marito, Isabella, che sposò Luigi Gonzaga, detto Rodomonte, fratello della matrigna.

La contessa di Fondi aveva come segretario Gandolfo Porrino un poeta e fine letterato che fu in corrispondenza con buona parte degli scrittori del tempo, fra cui Francesco Maria Molza. Fra quanti le facevano visita si ricorda il cardinale Ippolito Medici raffinatissimo e colto uomo di lettere e, scrive Giovio, dolcissimo musicista, abile suonatore di più strumenti. Il cardinale tradusse per la ammiratissima, corteggiatissima, irreprensibile e inespugnabile giovane signora della quale era innamorato, e dalla quale forse fu riamato, alcuni versi dell’Eneide; morì a Itri nel 1535, probabilmente di malaria, ma si favoleggiò di avvelenamento da parte della famiglia, contrariata da quella passione. Su commissione del cardinale, che desiderava avere un ritratto della donna amata, alla corte soggiornò in due riprese Sebastiano del Piombo: del ritratto originale, dipinto nel 1532, rimangono diverse copie. Alcuni mesi dopo Ippolito inviò a Fondi il ferrarese Alfonso Lombardi, un incisore noto all’epoca, per ritrarre Giulia in una medaglia.

In viaggio da Roma verso Napoli si era fermato a far visita alla contessa Juan de Valdes, il quale, preso dal fascino che aveva richiamato tante personalità di rilievo, scrisse una lettera al cardinale Ercole Gonzaga colma di elogi e ammirazione per la sua ospite. In quella occasione si impegnò a offrire a Giulia consiglio in merito alla causa che le era stata mossa dalla figliastra per l’eredità paterna. Durante l’estate del 1535 la contessa aveva incontrato anche il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, che era stato fortemente influenzato da Valdes, con il quale rimase in contatto diretto e epistolare: Carnesecchi la amò per tutta la vita sublimando il suo amore in un ideale filosofico-platonico.

Nel dicembre dello stesso anno, forse per seguire meglio i suoi interessi, e forse per allontanarsi da Fondi apparsa insicura dopo l’impresa di Barbarossa, la contessa si trasferì a Napoli, prese alloggio presso il convento di San Francesco delle Monache e vi dimorò per tutta la vita. Intorno a lei si ricostituì un circolo scelto dove la conversazione aveva per oggetto temi spirituali e religiosi: vi partecipavano quanti erano interessati alle intellettuali e spirituali ‘eresie’ sorte nella prima metà del Sedicesimo secolo sull’onda della predicazione di Lutero e di Calvino. Fra questi il citato Juan de Valdes, al quale Giulia ispirò l’Alfabeto Cristiano, Pietro Carnesecchi, Marcantonio Flaminio, Bernardino Ochino, Galeazzo Caracciolo che aderì alla Riforma e emigrò a Ginevra dove morì. Del gruppo faceva pare anche l’‘eretica’ Isabella Brisegna Manriquez, la personalità napoletana più in vista insieme a Galeazzo Caracciolo, che scelse di lasciare l’Italia per seguire la propria fede. Carnesecchi scrive che la duchessa inviò una pensione annua, prima a Zurigo e poi a Chiavenna, alla “cara sorella” fuggiasca. Giulia, che aveva ereditato i manoscritti di Valdes, si dedicò alla diffusione della sua dottrina senza trascurare anche i propri interessi mondani e l’educazione del nipote Vespasiano del quale le era stata affidata la tutela dopo la vedovanza e il secondo matrimonio della madre, la figliastra Isabella. Vespasiano, che sarà il suo erede universale, fu un vero principe rinascimentale, ampliò e abbellì Sabbioneta, la piccola Atene dei Gonzaga, dove raccoglieva una corte eletta.

L’attività della duchessa nella diffusione di idee pericolose per il cattolicesimo suscitò presto l’attenzione dell’Inquisizione, il pericolo fu stornato dall’azione della potente famiglia che si mobilitò in sua difesa.

Giulia morì a Napoli nel 1566 nel convento nel quale era vissuta e dove avrebbe voluto essere sepolta; ma i sospetti che gravavano su di lei probabilmente non permisero di esaudire questo desiderio. Il pontefice Pio V fece sequestrare le sue carte e dopo averle esaminate dichiarò, che se le avesse viste prima, quella signora la avrebbe «bruciata viva».

tratto da: www.enciclopediadelledonne.it (http://www.enciclopediadelledonne.it)

Taliesin, il bardo

p.s. omaggiando virtualmente nell'epoca della novella pergamena, Milady Gonzaga, nell'attesa che l'altalena della sua originale Poesia possa fluttuare ancora tra le vie lastricate di Camelot.

Morris
20-04-2013, 23.46.40
Cavalleria è passare a salutare... dare una pacca sulle spalle ad un amico come voi.. mio bardo.

Taliesin
21-04-2013, 20.57.15
Ed in questa domenica delle salme, solo il buon Dio sa quanto ce ne sia bisogno Cavaliere del Crepuscolo. Grazie per quella pacca sulla spalla...

Taliesin, il bardo

elisabeth
22-04-2013, 17.46.19
Amo molto le storie sulle donne del Medioevo che scrivete Taliesin, imparo a conoscere cose che magari non sono mai andata ad approfondire....da donna dovrei arrossire......e visto che Sir Morris...vi ha dato una bella pacca sulla spalla....io da gentil Dama vi abbraccio...grazie per la ricerca che fate......:o

Taliesin
22-04-2013, 20.54.53
Grazie a voi Madonna che gli uomini moderni chiamano Elis,
l'avere ritrovato la vostra emozione impressa in queste virtuali pagine di memoria attraverso i vostri occhi di Donna, oleggia quella Giustizia Divina che le mie Donne del Medioevo hanno sempre inseguito e cercato e, per colpa di un mondo troppo maschilista, non hanno mai trovato....

Taliesin, il bardo

elisabeth
23-04-2013, 15.54.20
Voi siete Il Bardo....e per voi non puo' esserci distinzione tra uomo e donna...per voi esiste il Creato.......grazie ancora

Taliesin
14-05-2013, 15.16.49
MARIA DA CAPOLIVERI: LA LEGGENDA DELL'INNAMORATA

La tradizionale fiaccolata dell'Innamorata si fa risalire alla seconda metà del XVII° secolo; il promotore fu un certo Domingo Cardenas, nobile spagnolo che, diseredato dal padre e costretto all'esilio, si stabilì nella terra dell'Innamorata, allora detta, data la vicinanza alle miniere di ferro di Calamita, "Cala de lo fero".
Una sera di Luglio il nobiluomo credette di aver visto Maria:- la sua ombra, leggiadra e soave, si stagliava contro l'immensità dell'orizzonte rischiarato da una miriade di bagliori luminosi; il suo grido, udii levarsi al di sopra del fragore delle onde...-
La mente di Domingo tornò al racconto dei pescatori.

Correva l'anno 1534, le coste dell'Elba erano razziate dal pirata Barbarossa e dai suoi Saraceni, ma poco importava a due giovani innamorati come Lorenzo e Maria. Il loro amore, ostacolato dalla ricca famiglia di lui a causa della povertà di lei, era troppo grande, dal mare traeva la sua forza.
I loro sguardi si erano incrociati per la prima volta sulla spiaggia battuta dai marosi, mentre Lorenzo tentava di mettere al riparo le imbarcazioni dei pescatori. Da allora quella spiaggia divenne il loro rifugio segreto, il luogo dove scambiarsi tenerezze e promesse d'amore. Proprio là decise di chiederla in moglie.

Quel pomeriggio, era il 14 Luglio, Lorenzo giunse in anticipo sulla spiaggia; Maria dall'alto del sentiero vagò con lo sguardo alla ricerca dell'amato, ma vide una ciurmaglia di uomini sbarcare da una scialuppa...
Impotente assistette alla lotta furibonda che si accese; Lorenzo si battè con onore, ma stremato fu fatto prigioniero. Maria corse verso la spiaggia in tempo per vedere la nave corsara allontanarsi dopo aver scaraventato in mare un corpo agonizzante. Riconoscendo in quel corpo il suo amante, Maria si lasciò cadere in mare, in un ultimo disperato impeto d'amore. Fu ritrovato solo il suo scialle impigliato su uno scoglio che da allora venne chiamato "Ciarpa".

Sconvolto da quella visione, Domingo promise a se stesso che, negli anni a venire, per permettere a Maria di ritrovare il suo Lorenzo, avrebbe acceso mille torce illuminando a giorno la spiaggia che fu ribattezzata la spiaggia dell'Innamorata; inoltre per assicurare la continuità della festa decise di apporre al suo testamento una clausola, che si sarebbe tramandata di padre in figlio, con la quale i suoi discendenti avrebbero mantenuto in vita la tradizione dell'Innamorata, e così fu...

Interrotta soltanto da eventi bellici che coinvolsero anche l'isola d'Elba, la tradizione fu ripresa nel 1985 ad opera del comitato di rievocazione storica fondato e presieduto da Michelangelo Venturini che ogni 14 Luglio rinnova la promessa fatta da Domingo Cardenas: la spiaggia risplende di mille torce e un corteo di persone in costume sfila per terra e per mare alla ricerca dei due giovani amanti.

tratto da: www.laleggendadell'innamorata.com (http://www.laleggendadell'innamorata.com)

Taliesin, il Bardo

elisabeth
14-05-2013, 15.31.04
Sarebbe splendido se in molti paesi d'Italia le tradizioni riprendessero vita......magari si potrebbe assistere a cose bellissime....come la rievocazione di grandi Amori.........

Taliesin
14-05-2013, 21.21.00
Dite il vero Madonna,
e forse non esisterebbe nella pluridecorata lingua italiana l'orribile termine di moderna clonazione che volge a ponente con il nome di "femminicidio".

Taliesin, il Bardo

Guisgard
15-05-2013, 02.10.09
Ricordo un tardo pomeriggio a casa di alcune mie zie.
Ebbene, io ero da poco ritornato da un viaggio, non ricordo precisamente come, ma cominciammo a parlare dei desideri, o per meglio dire dei sogni, poi dell'Amore e del Destino.
Alla fine una di loro pronunciò una frase, tratta, come amava dire lei, dalla saggezza popolare, che tradotta dal dialetto suona così:
“Quando in Cielo è scritto, in Terra avverrà.”
E questa bellissima e struggente leggenda che ci avete raccontato, buon Taliesin, mi ha fatto ricordare quel pomeriggio trascorso da quelle mie zie, tra ricordi, aspettative e sogni custoditi gelosamente.
La leggenda di Lorenzo e Maria è una degna dimostrazione di come l'Amore, quello vero, non può trovare ostacoli o impedimenti a questo mondo.
E neanche nell'Aldilà, visto che, ne sono certo, ora Lorenzo e la sua Maria si saranno di certo ritrovati.
Grazie, caro bardo, per questa meravigliosa storia fatta di Amore e di Eternità.

Taliesin
15-05-2013, 08.40.46
Grazie a voi Cavaliere dell'Intelletto,
leale e prezioso amico, nelle vostre parole c'è quella sana malinconia del ricordo passato e dell'amore fanciullo, che per una sorta di magia, continua a seguire i vostri passi incerti di uomo, accarezzati dall'occhio vigile d'oltremondo delle vostre zie.
E' sempre un piacere, anche se raro, incrociare il vostro cammino,

Taliesin, il bardo

Taliesin
15-05-2013, 09.12.27
LUCIDA MANSI: LO SPECCHIO DELLA VANITA'.

Lucida Mansi (Lucca, 1606 ca – Lucca, 12 febbario 1649) è stata una nobildonna italiana. È un personaggio di incerta attribuzione, probabilmente appartenente alla famiglia Samminiati.

Lucida si sposò molto giovane con Vincenzo Diversi, il quale venne assassinato nei primi anni di matrimonio. Rimasta vedova molto giovane, si risposò con l'anziano e ricco Gaspare di Nicolao Mansi. La famiglia Mansi era molto ricca e conosciuta in gran parte dell' Europa grazie al commercio delle sete già prima del secolo XVI. Il matrimonio destò scalpore per l'elevata differenza d'età tra i due coniugi e per la bellezza di Lucida rispetto a quella del nuovo sposo. Lucida sviluppò così un forte desiderio di evasione, tanto da divenire dissoluta nei costumi e perdere ogni dignità. Essa non rinunciava a lusso sfrenato, banchetti, feste e innumerevoli giovani amanti. Divenne anche talmente vanitosa da ricoprire di specchi un'intera stanza di Villa Mansi a Segromigno per potersi ammirare in ogni occasione.

Lucida morì di peste il 12 febbraio del 1649 e le sue spoglie riposano nella Chiesa dei Cappuccini a Lucca, nella cripta dedicata alla sua famiglia.

Ma c'è una storia nascosta oltre la leggenda...

Lucida Mansi, figlia di nobili lucchesi, era una donna molto attraente e libertina. Ella era talmente crudele ed attratta dai piaceri della carne che arrivò ad uccidere il marito per contornarsi liberamente di schiere di amanti. Pare inoltre che uccidesse gli amanti che le facevano visita, facendoli cadere, dopo le prestazioni amorose, in botole irte di lame affilatissime.

Una mattina però le sembrò di scorgere sul suo viso una quasi impercettibile ruga: il passare del tempo stava spegnendo la sua bellezza. Lucida, disperata, pianse e si lamentò tanto che apparse di fronte a lei un magnifico ragazzo, il quale le promise trent'anni di giovinezza in cambio della sua anima.

Dietro le fattezze del ragazzo si nascondeva però il Diavolo. Lucida accettò il patto. Per tutto il tempo pattuito con il Diavolo le persone che la circondavano continuavano a invecchiare, mentre lei manteneva intatta la sua bellezza e perdurava nella sua dissolutezza, fagocitando lusso e ricchezza e continuando a uccidere i suoi amanti.

Trent'anni dopo lo scellerato patto, la notte del quattordici agosto 1623, il Diavolo ricomparve per prendersi ciò che gli spettava. Lucida, ricordatasi della scadenza, tentò di ingannarlo: si arrampicò sulle ripide scale della Torre delle ore con la speranza di allontanare la sua fine inevitabile. Lucida saliva la Torre, affannata correva a fermare la campana, che stava per batter l'ora della sua morte. A mezzanotte in punto il Diavolo avrebbe preso la sua anima. Ma il tentativo di bloccare la campana fallì, Lucida non fece in tempo a fermare le lancette dell'orologio e così il Diavolo la caricò su una carrozza infuocata e la portò via con sé attraversando le mura di Lucca fino a gettarsi nelle acque del laghetto dell' Orto botanico di Lucca.

Ancora oggi chi immerge il capo in questo lago pare possa vedere il volto addormentato di Lucida Mansi. Nelle notti di luna piena pare oltretutto che sia possibile vedere la carrozza mentre dirige la donna verso l'inferno e sentirne le grida. Altre fonti individuano il fantasma della bella lucchese vagare nel palazzo di Villa Mansi a Segromigno o presso un'altra residenza Mansi in località Monsagrati (comune di Pescaglia) luoghi in cui essa soleva intrattenere e poi giustiziare i suoi amanti.

tratto da: wikipedia

Taliesin, il bardo

Taliesin
15-05-2013, 09.30.48
GENOVEFFA DI BARDANTE: LA VIRTUOSA CONTESSA PALATINA.

Come ha fatto notare recentemente il bollandista M. Coens in un eccellente articolo che fa il punto sulla questione, esistono attualmente quattro racconti in latino che riguardano Genoveffa e si fondano su un modello comune: una copia, più o meno del 1500, che ci presenta la leggenda nel suo stato più sobrio e più arcaico un altro è conosciuto da un'edizione del 1612; un terzo data dal 1472 ed è dovuto a Matthias Emyich, priore dei Carmelitani di Boppard; un quarto, del sec. XVI, è stato redatto da Giovanni Senius di Friburgo in Brisgovia.

Si trova nei racconti un tema letterario comune, quello della donna innocente, circuita da un seduttore, calunniata da lui e vittima di un castigo iniquo (il racconto tessuto intorno a Genoveffa sarebbe il più vicino a quella narrazione germanica della fine del sec. XIV: Die Konigin von Frankreich and der ungetreue Marschall). Vi si ritrovano anche dei temi secondari: la cerva dispensatrice di latte, il pretesto della battuta di caccia che conduce poi alla scoperta di chi è stata abbandonata, ecc.

Dal punto di vista storico, si può avvicinare la leggenda di Genoveffa all'episodio di Maria di Brabante, sposa di Luigi II, duca di Baviera, che fu punita per adulterio, il 18 gennaio 1256 a Mangeistein, in seguito a un malinteso.

Dal punto di vista archeologico, si sono trovate tracce di un antico culto nella cappella di Fraukirch, presso Thür, santuario che ebbe un grande ruolo nella vita pubblica della Pellenz, e dove, in seguito a scavi recenti (Die Fraukirche in der Pellenz im Rheinlande and die Genove/alegende, in Rheinisches Jahrbuch für Volkskunde, II [1951], pp. 81-100), è stata rinvenuta una sepoltura che si crede di Genoveffa.

L'insieme di questi dati diede l'ispirazione per un romanzo popolare in versi e in prosa che ebbe un grande successo dal sec. XVII.

Genoveffa, la moglie virtuosa del conte palatino Sigfrido, che sarebbe vissuto nel sec. VIII, resiste a tutti i tentativi di seduzione del maestro di palazzo Gob durante l'assenza del marito ed è condannata dall'innamorato deluso al supplizio dell'annegamento col suo neonato. Il servitore incaricato dell'esecuzione della sentenza la abbandona in un luogo isolato in mezzo a un'immensa foresta, dove, con l'assistenza divina, Genoveffa riesce a sopravvivere, è scoperta per caso dal marito che era andato a caccia da quelle parti, e prova a lui la sua innocenza.

Genoveffa non è stata inserita in alcun martirologio o calendario ufficiale. Dall'inizio del sec. XVII, però, eruditi come il Miraeus e il Ferrari non hanno esitato a darle il titolo di santa.

tratto da:www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Albert D'Haenens

Taliesin, il Bardo

Taliesin
15-05-2013, 15.11.58
TROTULA DE RUGGIERO: LA SAPIENTE SIGNORA.

Con la raccolta di erbe, frutti e radici per uso commestibile per la cura della propria famiglia e della propria tribù le donne, fin dalla preistoria , acquisirono grande esperienza nel riconoscere le piante sia curative che velenose ponendo le basi della moderna farmacologia e medicina.

Nei secoli il ruolo della donna in medicina conobbe però alterne fortune.
Contrariamente a quanto si pensa nel medioevo si formarono “ Medichesse” con un importante ruolo sociale e pubblico, spesso specializzate in ostetricia e ginecologia, con buone conoscenze di chirurgia. Nella Scuola Medica Salernitana, già nell’anno 1000 si ricordano nomi di medici donne: Abella, Mercuriade, Rebecca Guarna, Costanza Calenda, Trotula de Ruggiero (1050-1097).


In primo luogo vi dico che una donna filosofa di nome Trotula, che visse a lungo e che fu assai bella in gioventù e dalla quale i medici ignoranti traggono grande autorità ed utili insegnamenti, ci svela una parte della natura delle donne. Una parte può svelarla come la provava in sé; l’altra perché, essendo donna, tutte le donne rivelavano più volentieri a lei che non a un uomo ogni loro segreto pensiero e le aprivano la loro natura.1

La figura di Trotula (diminutivo di Trota, da Trocta o Trota o Trotta, nome assai diffuso in età medievale nell’Italia meridionale), è storica, non leggendaria, nonostante spesso, soprattutto da parte maschile, si sia dubitato della sua esistenza, e talvolta sia stata ritenuta anche uomo (Trottus o Eros); dama effettivamente vissuta nell’ XI (secondo alcuni XII) secolo, fu la prima donna medico della storia.

Dotta, scienziata, scrittrice, profondamente sensibile e dalle idee innovative, non magistra, non avendo il diritto di fregiarsi del titolo accademico,ma quasi magistra, o tamquam magistra, per le competenze e la stima popolare di cui godeva, considerata, fra il XII ed il XIV secolo, massima autorità in problemi di salute, igiene e bellezza femminile, operò nella realtà della famosa Scuola medica salernitana,2di cui fu la prima e più famosa esponente.

In questa scuola, celebre nei secoli perché vi si fusero le grandi correnti del pensiero medico antico, la tradizione greco-latina e le nozioni provenienti dalle culture arabe ed ebraiche, ed operarono i massimi nomi dell’epoca, furono attive le mulieres Salernitanae, una schiera di donne, la cui esistenza è suffragata da numerose testimonianze, esperte in medicina,che preparavano cosmetici per le dame della nobiltà.
Sulle mulieres Salernitane, tra il XIII e il XIV secolo, circolavano, però, voci deplorevoli, le si credeva più ciarlatane che scienziate, poiché il famoso medico e scienziato spagnolo Arnaldo da Villanova attribuiva alle levatrici di Salerno la pratica di somministrare alla donna, al momento del parto, una pozione contenente tre granelli di pepe, accompagnando la recita del Pater noster con una misteriosa formula magica:

Binomie lamion lamium azerai vaccina deus deus sabaoth
Benedictus qui venit in nomine Domini, osanna in excelsis.

Nonostante queste voci di discredito, però, la loro fama accrebbe, ed insieme anche quella di Trotula, il cui nome era legato, non solo in Italia ma anche oltralpe.

Fra le mulieres Salernitane, oltre a Trotula, si ricordano Abella, che scrisse due trattati in versi Sulla bile nera e Sulla natura del seme umano, Rebecca Guarna, autrice di opere Sulle febbri, Sulle orine e Sull'embrione, Mercuriade (forse uno pseudonimo), che compose Sulle crisi, Sulla peste, Sulla cura delle ferite e Sugli unguenti, Francesca di Roma, autorizzata dal duca Carlo di Calabria, nel 1321, ad esercitare la chirurgia, e Costanza Calenda che, forse nella prima metà del XV sec., grazie agli insegnamenti paterni, studiò medicina all'università di Napoli.
Trotula nacque, probabilmente, a Salerno dall’antica e nobile famiglia de Ruggiero, attiva verso il 1050; sposa del celebre medico Giovanni Plateario il vecchio, ebbe da lui due figli: Giovanni il giovane e Matteo, pure famosi nella Scuola medica salernitana e conosciuti come Magistri Platearii.
Sapiens matrona (secondo la leggenda anche una delle donne più belle del tempo, il cui funerale, nel 1097, sarebbe stato seguito da una coda di 3 chilometri), della sua competenza si legge nella Storia ecclesiastica del monaco anglo-normanno Orderico Vitale (III, pp. 28 e 76 Chibnall, vol. II) a proposito di Rodolfo Malacorona, un nobile normanno che aveva compiuto studi di medicina in Francia, che, giunto in visita a Salerno nel 1059 “non trovò alcuno che fosse in grado di tenergli testa nella scienza medica tranne una nobildonna assai colta” ([...]neminem in medicinali arte, praeter quondam sapientem matronam sibi parem inveniret).
E nel Dict de l’Herberie il trovatore parigino Rutebeuf, attivo fra il 1215 e il 1280, fece affermare ad un suo personaggio di essere al servizio di una nobildonna salernitana di nome Trota (ainz suis à une dame qui a nom madame Trotte de Salerne), la donna più saggia del mondo (sachiez que c’est la plus sage dame qui soit enz quatre parties du monde), che faceva uccidere dai suoi emissari degli animali feroci dai quali estrarre unguenti per curare i suoi ammalati.

Trotula, chiamata anche sanatrix Salernitana (guaritrice di Salerno), nel Medioevo era riconosciuta autorità indiscussa in disturbi e malattie femminili e cosmesi, godendo in quanto donna di fiducia delle sue consimili, offrendo a tutti garanzie per l’appartenenza alla Scuola medica salernitana; fornita di una cultura medica superiore, sottolineò l’importanza dell’igiene, del controllo delle nascite, dei metodi per rendere il parto meno doloroso, ed ebbe anche delle avanzate intuizioni, come, ad esempio, che l’infertilità potesse dipendere anche dall’uomo.
Considerava in medicina fondamentale la prevenzione e l’accurata anamnesi, al fine d’individuare la giusta terapia ed evitare l’intervento chirurgico, spesso erroneamente prospettato, o attuato, dai suoi colleghi maschi, come si evidenzia dalla lettura del passo seguente:

…Poiché, infatti, si doveva praticare un’incisione a una ragazza che, appunto per un gonfiore del genere, minacciava una lacerazione, Trotula, dopo averla visitata, rimase assai stupita… La fece venire dunque a casa sua per scoprire in un luogo appartato la causa del disturbo… Avendo individuato che il dolore non era causato da una lacerazione o da un ingrossamento dell’utero, ma dal gonfiore, le fece preparare un bagno con un infuso di malva e paritaria, ve la fece entrare e le massaggiò la parte più volte e assai dolcemente per ammorbidire. La fece restare a lungo nel bagno e, quando ne uscì, le preparò un impiastro di succo di tasso barbasso, di rapa selvatica e di farina d’orzo e lo applicò ben caldo per far sparire il gonfiore. Quindi le prescrisse un secondo bagno eguale al precedente e la ragazza guarì.

A Trotula nel Medioevo si attribuivano due opere, il De ornatu mulierum (Come rendere belle le donne) noto anche come Trotula minor, e il De passionibus mulierum ante, in et post partum (Le malattie delle donne prima, durante e dopo il parto) noto anche come Trotula maior o semplicemente Trotula, delle quali non si tramandarono le copie originali bensì dei manoscritti contenenti i suoi trattati, e grande fu la confusione nei secoli, tanto che divenne difficile discernere fra le varie altre opere a lei attribuite, infine si pervenne ad una sistemazione e, grazie anche al ritrovamento di un manoscritto madrileno del XIII secolo, fu possibile fare chiarezza e scoprire le conoscenze, la competenza, talvolta superiore a quella dei colleghi maschi, l’acume delle sue osservazioni ed anche la profonda sensibilità verso le pazienti e le donne in generale.
Le donne di Salerno pongono una radice di vitalba nel miele e poi con questo miele si ungono il viso, che assume uno splendido colore rosato. Altre volte per truccarsi il viso e le labbra ricorrono a miele raffinato, a cui aggiungono vitalba, cetriolo e un po' di acqua di rose. Fa' bollire tutti questi ingredienti fino a consumarne la metà e con l'unguento ottenuto ungi le labbra durante la notte, lavandole poi al mattino con acqua calda. Questo rassoda la pelle delle labbra e la rende sottile e morbidissima, preservandola da qualsiasi screpolatura, se essa è già screpolata, la guarisce. Se poi una donna vorrà truccarsi le labbra, le strofini con corteccia di radici di noce, coprendosi i denti e le gengive con del cotone; poi lo intinga in un colore artificiale e con esso si unga le labbra e l'interno delle gengive. Il colore artificiale va preparato così; prendi quell'alga con cui i Saraceni tingono le pelli di verde, falla bollire in un vaso d'argilla nuovo con del bianco d'uovo finché sarà ridotta a un terzo, poi colala e aggiungi prezzemolo tagliato a pezzetti, fa' bollire di nuovo e lascia di nuovo raffreddare. Quando sarà il moment, aggiungi polvere di allume, mettilo in un'anfora d'oro o di vetro e conservalo per l'uso. Questo è dunque il modo Ìn cui si truccano il viso le donne saracene: quando l'unguento si è asciugato, per schiarire il viso vi appli- cano qualcuna delle sostanze suddette, come l'unguento di cera e olio, o qualcos'altro, e ne risulta un bellissimo colore, misto di bianco e rosato.
Questi consigli di bellezza venivano impartiti da Trotula nel De ornatu mulierum, il trattato di cosmesi che insegnava alle donne come conservare, migliorare ed accrescere la propria bellezza e come curare le malattie della pelle.

Citando spesso come fonte autorevole le mulieres Salernitanae, oltre ad impartire insegnamenti sul trucco, suggeriva come eliminare le rughe, il gonfiore dal volto, le borse dagli occhi, i peli superflui, come rendere la pelle bianca e rosea e privarla di lentiggini e impurità, come far tornare i denti candidi e guarire le screpolature di labbra e gengive.
Siccome le donne sono per natura più fragili degli uomini, sono anche più frequentemente soggette a indisposizione, specialmente negli organi impegnati nei compiti voluti dalla natura. Siccome tali organi sono collocati in parti intime, le donne, per pudore e per innata riservatezza, non osano rivelare a un medico maschio le sofferenze procurate da queste indisposizione. Perciò la compassione per questa loro disgrazia e, soprattutto la sollecitazione di una nobildonna, mi hanno indotto a esaminare in modo più approfondito le disposizioni che colpiscono più frequentemente il sesso femminile. Dunque, poiché le donne non hanno calore sufficiente a prosciugare l'eccedenza di umori cattivi che si formano quotidianamente in loro e poiché l'innata fragilità non consente loro di sopportare lo sforzo di espellerli naturalmente attraverso il sudore, come fanno gli uomini, allora la natura stessa, in mancanza del calore, ha assegnato loro una forma speciale di purificazione, cioè le mestruazioni, che la gente comune chiama "i fiori". Infatti come gli alberi senza fiori non producono frutti, così le donne senza i propri fiori sono private della facoltà di concepire.

Questo passo è tratto, invece, dal prologo del De passionibus mulierum ante, in et post partum, l’opera più importante di Trotula, un vero e proprio manuale di ostetricia, ginecologia e puericultura, il primo trattato sistematico di ginecologia attribuibile a una donna, in cui i rimedi e le prescrizioni, talvolta molto semplici o semplicistici, riguardavano le malattie delle donne ed aspetti squisitamente femminili come il ciclo mensile, la gravidanza, il parto, i rischi del parto, l’allattamento, le difficoltà del concepimento, i disturbi fisiologici, le malattie dell’utero, l’isteria, ma che offriva consigli e suggerimenti su malesseri anche degli uomini, come il vomito, le malattie della pelle e persino i morsi del serpente.
Trotula, in osservanza dell’insegnamento del padre della medicina antica, Ippocrate, Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, mi asterrò dal recar danno ed offesa,3in attenzione delle afflizioni delle donne, si adoprava sempre per il giovamento del corpo, penetrando nei loro più intimi segreti, procurando, con garbo e discrezione, di offrire un rimedio per ogni tipo di disturbo che le affliggesse, senza pregiudizi e preconcetti, senza scandalizzarsi su quelli che avrebbero disturbato la morale del tempo, come descritto, ad esempio, nel capitolo De virginitate restituendo sophistice (Come ripristinare ingannevolmente la verginità), in cui offre consigli per parere vergini, a chi in tale stato più non si trovava, o quello in cuiin cui spiega come apportare sollievo ai problemi delle vergini o delle vedove private della regolare attività sessuale:
Ci sono donne cui non sono consentiti rapporti sessuali, vuoi perché hanno fatto voto di castità, vuoi perché sono legate dalla condizione religiosa, vuoi perché sono rimaste vedove. A certune, infatti, non è consentito di cambiare condizione e poiché, pur desiderando il rapporto sessuale, non lo praticano, sono soggette a gravi infermità. Per esse dunque si provveda in questo modo: prendi del cotone imbevuto di olio di muschio o di menta e applicalo sulla vulva. Nel caso che tu non disponga di quest’olio, prendi della trifora magna e scioglila in un po’ di vino caldo e applicalo sulla vulva con un batuffolo di cotone o di lana. Questo infatti è un buon calmante e smorza il desiderio sessuale placando dolore e prurito.
Comprensiva dell’universo femminile, Trotula era dotata di approfondite conoscenze, sicuramente maggiori di quelle maschili, sulla fisiologia della donna (ad esempio aveva ben identificato i segni della gravidanza incipiente relazionandola alla cessazione del fluxus matricis e alla duritio subita mammarum, l’aumento e l’indurimento delle mammelle) e ciò non stupisce dal momento che, in misoginia scientifica, nel generale clima sfavorevole al “sesso debole”, che faceva considerare le donne inferiori anche per la diversa anatomia e fisiologia, la maggior parte dei medici non le visitava approfonditamente (nemmeno aveva accesso alla stanza del travaglio e neppure presenziava nemmeno al parto, considerato “affare di donne”).

A Trotula, dunque, va ascritto anche il merito di aver offerto ai medici ignoranti, che lasciavano le donne alle terapie delle altre donne, offrendo cure solo all’altro sesso, utili insegnamenti, sulla natura delle donne.

NOTE
1) [C. A. Thomasset (ed.), Placide et Timéo ou Li secrés as philosophes, Genève 1980, pp. 133-134] in « Medioevo al femminile, Laterza, Roma- Bari, 1989.
2) La Scuola Medica Salernitana fu la prima e più importante istituzione medica d'Europa all'inizio del Medioevo ed accolse anche molte donne nella pratica e nell'insegnamento della medicina.
3) dal Giuramento di Ippocrate.
FONTI
F. Bestini, F. Cardini, C. Leopardi, M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri-Medioevo al femminile, Laterza, Roma- Bari, 1989.
Né Eva né Maria, a cura di Michela Pereira, Zanichelli, Bologna, 1981.
P. Arès- g. Duby- La vita privata dall’Impero romano all’anno mille, Edizione CDE S.p.a.Milano, 1987

Taliesin, il Bardo
http://www.balestrieridelmandraccio.it/bdm/images/stories/line.jpg

elisabeth
15-05-2013, 15.58.42
Su questa storia " la sapiente Signora ".......vi devo ringraziare personalmente.....avete dedicato un po' di spazio alle Donne medico .......Grazio mio Amato Bardo....

Taliesin
15-05-2013, 16.22.46
Signora delle Scienze,
la differenza tra un uomo medico e una donna medico consiste non nelle capacità professionali o nei pregiudizi ancestrali di perduta memoria di cui anche la buona Trotula dovette subire fin dall'alba dei tempi, ma nella capacità o meglio nella sensibilità di riconscere il Cristo negli occhi dell'ammalato...E spesso gli eruditi Uomini della Politica Medicamentosa non conoscono questo dizionario.

Ma voi, Madonna, grazie al Signore del cielo e degli acquitrini, sapete bene di cosa io vado farneticando, o no...?

Taliesin, il Bardo

Guisgard
16-05-2013, 01.25.30
Grazie a voi Cavaliere dell'Intelletto,
leale e prezioso amico, nelle vostre parole c'è quella sana malinconia del ricordo passato e dell'amore fanciullo, che per una sorta di magia, continua a seguire i vostri passi incerti di uomo, accarezzati dall'occhio vigile d'oltremondo delle vostre zie.
E' sempre un piacere, anche se raro, incrociare il vostro cammino,

Taliesin, il bardo

Amico mio, non è vero che solo raramente i nostri passi si incrociano qui a Camelot.
Io leggo sempre con attenzione ogni vostro scritto e ogni vostra considerazione.
Seguo con vivo interesse questa discussione, che state alimentando con il vostro entusiasmo ed il vostro sapere, attraverso questi magnifici ritratti di donne straordinarie.
E leggerli la sera, prima di andare, quando tutto a Camelot tace, da a queste storie un sapore particolare.
E anche per questo vi sono debitore :smile:

Taliesin
16-05-2013, 12.15.58
LA LEGGENDA DI MELUSINA: LA DONNA SERPENTE.

Melusina era una delle tre bellissime figlie della fata Presina e del re d’Albania, Elinas. Quando pressina sposò Elinas, gli fece giurare che in determinati giorni non le avrebbe fatto visita a nessun costo. Ma Elinas, raggiante per la notizia della nascita delle figlie, si precipitò nelle stanze della regina, sorprendendola mentre faceva il bagno alle bimbe.

Pressina protestò perché egli era venuto meno alla parola data e, prese le figlie, se ne andò per non più tornare. Allevò le bimbe in un’isola lontana ed inaccessibile; esse potevano guardare dalla vetta della montagna più alta verso l’Albania e lamentare così la perdita del loro regno. Quando poi le figlie ebbero l’età giusta per capire, Pressina raccontò loro di come il padre aveva rotto la promessa. Melusina escogitò subito un piano per vendicare la madre e convinse la sorella ad aiutarla. Le tre giovani fate si recarono in Albania dove, con l’aiuto di un incantesimo, imprigionarono in cima ad una montagna il re con tutti i suoi tesori. Quando la madre venne a conoscenza di una tale impresa si irritò moltissimo e le punì severamente.

Melusina fu condannata a diventare, ogni sabato, un serpente dalla vita in giù e tale castigo sarebbe dovuto durare fino a che non avesse sposato un uomo capace di mantenere la promessa di non vederla in quel determinato giorno.

Allora Melusina intraprese un lungo viaggio in cerca dell’uomo che l’avrebbe liberata. Percorse tutta Europa attraversando la Foresta nera e le Ardenne, finchè arrivò nel Poitou, in Francia, dove, nella foresta di Colombiers, divenne regina delle fate di quei luoghi.

Una sera un giovane cavaliere di nome Raimondo, mentre vagava per la foresta, incontrò Melusina vicino alla fontana della Sete. Raimondo si innamorò subito della bellissima fata e la chiese in moglie. Ella rispose che sarebbe stata contenta, a patto che le giurasse che non avrebbe mai cercato di vederla il sabato: il cavaliere promise ed essi si sposarono. Melusina costruì per lui un grande castello, il castello di Lusignan, che sorgeva su una rocca vicino alla sorgente presso la quale si erano incontrati per la prima volta.

Ma l’incantesimo pronunciato da Pressina aveva gettato la sua bieca luce sull’intera esistenza della figlia, la cui prole nacque tutta deforme. Un maligno cugino di Raimondo lo convinse allora a spiare la moglie, dopo aver seminato nella sua mente il seme della gelosia e del sospetto: Raimondo si appostò in un angolino nascosto nell’appartamento della consorte e da lì, un giorno, vide il suo corpo trasformarsi in serpente. Allora venne preso dall’angoscia di poter perdere Melusina per sempre, ma decise di non confidarle la sua scoperta. Uno dei loro figli, però, soprannominato Geoffey del Dente, perché un enorme dente gli sporgeva dalla bocca come una zanna di cinghiale, uccise il fratello Freimund. Nell’apprendere la notizia di questa nuova sventura, il conte Raimondo non potè nascondere il dolore e l’ira e disse a Melusina “inqufuori dalla mia vita, serpente malefico! Tu che hai inquinato la mia razza!” Udendo le sue parole Melusina capì che lo sposo aveva rotto il giuramento e che, per obbedire al proprio destino, se ne sarebbe dovuta andare per sempre. Gemendo e singhiozzando, lasciò il castello del Lusignan e da allora vagò come spettro per la terra con dolore e sofferenza.

Come spesso accade, il utto tra storia e leggenda...

La storia di Melusina fu uno dei racconti più popolari diffusi nel Medioevo.

Nel 1387 Jean d’Arras raccolse tutte le leggende che si conoscevano sull’argomento e le pubblicò nella sua cronaca. Stefano, un monaco del casato del Lusignan, le rielaborò nella “Cronaca di Jean d’Arras” e la storia di Melusina divenne famosa. Molte nobili famiglie europee, tra le quali i Rohan e i Sassenaye, falsificarono i loro alberi genealogici per vantare la discendenza da Melusina. Il casato di Sassenageeven arrivò al punto di rinunciare alla propria stirpe reale pur di annoverare Melusina tra i suoi antenati affermando che, dopo essere stata scacciata dal Lusigna la fata si era rifugiata nella grotta si Sassanaye nel Delfinato.

Secondo una leggenda lussemburghese Melusina, in seguito, sposò Sigfried che, nel 963, espugnò il formidabile Bock, un’enorme rocca che domina la valle del fiume Alzette e con l’aiuto della moglie costruì poi sulla roccia l’inespugnabile fortezza del Letzbelburg, divenuta in seguito il regno del Lussemburgo. Un sabato Sigfried vide Melusina che si bagnava in un’ insenatura riparata del fiume Alzette. Secondo il volere del fato Melusina scomparve e fu tenuta prigioniera nella grande rocca per aver stretto alleanza con un mortale. Ogni sette anni però, ritorna e per un breve periodo la si vede sul bastione della vecchia fortezza; In bocca tiene una chiave d’oro e qualunque giovane riesca a prenderla può chiedere Melusina in moglie, liberandola.

Sempre una leggenda lussemburghese vuole che durante i giorni di prigionia ella si dedichi a cucire una camicia di lino a cui mette un punto ogni sette anni; se la camicia sarà terminata prima che lei venga liberata, allora il Bock e tutta la città di Lussemburgo scompariranno dalla terra con un grande boato.

Taliesin, il Bardo

Taliesin
16-05-2013, 12.28.02
LA NINFA SCILLA: IL MOSTO CHE CHE DILANIA.

Perdonate Giovani Viandanti,
il mio improvviso dilagare e divagare dagli argini definiti dagli Uomini dei Lumi, che coprono uno spazio temporale che si getta tra gli anni della caduta dell'Impero Romano d'Occidente agli anni della Ri-scoperta delle Americhe, ma le due figure mitologiche hanno attraversato i millenni e si sono depositate nell'immaginario collettivo dell'uomo di mare medioevale, che aveva personificato nelle due donne mostro, le ninfee di cui vado narrarvi la storia...


Taliesin, il Bardo

Se è vero che l’attraversamento del mare rappresenta il superamento di qualcosa di ignoto e quindi di terribile, ancor più pericoloso doveva esser il superamento di uno Stretto dove delle correnti diverse potevano sballottare il naviglio da una parte o dall’altra e dove la visuale da una terra a l’altra dava la concreta idea del superamento di un confine.

Successe così che, per gli antichi marinai, lo stretto di Messina, fosse abitato da due terribili mostri: Scilla e Cariddi.

Sulla punta della Calabria, troviamo Scilla (il significato greco del nome è: colei che dilania). Prima di diventare un mostro marino, Scilla era una ninfa, figlia di Forco e Ceto.

Secondo la leggenda, Scilla viveva in Sicilia, ed aveva la passione di andare sulla spiaggia di Zancle e fare il bagno.
Una sera, mentre la ninfa era sulla spiaggia, vide apparire dalle onde Glauco, il figlio del dio Poseidone, un dio marino metà uomo e metà pesce. Scilla, terrorizzata alla sua vista, si rifugiò sulla vetta di un monte che si trovava vicino alla spiaggia. Il dio, infatuato dalla visione di Scilla, iniziò ad urlarle il suo amore, ma la ninfa continuò a fuggire, lasciando il poveretto solo con il dolore per un amore non corrisposto.
Glauco, senza darsi per vinto, andò all'isola di Eea dove aveva dimora la maga Circe chiedendole un filtro d'amore. Circe, innamorata del giovane dio, gli propose di lasciar perdere ed accettare invece il suo amore.
Glauco si rifiutò, confermando il suo amore per Scilla. Circe, furiosa per essere stata respinta, decise di vendicarsi sulla giovane ninfa.
Quando Glauco fu lontano, la maga preparò una pozione per vendicarsi dell’affronto subito e si recò presso la spiaggia di Zancle, senza essere vista, versò il filtro in mare e ritornò alla sua dimora.
Scilla arrivò sulla spiaggia per fare un bagno. Appena entrata nell’acqua vide crescere intorno a sé delle mostruose teste di cani. Spaventata fuggì al largo, ma si accorse che i cani la seguivano dato che erano il frutto del filtro di Circe. Si rese conto allora che sino al bacino era ancora una ninfa ma al posto delle gambe, attaccati al resto del corpo con un collo serpentino, spuntavano sei musi feroci di cani. Per l'orrore Scilla andò a vivere nella cavità di uno scoglio che da lei prese il nome.

LA DEA CARIDDI: IL MOSTRO CHE RISUCCHIA.

Cariddi (dal greco: colei che risucchia) nella mitologia greca era un mostro marino che prima beveva enormi quantità di acqua e poi le sputava. Secondo la leggenda, Cariddi, era figlia di Poseidone, dio del mare e Gea dea della terra.

Cariddi faceva delle rapine ed era famosa soprattutto per la sua ingordigia.

Un giorno, la giovane ladra, rubò ad Eracle i buoi di Gerione per mangiarne qualcuno. Zeus, per punirla del saccheggio, la fulminò facendola cadere in mare. Per mantenerla in vita, Cariddi venne trasformata in un mostro che formava un vortice marino, così potente da inghiottire le navi, per poi risputarne i resti, che passavano vicino a lei.
La leggenda pone la tana del mostro presso uno dei due lati dello stretto di Messina, di fronte all'antro del mostro Scilla.

Le navi che passavano per lo stretto di Messina, così, erano obbligate a passare vicino ad uno dei due mostri.
Nella realtà, in quel tratto di mare si trovano davvero vortici potenti causati dall'incontro delle correnti marine. Se al giorno d’oggi si volesse visitare il nascondiglio di Cariddi, dovrebbe andare sulla punta messinese della Sicilia, a Capo Peloro.
Cariddi è menzionata anche nel canto XII dell'Odissea di Omero, in cui si narra che Ulisse preferì affrontare Scilla, per paura di perdere la nave passando vicino al gorgo.

Anche Virgilio nella sua Eneide, fa menzione dei due mostri.
Odissea libro XII

Là dentro Scilla vive, orrendamente latrando:
la voce è come quella di cagna neonata,
ma essa è mostro pauroso, nessuno
potrebbe aver gioia a vederla, nemmeno un dio, se l'incontra.
I piedi son dodici, tutti invisibili:
e sei colli ha, lunghissimi: e su ciascuno una testa
da fare spavento; in bocca su tre file i denti,
fitti e serrati, pieni di nera morte.
Per metà nella grotta profonda è nascosta,
ma spinge le teste fuori dal baratro orribile,
e lì pesca, e lo scoglio intorno intorno frugando
delfini e cani di mare e a volte anche mostri più grandi
afferra, di quelli che a mille nutre l'urlante Anfitrìte.

(...)

L'altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo,
vicini uno all'altro, dall'uno potresti colpir l'altro di freccia.
Su questo c'è un fico grande, ricco di foglie:
e sotto Cariddi gloriosa l'acqua livida assorbe.
Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe
paurosamente. Ah che tu non sia là quando assorbe!

Virgilio (Eneide III 420-23)
“Il fianco destro di Scilla, il sinistro Cariddi implacabile tiene, e nel profondo baratro tre volte risucchia l’acqua, che a precipizio sprofondano, e ancora nell’aria con moto alternale scaglia, frusta le stelle con l’onda"

tratto da: www.correrenelverde.com (http://www.correrenelverde.com)

Taliesin, il Bardo

elisabeth
16-05-2013, 20.34.47
Signora delle Scienze,
la differenza tra un uomo medico e una donna medico consiste non nelle capacità professionali o nei pregiudizi ancestrali di perduta memoria di cui anche la buona Trotula dovette subire fin dall'alba dei tempi, ma nella capacità o meglio nella sensibilità di riconscere il Cristo negli occhi dell'ammalato...E spesso gli eruditi Uomini della Politica Medicamentosa non conoscono questo dizionario.

Ma voi, Madonna, grazie al Signore del cielo e degli acquitrini, sapete bene di cosa io vado farneticando, o no...?

Taliesin, il Bardo

Capisco bene cosa volete intendere....e purtroppo alle volte e' cosi'.........

Taliesin
20-05-2013, 16.11.24
SICHELGAITA: LA DUCHESSA GUERRIERA.

Dalle antiche cronache tropeane risulta che molto fiorenti sono sempre state le relazioni tra i Duchi e i Re della dinastia normanna con i Vescovi di Tropea. Alla venuta dei Normanni in Calabria nella sedia vescovile tropeana si era insediato un uomo molto illustre, Calociro, protosincello imperiale nonchè ultimo vescovo di rito greco, al quale Roberto il Guiscardo concesse dei privilegi, come si evince da un diploma pervenutoci in traduzione latina, rogato da tal Giovanni, regalis clericus, nel gennaio del 1066.

Il medesimo Calociro nel 1062 avrebbe accolto con grande ospitalità, tributandole solenni onoranze, la profuga moglie del Guiscardo, Sichelgaita, la quale, a quanto racconta Goffredo Malaterra, s'era rifugiata a Tropea in seguito alla notizia (falsa) che il marito era stato assassinato a Mileto ( G. Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius, a. c. di E. Pontieri, Bologna 1927). Detto vescovo seppe così bene accattivarsi la riconoscenza del Guiscardo, che questi, col diploma del 1066, confermò ed accrebbe i domini che il Vescovado di Tropea possedeva. Calociro in questo ampio diploma è detto Protosincello, posto più illustre fra i Sincelli e loro capo e fu in quell'occasione che la stessa Sichelgaita fece dono al suo ospite benefattore del famoso pastorale, il pezzo più pregiato d'alta oreficeria facente parte del tesoro della Cattedrale di Tropea. Successivamente, il vittorioso Roberto si dice avesse ancor più arricchito l'illustre Vescovo Protosincello, suo Consigliere.
Anche il Duca Ruggero Borsa con diploma del 1094 accrebbe le donazioni fatte dal padre suo al Vescovo di Tropea, Iustego, unendovi la sedia di Amantea, allora soppressa, e poi Guglielmo il malvagio, trovandosi a Messina, ne estese ampia conferma nel 1155.

Le cronache sostengono anche che in quel tempo Sichelgaita avesse delle pertinenze in quel di Tropea e precisamente la località di Bordila (Parghelia) e della sua tonnara (<<tonnaria in territorio Tropeae loco qui Bordella vocatur>>). Tonnara che fu poi dal Duca Ruggeri concessa al monastero di Montecassino e all'abate Oderisio, proprio nell'anno della morte di Gaita (1090), la quale era stata assidua benefattrice di Montecassino, cui la legava il vincolo di parentela con l'abate Desiderio, poi Papa Vittore III. E non a caso, le sue ultime volontà furono quelle di essere sepolta nel suddetto monastero.

Ma vediamo chi fu veramente questa donna, affascinante e sapiente, che, giovanissima, a ventidue anni divenne sposa del gigante dagli occhi azzurri, Roberto il Guiscardo, il più grande guerriero del suo tempo, ma rude analfabeta e come la sua discreta e assennata opera diplomatica, presso la corte normanna, sia risultata vincente.

La principessa Sichelgaita visse in un periodo di eccezionale rilevanza storica, che vide il processo di rinnovamento della Chiesa di Roma, nel segno della riforma gregoriana, la lotta delle investiture, l'espansione dei nuovi barbari nella Longobardia minore, il declino dell'antico principato di Salerno, il trionfo dello Stato normanno.

I protagonisti furono: Gregorio VII, Enrico IV, Desiderio di Montecassino, Alfano I di Salerno, Roberto il Guiscardo e Sichelgaita, figura che Amato di Montecassino descrive "nobile, bella e saggia" e Romualdo, arcivescovo e storico salernitano "onesta, pudica, virile nell'animo e provvida di saggi consigli".

Sichelgaita nacque a Salerno nel 1036 dal principe Guaimario IV, della dinastia dei longobardi spoletini, e da Gemma, figlia del conte Landolfo di Teano. Guaimario volle dare alla sua terza figlia il nome di sua nonna, donna di altissimo lignaggio longobardo. Gaita trascorse l'infanzia e la fanciullezza nel monastero di S. Giorgio, contiguo al Palatium; da un documento del 1037 risulta che in quel prestigioso monastero vi era una infermiera nel cui laboratorio si preparavano i medicamenti. Gaita conobbe perciò l'arte medica sin da fanciulla (fu discepola di Trotula De Ruggero, la celebre medichessa) e subì una grande attrazione per lo studio, la bellezza dei classici latini e greci e la sapienza delle Sacre scritture.

Fu circondata dall'affetto del padre, che era l'uomo più potente dell'Italia meridionale, principe di una Salerno detta, universalmente, "opulenta"; purtroppo il suo potere gli procurò ostilità ed isolamento politico ed il 3 giugno 1052 fu barbaramente trucidato da congiurati di palazzo, che avevano cospirato con i ribelli amalfitani.
Ad ereditare l'ingegno paterno fu Sichelgaita ma, per la sua condizione di donna, dovette dare spazio al fratello Gisulfo II, di lei più giovane; ebbe però il suo ruolo di guida e di governo del Palatium, talché divenne subito famosa per le sue opere sociali e culturali.

Gli storici raffigurano Sichelgaita come un personaggio imponente e forte, più affascinante che bello: longilinea e slanciata, dall'incedere regale, sguardo penetrante e un'indole autoritaria non priva di personalità e misticismo. La fama delle sue virtù giunse sino al potente Roberto il Guiscardo e ne fu affascinato. Questi colse l'occasione per chiedere la mano della principessa longobarda allorquando Gisulfo II gli inviò suo fratello Guido, per chiedergli aiuto contro le continue invasioni del principato ad opera di Guglielmo il normanno.

Roberto così si rivolse a Guido: "annuncia al principe Gisulfo che chiedo in sposa Sichelgaita, principessa di Salerno, sorella sua e tua. E' giunto a me ed alla mia gente la fama di donna avvenente, saggia, pudica e religiosa. sarà grande onore e gioia per il popolo normanno vederla sposa e signora del suo duce". Aggiunse che avrebbe divorziato da Alberada, da cui aveva avuto Boemondo. Per motivi politici Gisulfo II tentò di ostacolare le nozze ed addusse che l'erario del principato non era, allora, in condizione di sostenere le spese totali.

Il Guiscardo, per tutta risposta, venne a Salerno, affrontò Gisulfo, gli confidò che prendere in sposa Sichelgaita significava il suo massimo ideale e gli gridò che avrebbe provveduto lui stesso ad assegnarle in dote le più ricche terre ed i più splendidi castelli di Calabria.

La fiaba diventava storia.

Gaita compiva allora 22 anni, conservava il titolo di principessa longobarda, acquisiva quello di duchessa normanna, diventava sposa di Roberto il Guiscardo, il biondo gigante dagli occhi azzurri, il più grande guerriero ed il più abile ed astuto statista del suo tempo, ma "rude analfabeta". Pur rimanendo nel suo ruolo, ella apporterà un concreto e fattivo contributo al successo di tutte le tappe politiche di Roberto, grazie alla sua cultura, alla sua rara saggezza, al suo sincero affetto coniugale. I loro rapporti furono di una certa conflittualità: da una parte lei con la sua tenace longobardicità, a cui non abdicò mai, dall'altra lui, rozzo, con l'asprezza e l'inflessibilità dei vichinghi, sterminatori e privi di pietà. Fu un freddo duello tra razze e civiltà diverse, una a suo sorgere, l'altra al suo tramonto; riuscì sempre a prevalere il garbo, il fascino personale, l'eleganza e la nobiltà di Gaita.

Nell'aprile 1059, con papa Nicolò II, ebbe luogo in Laterano, uno dei più rivoluzionari concili della storia, in cui furono sancite le norme che travolgeranno il tradizionale assetto della Chiesa. I riformisti erano attenti alle possibili reazioni della corte tedesca e non potevano non pensare di coinvolgere i normanni, quali possibili difensori della strategia indipendentista della Chiesa. Questa valutazione politica non sfuggì a Sichelgaita, la quale pensava ai vantaggi che poteva portare al marito l'avvio di un processo di pacificazione e di revisione degli antichi rapporti di conflittualità con il papato.

Cominciò allora un'abile opera per persuadere Roberto e favorire opportune intese ed alleanze: per quanto fiero, autoritario ed arrogante, il normanno accettò l'ingerenza di Gaita nelle sue determinazioni e manifestò al nuovo papa Nicolò II, il quale, forte dell'incoraggiamento degli ideologi riformisti, approfittò per indire subito un nuovo concilio a Melfi.
Sichelgaita volle provvedere all'intera organizzazione, riservando al pontefice un'accoglienza maestosa. Roberto e Gaita si inginocchiarono dinanzi a lui con sentita umiltà e lui li abbracciò e benedisse: era questa una importante tappa della scalata dei normanni alla completa conquista del Mezzogiorno. Furono confermate le norme appena sancite dal concilio lateranense, e, nella giornata conclusiva, il papa consacrò ufficialmente Roberto, duca di Puglia e Calabria, con la possibilità della conquista della Sicilia. In cambio il Guiscardo si impegnò a difendere la Chiesa contro l'impero bizantino e germanico ed a garantire l'elezione del Papa secondo le norme del concilio. Sichelgaita era felice di aver contribuito alla grande riconciliazione.

Alla fine del 1059, nacque Ruggero, il primogenito; verranno altri sette figli, due maschi e cinque femmine. Gaita seppe coniugare brillantemente il ruolo di donna politica con quello di madre.

Purtroppo, i rapporti tra il papa Gregorio VII e il Guiscardo si incrinarono perché quest'ultimo aveva rifiutato di combattere i normanni che devastavano i territori della Chiesa negli Abruzzi. Il Guiscardo mirava alla conquista di Salerno e ragioni politiche imponevano tale atteggiamento. Fu perciò raggiunto, nel 1074, dalla scomunica, con grande dolore di Gaita che ne rimase profondamente sconvolta. L'esercito normanno mosse alla volta di Salerno nel maggio 1076. Sichelgaita, per evitare spargimento di sangue, escogitò ogni possibile tentativo e riuscì persino a convincere suo cugino, l'abate Desiderio di Montecassino a intercedere presso Gisulfo II per una risoluzione diplomatica della vicenda, ma inutilmente.

Alfano, vescovo di Salerno, dinanzi a tanta follia del suo principe, si rifugiò presso Roberto nella speranza che il suo gesto avrebbe fatto precipitare gli eventi. Gaita era tormentata dalla sorte del fratello Gisulfo e si adoperò presso il marito affinché avesse il massimo rispetto del suo dramma e della sua dignità; Roberto, seppure con riluttanza, ne raccolse l'appello. Donò a Gisulfo II mille bisanti d'oro e gli concesse di rifugiarsi da papa Gregorio VII, che lo nominò governatore delle terre della Chiesa.

Il 13 dicembre 1076 i normanni entrarono in Salerno e l'occuparono: alla notizia dell'arrivo di Gaita accorsero i vecchi longobardi, gli amalfitani del vico di Santa Trofimena, gli ebrei del quartiere di Santa Maria de Dommo, gli schiavi saraceni, i profughi bizantini, tutti plaudenti a lei, loro speranza. Era lei la vera grande trionfatrice e, nel vedere sgretolarsi la Longobardia Minore, giurava a se stessa di farla rivivere in suo figlio Ruggero.
Gaita tornò nella sua vecchia reggia e da consigliera abilissima, spinse il Guiscardo ad essere prodigo ed a ristrutturare chiese e conventi. Nel 1080 si dava anche inizio alla costruzione del Duomo; tanta dimostrazione di profonda devozione da parte di Roberto, indusse il Papa a liberarlo dalla scomunica.

Sichelgaita riprese anche a frequentare la scuola medica, in cui, dominava la figura di un gigante della medicina, Costantino l'Africano, profugo dalla nativa Cartagine, uno dei massimi veicoli della scienza araba nell'occidente. Roberto volle donare a Gaita una nuova reggia, Castel Terracena, che, per merito suo, divenne un centro politico e sociale, culla del mecenatismo dei sovrani, all'attenzione dell'Europa: Salerno assurse così a mediatrice tra l'oriente e l'occidente.

Purtroppo un pesante pensiero tormentava da sempre Gaita: era interiormente angosciata per la sorte della figlia Olimpiade, che era stata inviata alla corte di Costantinopoli quale promessa sposa. L'evolversi degli eventi, nel 1078, comportò, però, la deposizione dell'imperatore Michele Dukas per cui Olimpiade, poi divenuta Elena, fu relegata in un convento.
Tale situazione portò Sichelgaita ad appoggiare il progetto di Roberto di volgere contro Bisanzio; fu una spedizione che assunse il carattere di una "precrociata". Venne allestita una flotta imponente sulla quale si imbarcò anche Sichelgaita. Dopo Corfù, l'esercito normanno volse alla conquista di Durazzo. Lo scontro fu di inaudita violenza, un'ala delle colonne normanne, guidata da Roberto e Boemondo, ebbe la meglio sulle truppe greche e veneziane, alleate, mentre un'altra ala stava per ripiegare. Sichelgaita sentì cadere su di lei la responsabilità del momento: saltò a cavallo ed alla testa dei suoi uomini si lanciò impavida nella mischia.

Una freccia la colpì alla spalla sinistra e rischiò di essere fatta prigioniera, ma il suo coraggio risvegliò talmente l'ardire dei normanni che li portò alla vittoria. Durazzo, il 18 ottobre 1081, era conquistata: Roberto corse incontro a Sichelgaita e l'abbracciò tra l'esultare e le acclamazioni dei soldati. L'atto di coraggio fu così commentato da Guglielmo Appulo: "Dio la salvò perché non volle che fosse oggetto di scherno una signora sì nobile e venerabile".

Purtroppo Roberto non poté continuare la spedizione verso l'Illiria perché, su invocazione di Gregorio VII, dovette muovere verso Roma, contro Enrico IV. Giunto a Roma, nel maggio 1084, con un esercito di seimila cavalieri e trentamila fanti, compì massacri di inaudita ferocia, talché Gregorio dovette partire in esilio al seguito del Guiscardo, perché il popolo lo riteneva colpevole elle sue disgrazie. Fecero tappa a Montecassino: il Papa, benedettino, sperò di ritrovare lì la sua pace, ma l'ambizione di Roberto lo voleva nella capitale normanna, a Salerno, per cui dovette subire, quasi prigioniero, la volontà di chi era il vittorioso protagonista di una immane tragedia.

Sichelgaita fu felice di poter ricevere il Papa con accoglienze trionfali e subito organizzò la consacrazione solenne della splendida cattedrale che, con Roberto, aveva fatto costruire in onore di S. Matteo. Era infatti necessario ripartire con urgenza per l'Oriente, ove l'esercito del Guiscardo era allo sbando.

Ai primi di ottobre del 1084 salparono da Brindisi, con una flotta di 120 galee, Roberto, Boemondo e Ruggero; li accompagnava Sichelgaita per stare accanto al suo sposo, ormai settantenne, e per nostalgia della figlia Elena .

L'anno 1085 fu un anno funesto. La gloria, per Salerno, di ospitare, tra le sue mura, quel gigante di pontefice non durò a lungo: il 25 maggio del 1085, nel cenobio di S. Benedetto, esalò il suo spirito. La sua morte lasciò attonito il mondo intero; intorno a se, negli ultimi anni del suo supremo pontificato, si era svolta la vita di tutte le nazioni ed aveva tenuto testa a tutti e contro tutti, per tutelare i sacrosanti diritti della Chiesa.

Sichelgaita, lontana da Salerno, non pose mai freno alle lacrime e lo pianse come un padre. Le reliquie del patrono S. Matteo e quelle di S. Gregorio sono state sempre il maggior orgoglio della basilica salernitana, che per averlo ospitato nel suo esilio ebbe l'onore di diventare "Chiesa Primaziale".
Dopo meno di due mesi, moriva in Cefalonia, colpito da malattia epidemica, il Guiscardo: cedeva alla natura il 17 luglio 1085, nel settantesimo anno di vita; Sichelgaita, Boemondo e Ruggero, immersi nel più straziante dolore, sciolsero le vele verso la Puglia, con le sue spoglie mortali, che furono sepolte nella chiesa della Badia della SS. Trinità di Venosa. L'autorevole cronista Guglielmo Appulo descrive con vivo realismo la commozione di Sichelgaita: "oh dolore ! che arò io sventurata? dove potrò andarmene infelice? Quando apprenderanno la notizia della tua morte i Greci non assaliranno forse me, tuo figlio e il tuo popolo, di cui tu solo eri la gloria, la speranza e la forza?".

Henric von Kleist, nella tragedia "la morte del Guiscardo" di cui fu pubblicato un solo atto, rappresenta Sichelgaita mentre cerca di ristorare il marito bruciato dalla febbre e la figlia Elena, presente purtroppo solo nella rappresentazione tragica, che stringe sul petto la madre. Dante Alighieri non dubitò di collocare il Guiscardo in paradiso, tra le anime di coloro che avevano ben amministrato la giustizia.

Il nove ottobre ancora di quell'anno, la morte colpì un altro personaggio non meno interessante per la storia di Salerno, l'arcivescovo Alfano I, medico e letterato. Fu sepolto accanto alla tomba di Gregorio VII, suo amico, affinché la morte non valesse a separarli. Fu un ulteriore dolore per Gaita, perdeva l'ultima sua guida, un amico di sempre, a lei congiunto in parentela, un longobardo cui aveva sempre confidato i suoi più intimi pensieri.

Ormai sola, si ritirò in Castel Terracena e continuò a prodigarsi in favore del figlio Ruggero Borsa. Con illuminata intuizione attuò un antico "istituto longobardo": decise di associarlo nel governo del ducato, fin quando non fosse sopita ogni polemica sulla successione. La soluzione fu ben accolta a corte, dal patriziato, dal clero e dal popolo, i quali erano certi che l'esperienza e la saggezza della madre si sarebbero integrate con la giovanile intraprendenza del figlio.

A Boemondo furono assegnate le sue conquiste in Grecia e varie città pugliesi, quali Bari, Otranto e Taranto.

Anche questa volta fu Gaita a trionfare, fu il suo carisma che si impose. La scelta del "bicefalismo ducale", come fu definito dagli storici, fu il modo più intelligente per scongiurare le lotte intestine ed assicurare il rilancio di un forte governo del ducato. Sichelgaita, pur senza Roberto, riuscì, in forza delle sue possenti note caratteriali, a portare Salerno al culmine della sua potenza. Essa non fu più solo "opulenta" e potenza militare; dalla tomba dell'evangelista S. Matteo e da quella di Papa Gregorio VII si levava il potente richiamo ai valori del cristianesimo militante.

Negli ultimi anni, Gaita si dedicò ad una vita di preghiera; frequentava con molta assiduità la Badia di Cava, alla quale aveva fatto donare, sin dai tempi del Guiscardo , molti conventi e fu assidua benefattrice di Montecassino, cui la legava il vincolo di parentela con l'abate Desiderio, poi Papa Vittore III. Sentì molto vivo anche il culto di S. Nicola di Bari. Fu questo un periodo finalmente tranquillo, in pieno ardore religioso, in cui poté sostenere l'opera di moralizzazione della Chiesa. In un momento di sconforto spirituale, rivelò a Gaitelprima, sua sorella, la sua ultima volontà: chiedeva d'essere sepolta a Montecassino.

Sichelgaita morì il 27 marzo del 1090: i longobardi si sentirono privati di una madre, i normanni ebbero chiara coscienza che si dileguava l'ultima testimonianza del loro potere, gli umili la piansero affettuosamente. Mentre il Guiscardo si era fatto seppellire nella SS. Trinità di Venosa, nel sacrario dei duchi normanni, dove, più tardi Boemondo fece tumulare anche sua madre Alberada, Sichelgaita scelse, come sua ultima dimora, Montecassino.

Fu l'ultimo gran gesto di una figura maestosa della storia a noi più vicina; volle farsi in disparte dando un forte segno d'umiltà, di quell'umiltà che connota i forti e che la pose nella leggenda.

tratto da: www.tropeamagazine.it (http://www.tropeamagazine.it)
Taliesin, il Bardo

Taliesin
21-05-2013, 10.24.29
Il Buon Cavaliere della Carretta,
certamente perdonerà questo mio ennesimo sconfinamento temporale di circa centoottoaani, oltre quella riscoperta americana di cui vi narrai in un recente passato, ma il desiderio di far conoscere le disavventure di questa fanciulla che voleva divenire nei suoi sogni di bambina una stella lucente nel firmamento per essere così ammirata da un padre troppo distratto, era talmente forte da non poetere essere circoscritta dentro illogici confini di spazio e di tempo. A mio avviso, la famosa condanna da parte della Chiesa e la recente riabilitazione per volere del non mai abbastanza citato Karol il Santo, sono nulla a confronto della condanna eterna di non avere riconosciuto in vita, la propria Stella. Ma l'ufficialità della Storia è stata già riscritta. A voi il giudizio, Giovani Viandanti e buona lettura...

Taliesin, il Bardo

VIRGINIA GALILEI: SUOR MARIA CELESTE.

Virginia Galilei, primogenita di Galileo, nacque il 12 agosto del 1600. Quello stesso giorno il padre stese di suo pugno un oroscopo, nel quale delineò i tratti principali del carattere della figlia e gli influssi dei pianeti che ne avrebbero segnato lo sviluppo. Lo zelo, la sensibilità e la devozione a Dio, predetti da Galileo, si manifestarono davvero nella personalità di Virginia, così come emerge dalle 124 lettere al padre pervenute fino a noi.

Entrata in convento giovanissima, prese il nome di Suor Maria Celeste. La condizione della donna nel Seicento offriva poche alternative alle ragazze di buona famiglia: il matrimonio o il velo. Per Galileo, oberato dai debiti, la scelta che non gli avrebbe imposto il pagamento dell'ennesima dote matrimoniale fu obbligata. Grazie a conoscenze altolocate lo scienziato riuscì a far accettare entrambe le figlie prima del tempo, a soli 13 anni contro i 16 previsti, nel convento di San Matteo in Arcetri, dove Virginia prese i voti nel 1616 e Livia (1601-1659) l'anno successivo. Le suore di San Matteo in Arcetri appartenevano all'ordine delle Clarisse, fondato da Chiara d'Assisi nel 1212, la cui regola approvata nel 1253 si basava essenzialmente sulla scelta di povertà. La spiritualità francescana e la collocazione fuori le mura della città resero il convento di San Matteo particolarmente indicato per le esigenze di Galileo. Le nuove monache, infatti, erano accolte con una dote piuttosto bassa, rispetto ai più ricchi conventi cittadini.

Virginia col tempo, a differenza della sorella minore, si rivelò adatta alla vita che le era stata imposta; dalle lettere, infatti, non trasparì mai un rimpianto o una rivendicazione: al contrario si rivolse sempre al padre con espressioni di grandissimo affetto. La prima lettera a Galileo, di cui è rimasta traccia, è datata 10 maggio 1623 e fu scritta in occasione della morte dell'amatissima zia Virginia, sorella di Galileo, dalla quale la figlia dello scienziato aveva preso il nome. Dal 1623 al 1634, anno della sua morte, Virginia ebbe con il padre una fitta corrispondenza, che fu di conforto per l'una e per l'altro.

Galileo fu profondamente legato a entrambe le figlie, ma in Virginia trovò un riflesso del proprio carattere e non di rado le aprì il cuore, come quando nel 1623 le manifestò tutto il suo entusiasmo per l'elezione di Maffeo Barberini (1568-1644) al soglio pontificio, inviandole le lettere che il nuovo papa gli aveva scritto quando era ancora cardinale.

Virginia era una donna intelligente e in convento divenne presto un punto di riferimento per le consorelle. Le frequenti richieste al padre di sostegno economico miravano quasi sempre a stemperare le misere condizioni di vita di tutte. La serenità del convento era talmente prioritaria per suor Maria Celeste che potendo chiedere al padre di domandare un qualsiasi beneficio a papa Urbano VIII, dal quale Galileo si sarebbe recato in visita nel 1624, scelse di pregarlo perché a prendersi cura delle monache fossero mandati frati degni, e non, come spesso accadeva, chierici dalla dubbia moralità.

Virginia, anche se da lontano, si prendeva cura di Galileo in molti modi: con preparazioni speziali in cui era esperta, con dolci o frutti, cucendo per lui i colletti o rammendando gli abiti e anche facendosi copista delle sue lettere a terzi o dei suoi manoscritti, di cui era curiosa lettrice. Infine fu lei che, spinta dall'idea di avere il padre più vicino, riuscì a trovare quella Villa 'Il gioiello' dove Galileo spese gli ultimi anni di vita. Galileo, da parte sua, non rispose mai negativamente a nessuna delle richieste della figlia, fosse denaro, fosse inviare del buon vino, o fosse fare l'orologiaio e riuscire laddove il figlio Vincenzo (1606-1649) falliva: "Vincentio tenne parecchi giorni l'orivolo, ma da poi in qua suona manco che mai. Quanto a me, giudicherei che il difetto venissi dalla corda, che, per esser cattiva, non scorra; pure, perché non me ne risolvo, glielo mando, acciò veda qual sia il suo mancamento e lo raccomodi. Potrebbe anco esser che il difetto fossi mio per non saperlo guidare, che perciò ho lasciato i contrappesi attaccati, dubitando che forse non siano al luogo loro. Ma ben la prego a rimandarlo più presto che potrà, perché queste monache non mi lascerebbon vivere" (Ed. Naz. vol. XIV, p. 68 (http://moro:8080/struts-aig/call/testo.do?lingua=ita&vol=14&pag=68)).

L'affetto e la stima di Galileo per la figlia trova eco nella descrizione che lo scienziato fece all'amico Diodati (1576-1661) dopo la morte di lei nel 1634: "donna di esquisito ingegno, singolar bontà et a me affezzionatissima" (Ed. Naz. vol. XVI, p. 115 (http://moro:8080/struts-aig/call/testo.do?lingua=ita&vol=16&pag=115)).

Il dolore per la sua morte improvvisa e prematura fu immenso e gli provocò dissesti fisici, dai quali non si sarebbe più ripreso.
Le lettere di Galileo alla figlia sono andate perdute, forse distrutte dalla madre superiora nel timore di una compromissione del convento di San Matteo, a causa della condanna di Galileo da parte del Santo Uffizio.

tratto da:www.portalegalileo.it

Taliesin, il Bardo

Taliesin
21-05-2013, 10.34.29
ANTONIA ALIGHIERI: SUOR BEATRICE DA RAVENNA.

Figlia di Dante e di Gemma Donati, nata presumibilmente a Firenze tra gli ultimi anni del sec. XIII e i primissimi del XIV, quasi certamente minore di Pietro e Iacopo. Poiché le figlie non erano giuridicamente coinvolte nella condanna del padre, è da ritenere che restasse con la madre a Firenze anche dopo l'estensione del bando ai fratelli; ma non mancano autorevoli studiosi, come il Barbi, che ritengono probabile che Gemma seguisse in un secondo momento la sorte del marito, e quindi è altrettanto plausibile l'ipotesi che prima del 1315 Antonia fosse già presso il padre.

Della sua esistenza abbiamo conferma in un documento del 3 e 6 novembre 1332, stilato dal notaio ser Salvi di Dino, nel quale Iacopo s'impegna, anche a nome di Pietro, a far avere entro due mesi il consenso della madre e della sorella Antonia a una vendita.

Per antica tradizione s'identifica Antonia con la suor Beatrice, monaca nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi a Ravenna, a cui il Boccaccio avrebbe dovuto recare nel 1350 dieci fiorini d'oro da parte dei capitani della compagnia di Orsanmichele. Il documento relativo era in un libro di entrata e uscita ora perduto, ma esaminato nel sec. XVIII da Domenico Maria Manni, un secolo dopo da Giuseppe Pelli. L'esistenza del documento era stata fortemente messa in dubbio, ad es. dall'Imbriani, che negò l'esistenza di una Beatrice Alighieri, ma a fine secolo il Bernicoli pubblicava un documento tratto dai memoriali dell'archivio notarile di Ravenna; in esso era detto che il 21 settembre 1371 maestro Donato (degli Albanzani), casentinese ma dimorante a Ravenna, consegnava, da parte di un amico che desiderava restare sconosciuto, tre ducati al monastero di Santo Stefano, in qualità (il monastero) di erede " sororis Beatrisiae f. cd. Dandi Aldegerii et ol. sororis monasterii antedicti ".

Il Ricci ha avanzato l'ipotesi che l'amico sconosciuto fosse lo stesso Boccaccio, che vent'anni prima non avrebbe adempiuto all'incarico assunto presso la compagnia di Orsanmichele; ma l'ambasceria ravennate del Boccaccio oggi non viene messa in discussione. Per poter identificare suor Beatrice con Antonia non desta eccessiva perplessità la circostanza che nel documento del 1332 non si faccia allusione alla condizione religiosa di Antonia, essendo questa un'obbligazione all'interno della famiglia; anzi la proroga di due mesi si giustifica proprio con la necessità di provvedersi di un'autorizzazione da parte di persona lontana da Firenze. Né è pensabile che Dante potesse avere due figliuole, anche perché nel citato documento si allude solo ad Antonia.

Del resto suor Beatrice, benché religiosa, doveva possedere ancora beni se il monastero sarà designato suo erede. E il nome scelto nell'entrare nella vita monastica chiaramente attesta il riconoscimento di Antonia per il simbolo fondamentale dell'opera paterna.

La figura di suor Beatrice è stata nel sec. XIX tema di romanzi, come la Beatrice Alighieri di Ifigenia Zauli Saiani (Torino 1853), e di drammi, come quelli di Luigi Biondi (ibid. 1837) e di Tito Mammoli (Rocca San Casciano 1883), oltre a comparire in tutte le opere romanzesche e teatrali che hanno come argomento gli ultimi anni di vita di Dante. Nel muro esterno del monastero ravennate (che fu soppresso nel 1882) si legge una lapide, dettata da Filippo Mordani.

tratto da:www.treccani.it (enciclopedia dantesca)

Taliesin, il Bardo

elisabeth
21-05-2013, 15.04.16
Spero tanto che Sir Hastatus sia magnanimo......

La Storia di Suor Maria Celeste e' bellissima........il famoso Galileo Galilei.....era un tenero padre......e' una parte di lui che io non conoscevo.....Grazie Taliesin

Taliesin
21-05-2013, 15.09.23
Grazie a voi Madonna,
che puntualmente passeggiate tra queste vie della Storia, a volte dissestate, ma con la gioia di poterle riscoprire. Senza persone con il dono della vista, come siete voi, queste mie Donne del Medioevo, resterebbero relegate nel vortice di polverosi scaffali dimenticati costruiti dagli Uomini.

Taliesin, il Bardo

elisabeth
21-05-2013, 15.14.20
Alla fine amato Bardo....le Donne vivono in piccoli spazzi lasciate dal tempo....poi avviene, che qualcosa cambia, e allora voi ...le avete ridato l'anima...riportandole in vita........i sono la Dama che viaggia nel tempo...lo avete dimenticato ?.......

Taliesin
21-05-2013, 15.39.39
MARGHERITA PORETE: LO SPECCHIO DELLE ANIME SEMPLICI.

La grande mistica nel 1310 fu bruciata con l'accusa di eresia in una piazza di Parigi alla presenza di una folla immensa e delle più alte cariche civili ed ecclesiastiche. Anche il suo libro era stato condannato alla distruzione, ma attraversò indenne i secoli e la sua dottrina illuminò tantissime anime.

Che dolce trasformazione venir mutata in ciò ch'io amo più di me. Sono a tal punto trasformata da aver perduto il nome mio per amare, io che so amare tanto poco; è in Amore che sono trasformata, perché io altro non amo che l'Amore.
(da Lo Specchio delle anime semplici annientate, di Margherita Porete)

La trasformazione avviene quando l'anima è completamente libera di se stessa. Ritrova il suo essere essenziale ed originale, che è partecipazione di Dio. Questo è il grande tema dal Ritorno che Margherita rende con parole poetiche, vivide e profonde, al livello di altri grandi mistici del suo tempo, come Meister Eckhart.

Questa è la storia di una donna mistica che visse nell'Alto Medioevo. Scrisse un libro che sorprese e spaventò le migliori teste teologiche ed ecclesiastiche dell'epoca: la donna finì sul rogo ed il suo libro fu bruciato con lei. Ma non tutte le copie del libro si ridussero in cenere. Alcuni manoscritti, redatti nelle più importanti lingue volgari, circolarono per i monasteri d'Europa superando le barriere geografiche, linguistiche e temporali. Le parole di Margherita Porete giunsero fino al Rinascimento ed oltre, influenzando teologi, filosofi, scrittori, uomini di Chiesa, i cui nomi si ricordano e si studiano più della per tanto tempo anonima e dimenticata autrice dello Specchio delle anime semplici annientate.

Margherita Porete è tutta dentro il suo Libro. Lei e lo Specchio sono la stessa cosa. Lei è anche dentro gli atti dei processi che subì dall'Inquisizione. Fu condannata, ma molti teologi e sacerdoti che lessero il suo Libro e la conobbero diedero giudizi positivi sul suo pensiero.
(Margherita di Valenciennes, nata intorno al 1250-60, fu beghina durante il regno di Filippo il Bello. Il vescovo di Cambrai, Guido II, già prima del 1306, aveva fatto bruciare pubblicamente nella piazza di Valenciennes lo Specchio ed interdetto Margherita minacciandola di scomunica. Anche il successore di Guido II, Filippo di Marigny, minacciò Margherita. La successiva accusa fu pronunciata dall'Inquisitore provinciale dell'Alta Lorena).

Cosa dice di così tremendo e rivoluzionario lo Specchio?

L'anima non deve desiderare più nulla per essere capace di volere esclusivamente il volere divino. Deve compiere un cammino regale verso il paese del non voler nulla.
Madamigella Conoscenza, illuminata dalla grazia divina, insegna ai marris (desolati), come iniziare il cammino.

Ha scritto Marylin Doiron: "La vita marrie è una vita bloccata o ferma ai primi stadi, a causa dell'attaccamento ad una ricerca egocentrica di virtù. Anche se l'anima dei marris è bloccata ai primi stadi della conoscenza, tuttavia è possibile innalzarsi ed arrivare ad un più alto grado di perfezione"
E come si arriva a questo grado di perfezione? Si arriva grazie alla conoscenza di sé: l'anima comprende gli abissi di ogni povertà, e "vede sé al di sotto di tutte le creature, in un mare di peccato". L'anima si riduce a niente e a meno che niente, comprende che "solo Dio è, mentre lei non è". Così la volontà divina può operare "in lei senza di lei", ovvero senza l'intervento egocentrico dell'anima. Non si tratta di quietismo.

Scrive Margherita: "Tali persone governeranno un Paese se sarà necessario, ma tutto verrà fatto senza di loro".

Margherita Porete rifiutò di comparire davanti al tribunale dell'Inquisizione. Il rifiuto si protrasse per un anno e mezzo. Trascorse questo periodo in prigione, a Parigi. Non ritrattò neanche di fronte alla minaccia del rogo. Fu quindi dichiarata eretica e relapsa - cioè recidiva - e consegnata, il 31 maggio del 1310 - com'era prassi, dopo la condanna ecclesiastica - al braccio secolare, perché eseguisse la condanna. Il primo giugno del 1310 Margherita fu arsa viva in place de Greve, alla presenza di una folla immensa e delle più alte cariche civili ed ecclesiastiche.

Nello Specchio, Margherita mette in scena un dialogo tra personaggi allegorici, com'è tradizione della letteratura cortese: Anima, Dama Amore, Cortesia, Intendimento d'Amore, si confrontano con Ragione, Intendimento di Ragione e con le Virtù. Il Fine Amour, l'amore idealizzato dei trovatori, conduce qui, nella sua trasposizione spirituale, a Dama Amore che rappresenta l'essenza di Dio.

L'Anima deve lasciar perdere le norme esteriori dell'obbedienza che prima aveva osservato in maniera scrupolosa. L'Anima è interamente passiva e dipende dalla volontà divina che opera in lei senza di lei, cioè senza che l'Anima prenda alcuna iniziativa.

Margherita, in largo anticipo sui tempi, intende che ci si salva con la fede senza le opere; questo è uno dei grandi temi della mistica renano-fiamminga, il tema del patire Dio.

Anima e Amore tentano di convincere Ragione. Ma Ragione, stupita e scioccata, non regge a quelli che considera paradossi, e muore. La morte della Ragione lascia spazio ad una più profonda comprensione di Dio. L'Anima intanto abbandona le Virtù, e si innalza al di sopra di esse nella "sovrana libertà dell'Amore".

L'ultimo, decisivo processo a carico di Margherita Porete fu istituito dall'Inquisitore generale del Regno di Francia, il famigerato domenicano Maestro Guglielmo di Parigi che era anche il confessore di Filippo il Bello, ed aveva presieduto in modo sinistro il clamoroso processo per eresia contro i Templari.

Peter Dronke ha scritto sullo Specchio: "I passaggi lirici e quasi drammatici si integrano bene con l'insieme della composizione; una tensione drammatica spontanea può nascere dagli scambi e dai conflitti tra le proiezioni che Margherita fa delle forze interiori e delle forze celesti e tra questi è Dama Amore che dirige".
Il cavaliere, simbolo dell'anima affrancata, abbandona tutto per seguire Dama Amore. Non si aspetta nessuna ricompensa, soltanto quello che Dama Amore gli donerà spontaneamente, cioè l'amore cortese.

Tre chierici coltissimi - forse sollecitati dalla stessa Margherita - diedero un giudizio favorevole sullo Specchio che contrastava con la condanna pronunciata dai teologi dell'Università di Parigi . Si trattava di Giovanni, un frate minore; Franco, un cistercense dell'abbazia di Villers in Brabante; il famoso teologo Goffredo de Fontaines, originario delle Fiandre, ex rettore dell'Università di Parigi.

E cioè: un rappresentante della tradizione monastica; un rappresentante dei movimenti spirituali più avanzati dell'epoca; un rappresentante della scuola teologica ufficiale e del clero secolare).
Il cistercense apprezzò il libro senza riserve; Goffredo ed il francese manifestarono profonda ammirazione, ma avvertirono che il libro doveva essere mostrato a persone preparate, in caso contrario poteva essere pericoloso.

Nella letteratura dei trovatori in lingua d'oc, Fin Amour è il frutto della fedeltà e del coraggio dimostrate dall'amante nelle prove che la Dama gli ha imposto: la sua caratteristica è la Gioia, entusiasmo conquistatore ed allo stesso tempo un sentimento legato al possesso completo dell'oggetto amato. Nello Specchio - ma non è l'unico esempio - c'è la versione spiritualizzata ed interiorizzata di questi temi.

Un sacerdote si schierò dalla parte di Margherita. Guiard de Cressonessart, per aver aiutato e difeso Margherita, fu arrestato a Parigi nel 1308, per ordine dell'Inquisitore Guglielmo. Anche Guiard rifiutò, per un anno e mezzo - era il lasso di tempo legalmente accordato agli accusati affinché avessero modo di pentirsi e riflettere - di presentarsi davanti al tribunale ecclesiastico. Nel marzo del 1310, Guglielmo riunì un'assemblea di teologi e canonisti della facoltà di Parigi per deliberare sui due casi.
Margherita e Guiard furono dichiarati colpevoli di eresia, e - ammenoché non abiurassero - sarebbero stati consegnati presto al braccio secolare perché eseguisse la condanna. Guiard abiurò e fu condannato alla sola detenzione a vita, mentre Margherita non ne volle sapere.
L'Inquisitore Guglielmo riunì in Assemblea solenne i teologi più illustri dell'Università di Parigi. Lo Specchio e la sua autrice furono condannati.

Il non volere è la chiave del non avere e del non sapere, del non pensare nulla nel Lontano-Vicino. Al di sopra della conoscenza razionale come del desiderio egoista, bisogna compiere un cammino lunghissimo per arrivare dal Paese delle Virtù - dove restano i marris - a quello dei dimenticati, dei nudi, degli annientati o dei glorificati, che si trovano nello stadio più alto, là dove Dio non è "conosciuto, né amato, né lodato da queste creature se non per il fatto che non si può conoscerlo, né amarlo né lodarlo. Ciò è la somma di tutto il loro amore e l'ultima tappa del loro cammino"

Le persecuzioni giudiziarie dell'Inquisizione non si placarono con la morte di Margherita. Lo Specchio si diffuse nell'Europa del XIV e XV secolo. Superò le barriere geografiche, linguistiche e temporali, come non era successo a nessun altro scritto mistico medievale in lingua volgare. Sono pervenute versioni dello Specchio in francese antico, inglese medio, perfino in latino - si tramanda che Margherita avesse tradotto la Bibbia in volgare, era coltissima e forse collaborò lei stessa alla traduzione in latino del suo libro.
A Vienne, nel Delfinato, nel 1311/12 si svolgerà il famoso concilio che condannerà la mistica nordica, specialmente quella di Meister Eckhart e dello Specchio: Margherita Porete e Meister Eckart saranno erroneamente indicati come appartenenti alla setta eretica del Libero Spirito.

Il concilio di Vienne darà allo Specchio la patente definitiva di opera eretica, regolarmente confiscata da tutte le Inquisizioni d'Europa, fino al Rinascimento. Questo non gli impedì di godere di un grande successo, ma allo stesso tempo fu esiguo il numero dei manoscritti che scamparono alle confische.

E' sicuro che fu un'opera di grande successo, che suscitò enorme scalpore, sia durante la vita dell'autrice, sia dopo - basti pensare all'impressionante spettacolarizzazione del suo processo, al quale parteciparono tutte le menti più eccelse della Sorbona. Notevoli furono gli sforzi dell'Inquisizione per fermare la circolazione del libro. Lo Specchio è il libro-fantasma le cui tracce si possono trovare in prestigiosi testi della letteratura spirituale successiva. Ma è nel Nord Italia, dove lo Specchio circolò nella versione latina ed in italiano, soprattutto nella prima metà del XV secolo, che creò maggiore scompiglio - questa però è un'altra storia.

Per raggiungere lo stadio di perfezione bisogna seguire la Ragione e la Virtù e nutrirle - "consiglia" Margherita - "fino ad ingozzarsi": solo dopo si potrà dire, insieme ad Agostino, "ama e fa ciò che vuoi".
Invita a superare il sapere dogmatico che lei conosceva benissimo - non a caso, in alcuni manoscritti, è chiamata "beghina sacerdotessa".

San Bernardino da Siena si scaglia contro lo Specchio nei sermoni che tiene tra il 1417 e il 1437; a Padova, nel 1433 i benedettini bandiscono il libro dai loro conventi; i gesuiti di Venezia, accusati di aver fatto dello Specchio la loro lettura prediletta e di simpatizzare con l'eresia del Libero Spirito, sono dichiarati innocenti dai due inquirenti inviati nel 1437 da papa Eugenio IV, mentre l'Inquisizione agisce a Padova. La questione di Venezia in seguito si ritorce contro il papa che, deposto, viene accusato di essere favorevole allo Specchio.

Ad accusarlo è Maestro Giacomo, probabilmente l'inquisitore padovano che aveva scritto sullo Specchio "numerose esecrazioni e riprovazioni". Giacomo parlò al concilio di Basilea, nel 1439, dei trenta capitoli dello Specchio giudicati eretici dai padri del concilio e chiese il rogo per i 36 esemplari posseduti, secondo lui, dalla commissione che aveva esaminato il libro di Margherita. Non si sa se le 36 copie siano state davvero bruciate).

Bisogna passare attraverso tutte le Virtù prima di poterle superare.
L'Anima, quando si trova nello stadio di "cieca vita annientata", fatta di distacco, morte dello spirito, aspira ad una capacità di comprensione alla quale non possono arrivare né Ragione, né Filosofia e neppure la Teologia. Vi si arriva in un istante o moment d'heure, grazie al balenìo del Lontano-Vicino, uno degli stadi più alti di perfezione, quello di "vita annientata illuminata". Perciò non si può speculare sull'Essere, lo si sperimenta in un patire: il meno dell'Anima lascia spazio al più di Dio, cioè alla trascendenza dell'essere increato. A questo punto il pensiero non ha più nessun potere sull'Anima, il suo pellegrinaggio si è compiuto, così il suo potere le viene reso, dal momento che non ne farà più un uso egoistico. L'Anima è arrivata nel punto più alto, l'Anima si allieta di non poter mai affermare tutta la ricchezza del suo amante. E' questo il tema della beata ignoranza, uno dei grandi temi della mistica fiammingo-renana.

Nel 1473 l'eresia dei "sostenitori dell'anima semplice" è denunciata dal francescano Pacifico di Novara. In Francia Jean de Gerson, cancelliere dell'università di Parigi dal 1395 al 1425, ebbe fra le mani un libro sull'Amore di Dio scritto da una certa Marie di Valenciennes. Valenciennes è la città di Margherita: qui il suo libro fu bruciato per la prima volta. La descrizione dell'opera fatta da Gerson ha indotto i critici a pensare che si trattasse dello Specchio; il nome Marie poteva essere un errore del copista. Gerson riconosce che si tratta di un libro di incredibile acume, e mette in guardia contro di esso. Ma un secolo più tardi il libro sarà difeso e ammirato da Margherita di Navarra, sorella di Francesco I, in rapporti di amicizia con il convento della Madeleine, di Orleans, da cui proviene la sola copia accessibile della versione originale dello Specchio in francese antico, che si trova attualmente a Chantilly. Margherita di Navarra, la regina poetessa, nelle sue Prigioni afferma che lo Specchio delle anime semplici è fra i libri più affini alla Sacra Bibbia: "Ma fra tutti uno (libro, ndr) ne vidi di una donna/ che cento anni scritto e ricolmo di fiamme/di carità sì tanto ardentemente/ che nient'altro che amore era il suo dire/inizio e fine di tutto il suo parlare.

La verità spirituale che l'autrice dello Specchio vuole far conoscere, se verrà capita, aiuterà l'Anima a diventare semplice. Così, mostrando i vari stadi del cammino dell'Anima, si arriva alla comprensione del tema centrale del libro: l'affrancamento dell'anima, che si ottiene annientandosi in Dio attraverso l'amore, arrivando perfino a trasformarsi in Dio.


Margherita non ha contrastato il dogma. Spesso si muove nella tradizione dei Padri della Chiesa. Perché allora l'Inquisizione la condannò? Per la sua indifferenza nei confronti delle pratiche e degli avvenimenti esteriori - l'anima affrancata non desidera né rifugge messe e sermoni. Non si cura né del Paradiso né dell'Inferno, perché il Paradiso non è altro che "vedere Dio". La Chiesa avvertì un grande pericolo in Margherita e nella sua mistica: teorizzava e sperimentava - espressa per di più in lingua volgare - l'essenziale libertà dell'anima che abbandona le virtù e non è più al loro servizio, visto che l'anima non le pratica più. Ecco perché gli Inquisitori bruciarono Margherita ed il suo libro.

Nello Specchio Margherita distingue tra le anime interessate e quelle che chiedono Fine Amour. Disprezza le anime interessate; per lei sono asini, montoni, "cercatori di paradisi terrestri": "Se si salvano è in modo assai poco cortese"…

Ma quelli che chiama villani di cuore, mercanti, piccoli spiriti, non hanno connotazione sociale. Villani possono essere il clero dell'Università di Parigi che la condannò, o gli ordini religiosi che la disconobbero e perfino le stesse beghine che non la compresero.

Perché Margherita Porete era anche un grande spirito polemico: "Coloro che non hanno nulla da nascondere non hanno nulla da mostrare". La sua coerenza fa coincidere la sua vita con i suoi scritti: ecco perché rifiuta di comparire davanti al tribunale ecclesiastico e di ritrattare per evitare il rogo. Questo scrupolo di coscienza l'ha portata anche a spiegare una contraddizione presente negli autori mistici: dicono che non si può dire e conoscere nulla di Dio, eppure scrivono a profusione sull'argomento. Margherita spiega semplicemente che scrisse il suo Specchio per una necessità provata prima della liberazione della sua anima, quando faceva ancora parte dei marris, quando "vivevo di latte e pappa ed ero sciocca".

Ci congediamo da Margherita Porete e dal suo Specchio con le parole del teologo Longchamp sul tema medievale dello specchio: "Lo specchio rinvia la sua immagine all'uomo che vi si guarda; lo specchio evoca anche la conoscenza di sé, con l'idea di una purificazione, di un'assimilazione a un ideale morale. D'altra parte, il latino speculum designa in senso lato ogni pittura o rappresentazione; significa quindi quadro, ritratto, se non addirittura descrizione. Lo specchio diventa così strumento di conoscenza, ed è latore di un insegnamento, sia di tipo puramente informativo sia normativo. Questo senso lato del termine ha dato luogo, durante il Medioevo ed oltre, ad un'abbondante serie di Specula.

tratto da:"iceblues"

Taliesin, il bardo

Taliesin
08-08-2013, 11.11.56
MARY AHMILTON: LA MADRE DI BIANCO VESTITA.

La ricerca della Mary Hamilton storica si è rivelata appassionante, ma non ha portato ad alcun risultato concreto. Esisteva in effetti un gruppo di ancelle di Maria Stuarda, chiamato popolarmente "Le quattro Marie", ma non ne faceva parte alcuna Mary Hamilton. Il suo delitto ed il suo castigo, tuttavia, sembrano ricalcare uno scandalo avvenuto durante il regno di Maria Stuarda, che coinvolse una servitrice francese giustiziata per aver ucciso suo figlio appena nato. Non fu Darnley, il principe consorte (ovvero "il più nobile di tutti gli Stuart"), bensì il farmacista di corte (ovvero il capo della servitù) ad essere complice della francese, sia nell'amore che nel crimine. Il fatto accadde nel 1563. Nel 1719 una bella damigella d'onore alla corte di Pietro il Grande, scozzese di nascita e chiamata appunto Mary Hamilton, fu decapitata per infanticidio. Altre circostanze di questo fatto, oltre al nome, si rispecchiano nella ballata: ad esempio, la ragazza si rifiutò di salire sul patibolo vestita in modo sobrio. Il suo amante, poi, era anch'egli un nobile cortigiano. Saremmo tentati di considerare la ballata nient'altro che una rielaborazione degli avvenimenti russi del 1719, se non fosse per il non trascurabile fatto che essa era già stata udita in Scozia ben prima di quell'anno. Tale versione attribuiva probabilmente il delitto alla servitrice francese ad una delle "quattro Marie"; forse qui può aver giocato anche il fatto che, in Scozia, il termine mary indica genericamente una servitrice o una dama di compagnia. In effetti, esiste una versione di Mary Hamilton (Child, IV, 509) in cui la ragazza è chiamata semplicemente Marie ed il suo amante è un "erborista", ovvero il farmacista di corte degli annali criminali. Verosimilmente, le notizie provenienti da San Pietroburgo e l'intrepido comportamento dell'autentica Mary Hamilton sul patibolo della lontana Russia "catturarono" talmente l'immaginazione degli scozzesi, che l'antica ballata fu rimessa in auge ed adattata alla nuova eroina. Il "Ballad Book" di Cecil K. Sharpe (1823, p. 18) contiene il testo che qui presentiamo. Una versione più tarda della ballata, consistente nel solo "ultimo discorso" sul patibolo, è una delle più note "Last Goodnight Ballads". L'aria autentica è stata conservata da Greig, p. 109, ed è stata naturalmente utilizzata da Joan Baez per la sua versione (in The Joan Baez Ballad Book, II) nonché ripresa da Angelo Branduardi per il suo adattamento italiano intitolato "Ninna Nanna", nella quale però il nome della protagonista non è volutamente menzionato.

MARY HAMILTON

La voce è passata in cucina,
La voce è passata in sala
Che Mary Hamilton aspetta un figlio
Dal più nobile degli Stuart.

L'ha corteggiata in cucina,
L'ha corteggiata in sala;
Ma poi l'ha corteggiata in cantina
Ed è la peggior cosa di tutte!

L'ha avvolto nel suo grembiule
E poi l'ha gettato in mare
Dicendo, "Nuota o annega, bel bambino!
Di me non saprai più niente."

Allora scese la Regina Madre
Con l'oro intrecciato nei capelli:
"Mary, dov'è il bel bambino
Che ho udito pianger così forte?"

"Non c'era nessun bimbo nella stanza,
E non ce ne saranno mai;
Era solo un dolore al fianco
Che ha colpito il mio bel corpo."

"Mary, mettiti il vestito nero
Oppure il vestito marrone;
Stasera dobbiamo andare
A visitar la bella Edimburgo."

"Non mi metterò il vestito nero
E neanche quello marrone;
Mi metterò il vestito bianco
Per esser splendida a Edimburgo."

Quando salì sul Cannogate
Rise forte tre volte,
Ma quando scese dal Cannogate
Le si empiron gli occhi di pianto.

Quando salì lo scalone del Parlamento
La scarpa le uscì dal calcagno;
E quando ne ridiscese
Fu condannata a morte.

Quando scese del Cannogate,
Il Cannogate così vivace,
Molte dame guardavano alla sua finestra
In lacrime per quella signora.

"Non piangete per me", disse,
"Non dovete piangere per me;
Se non avessi ucciso il mio bel bambino
Non sarei dovuta morire così.

"Portatemi una bottiglia di vino", disse,
"La migliore bottiglia che avete,
Per bere alla salute dei miei carnefici
E perché loro possan bere alla mia.

"Un brindisi per i bravi marinai
Che navigano per l'oceano;
Non dite a mio padre e a mia madre
Che a casa io non tornerò.

"Un brindisi per i bravi marinai
Che navigano per l'oceano;
Non dite a mio padre e a mia madre
Che qua son venuta a morire.

"Certo non pensava mia madre
Quando mi dondolava nella culla
Alle terre che avrei attraversato
Ed alla morte che mi sarebbe toccata.

"E certo non pensava mio padre
Quando mi prendeva in collo
Alle terre che avrei attraversato
Ed alla morte che mi sarebbe toccata.

"Ieri sera lavavo i piedi alla Regina,
E dolcemente la mettevo a letto;
E la ricompensa che ne ho avuto stasera
È d'essere impiccata a Edimburgo!

"Ieri sera c'erano quattro Mary,
Stasera non ce ne saranno che tre;
C'era Mary Seton e Mary Beton,
E Mary Carmichael, ed io."

p.s. dedicato ad una bianca tomba di un camposanto di campagna su cui una dolce Maodnna d'estate posò la sua emozione.


Taliesin, il Bardo

elisabeth
08-08-2013, 19.30.53
Interessante storia a livelli Storici.........mi piace :smile_clap:

Taliesin
09-08-2013, 15.32.20
LAURA LANZA: LA BARONESSA DI CARINI.

"Sacra Catholica Real Maestà,
don Cesare Lanza, conte di Mussomeli, fa intendere a Vostra Maestà come essendo andato al castello di Carini a videre la baronessa di Carini, sua figlia, come era suo costume, trovò il barone di Carini, suo genero, molto alterato perchè avia trovato in mismo istante nella sua camera Ludovico Vernagallo suo innamorato con la detta baronessa, onde detto esponente mosso da iuxsto sdegno in compagnia di detto barone andorno e trovorno detti baronessa et suo amante nella ditta camera serrati insieme et cussì subito in quello stanti foro ambodoi ammazzati."


Don Cesare Lanza conte di Mussomeli


Con questo memoriale, presentato al Re di Spagna Filippo II, don Cesare Lanza si giustificò dall’accusa di omicidio della figlia Laura e dell’amante Ludovico Vernegallo, adducendo a suo favore la formula, riconosciuta dal diritto dell’epoca, del delitto d’onore, quell’onore macchiato dall’adulterio perpretato dalla figlia già sposa al Barone di Carini.
Di questo delitto restano come uniche notizie l’atto di morte registrato presso la Chiesa Madre di Carini recante la data del 4 dicembre 1563 e poche altre notizie riportate omettendo i nomi degli interessati, una ballata popolare che racconta la leggenda e un fantasma, quello di Laura, che si aggirerebbe alla ricerca di una risposta che forse nessuno ormai sa.

[/URL]Siamo nella Sicilia del 1500, don Cesare Lanza, barone di Trabia e conte di Mussomeli è un uomo potente, dal carattere duro e violento, vicino al viceré Ferrante Gonzaga e all' imperatore Carlo V. Ma questi stretti rapporto non gli serviranno a molto quando, per una questione di confini territoriali, fa uccidere un magistrato di Termini Imerese. Accusato del delitto, il Vicerè non può far altro che incriminarlo e disporre la confisca dei beni del conte.
Per sfuggire all’arresto il Lanza scappa a Bruxelles, alla corte di Carlo V a cui si affianca nella guerra di Germania e nella spedizione di Algeri.
Conclusa questa avventura don Cesare fa ritorno a Palermo grazie all’assoluzione datagli dal monarca con questo rescritto:

“Sia il Maestro Portulano Don Cesare Lanza, nostro diletto, perdonato e assolto, reintegrato nelle cariche nel possesso dei beni”

Qui Cesare Lanza si sposerà con una ricca vedova, Lucrezia Gaetani da cui avrà due figlie: Laura e Costanza.
Appena 14 enne, la giovane [URL="http://www.musicalstore.it/I%20MUSICALS%20ITALIANI/FOTO/La%20Baronessa%20di%20Carini3.jpg"] (http://www.icastelli.it/regioni/sicilia/palermo/carini.jpg)Laura fu data in sposa a Vincenzo La Grua - Talamanca, signore e barone di Carini, discendente di un’antica famiglia Pisana approdata in Sicilia intorno al 1300.
Ma la piccola Laura mal può adattarsi alla vita coniugale con un barone molto più vecchio di lei, interessato soltanto alla caccia e alla cura dei suoi interessi economici. Così la giovane sposa, abituata agli sfarzi della Palermo nobile e lasciata quasi sempre sola nel castello di Carini, ritorna spesso nel capoluogo siciliano.

Qui la Baronessa di Carini incontra il giovane Ludovico Vernagallo, la cui famiglia si trova a frequentare quella dei la Grua per motivi sia economici che familiari (lo zio di Ludovico sposò infatti una La Grua).
Inevitabilmente tra i due giovani nasce qualcosa, ma quel qualcosa condannerà la vita dei due giovani.

Ben presto lo stretto rapporto tra Ludovico e Laura si fa più vivo, i due giovani iniziano a frequentarsi anche al di fuori delle feste palermitane e le visite di Ludovico, aiutate dalla presenza di un feudo dei Vernegallo non distante dalla dimora dei La Grua, al Castello di Carini si fanno sempre più frequenti.
Che i due siano realmente amanti, che da questa avventura amorosa siano nati dei figli, o che tra i due ci fosse soltanto una profonda amicizia non è chiaro. Ciò che è chiaro è quello che avvenne successivamente. Il Vicerè di Sicilia infatti in alcuni documenti rende noto alla Corte di Spagna che il Conte Cesare Lanza aveva ucciso la figlia Laura e il giovane Vernegallo. Un’altra versione vuole la giovane Laura uccisa e il Vernegallo fuggito nottetempo dalla Sicilia in abiti monacali e successivamente morto di vecchiaia.

La leggenda racconta che la notte del 4 dicembre del 1563, complice un monaco che avvisò della presenza di Ludovico nel castello, il padre della ragazza, accompagnato da un seguito di cavalieri per impedire qualsiasi via di fuga agli adulteri, fece irruzione nel castello e trovando i due amanti a letto li uccise.
Più tardi sopraffatto dal rimorso don Cesare si rifugiò nel castello di Mussumeli., mentre il Barone di Carini trovò consolazione convolando a nozze con una nobile spagnola.

La stanza in cui avvenne l’assassinio è situata nell’ala ovest del castello, ormai quasi del tutto crollata. La leggenda vuole che su una parete di quella stanza fosse rimasta l’impronta della mano insanguinata della giovane baronessa. Quella stessa impronta pare appaia ogni anno la notte del 4 dicembre a ricordo dell’evento , mentre il fantasma senza pace di Laura vaga nel castello.
Altre storie raccontano che il fantasma di Laura appaia tutt’oggi nel castello di Mussumeli, alla ricerca di quel padre che lì si nascose dopo l’omicidio.
Secondo gli abitanti del paese donna Laura apparirebbe in tutti il suo splendore in un abito del 500 dalla gonna di seta ampia e un corpetto sul quale avvolge uno scialle, vagando per le stanze del castello o mentre si reca verso la Cappella dove, una volta giunta, si inginocchia e prega. Forse nella speranza di comprendere ciò che spinse sua padre a quell’orribile gesto.

tratto da: Mysteria

Taliesin, il bardo

Taliesin
21-08-2013, 09.07.32
MONNA TESSA: DI MADONNA POVERTATE VESTITA.

Monna Tessa fu la prima donna infermiera, fondatrice dell’Ordine delle Oblate nell’anno 1288.


Il titolo di Monna nel 1200 equivaleva a Madonna ed era attribuito a donne maritate di un certo lignaggio.
Sappiamo invece che Monna Tessa nacque da famiglia povera ed umile; non si conosce la sua data di nascita. La morte avvenne il 3 Luglio del 1327.

Monna Tessa fu moglie di Ture, un sellaio e fu una Fantesca o Serva presso la ricca famiglia di Folco Portinari. Fu l’educatrice delle figlie di Folco Portinari, in particolare di Beatrice, la donna angelicata di Dante Alighieri.
Questa famiglia divenne la sua seconda famiglia.

Folco, da magnate e fiero Ghibellino, abbracciò l’idea dell’assistenza dei malati propostagli da Monna Tessa e con le sue sostanze fu il promotore del progetto della fondazione dell’Ospedale di Santa Maria Nuova che fu costruito negli anni dal 1285 al 1288. Nel 1281 il Cardinale Latino, inviato a Firenze dal Papa Niccolò III°con il compito di riportare la pace fra Guelfi e Ghibellini, acquistò dai Fratelli Lippi e Ture di Benincasa alcuni appezzamenti di terreno fuori dal secondo cerchio di mura della città di Firenze, detto Santa Maria in Campo.Era l’inizio dell’ospedale. Il Vescovo di Firenze Andrea dé Mozzi, il 15 gennaio 1287 benedì la prima pietra della fondazione.

Come risulta da una Bolla del 20 Marzo 1287 emanata dal Papa Onorio IV, lo spazio per la costruzione fu aumentato e in seguito lo stesso Papa proponeva ai Frati Saccati di Sant’Egidio, confinanti coi possedimenti di Folco, di cedere a questo un appezzamento di terreno precedentemente richiesto dal Portinari per portare a compimento la costruzione dell’Ospedale.

In seguito alla donazione dei frati venne a crearsi e svilupparsi la fondazione delle Oblate Ospitaliere che fu riconosciuta ufficialmente il 23 Giugno 1288. Nella creazione dell’opera, Folco era stato aiutato da vari collaboratori tra i quali il notar Ser Grazia, (figlio di Arrigo di Grazia). Si prese poi la decisione di presentare il progetto al suddetto vescovo fiorentino. In quella circostanza Folco Portinari definì l’approvazione del suo Ospedale e lo presentò per un’ultima analisi al vescovo fiorentino, Andrea dè Mozzi. Egli riconobbe e diede l’“imprimatur ecclesiastico” a tutto il complesso dell’Ospedale. A Monna Tessa, della famiglia Portinari, venne concessa l’autorità di dedicarsi completamente al nuovo Ospedale.
I malati ricoverati in principio furono sei, poi dodici …. L’idea assistenziale di Monna Tessa era ispirato dalla regola di San Francesco d’Assisi.

Alle prime donne sue collaboratrici riuscì ad infondere uno spirito cristiano, senza l’ obbligo di un vincolo monacale.. Nel 1301 Tessa volle che la regola fosse scritta. Nel bassorilievo marmoreo della pietra tombale, che oggi si trova nell’ingresso dell’ospedale di Santa Maria Nuova, la Fondatrice delle Oblate é rappresentata in piedi; dal braccio sinistro scende il cordoncino del terz’ordine francescano. L’abito è“di panno bigio romagnolo”. Tra le mani si vede il libro della Regola.

Le prime “compagne” di Tessa, sue prime collaboratrici furono ricche e nobili donne fiorentine: alcuni nomi sono Margherita dei Caposacchi, che era parente del Portinari, Madonna Tancia, Giovanna Dé Cresci e Antonia Dé Bisdomini… queste pie donne formarono il primo nucleo delle Oblate dell’era eroica del nascente istituto.

Taliesin, il Bardo

Taliesin
11-09-2013, 12.23.42
LA SIGNORA DEI TEMPORALI: FLORA DI BEAULIEU

Nacque a Maurs (Cantal) verso il 1300; i suoi genitori, Pons e Melhor, ebbero tre figli e sette figlie, di cui quattro si dovevano fare religiose a Beaulieu. Flora non contava che quattordici anni quando entrò presso le religiose dell’ospedale di Beaulieu, fondato per i pellegrini verso il 1240 da Guiberto de Thémines e da sua moglie Aigline sulla strada da Figeac a Rocamadour, presso St-Julien d’Issendolus (Lot), dove dal 1298 si seguiva la regola degli Ospitalieri di s. Giovanni di Gerusalemme.

Nel suo convento Flora fu sottoposta a grandi prove interiori. Ella, che aveva lasciato il mondo per fare penitenza, temeva di dannarsi restando in questa casa dove non le mancava niente. Ma un religioso la rassicurò dicendole che questa abbondanza sarebbe stata per lei un’occasione di grandi meriti se per amor di Dio si fosse astenuta dal superfluo. Subì anche molte tentazioni contro la castità – il demonio le ricordava le parole di Dio: “Crescete e moltiplicatevi” – e ne fu così turbata da essere considerata folle dalle sue consorelle.

Tante difficoltà furono ricompensate da favori mistici; per tre mesi il Signore le apparve sotto la fugura di un angelo che era dipinto sotto il chiostro del convento e le fece comprendere che le sofferenze che sopportava l’associavano alla sua passione. In una festa d’Ognissanti, mentre si cantava “Vidi turbam magnam” ebbe la visione dei santi in Paradiso.

Si confessava e assisteva alla Messa ogni giorno, ma, secondo l’uso del tempo, non si comunicava che la domenica e nei giorni di festa. Meditava diligentemente la pasione di Cristo, aiutandosi con l’Ordine della Croce di s. Bonaventura, cioè, probabilmente, l’Officium de Passione Domini composto da questo santo. Mostrava una devozione particolare per la Vergine Maria nel mistero dell’Annunciazione, per s. Giovanni Battista patrono del suo Ordine, per s. Pietro e s. Francesco.

Flora morì nel 1347. Numerosi miracoli ebbero luogo sulla tomba, ciò che indusse l’abate di Figeac a procedere all’elevazione del corpo l’11 giugno 1360. Un secolo più tardi un autore anonimo compose una raccolta di centonove racconti di prodigi o miracoli attribuiti alla sua intercessione; questi miracoli, che avvennero nell’Alvernia, nel Limosino, nel Rouergue, nel Périgord, nella Guascogna e a Montpellier, attestano l’estensione del suo culto.

Tuttavia solo nel sec. XVIII la festa di Flora, fissata al 5 ottobre, entrò nel Proprio della diocesi di Cahors. Nell’Ovest della Francia è invocata durante i temporali insieme con s. Barbara e s. Chiara.

La Vita di s. Flora fu scritta il latino dal suo confessore; il testo si è perduto, ma se ne è conservata una traduzione nel dialetto di Quercy fatta alla fine del sec. XV dall’autore anonimo che redasse la raccolta dei suoi miracoli.


Taliesin, il Bardo
tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it/) autore: Philippe Rouillard

Taliesin
11-09-2013, 12.35.08
LA REGINA DEI PELLEGRINAGGI: BONA DA PISA.

Il Codice C 181 depositato presso l'Archivio Capitolare del Duomo di Pisa che raccoglie una prima biografia scritta dal monaco pulsanese Paolo, morto nel 1230, quando era ancora in vita la santa pisana ci informa che Bona nacque a Pisa verso il 1155/1156 nella parrocchia di San Martino di Guazzolongo nel quartiere di Kinzica.

Mamma Berta era di origine corsa e dopo essersi stabilita a Pisa conobbe un mercante, Bernardo. Bona fu l'unico frutto di quel matrimonio: Bernardo si imbarcò quando Bona aveva solo tre anni e non fece più ritorno, lasciando così Berta in grandissime difficoltà economiche in quanto straniera e unica responsabile della famiglia.

All'età di sette anni ebbe un primo incontro con Gesù e grazie a padre Giovanni dell'Ordine dei Canonici Regolari di San Agostino entrò in convento. Bona scelse di martoriare il suo corpo con prove sempre più dure e giunse ad indossare il cilicio dopo una nuova visione di Gesù. All'età di dieci anni ebbe una nuova visione che la segnerà per la vita: insieme con Gesù e Maria incontra San Giacomo.

Preparata da padre Giovanni, all'età di dieci anni si presenta al Priore che la consacrerà al Signore. Dopo tre anni di raccoglimento ed aspre penitenze (durante le quali continua a punire il suo corpo), nel 1170, a seguito di una nuova visione di Gesù, parte per Gerusalemme, dove il Signore le rivela che vive Bernardo. Avvertita ancora da Gesù sfugge al suo tentativo di impedirle di scendere dalla nave e si rifugia da un eremita di nome Ubaldo, che diventa il suo padre spirituale.

Nel tentativo di ritornare a Pisa con alcune sue compagne di viaggio viene ferita al costato e catturata dai saraceni. Riscattata da alcuni mercanti pisani, ripara finalmente verso il 1175 nella sua stanzetta di San Martino.
Qui avviene una nuova visione: con Gesù si presenta San Giacomo che la invita ad unirsi a dei pellegrini in viaggio per Santiago de Compostela. Il pellegrinaggio era un'autentica avventura che durava circa nove mesi, i pellegrini sapevano di rischiare anche la morte: ragione per la quale era prassi normale stendere il testamento. Bona, così esile e continuamente sottoposta a prove fisiche che lei stessa si procurava, non esita, partecipa a quel primo pellegrinaggio, al quale seguiranno molti altri.

Il suo compito è di sorreggere nelle difficoltà, incoraggiare nei momenti più difficili, prestare soccorso sanitario ed invitare tutti i pellegrini alla preghiera e alla penitenza. Raggiungerà ben nove volte Santiago ed altrettante volte ritornerà a Pisa! Ma guidò anche i pellegrini a Roma e raggiunse anche San Michele Arcangelo sul Monte Gargano.

All'età di 48 anni è costretta ad interrompere i pellegrinaggi e il 29 maggio 1207 raggiungerà il suo Sposo in cielo. Ora riposa nella Chiesa di San Martino a Pisa. Il 2 marzo 1962, Giovanni XXIII la dichiarò ufficialmente patrona delle hostesses di Italia.

Taliesin, il Bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) autore:Massimo Salani

Taliesin
11-09-2013, 12.45.28
UNA VITA OLTRE LE MURA: ELOISA DI MEULAN.

Appartenente ad una nobile famiglia francese, Eloisa fu moglie del conte Ugo di Meulan, detto "Testa d'orsa", del quale però rimase ben presto vedova. Donna religiosissima e di grande pietà, donò una considerevole parte dei beni ereditati dal marito all'abbazia benedettina di Notre-Dame di Coulombs (presso Nogent-le-Roi, nella diocesi di Chartres), il cui abate Berengario ricevette da lei nel 1033 le due chiese parrocchiali di Lainville e di Montreuil-sur-Epte, con le relative rendite e metà delle terre annesse, come risulta dall'atto di cessione, confermato in quello stesso anno dal conte Galerano di Meulan, il quale aveva in feudo quelle chiese.

Perduto anche il secondo marito, Eloisa decise di rinunciare al mondo per sempre, ritirandosi a condurre vita religiosa nella stessa abbazia di Coulombs, a cui donò ancora, senza tener conto dei nipoti, figli del fratello Erluino, le terre e la chiesa di Anthieux, nella diocesi di Evreux, il cui possesso da parte dei monaci venne confermato da Guglielmo, duca di Normandia, solo nel 1066, allorché i beni furono restituiti all'abbazia da Riccardo, nipote di Eloisa, il quale li-aveva rivendicati, dopo la morte della zia, occupandoli con la forza.

A Coulombs Eloisa si fece costruire un'angusta celletta, a ridossa del muro della basilica, dove si rinchiuse per sempre, rimanendovi forse murata sino al giorno della sua morte, avvenuta in concetto di santità prima del 1060.

Il Mabillon indica il 10 febbraio, festività di s. Scolastica, come giorno del suo felice transito, che avvenne in realtà l'8 gennaio, come chiaramente risulta dall'Obituario della cattedrale di Chartres, dove infatti si può leggere: "VI idus Januarii. Obiit Helvisa sanotissime memorie reclusa".

Già nel sec. XVII si era persa ogni traccia della tomba di s. Eloisa, della quale, tuttavia, si conservava ancora il teschio tra le altre reliquie custodite nel tesoro dell'abbazia. La sua festa si celebra l'11 febbraio.

Taliesin, il Bardo

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) autore Niccolò Del Re

Taliesin
11-09-2013, 13.02.01
LA ROSA DI VOLTAIRE: ZAIRA DI SPAGNA.

Le notizie su santa Zaira sono veramente poche, anzi quasi nulle; non è citata nei testi ufficiali della Chiesa, forse lo era in qualche edizione precedente del ‘Martyrologium Romanum’ che dal Cinquecento, quando fu fatta la prima stesura, ha avuto vari aggiornamenti.

Comunque in un catalogo odierno degli onomastici, essa viene citata come martirizzata in Spagna, durante l’occupazione dei Mori e ricordata il 21 ottobre.

Altro sulla figura di questa santa non si sa, ma facendo qualche riflessione possiamo dedurre che deve perlomeno essere esistita.

Il nome deriva dall’arabo Zahirah e significa “la rosa” e ricorre spesso nella letteratura orientale, anche nella forma Zara. In Spagna l’occupazione dei Mori musulmani, che durò dal 711 fino al 1212 per buona parte della Spagna, cadendo completamente solo nel 1492 con la perdita di Granada; provocò una nutrita persecuzione religiosa contro i cristiani preesistenti e le loro Istituzioni, con lo scopo di imporre la religione musulmana, negli stati diventati islamici con la loro dominazione.
E in quel lungo periodo, in varie regioni spagnole, si ebbero molti martiri cristiani, i quali resistettero alle ingiunzioni, difendendo la fede cristiana, che grazie a loro non fu mai soppressa.

In quel periodo di convivenza forzata e di schiavitù dei cristiani, imbarcati e portati nei paesi arabi d’origine degli occupanti, parecchi arabi si convertirono al cristianesimo, cambiando il loro nome arabo in un nome cristiano; cito ad esempio s. Bernardo di Alzira che si chiamava Hamed, s. Maria di Alzira che si chiamava Zaida e s. Grazia di Alzira che si chiamava Zoraide, fratelli, convertiti e diventati monaci poi martiri per mano dei parenti musulmani.

Come si vede in questo esempio, c’è una Zaida e una Zoraide, nomi arabi simili a Zaira, quindi è probabile che se fino a noi è arrivato il nome di una martire Zaira, essa probabilmente deve essere conosciuta anche con altro nome cristiano, che non si riesce ad abbinare, perché probabilmente si tratta di una convertita.

Altra riflessione è che il nome Zaira è stato l’ispiratore di opere letterarie e musicali che ebbero fortuna per tutto l’Ottocento, come la tragedia “Zaire” di François-Marie Voltaire (1694-1778), scritta nel 1763 e l’opera lirica omonima di Vincenzo Bellini (1801-1835).

La tragedia “Zaira” di Voltaire, è considerata la più riuscita opera drammatica del grande autore francese, animato da una sottile polemica contro l’intolleranza religiosa. Il soggetto si rifà al periodo già citato dell’occupazione ed espansione musulmana in Europa, agli schiavi cristiani in Medio Oriente, ai tentativi di riscatto dei prigionieri da parte dei principi cristiani e di Ordini religiosi sorti per questo, come i Mercedari.

È probabile che Voltaire si sia rifatto alla martire Zaira per il suo soggetto, anche se non ambientato proprio in Spagna e con un contorno sociale di fantasia; vale la pena di raccontarne la trama.

Prossima alle nozze con il valoroso Orosmane, soldano (sultano) di Gerusalemme, la bella schiava Zaira (cristiana) scopre d’essere sorella del cavaliere francese Nerestano, giunto in Medio Oriente per riscattare i prigionieri, e figlia del vecchio Lusignano, discendente dei principi cristiani di Gerusalemme, anch’egli tenuto come ostaggio dagli arabi, al quale promette di non tradire la fede cristiana.
Rinvia perciò le nozze, tormentata dal conflitto tra amore e religione, cercando di trovare soluzione al suo dramma, in un colloquio con il fratello.
Ma Orosmane la scopre e sospettando in Nerestano un rivale, travolto dalla gelosia la pugnala; poi resosi conto dell’errore, si uccide a sua volta, dopo aver concesso la libertà a tutti i cristiani prigionieri.Il finale è tipico dei drammi e melodrammi dell’Ottocento, ma l’opera ha avuto il pregio di lanciare e sostenere il nome Zaira, a ricordo di una lontana martire cristiana ad opera dei musulmani.


Taliesin, il Bardo
tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it/) di Antonio Borrelli

Taliesin
09-10-2013, 15.23.19
LA SUORA DELLE SORGENTI TERMALI: AGNESE SEGNI

Agnese Segni nacque il 28 gennaio 1268 a Gracciano, piccolo borgo nei pressi di Montepulciano. Agnese sentì fin da piccola il fascino delle cose spirituali e durante una visita con i suoi familiari a Montepulciano vide le suore del "sacco", chiamate così per il rustico sacco che vestivano. nove anni chiese di essere ammessa in convento dove fu subito accolta. A Montepulciano restò solo il tempo necessario per la formazione religiosa di base. Nel 1233, gli amministratori del castello di Proceno, feudo orvietano (oggi in provincia di Viterbo), si recarono a Montepulciano per chiedere l'invio di alcune suore nel loro territorio e Agnese fu tra le prescelte.+

Agnese, seppur molto giovane, fu nominata superiora del monastero, per le sue doti di umiltà e il grande amore per la preghiera, per lo spirito di sacrificio (per quindici anni visse di pane ed acqua) e per l'ardente amore verso Gesù Eucarestia. A Proceno Agnese ricevette dal Signore il dono dei miracoli: gli ossessionati venivano liberati solo al suo avvicinarsi, moltiplicò in più occasioni il pane e malati gravi riacquistarono la salute. Ma nei ventidue anni che restò a Proceno non mancarono le tribolazioni: gravi sofferenze fisiche la tormentarono per lunghi periodi.

Nella primavera del 1306 fu richiamata a Montepulciano, dove fa iniziare la costruzione di una chiesa, come chiestogli da Maria in una visione avuta alcuni anni prima in cui la Vergine le donò tre piccole pietre a questo scopo. E' un'altra visione, questa volta di san Domenico, che spinge Agnese a fare adottare alle sue suore la regola di sant'Agostino e ad aggregarsi all'ordine domenicano per l'assistenza religiosa e la cura spirituale. Numerose furono le occasioni in cui Agnese intervenne in città come paciere e risolutrice delle controversie nelle lotte tra le famiglie nobili della località. Nel 1316 Agnese, su invito del medico e dietro le pressioni delle consorelle si recò a Chianciano, per curarsi alle terme. La sua presenza fu d'aiuto ai numerosi malati presenti nella località e Agnese operò numerosi miracoli, ma le cure termali non portarono alcun giovamento alla sua malattia, che peggiorò.
Rientrata a Montepulciano, fu costretta a letto.

Ormai in punto di morte Agense rincuorava le consorelle invitandole a rallegrarsi perché per lei era giunto il momento dell'incontro con Dio, ciò avvenne il 20 aprile 1317. I frati e le suore domenicane volevano imbalsamare il corpo di Agnese e per questo motivo furono inviati dei signori a Genova per acquistare del balsamo, ma ciò non fu necessario: dalle mani e dai piedi della santa stillò infatti un liquido odoroso che impregnò i panni che coprivano il corpo della santa e ne furono raccolte alcune ampolle.

L'eco del miracolo, richiamò numerosi ammalati, che desideravano essere unti dall'olio miracoloso. Come scrisse il beato Raimondo da Capua, a distanza di cinquant'anni dalla morte della santa, il suo corpo era ancora intatto, come se Agnese fosse appena morta, e molti erano i miracoli di guarigione che avvenivano nella chiesa, che ormai era conosciuta come "chiesa di sant'Agnese", ma si guariva anche non appena fatto voto di recarsi a visitare la stessa. Di questi miracoli si ha anche una pubblica registrazione fatta da notai già a partire da pochi mesi dopo la morte della santa.

Taliesin, il Bardo

tratto da: www.santiebeati.com (http://www.santiebeati.com) autore Maurizio Misinato

Guisgard
09-10-2013, 16.08.13
Taliesin, amico mio, è un po' che non passavo a leggere gli straordinari ritratti che raccogliete per noi in questa bella discussione, ma la passione con cui continuate ad animare questo angolo di Camelot merita lodi e omaggi.
E posso dire che questa è una fra le più belle discussioni che ci siano qui nel nostro reame.
Grazie, mio buon bardo :smile:

Taliesin
10-10-2013, 09.58.10
Cvaliere dell'Intelletto...
Ritrovarvi, ancora una volta con primevo sentimento, assorto tra le virtuali pergamene delle mie "Donne nel Medioevo" è la più appagante delle emozioni che spronano l'antico amanuense a continuare il suo Viaggio lungo il sentiero incerto della Storia e della Leggenda, affinchè grazie al Loro sacrificio, nessuna Donna debba più temere la violenza degli Uomini...
Grazie per il vostro passaggio e la vostra amicizia.

Taliesin, il Bardo

Taliesin
10-10-2013, 10.10.26
LA VERGINE DELL'IMPERATORE: ANTILLA DA MONTEPULCIANO.

Secondo un antico manoscritto sulla "Vita di S. Antilia Vergine e Martire" conservato nell'Archivio Capitolare di Montepulciano - la cui trascrizione è stata gentilmente messa a nostra disposizione dallo storico poliziano Mario Morganti - Antilia sarebbe stata nientemeno che figlia di Teodosio I, imperatore dal 379 al 395, e sorella di Onorio e Arcadio, succeduti al padre rispettivamente come imperatori di Occidente e di Oriente.

Ma di una Antilia tra i discendenti ufficiali di Teodosio, bisogna qui precisare, non c'è traccia storica.

Sempre secondo il nostro manoscritto, Antilia in giovane età sarebbe stata liberata dal demonio da Donato, vescovo di Arezzo, divenendo quindi discepola del futuro santo. Non pago di aver ordinato il martirio di Donato, il prefetto aretino Quadraziano chiese Antilia in sposa col capriccio di sfidare la devota castità della giovane, che avrebbe coraggiosamente rifiutato e che, scampata miracolosamente a varie forme di supplizio, sarebbe stata infine uccisa per decapitazione nel 398. Anche qui i riscontri storici della leggenda lasciano più di qualche perplessità, perché il martirio di Donato risalirebbe a molti anni prima, ossia al 362.

Da Arezzo, dove si venera il suo corpo, il culto di Antilia arrivò a Roma insieme alla reliquia della sua testa, per poi tornare in Toscana nel IX secolo per mano del prode poliziano Gualterotto Bernardini, che proprio la sacra testa si guadagnò in riconoscimento del suo valore nella lotta ai Saraceni che minacciavano la città eterna.

Trafugata e poi restituita da un senese nel 1348, la reliquia si conserva a Montepulciano in un artistico busto d'argento del XVII secolo, mentre sull'altar maggiore del Duomo cittadino un trittico di Taddeo di Bartolo del 1401 mostra Antilia che in veste di patrona porge la città alla Madonna.


tratto da. www.santitoscani.net (http://www.santitoscani.net)

Taliesin, il Bardo

Taliesin
10-10-2013, 10.18.16
LA FANCIULLA DEI FIORI: IOSEFINA CIARDI DA SAN GIMIGNANO.


Nata nel 1238 a San Gimignano dai Ciardi, nobili decaduti, nella casa ancora esistente nel vicolo che porta il suo nome, Fina (abbreviazione di Iosefina) a dieci anni fu colpita da una malattia che la paralizzò completamente.

Già orfana di padre, Fina perse anche la madre e rimase in assoluta povertà, aiutata solo da un'amica di nome Beldia. Dopo cinque anni di indicibili sofferenze sopportate con serenità e devozione, Fina si spense il 12 marzo 1253, festa di San Gregorio Magno, di cui era devota e dal quale avrebbe avuto l'annuncio della morte.

Secondo la leggenda, trascritta nel Trecento dal domenicano Giovanni del Coppo, al momento del suo trapasso le campane di San Gimignano suonarono a festa senza che mano alcuna toccasse le corde, e quando il suo corpo fu sollevato dall'asse di quercia che era stato il suo giaciglio, questo si coprì di fiori. Contemporaneamente, torri e mura si ornarono di migliaia di viole gialle, e ancor oggi questa fioritura si ripete ogni anno, per quanto rigido sia l'inverno.

Il culto della Santa fu molto vivo fin dagli inizi, tanto che grazie alle offerte lasciate sul suo sepolcro già nel 1258 si poté costruire uno spedale. Nel 1457 il Consiglio del Popolo deliberò la costruzione di una magnifica cappella nella collegiata, realizzata da Giuliano da Maiano e ornata di sculture di Benedetto da Maiano ed affreschi del Ghirlandaio. La città volle la piccola Fina come propria protettrice al fianco del patrono ufficiale, Geminiano, e a lei ricorse nella calamità con fiducia e devozione. Le feste annuali in suo onore sono due. La prima cade il 12 marzo - anniversario della sua dipartita; la seconda si celebra la prima domenica d'agosto, per ricordare che nel 1479 Fina salvò la città dalla peste e dalla guerra.

tratto da www.santitoscani.it (http://www.santitoscani.it)

Taliesin, il Bardo

Taliesin
10-10-2013, 11.53.59
LA CONTESSA DEI PAPI: MAROZIA, LA CORTIGIANA.

Una donna che con astuzia,seduzione e intelligenza riuscì a manovrare politici e re,papi e cardinali.
E’ la storia di Marozia,figlia di una nobildonna sorella di Adalberto di Toscana e di un gentiluomo di nobiltà tedesca.

Marozia nacque a Roma presumibilmente nel 892.

Sin da ragazzina mostrò immediatamente un carattere volitivo,a cui aggiungeva la consapevolezza di essere una gran bella ragazza;l’intelligenza la unì alle sue indubbie doti di avvenenza,e le sfruttò al meglio,tanto che a sedici anni era già l’amante di un papa,Sergio III, che tra l’altro era un suo primo cugino.
Una relazione scandalosa,ma non per quei tempi,in cui la chiesa versava in una crisi morale profonda;una crisi che coinvolgeva comunque tutte le sfere della società,priva di una guida morale autorevole.
Marozia era scaltra e ambiziosa.

A 28 anni,dopo 12 anni passati all’ombra del papa,restò incinta.
Con furbizia combinò,grazie all’aiuto del potente papa, un matrimonio di convenienza con Alberico I di Spoleto, che riconobbe il figlio nato dalla relazione adultera.
Nel 910,con l’aiuto di alcuni sicari,fece uccidere il papa,e iniziò la sua personale scalata alle vette della società.
Con Alberico,uomo ambizioso quanto lei,costituì una coppia affiatata e spietata.
Il passo successivo che fecero fu quello di entrare nell’entourage di papa Giovanni X.
Una mossa intelligente,visto che Alberico,messo a capo dell’esercito pontificio,sconfisse in battaglia i saraceni e divenne console.
La via per il successo sembrava spianata,quando all’improvviso,per cause incerte,Alberico morì.

Marozia reagì immediatamente,e in breve tempo combinò un altro matrimonio,naturalmente con un nobile,il marchese Guido di Toscana,fiero avversario del papa Giovanni.

La volitiva Marozia seguì il marito in una congiura antipapale,che si concluse con un assalto alla residenza del papa,che venne fatto prigioniero e morì poco dopo,pare strangolato da qualche sicario.
Da questo momento la via per la gloria è spalancata;Marozia riesce a pilotare le elezioni successive,quelle di Leone VI e Stefano VIII,prima di compiere il suo capolavoro,l’elezione al trono di Pietro di Giovanni XI,il figlio nato dalla relazione con Sergio III.

Con questa mossa Marozia raggiungeva il suo scopo,diventare la donna più potente d’Italia;e ancora una volta il caso (forse pilotato abilmente dalla diabolica donna) le venne incontro.
Poco dopo l’elezione di Giovanni XI moriva Guido,suo marito.
In breve tempo Marozia compì il suo capolavoro politico,sposando Ugo di Provenza,re d’Italia e fratello di Guido.
Una situazione paradossale,ai limiti dell’incesto,e assolutamente vietata dai codici civili e morali.
Naturalmente non poteva esserci un freno all’ambizione dei due amanti;a Ugo serviva la donna come trampolino di lancio per controllare il papato,a Marozia serviva il titolo di regina d’Italia.

Così scandalizzando tutti,Ugo giurò di non essere fratello di sangue di Guido,ma suo fratellastro,in quanto nato da una relazione adulterina del padre.
Tutto sembrava pronto,quindi,per la logica conclusione,l’incoronazione di Ugo a imperatore.
Ma i piani tanto accurati di Marozia erano destinati a essere cancellati proprio dalla persona alla quale meno pensava,suo figlio Alberico II,nato dal matrimonio con Alberico,fratellastro di papa Giovanni XI.

Alberico II,difatti,con quello che oggi definiremmo un golpe,spiazzò tutti facendo arrestare Ugo,deporre papa Giovanni e confinando la sua terribile madre in un convento,e restando in pratica dominatore incontrastato di Roma.

Marozia,chiusa in un convento,sorvegliata a vista,priva di appoggi esterni,visse da reclusa ben 22 anni.

Che saranno sembrati,alla grande tessitrice di inganni,un tormento ed un’eternità. Si spense nel 955,a 63 anni.Era l’ombra della donna che aveva tramato e tessuto intrighi a corte e nell’entourage papale.

La sua vicenda ispirò la popolare leggenda della papessa Giovanna.

tratto da:www.paultemplar.it (http://www.paultemplar.it)

Taliesin, il Bardo

Taliesin
10-10-2013, 12.39.07
I VANITOSI FAZUOLI DEI VESPRI: LE ANONIME MESSINESI.

Triste fu il tramonto del XIII secolo in Sicilia. Il lamento del popolo sofferente non tardò a divenire grido di ribellione. Così se i francesi portarono nuove maniere di vivere non riuscirono ad abbagliare con lo splendore del fasto quel popolo presso il quale erano ancora fiorenti le mirabili manifestazioni del lusso orientale.

Prima della dominazione francese i mercanti erano forniti di merci straniere e mentre a Palermo i Veneti godevano d'ogni franchigia per le gemme, le seterie e gli ermellini, a Messina ogni mercé preziosa poteva essere acquistata e lo smeraldo della Nubia, i velluti, i zendadi di Costantinopoli, i gingilli artistici niellati di Damasco facevano bella mostra sulle donne di quei tempi.

I Francesi favorirono forse il commercio dei tessuti d'occidente, e con gli sciamiti lucchesi e veneziani introdussero in Sicilia quelle stoffe di lana di pecora inglese fabbricate in Francia, stoffe preziose, che non tardavano ad essere adottate dalle donne siciliane e specialmente da quelle messinesi.

Ad esempio fulgida appariva la ricchezza degli ornamenti femminili ed in particolare si rammenta che le donne di Messina usavano fra l'altro coprire le acconciature del capo con ghirlande d'oro o d'argento adorne di perle, e portavano "fazzuoli" trapunti d'oro filato, usavano stringere al busto, per somiglianzà delle donne francesi, con cinti preziosi e arricchivano di perle il nastro con la quale chiudevano i loro mantelli.

I regali costosissimi che si davano alle spose erano messi in mostra quasi incoraggiamento per i donatori a gareggiare nel valore degli oggetti offerti, e quest'usanza si riscontra tanto nelle classi umili, quanto nelle classi elevate. Generalmente ogni nuova maniera di vestire, ogni esotica manifestazione del lusso era adottata a Messina prima che in ogni altra città dell'isola, e ciò per i maggiori traffici che quella città aveva con le nazioni straniere. Ovunque le donne camminavano per le vie con zone dorate, con mantelli di camelotto foderati di cendato, ovunque esse facevano mostra di vesti dai colori vivi come il rosso o il verde, con larghe frangie le quali furono anche oggetto della severità del legislatore.

Chi non aveva veli di seta li aveva di lino, chi non poteva avere cintura di metallo prezioso la portava di stoffa con fili d'oro, ma la vanità appariscente del vestire si era innescata in ogni classe sociale, dalle castellane alle fruttivendole. Quando si trattò di reprimere le fogge eccessivamente costose delle vesti, le donne di Messina protestarono tanto energicamente da costringere Carlo D'Angiò ad annullare lo statuto suntuario emesso da magistrato messinese e da lui confermato nel 1272, e permettere che esse potessero portare in quella quantità che "lor piacesse aurum, perlas atque aurifrigie etc...".

Se però quelle donne si ribellarono alle imposizioni della legge, non esitarono a deporre i "soperchii ornamenti" quando la patria richiese sacrifici e privazioni.

Allora le donne eleganti si videro per le vie di Messina andare con la tunica succinta, con i piedi nudi, i cofanetti in cui avevano tenuti i loro monili furono pieni di pane e di viveri.
I cronisti dell'epoca ci raccontano di slanci sublimi e il Gregorio ci narra che quando la città fu aspramente combattuta da Carlo d'Angiò, proprio quelle donne "vanitose" diedero l'aiuto a rifar le mura.
La difesa di Messina oltre d'essere uno degli episodi più gloriosi della guerra del Vespro è una delle pagine più belle nella storia dell'abnegazione femminile. Tutto si trasforma ma nulla cambia, ora e sempre.
di Claudio Calabrò


Taliesin, il Bardo

Taliesin
11-10-2013, 08.58.46
IL SOGNO DELL'ETERNA GIOVINEZZA: MARIA, LA GIUDEA.

Nel mondo dei nostri antichi sapienti che credevano e basavano i loro studi esperenziali sul potere della trasformazione attraverso il fuoco con la realizzazione del grande sogno: l’immortalità e l’eterna giovinezza.

E’ in questo universo antico che troviamo una delle poche, forse l’unica, donna alchimista ricordata, Maria la Giudea .

Maria visse forse nel XIII secolo a.C. e fu sorella di Mosè ma più probabilmente la sua esistenza si svolse intorno al III secolo d.C. periodo in cui gli studi alchemici erano al massimo del loro fulgore.
Ed ecco apparire Maria nella nostra mente… bellissima donna dai lunghi capelli rossi e dai grandi occhi verdi….
Maria in grado di incantare l’universo maschile grazie a capacità dialettiche e percezioni magiche che la rendevano in grado prevedere il futuro.
Dal fuoco dei suoi esperimenti nuvole di fumo si elevavano e in essi Maria coglieva messaggi ben più sottili.

Dalla logica maschile di sfruttamento lei leggeva il deprecabile egoismo e l'intenzione di sfruttare la natura per piegarla secondo una volontà utilitaristica; il sogno alchemico di trasformare il metallo in oro e tutto il tempo speso dai suoi colleghi per questo scopo era per lei svilimento del creato.

Maria invece lavorava per riuscire ad entrare in sintonia con questo stesso creato e per ogni singola pianta, pietra, frutto, fiore, metallo ne coglieva la parte magica, liberandola a beneficio di tutti.
Recita di Maria la famosa frase ermetica:
“il risultato atteso non ci sarà se non impareremo a rendere incorporei i corpi e corporee le cose prive di corpo…”

Nasce la Magia alchemica improntata sul corpo femminile che può dar vita e rendere corporea attraverso l’incarnazione l’anima umana, nasce lo strumento alchemico del “bagnomaria”.

Tutti conosciamo il bagnomaria in quanto normalmente utilizzato come tecnica di cottura; (sfruttare il calore rilasciato dall’acqua in ebollizione per evitare di sottoporre l’alimento a sbalzi termici), ma non tutti sanno che il pensiero di Maria e la Sua grande invenzione si ispirarono proprio al calore dolce e tiepido di trasformazione generato all’interno dell’utero femminile che determina la crescita e lo sviluppo miracoloso del feto.

Ed è a giugno in questo momento dell’anno che richiamiamo alla mente questa metodologia alchemica ben sintonizzata con l’energia del sole in cancro. Il Cancro, la grande madre, l’avvolgenza del ventre materno, il segno d’acqua che è l’acqua del liquido amniotico che protegge e dà nutrimento.

Ed è in sintonia con l’essenza del mese del Cancro che penseremo ad un rito magico in onore di Maria la Giudea e di tutte le donne a cui il periodo dominato dal pianeta Luna è dedicato, integrando assieme anche il grande sogno alchemico dell’eterna giovinezza.

Nel Basso Medioevo altre donne iniziate alla rinascennte alchimia, usarono il nome dimenticato ed oscuro di Maria, la Giudea per nuovi riti legati al suddetto sogno alchemico, ma, tra le incomprensioni degli Uomini, le sentenze e condanne dei Puritani, queste donne furono chiamate "semplicemente" Streghe, ma questa, come sappimo bene, è certamente un'altra storia...

tratto da: www.ilcerchiodellaluna.it (http://www.ilcerchiodellaluna.it/)

Taliesin, il Bardo

elisabeth
11-10-2013, 15.23.15
In voi ritrovo sempre ....la vaglia di far conoscere la vita delle donne...quando gli uomini amavano farne dimenticare l'esistenza.........

Taliesin
11-10-2013, 15.34.09
Madonna...ringrazio la vostra innata sensibilità che si unice alla mia estrema comprensione per l'universo femminile...ma uno dei motivi che mi ha spinto a ricercare di queste Donne e di queste mie canzoni, è che i cosiddetti Secoli Bui sono tornati prepotentemente in quest'epoca nefasta e violenta, dove certi Uomini continuano a cancellare l'esistenza stessa della Donna che in altri termini sarebbe l'unica ancora di salvezza per l'Uomo, inteso come Umanità.

Taliesin, il Bardo

Taliesin
19-11-2013, 15.17.25
LA GIUDICHESSA DI SARDEGNA: ELEONORA D'ARBOREA.

Esile nella corporatura quanto energica e vigorosa nel carattere, EleonoraD’Arborea, nobildonna sarda, portò con la storia di cui lei stessa si volle rendere protagonista, un vero e proprio cono di luce sulla capacità delle donne di essere strateghe.
Quella che da tutti è ricordata come la “giudichessa” nacque in Catalogna intorno al 1340 da Mariano de Bas – Serra e da Timbra di Roccabertì ed ebbe due fratelli, Ugone e Beatrice. La sua vita si svolse e riguardò la Sardegna dove nel 1347 il padre Mariano venne nominato giudice dalla Corona de Logu, assemblea dei notabili, prelati e funzionari delle città e dei villaggi dell’isola.

Prima della morte del padre, Eleonora aveva sposato Brancaleone Doria, un matrimonio dettato dall’esigenza di creare un’alleanza tra gli Arborea e i Doria da frapporre agli Aragonesi. Dal matrimonio nacquero due figli: Federico e Mariano.

Nel 1382 Eleonora prestò 4000 fiorini d’oro a Nicolò Guarco, doge della Repubblica di Genova, il quale si impegnò a restituirli entro dieci anni; in caso contrario il doge avrebbe dovuto non solo pagare il doppio della somma che gli era stata prestata ma anche concedere sua figlia Bianchina al figlio di Eleonora, Federico. Il prestito di una tale ed ingente somma di denaro ad una delle più potenti famiglie di Genova e le clausole del contratto, erano già segni del disegno dinastico che la futura giudichessa aveva in mente.

Inoltre, accordando quel credito, Eleonora intendeva mantenere alto il prestigio della sua famiglia, riconoscere l'importanza degli interessi liguri e assicurarsi un collegamento, mediante la rete delle loro navi, con tutti i porti del mediterraneo. In sostanza Eleonora D’Arborea con questo passo entrò alla pari nel gioco della politica europea.

Quando il fratello Ugone III, che era a capo del giudicato, si ammalò si profilò il problema della successione ed Eleonora si rivolse al re d’Aragona perché sostenesse suo figlio piuttosto che il visconte di Barbona, vedovo di sua sorella Beatrice. A trattare con il re inviò il marito Brancaleone, il quale però venne trattenuto dal re che ne fece un ostaggio e uno strumento di pressione contro Eleonora.

Il disegno di Eleonora, che gli spagnoli avevano intuito, era quello di riunire nelle mani del figlio due terzi della Sardegna che Ugone aveva occupato. Così il re non ritenendo opportuno avere una famiglia tanto potente nel suo regno, tanto più che non essendoci erede diretto maschio di Ugone quei possedimenti, secondo la "iuxta morem italicum", avrebbero dovuto essere incamerati dal fisco, trattenne Brancaleone col pretesto di farlo rientrare in Sardegna non appena una flotta fosse stata pronta.

Ma la risposta di Eleonora non si fece attendere. La donna punì i congiurati e si proclamò giudichessa di Arborea secondo l'antico diritto regio sardo, per cui le donne possono succedere sul trono al loro padre o al loro fratello.

Nella prassi e negli orientamenti di governo la giudichessa si riallacciò direttamente all'esperienza del padre abbandonando definitivamente la politica antiautoritaria del fratello Ugone III. Punti nevralgici della suo governo furono la difesa della sovranità e dei confini territoriali del giudicato e, infine, l'opera di riordino e di sistemazione definitiva degli ordinamenti e degli istituti giuridici locali che diede vita alla Carta de Logu.
La Carta de Logu fu il fiore all’occhiello della politica di Eleonora d’Arborea e fu definita come un distillato di modernità e saggezza. Nel reagire ai tentativi di infeudazione aragonese, Eleonora emanò, infatti, una nuova disciplina giuridica nei propri territori, i quali erano in uno stato di perenne agitazione politica.

Tale legislazione non era episodica o sporadica ma era la componente di una più vasta politica intesa allo sviluppo dello stato degli Arborea. Tra le norme più importanti sono da citare quelle che salvavano dalla confisca “i beni della moglie e dei figli, incolpevoli, del traditore” , i quali secondo quanto disposto dal parlamento aragonese del 1355, diventavano servi del signore della terra.

Inoltre la giudichessa inserì anche una norma che permetteva il matrimonio riparatore alla violenza carnale subita da una nubile solo qualora la giovane fosse stata consenziente. Altri esempi della portata innovativa della carta sono la contemplazione del reato di omissione di atti d'ufficio, la parità del trattamento dello straniero a condizione di reciprocità, ed il controllo, attraverso "boni homines" delle successioni"ab intestatio" in presenza di minori.

Dopo essere riuscita a completare il progetto del padre di riunire quasi tutta l'isola sotto il suo scettro di giudichessa reggente, tenendo in scacco e ricacciando ai margini dell'Isola, in alcune fortezze sulla costa, gli aragonesi, Eleonora vide crollare il suo progetto per un’imprevedibile incognita della sorte: la peste, che consegnò, senza combattere, la Sardegna agli Aragonesi.

tratto da: "Una Donna stratega a capo della Sardegna" di Tiziana Bagnato.

Taliesin, il Bardo

elisabeth
20-11-2013, 14.01.33
E come sempre amato Bardo...avete aggiunto il nome di altra Donna.....e lo avete dedicato ad una popolazione che sta soffrendo......la vita e' una strana cosa.....si piange sulla morte ma con le mani vuote si ricostruisce una nuova vita..........

Taliesin
20-11-2013, 15.02.50
Madonna Elisabetta...
La Vostra Perla di Speranza e di Saggeza ha solcano i confini degli uomini, ormeggiando nel mare delle solituidni e degli abissi ignoti, posandosi sulle coscenze e sui cuori di ogni spazio temporale...
Grazie per esserci stata, là, dove osano in pochi, per sempre...sempre.

Taliesin, il Bardo

Taliesin
08-01-2014, 12.43.13
LA MADRE DEL SUFISMO: RABI'A AL-'ADAWIYYA AL -'QAYSIYYA.
ابعة العدوية القيسية,

Quarta figlia di una famiglia molto povera (da cui il suo nome proprio, che significa "quarta"), secondo alcuni sarebbe stata una suonatrice di flauto (nay), quindi dai più bigotti considerata una peccatrice. Il poeta medievale Attar scrisse nel XIII secolo le Storie e detti di Rabi‘a, sottolineando la sua autorità tra i mistici e la sua santità. Nonostante ciò, quanto sappiamo di lei è semplice leggenda, quindi per lo più inattendibile, ma che dà comunque un’idea della sua personalità e della stima di cui godeva.

Secondo ʿAṭṭārʿ la sua vita fu segnata fin dall’inizio da eventi miracolosi La notte della sua nascita non c’era una lampada in casa, né fasce in cui avvolgere la neonata. La madre chiese al marito di andare a chiedere petrolio per la lampada al loro vicino, ma egli aveva promesso a se stesso che non avrebbe mai chiesto aiuto a nessuno, quindi tornò a mani vuote. Si addormentò turbato per non aver provveduto alla figlia. Il profeta Muhammad gli apparve in sogno e gli disse: «Non dispiacerti poiché questa figlia appena nata è una grande santa, la cui intercessione sarà desiderata da settantamila persone della mia Umma». Aggiunse poi di mandare una lettera ad ʿĪsā Zadhan, emiro di Basra, «ricordagli che ogni notte è solito dedicarmi cento preghiere e quattrocento il venerdì, ma questo venerdì mi ha negletto e come penitenza dovrà darti quattrocento dinar». Il padre di Rābiʿa si svegliò in lacrime e subito scrisse e mandò la lettera all’emiro, che dopo averla letta ordinò di dare quattrocento dīnār al povero padre e volle incontrarlo.

Divenne presto orfana, e la carestia costrinse le sue sorelle a separarsi. Mentre se ne andava errando senza meta, fu catturata da un mercante di schiavi che la vendette per poche monete (sei dirham) a un ricco signore che le impose lavori pesanti. Digiunava per tutto il giorno, dedicando la notte alla preghiera. La sua devozione per Dio era fortissima. Il suo padrone percepì la sua illuminazione vedendola pregare una notte, avvolta di luce. Trasalì vedendo quella luce meravigliosa e restò a pensare tutta la notte. La mattina dopo decise di liberarla affinché perseguisse il suo percorso spirituale. Rābiʿa allora si diresse nel profondo deserto dove iniziò la sua vita solitaria e ascetica.

La sua scelta dell’Assoluto era così totale da implicare perfino la verginità (cosa malvista dall’Islam). Rimase nubile nonostante le svariate richieste di matrimonio (tra cui quella di Muḥammad b. Sulaymān al-Hāshimī, emiro di Baṣra). Rābiʿa era già spiritualmente "sposata" con Dio, e a chi le chiedeva il motivo di tale celibato rispondeva: «Non ne ho il tempo». Dovendosi occupare della purezza della sua fede, delle opere da presentare a Dio, e della sua salvezza nel giorno della risurrezione, il matrimonio l’avrebbe semplicemente distratta da Dio.
Fu un simbolo di purezza ed ascetismo. Visse e portò alle estreme conseguenze l’esigenza di radicalità propria del Corano. Scelse volontariamente la povertà e l’abbracciò con fervore per tutta la vita. Si vergognava di chiedere qualcosa dei beni di questo mondo perché «questi non appartengono a nessuno, chi li ha in mano li ha soltanto in prestito». Confidava unicamente in Dio per il proprio sostentamento. Visse come reclusa, ma dalla sua misera capanna si diffuse dovunque il suo insegnamento. I sapienti del suo tempo si consideravano privilegiati di parlare con lei dei misteri di Dio. Nel suo rifugio si dedicò inoltre ad opere pietistiche. ʿAṭṭār racconta che una notte al-Hasan al-Basn e alcuni suoi compagni andarono da Rābiʿa. Non essendoci lampade, Rābiʿa si mise in bocca la punta delle dita e quando le trasse fuori queste irraggiarono luce fino all’alba.

Si dice che pregasse migliaia di volte al giorno e che dormisse pochissimo. «Pregava tutta la notte, e quando cominciava ad albeggiare faceva un breve sonno sul suo tappeto per la preghiera fino al sorgere dell’aurora». Non ebbe alcun maestro spirituale, rivolgendosi direttamente a Dio. Rinunciò a tutti i beni del mondo e a qualunque desiderio, dedicando la sua intera vita alla devozione per Dio, al Suo servizio, alla Sua contemplazione e all’estasi: «Strappai dal mio cuore ogni attaccamento alle cose del mondo e distolsi il mio sguardo da ogni realtà mondana».
Affermava che perfino i desideri più puri fossero distrazione ed ostacolo, perché «Dio solo dev’essere cercato, e tutto ciò che non è Dio è mondo, è idolo e vano… L’amore per il creatore mi ha distolto dall’amore per le creature… La continenza nelle cose del mondo è riposo del corpo, il desiderarle procura afflizione e tristezza… L’Inviato di Dio ha detto che chi ama una cosa la ricorda di continuo, il ricordare il mondo mostra la vanità dei cuori. Se foste immersi in Chi è altro da esso non lo ricordereste». Considerava perfino la redazione dei libri di hadith come "cosa del mondo", e vanità la Ka'ba: “La Casa è un idolo adorato sulla terra, è pietra».
Anche l’amore per Maometto era da lei considerato una distrazione: «L’amore di Dio ha riempito il mio cuore a tal punto che non c’è restato posto per amare o detestare un altro»... «Il paradiso stesso non è nulla rispetto a Colui che lo abita… Il vicino prima della casa» (detto divenuto comune tra gli Arabi). Disse: «Io custodisco il cuore perché non permetto che esca nulla di ciò che è dentro di me né che entri nulla di ciò che è fuori». Le sue preghiere non erano finalizzate all’intercessione ma alla comunione con l’ Amato, la Sua visione e la Sua conoscenza. Bramava l’incontro con Dio, l’unico desiderio e l’unica pena che le rimaneva e che l'assillava e la faceva disperare. Si dice che gemesse di continuo perché affetta da una malattia la cui unica medicina era la Sua visione. «Ciò che mi aiuta a sopportare questa malattia è la speranza di realizzare i miei desideri nell’aldilà». Affermava che Dio non dovesse essere adorato per timore di essere puniti o nella speranza di ottenere un riconoscimento ma per un amore fine a sé stesso. «Per la potenza tua, io non ti ho servito desiderando il tuo paradiso. Non è questo il fine a cui ho rivolto tutta la mia vita». Avrebbe voluto andare "in cielo, per gettare il fuoco nel paradiso e versare l’acqua nell’inferno", in modo che lo sguardo potesse rivolgersi soltanto a Dio "senza speranza né timore". Diceva che il pentimento poteva esserci solo se Dio concedeva prima il perdono "Tu ti pentirai se Dio ti perdona". La sua preoccupazione perenne era di conformarsi alla volontà di Dio in tutto ciò che capita, attraverso un totale annientamento di sé stessa. «Sono del mio Signore e vivo all’ombra dei suoi comandi. La mia persona non ha alcun valore».

Si dice iperbolicamente restasse quarant’anni senza alzare la testa tanto si vergognava di fronte a Dio. Le fu chiesto "Donde sei venuta?" |Dall’altro mondo". "E dove sei diretta?" "All’altro mondo". "E cosa fai in questo mondo?" "Me ne prendo gioco. Mangio del suo pane e compio l’opera dell’altro mondo".

Morì ad ottant’anni. La sua morte fu semplicissima. Una tradizione riferisce che fu sepolta a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, luogo privilegiato di sepoltura per i pii musulmani, e che la sua tomba divenne meta di devoti pellegrinaggi.

Taliesin, il Bardo

tratto da: wikipedia, l'enciclopedia del sapere.

Altea
08-01-2014, 15.06.42
Questa storia mi ha veramente affascinata...una grande donna di luce..un grande insegnamento..del distaccamento delle cose materiale e superflue, cosa assai difficile di cui solo una donna altamente miracolata come lei è forse riuscita a fare.
Grazie sir Taliesin...

Taliesin
08-01-2014, 15.19.25
Grazie per la vostra luce che si è fatta emozione lady Aldea...

Taliesin, il Bardo

elisabeth
08-01-2014, 21.55.59
Il Sufismo e' opera altamente spirituale.....se si guarda danzare un sufi egli lo fa, con un braccio rivolto verso l'alto e l'altro verso il basso...per indicare il cielo la terra l'unità delle cose.......Un'altra donna.......di cui ho preso consapevolezza....

Taliesin
09-01-2014, 10.01.17
Madonna Elisabetta...
la vostra consapevolezza è insita in voi dal giorno della creazione, e se questa Donna, nella sua danza, ha risvegliato in voi ricordi ancestrali, è solo perchè appartenete a quel tipo di creato.
Il resto, come sempre, è solo silenzio
Grazie...

Taliesin, il Bardo

Taliesin
13-01-2014, 09.00.18
UNA GRECA SUPERBA: ANNA COMNEA.

Nata a Costantinopoli il 2 dicembre 1083 dall’imperatore Alessio I Comneno e Irene Ducaena, Anna, oltre che per la vivace intelligenza e la ponderosa preparazione culturale, si segnalò anche per il carattere ambizioso e incline all’intrigo che la portò a vivere giorni tempestosi quando, alla morte del padre cercò di impedire l’ascesa al trono dell’odiato fratello Giovanni.

La piccola Anna, infatti, poco dopo la nascita, era stata promessa sposa a Costantino Ducas, adottato da Alessio e proclamato co-imperatore e suo diretto successore, poiché la coppia reale non aveva alcun figlio maschio.

Con la nascita di Giovanni II Comneo (1087), non fu più necessario far continuare il prematuro fidanzamento di Anna e Costantino, che venne sciolto. Alessio I aveva ora il suo legittimo erede, e Anna aveva soltanto potuto assaporare quella posizione di potere, che vagheggerà per tutta la vita.

All’indomani della morte del padre Anna iniziò a ordine trame oscure alle spalle del fratello, appoggiata dalla madre, e trascinò nella congiura il marito Niceforo Briennio. Pur di arrivare al trono, era disposta a uccidere Giovanni. Aveva sete di potere, Anna.

Le cose non andarono però come aveva sperato. Il marito, stratega e uomo di grande cultura, non osò uccidere il cognato. Così Giovanni, venne eletto imperatore il 15 agosto 1118. Egli decise di non punire la sorella cospiratrice: Anna fu spedita in un convento.

Nonostante questo il matrimonio con Niceforo fu felice e dalla loro unione nacquero quattro figli.

Alla morte di Niceforo, Anna si assunse l’incarico di colmare la lacuna lasciata dal consorte: stava infatti lavorando all’opera “Materiali per una storia”, dedicata al suocero Alessio, quando la morte lo colse nel 1137.

Dopo la morte del marito Anna si dedicò sempre più intensamente all’Alessiade, che con i suoi toni epici e con la sua monumentalità è una delle opere più pregevoli della letteratura bizantina. In quindici libri, narra della vita e del regno di Alessio I Comneno. Si può ben dire che Anna eresse con mano maestra un monumento perenne al padre. L’opera termina nel 1148 con la morte della principessa Comnena.

Sono molti i motivi per i quali vale la pena sottolineare il posto di rilievo assunto dall’Alessiade. Ci offre preziose informazioni sul regno di Alessio I (1081-1118). Dall’infanzia prodigio del futuro imperatore, alle imprese militari nelle quali si cimentò, alla fermezza e determinazione con la quale riuscì a sconfiggere l’eresia dei Bogomili. È sbagliato considerare quest’opera solo come un elogio tra retorico e patetico dell’imperatore.

È indubbio il valore dello sguardo che Anna ci consente di rivolgere al mondo bizantino del suo tempo. Era infatti un personaggio di rilievo a corte, e disponeva di testimonianze e documenti originali, in qualsiasi momento.

Nonostante ciò, bisogna tenere presente come talvolta Anna manchi di l’obiettività, celando avvenimenti che metterebbero in cattiva luce il padre.

Ma che sia una delle fonti storiche più preziose dell’epoca è una certezza, fatto proclamato all’uninsono dagli storici moderni. Per esempio per le vicende inerenti alla Prima Crociata, di cui ci offre il punto di vista bizantino.

Quest’opera è poi uno specchio per poter comprendere la profonda formazione culturale della principessa cresciuta tra il mondo greco di Omero, Eschilo e Euripide e quello latino di Achille Tazio che tanto la influenzò nel tratteggiare il carattere dei protagonisti della sua Alessiade.

Non dimentica mai, Anna, di sottolineare la vastità della sua erudizione, tendendo così talvolta alla vanagloria. Ma era parte di quel carattere passionale che emerse anche per il costante e sincero attaccamento alla coppia reale, lodata sovente, addirittura per il bell’aspetto.

“Straordinario, davvero incomparabile, era l’aspetto fisico della coppia imperiale, Alessio e Irene. Nessun pittore potrebbe riprodurre questo modello di assoluta bellezza, nessuno scultore riuscirebbe a infondere tanta armonia alla nuda pietra.” (Alessiade III, 3, 1-4)

E continua Anna narrando come mai mancò di rispetto ai genitori. Ci dice che il padre Alessio I era impegnato in una spedizione, quando Irene capì che era giunto il momento di mettere alla luce Anna. Ma la donna pregò la nascitura affinché attendesse il ritorno del padre per venire al mondo. Anna ci spiega che ascoltò l’ordine materno dimostrando chiaramente, fin da quando era nel seno materno, il docile affetto che in seguito avrebbe nutrito per i genitori.

Questa era veramente Anna: una tempesta di sentimenti contrastanti e ambizioni spregiudicate, una donna dall’alterigia schiacciante. Una smania di potere indice di forza e sicurezza interiore da un lato, e di fragilità estrema dall’altro.

Anna era un “greca superba”, “avida”, che non vedeva niente al di fuori della propria opera: questo il filo rosso dal quale Kavafis si sentì legato alla principessa comnena.

tratto da:www.instoria.it

«Nel preambolo all’Alessiade, Anna
Comnena lamenta la sua vedovanza.

L’anima ha le vertigini. “Da fiumi
Di lacrime” essa ci dice “gli occhi
sono sommersi… Ah, che tempeste” in vita,
“ah, che sommosse!” La bruciante pena
“al midollo” la strugge, “fino a spezzarmi l’anima”.

La verità è un po’ diversa, pare che un solo
acerbo dolore conobbe questa donna avida,
una sola pena profonda ebbe (benché
ce lo nasconda) questa greca superba,
di non aver saputo, lei così capace,
mettere le mani sulla corona-che le soffiò,
per così dire, quell’insolente di Giovanni.»

Così, in una delle sue poesie, il poeta e giornalista alessandrino Constantinos Kavafis (1863-1933), ci descrive Anna Comnena

Taliesin, il Bardo

Taliesin
16-01-2014, 11.14.43
IL RICAMO DI DIO: MARIA DI GIRONA.

Alcune artiste ricamatrici vollero lasciare il loro nome alla storia. In Catalogna si sono conservate due memorabili opere ricamate firmate da donne: la cosiddetta “Stola di San Narciso”, tessuta e ricamata da Maria, e “L’insegna o stendardo di San Ottone”, di Elisava.

E' sembrata molto suggestiva l’ipotesi di identificazione della ricamatrice Maria con la badessa María di Santa Maria de les Puelles di Girona. Dell’antico monastero abbiamo ben poca informazione, ma i pochi riferimenti sono estremamente interessanti. Sappiamo che la viscontessa di Narbona, Riquilda, figlia dei conti di Barcellona Wifredo II e Garsenda, nel suo testamento, lasciava parte dei beni perché il vescovo di Girona costruisse entro due anni un monastero davanti alla città, in onore di Santa Maria, anche se non specificava che fosse di monache. Il conte Borrell II, suo cugino primo, nel testamento faceva donazione di alcuni beni allodiali (cioè senza vincoli feudali) alla casa di Santa Maria de les Puelles di Girona, che nel 992 aveva una comunità femminile.

Degli avvenimenti di questo monastero restano poche tracce documentali, cosicché queste donne sarebbero quasi perdute per la storia; ma una lapide sepolcrale, datata alla fine del X secolo, ci permette di identificare una religiosa che voleva essere ricordata, come se lei e le sue compagne temessero che il silenzio si portasse via per sempre il suo ricordo. Sul sepolcro si parla di ricordo e di memoria:

“Maria di venerabile ricordo, che si è impegnata ogni giorno della sua vita in sante opere e nei comandamenti; perseverante, assolutamente, nelle elemosine, molto devota alle memorie e orazioni dei santi, conservando con cura estrema la regola del monastero, rimane nella verginità di Dio.”

Maria voleva lasciare traccia e lo fece nel modo che conosceva. Nella parrocchia di Sant Feliu di Girona si conserva una stola magnificamente tessuta e ricamata, conosciuta come “la stola di San Narciso”, sulla quale appaiono delle parole che identificano Maria come l’autrice del lavoro. Sono state fatte diverse ipotesi sulla datazione del ricamo e del tessuto della stola. Noi abbiamo trovato estremamente interessante quella pubblicata da Mundò, che identifica l’artista del telaio e del ricamo con la badessa Maria citata nella lapide sepolcrale, cioè con un’artista della fine del X secolo.

Con la stola Maria realizzerebbe il desiderio di essere ricordata firmando il lavoro, e darebbe validità a ciò che si dice nell’epitaffio: “impegnata in sante opere e nella devozione alla memoria dei santi”. Cosicché la stola fu prodotta da Maria forse per il nuovo sepolcro di Sant Feliu, costruito all’epoca del vescovo Miró Bonfill, morto nel 984, o per quello di San Narciso, con cui popolarmente si identifica la stola.

Il lavoro della monaca artista non è solo di grande bellezza, ma mostra anche una notevole erudizione. Tra le frasi che si possono leggere nel tessuto c’è un frammento appartenente alle “Laudi” che si cantavano all’incoronazione dei re carolingi. Inoltre contiene la benedizione episcopale che si dava alla fine della messa. Comunque vorremmo mettere in evidenza una delle frasi del tessuto che orla la stola:

“[Ricorda,] amico, Maria mi fece, chi porterà questa stola su di sé, interceda per me affiché Dio mi aiuti”.

Benché la parola “sappi” o “ricorda” risulti lacunosa nel tessuto, possiamo permetterci di interpretarla in questo modo; Maria voleva essere ricordata, era consapevole di aver fatto un lavoro elaborato e bello. Sarebbe anche da commentare la parola “amice”, l’espressione del sentimento dell’amicizia usata al vocativo, che ci sembra tanto grafico, con cui questa donna del X secolo si rivolgeva affettuosamente a chi avrebbe portato la stola, e a noi che più di mille anni dopo la contempliamo. Quando nel 1018 la contessa Ermesenda fondò Sant Daniel di Girona non sembra restasse traccia dell’antico monastero femminile di Santa Maria; è come se la preoccupazione di Maria di non essere dimenticata avesse un fondamento, come se lei sapesse che la sua comunità aveva i giorni contati.

A parte le lettere che adornano, su tessuto rosso, il contorno della stola, in mezzo e alle due estremità figurano dei magnifici ricami a colori forti e caldi, alcuni fatti in filo d’oro. A una delle estremità c’era un san Lorenzo, molto malconcio, nell’altra il battesimo di Cristo, e in mezzo c’è quello che consideriamo il più bel ricamo, con l’immagine della Madre di Dio con il vestito dorato e con il lemma “Santa Maria ora pro nobis”.

tratto da:www.ub.edu.it

Taliesin, il Bardo

Taliesin
16-01-2014, 11.23.32
LO STENDARDO DI DIO: ELISEVA DA BARCELLONA.

Il ricamo di Maria non è l’unica opera d’arte firmata da una donna.
Eliseva firmò il cosiddetto stendardo di San Ottone, che, proveniente dalla Cattedrale di Urgell, si conserva presso il Museo dell’abbigliamento di Barcellona. Qualche storico dell’arte considera Elisava una committente dell’opera, noi non condividiamo questa teoria, pensiamo che la recisa affermazione “Elisava me fecit” abbia a che vedere con il lavoro reale, non solo con il pagare o patrocinare l’opera.

Lo stendardo ricamato, in toni rossicci e dorati, di seta su un tessuto di lino, conservato presso il Museo dell’abbigliamento di Barcellona, potremmo datarlo intorno al XII secolo. L’opera è incentrata sulla figura del Salvatore dentro la mandorla mistica avvolta nei simboli degli evangelisti e ornata da un bordo di motivi vegetali. Dallo stendardo pendono tre strisce della medesima stoffa, anch’esse ricamate con figure oranti od offerenti, che sono evidenti figure femminili, cosa che ha fatto pensare a qualcuno che la figura centrale potrebbe rappresentare Elisava, committente del ricamo; ma è solo un’ipotesi, che non condividiamo.

Per noi Elisava è la ricamatrice; in ogni caso, se l’esperta e delicata ricamatrice non fosse questa donna di cui conosciamo solo il nome ma non il lignaggio, sarebbe un’altra donna, più anonima, ad aver realizzato il magnifico lavoro. Comunque sia, l’unità e la bellezza dell’opera ci fanno pensare a una grande compenetrazione tra chi la ordinò e chi la realizzò. Potrebbe essere stata Elisava l’artista e la committente allo stesso tempo?

Un’altra ipotesi: se identifichiamo il destinatario dello stendardo in San Ottone vescovo di Urgell, figlio di Lucía de la Marca e del conte Artau I de Pallars Sobirà, morto nel 1122, possiamo dire che proprio l’immagine offerente che figura in mezzo allo stendardo ci ricorda il dipinto in cui appare Lucia, madre di sant’Ottone, che offre il murale del monastero di Sant Pere del Brugal.

tratto da:www.ud.ebu.it

Taliesin, il Bardo

Taliesin
16-01-2014, 15.09.18
L'AMORE OLTRE L'AMORE: KASSIA DA COSTANTINOPOLI.

Nata probabilmente attorno all'anno 810 a Costantinopoli da una famiglia aristocratica greco-bizantina, è stata una delle prime compositrici medioevali di cui ci siano pervenute un numero notevole di opere, tanto che i musicologi ed i musicisti hanno avuto modo di poter studiare le sue composizioni. Il complesso della sua opera è costituito da circa cinquanta inni, di cui ventitré fanno parte della liturgia della chiesa ortodossa. Il numero esatto dei suoi lavori è comunque imprecisato visto che diversi inni vengono ascritti a diversi autori, in manoscritti diversi, e sono spesso identificati come anonimi.

Oltre agli inni, ci sono pervenuti 261 versi di carattere profano, molti dei quali sono degli eppigrammi e degli aforismi chiamati versi gnomici.
Indichiamo di seguito un esempio:
"Odio l'uomo ricco che si lamenta come se fosse povero."
Tre cronisti bizantini dell'epoca, Simeone il logotete, Giorgio il monaco (anche detto Giorgio il peccatore) e Leo il grammatico, sostengono che ella partecipò ad un ricevimento in cui l'imperatore Teofilo di Bisanzio avrebbe dovuto scegliere la sua sposa, consegnando alla prescelta, come d'uso, una mela d'oro.

Affascinato dalla bellezza di Kassia, il giovane imperatore l'avvicinò e le disse: "Attraverso una donna si distillano le passioni più vili (riferendosi al peccato originale di Eva)". Kassia gli rispose dicendogli: "Ma attraverso una donna giungono le cose migliori (riferendosi alla nascita di Gesù)."

Per orgoglio Teofilo scelse un'altra sposa, Teodora.

Dopo questo episodio, ella fondò un monastero ad ovest di Costantinopoli di cui divenne la badessa. Nonostante molti studiosi attribuiscono questo suo comportamento all'amarezza per il mancato matrimonio con l'imperatore, una lettera di Teodoro Studita indica che ella aveva altre motivazioni per scegliere una vita monastica. Queste erano in stretta relazione con il vicino Monatero di Studion che giocò un ruolo centrale nella riedizione della liturgia bizantina fra il IX e il X secolo. Questa situazione ha contribuito a che le opere di Kassia siano giunte intatte sino ai nostri giorni.

Ella scrisse molti inni per la liturgia cristiana, il più famoso dei quali è Inno di Kassiani che viene cantato il martedì santo. La tradizione dice che l'imperatore Teofilo, che era innamorato di Kassia, chiese di vederla ancora una volta prima di morire. Si recò pertanto al monastero di Kassia. Ella stava scrivendo il suo Inno quando udì che l'imperatore voleva vederla.

Ella era ancora innamorata di Teofilo ma ormai aveva dedicato la sua vita a Dio e scacciò dalla sua mente questo pensiero per evitare che lo stesso potesse sovrastare il suo sentimento religioso. Lasciò così il suo inno incompiuto sul tavolo e si nascose dietro una porta. Teofilo entrò da solo nella cella ma non trovò Kassia. La cercò nella cella ma lei non era lì; nascosta lo guardava. Teofilo era molto triste, pianse e rimpianse di aver, in un moto di orgoglio, respinto una si bella ed intellettuale donna.

Poi notò l'inno incompiuto giacente sul tavolo e lo lesse. Quando lo ebbe letto si sedette al tavolo e terminò l'inno che Kassia aveva lasciato incompleto. La leggenda dice che mentre stava per andar via intravide Kassia ma non le parlò. Ella entrò nella stanza dopo che Teofilo era andato via, lesse quanto egli aveva scritto e pianse accoratamente.

Taliesin, il Bardo

tratto da:www.wikipedia.it

elisabeth
16-01-2014, 18.27.59
Una storia bellissima....e in Amore l'orgoglio non paga mai....L'Imperatore ha pagato a caro prezzo il suo conto.....rendendo infelice un'altro essere umano...

Taliesin
10-02-2014, 15.06.01
UNA VITTIMA DIMENTICATA : IPAZIA DA ALESSANDRIA.

Un giorno per le strade di Alessandria d'Egitto, nel corso dell'anno 415 o 416, una folla di fanatici cristiani guidati da Pietro il Lettore ha catturato una donna, l'ha trascinata in una chiesa, dove è stata spogliata e picchiata a morte con delle tegole. Hanno poi fatto a pezzi il suo corpo e l'hanno bruciato.


Chi era questa donna e qual'era il suo crimine?

Ipazia è stata, nell'antica Alessandria, una delle prime donne a studiare e insegnare la matematica, l'astronomia e la filosofia. Anche se viene ricordata più per la sua morte violenta, la sua vita drammatica è un obiettivo affascinante attraverso cui si può visualizzare la situazione della scienza in un'epoca di conflitti religiosi e settari.


Fondata da Alessandro Magno nel 331 a.C., la città di Alessandria crebbe rapidamente e fu un centro di cultura per tutto il mondo antico. Il suo cuore è stata la biblioteca- museo, una sorta di università, che conservava più di mezzo milione di rotoli e manoscritti racchiusi diligentemente nei loro astucci. Alessandria ha subito un lento declino a partire dal 48 a.C., quando Giulio Cesare conquistò la città e, accidentalmente, bruciò la biblioteca che fu ricostruita. Nel 364, a seguito della scissione dell'Impero Romano, Alessandria divenne parte della metà orientale e fu luogo di combattimenti tra cristiani, ebrei e pagani. Ulteriori guerre civili hanno distrutto gran parte del contenuto della biblioteca. Gli ultimi resti devono la loro scomparsa probabilmente, insieme con il Museo, nel 391, quando l'arcivescovo Teofilo contribuì, agendo su ordine dell'imperatore romano, alla distruzione di tutti i templi pagani. Teofilo buttato giù il tempio di Serapide costruì sul luogo una chiesa.

L'ultimo membro conosciuto del museo è stato il matematico e astronomo Teone padre di Ipazia. Alcuni scritti di Teone sono stati salvati; Il suo commento (una copia di un'opera classica che incorpora note esplicative) su Elementi di Euclide era l'unica versione conosciuta di quel lavoro sulla geometria cardinale fino al 19° secolo. Ma poco si conosce della sua vita e di quella di sua figlia. Anche la data di nascita di Ipazia è controversa; gli studiosi hanno a lungo sostenuto che era nata nel 370, ma gli storici moderni credono che il 350 possa essere l'anno di nascita più probabile. L'identità della madre è un mistero e Ipazia può aver avuto un fratello, Epifanio, anche se può essere stato solo l'allievo prediletto di Teone.

Teone ha insegnato matematica e astronomia a sua figlia, e ha collaborato in alcuni dei suoi commenti. Si pensa che il libro III della versione di Teone di Tolomeo, Almagesto, Il trattato che ha istituito il modello Terra-centrico per l'universo che non sarebbe capovolto fino ai tempi di Copernico e Galileo, era in realtà il lavoro di Ipazia.

Lei è stata una matematica e astronoma ed insegnava tali materie. Lettere di uno dei suoi studenti, Sinesio, indicano che queste lezioni includevano anche come progettare un astrolabio, una sorta di calcolatrice portatile astronomica che sarebbe stato utilizzato fino al diciannovesimo secolo.

Oltre le materie di competenza di suo padre, Ipazia s'è affermata come un filosofo in quella che oggi è conosciuta come la scuola neoplatonica, un sistema di credenze in cui tutto ciò che emana proviene dall'Uno. (Sinesio, il suo studente, sarebbe diventato un vescovo nella chiesa cristiana integrando i principi neoplatonici nella dottrina della Trinità.) Le sue conferenze, aperte al pubblico, sono state popolari e attiravano le folle.

Il filosofo Damascio ha scritto di lei: "La donna era solita indossare il mantello del filosofo ed andare nel centro della città. Commentava pubblicamente Platone, Aristotele, o i lavori di qualche altro filosofo per tutti coloro che desiderassero ascoltarla. Oltre alla sua esperienza nell'insegnare riuscì a elevarsi al vertice della virtù civica."

Ipazia non si sposò mai e probabilmente conduceva una vita da celibe, che forse è stata in linea con le idee di Platone, relativa alla soppressione del sistema familiare. Il lessico Susa, un'enciclopedia del X secolo del mondo mediterraneo, la descrive come "molto belle e di forma. . . nel discorso articolato e logico, le sue azioni prudenti ".

Tra i suoi ammiratori vi era anche Oreste, il governatore di Alessandria. A Teofilo, l'arcivescovo che ha distrutto l'ultima grande biblioteca di Alessandria, nel 412 era succeduto il nipote, Cirillo, che ha continuato la tradizione di suo zio: ostilità verso altre fedi. (Uno dei suoi primi atti fu quello di chiudere e saccheggiare le chiese appartenenti alla setta di Novaziano cristiana.)

Tra Cirillo, il capo del principale gruppo religioso della città, e Oreste, responsabile del governo civile, iniziò una lotta su chi doveva controllare Alessandria. Oreste era un cristiano, ma lui non voleva cedere il potere alla chiesa. La lotta per il potere ha raggiunto il suo picco a seguito di un massacro di cristiani da parte di estremisti ebrei, quando Cirillo ha portato una folla che tutti gli ebrei espulsi dalla città e saccheggiato le loro case e templi. Oreste ha protestato con il governo romano a Costantinopoli. Quando Oreste e Cirillo hanno rifiutato i tentativi di riconciliazione, i monaci di Cirillo hanno cercato senza successo di assassinarlo.

In questo clima, maturò l'omicidio di Ipazia, poiché, riferisce lo storico della Chiesa Socrate Scolastico, «s'incontrava alquanto di frequente con Oreste, l'invidia mise in giro una calunnia su di lei presso il popolo della chiesa, e cioè che fosse lei a non permettere che Oreste si riconciliasse con il vescovo». Ipazia, era un obiettivo più facile. Era una pagana che aveva pubblicamente parlato di una non-filosofia cristiana, il neoplatonismo, ed aveva meno probabilità di essere protetta dalle guardie di Oreste.

Il ruolo di Cirillo nella morte di Ipazia non è mai stato chiaro. Ipazia è diventata un simbolo per le femministe, una martire per i pagani e gli atei. Voltaire ha usato la sua morte come spunto per condannare la Chiesa e la religione.Né il paganesimo, né lo studio scientifico sono morti ad Alessandria con Ipazia, ma certamente hanno subito un brutto colpo.

"Quasi da sola, praticamente l'ultima accademica, si affermò per i valori intellettuali, per la matematica rigorosa, il neoplatonismo ascetico, il ruolo cruciale della mente, la voce della temperanza e la moderazione nella vita civile", ha scritto Deakin.

Vittima del fanatismo religioso, Ipazia rimane una fonte d'ispirazione anche in tempi moderni.

Taliesin, il bardo

elisabeth
10-02-2014, 20.38.02
Amato Bardo.......Ipazia e' una Danna di scienza......che e' spesso citata nel mondo femminile.......crudele la sua morte per mano dell'ignoranza....

Taliesin
13-03-2014, 10.58.09
IL TESORO DI BOLSENA: AMALASUNTA DA RAVENNA

Amalasunta, in gotico Amalaswintha, nacque a Ravenna, tra il 495 e il 500, da Teodorico e dalla franca Audofleda o Audefleda, figlia del re Clodoveo I. Alla morte del re Teodorico, nel 526, il figlio di Amalasunta, Atalarico, succedette al trono del regno ostrogoto in Italia, con a fianco la madre come reggente.

Amalasunta viene descritta da Procopio e Cassiodoro, suo magister officiorum, come una donna colta e raffinata, profonda conoscitrice della cultura romana e delle lingue latina e greca.

Seguendo la politica di pace di suo padre Teodorico, perseguì buoni rapporti tra Goti, Romani e Bizantini, restituendo i beni già confiscati ai figli di Boezio e di Simmaco, e favorendo la nomina di elementi moderati alle maggiori cariche dello Stato. Sorsero tuttavia conflitti con una parte della nobiltà ostrogota, che riuscì a sottrarle la cura dell'educazione del figlio, allo scopo di farne un futuro re che potesse governare secondo le tradizioni degli antenati.

Alla morte del figlio, avvenuta il 2 ottobre 534, Amalasunta divenne regina a tutti gli effetti, associando al trono il cugino Teodato, influente duca di Tuscia, con l'intento di rafforzare la propria posizione. Negli auspici di Amalasunta, Teodato avrebbe dovuto essere un elemento di equilibrio tra gli elementi intransigenti goti sul fronte interno e l'Impero d'Oriente sul fronte esterno. Avvenne invece che Teodato, forse con l’appoggio dell’imperatore Giustiniano, imprigionò la regina sull'isola Martana, nel lago di Bolsena, dove nel giugno 535 Amalasunta venne trovata strangolata.

L'assassinio di Amalasunta diede il pretesto all’imperatore Giustiniano di intervenire in Italia ed ebbe così inizio la lunga guerra greco-gotica.

Miti e leggende vivono ancora oggi su Amalasunta e sulla sua tragica fine: dal suo tesoro mai ritrovato, alla storia con il pescatore Martano, “Tomao”, che nottetempo andava a trovarla portandogli cibo ed amore.

tratta da una storia informale del Lago di Bolsena

Taliesin, il Bardo

Taliesin
17-03-2014, 12.41.38
LA CORTIGIANA DELLA POESIA: VERONICA FRANCO.

«Io sono tanta vaga, e con tanto mio diletto converso con coloro che sanno per avere occasione ancora d’imparare, che, se la mia fortuna il comportasse, io farei tutta la mia vita e spenderei tutto ‘l mio tempo dolcemente nell’academie degli uomini virtuosi…».
(Lettere familiari a diversi, Venezia, 1580)

Poetessa, sì. Ma prima di tutto cortigiana. Veronica Franco viene quindi estromessa dalla storia ufficiale. Eppure a Venezia, nel 1509, secondo i Diarii del cronista dell’epoca Marin Sanudo, c’erano 11.654 prostitute su una popolazione di circa 150mila persone. Il 10% circa della popolazione. Anche a Roma, nella città dei Papi, erano circa il 10%: 6.800 nel 1490 e 4.900 nel 1526. Le prostitute non erano solo numerose: erano anche molto visibili. E su di loro si accaniva non solo il disprezzo pubblico, ma anche la legge: tra Quattrocento e Cinquecento, la Serenissima e il Papa (a cominciare dal feroce san Pio V) emisero un numero impressionante di norme per regolare, contenere, sfruttare, punire, utilizzare la prostituzione. Si diceva già all’epoca che, grazie alle tasse pagate dalle cortigiane, i Papi avessero messo a posto mezza Roma ed edificato quasi l’altra metà.
Benché le misure riguardassero tutte le prostitute, il loro mondo era molto variegato. Veronica Franco, in particolare, fu un’intellettuale completa: scrittrice, musicista, curatrice di raccolte poetiche, saggista. Non fu un caso isolato, anzi. Ma la sua è una storia esemplare.

Veronica nacque nella città lagunare, allora una potenza mondiale. Era l’unica figlia femmina di Paola e Francesco Franco e aveva tre fratelli, Jeronimo, Horatio e Serafino. Questo le permise di condividere la loro educazione e di partecipare alle loro lezioni private. All’epoca, non si usava andare a scuola: la frequentavano soltanto il 4% delle ragazze e il 26% dei ragazzi, secondo dati del 1587. L’educazione dei ragazzi, laddove era prevista, era affidata a insegnanti privati, e soltanto il 10-12% delle donne sapeva leggere e scrivere.

Veronica raggiunse un ottimo livello culturale: segno che dovette continuare a studiare per proprio conto e far tesoro di tutto quello che apprese nei circoli culturali veneziani nei quali fu ammessa. A cominciare da quello, importantissimo, di Domenico Venier, suo pigmalione e mecenate.
La famiglia di Veronica apparteneva alla classe dei “cittadini originari”, un livello sociale a metà strada tra i nobili e il popolo. Ma lei faceva la cortigiana: era il mestiere della madre ed era stata istruita da lei. Non era una prostituta qualsiasi: in teoria aveva una clientela selezionata. Eppure, nelle sue Lettere, nel rispondere a una madre che intendeva avviare la figlia alla prostituzione, scrisse: «S’ella diventasse femina del mondo, voi diventereste sua messaggiera col mondo e sareste da punir acerbamente, dove forse il fallo di lei sarebbe non del tutto incapace di scusa, fondata sopra le vostre colpe». Il che fa pensare che nutrisse rancore verso sua madre: si cominciava da bambine a prostituirsi e non doveva essere una bella esperienza.

Secondo la prassi, Veronica fu data in sposa, quasi adolescente, a un medico, Paolo Panizza. Si separò da lui a 18 anni, quando partorì il figlio avuto da Iacomo o Giacomo di Baballi, il più ricco mercante di Ragusa, oggi Dubrovnik. Sappiamo della separazione perché nel primo testamento, che le donne usavano fare prima del parto, chiese alla madre di riprendersi la dote. I clienti di Veronica erano nobili, prelati, intellettuali e artisti. Nel 1574 vi si aggiunse Enrico di Valois, che dalla Polonia, di cui era re, stava andando a Parigi, per salire sul trono di Francia con il nome di Enrico III. La Serenissima lo accolse con 11 giorni di festeggiamenti, organizzati da artisti come Andrea Palladio, Andrea Gabrieli, Paolo Veronese e il Tintoretto. La Franco non fu soltanto il “regalo” di una notte offerto dalla Repubblica a un prezioso alleato, ma anche, visto il suo acceso nazionalismo, una spia virtuale: le cortigiane potevano approfittare dell’intimità per carpire segreti di Stato a clienti e stranieri di passaggio.

Benché Veronica Franco non si sia quasi mai mossa dalla sua città, se non per un pellegrinaggio a Roma, in occasione del Giubileo del 1575, e per qualche viaggio di “affari” in Veneto, la sua vita è stata ricca di eventi e colpi di scena. In particolare: la sfida con Maffio Venier; il processo davanti all’Inquisizione e la proposta di aprire un istituto per le ex-prostitute.
La sfida con Venier è piuttosto singolare. Venier, poeta vernacolare di antica e potente famiglia, ma uomo inquieto e impulsivo, insultò Veronica in alcuni versi anonimi. La accusò di essere marcia di sifilide - in realtà fu lui a morirne nel 1586. In principio Veronica pensò che l’insulto venisse dal cugino di Maffio, Marco, il suo più celebre (e celebrato) amante che poi sarebbe diventato bailo, ossia ambasciatore, di Venezia a Costantinopoli. Scoperto il vero autore dei versi ingiuriosi Veronica lo sfidò prima a un duello d’armi e poi in una gara di versi. Maffio non accettò la sfida e quindi a noi rimane solo il ritratto di un uomo di sorprendente volgarità (Veronica attribuiva il suo odio per le donne all’omosessualità), che invece la critica letteraria continua a esaltare come grande poeta.

Nel processo davanti all’Inquisizione, che si aprì nell’ottobre del 1580, Veronica fu accusata dalla servitù, che forse cercava così di coprire alcuni furti, di praticare la stregoneria, di mangiare pollastri, uova e formaggi nei giorni di magro e di tenere una bisca in casa. Accuse così potevano condurre al patibolo. Veronica si difese da sola e fu assolta. Noi conserviamo gli atti del processo che oggi ci appaiono invece come un’accusa contro una società misogina e bigotta, che non considerava né peccato né reato, per esempio, che Maffio Venier si comprasse la carica di vescovo di Corfù e la sfruttasse per arricchirsi, o che Marco Venier fosse incaricato di uccidere un presunto traditore della Serenissima, senza sottoporlo a giudizio. Né che i nobili struprassero in gruppo le cortigiane. Ma trovava meritevole di morte una donna che mangiasse carne di venerdì.
Quanto alla fondazione di un Ospizio del soccorso per ex prostitute, Veronica avrebbe voluto utilizzare parte dei patrimoni delle cortigiane più ricche, morte senza fare testamento, soprattutto durante la grande peste del 1575-76. L’ospizio di Veronica non si fece. Se ne crearono altri in cui le ex cortigiane furono di fatto recluse: per “salvarle” occorreva punirle.
Ripescata dalla critica letteraria da oltre un secolo e apprezzata da Benedetto Croce, Veronica Franco sconta però ancora una condanna all’oblio che cancella non soltanto i suoi meriti artistici. Ma anche le sue moderne intuizioni: per esempio Veronica rivendicava la dignità di qualsiasi persona, perfino di chi vende il proprio corpo. «La vergogna - diceva - è nell’alterigia di chi compra».

Taliesin, il Bardo

tratto da www.enciclopediadelledonne.it (http://www.enciclopediadelledonne.it)

Taliesin
17-03-2014, 15.50.34
LA MUSA DEL RINASCIMENTO FIORENTINO: GINEVRA DE' BENCI.

Figlia di Amerigo, nacque nell'agosto 1457 e andò sposa giovanissima nel 1474, quando il padre era già morto, a Luigi di Bernardo Niccolini, di quindici anni più anziano di lei, portando in dote 1400 fiorini.

Risulta da un protocollo del notaio Simone Grazzini da Staggia che il contratto nuziale fu stipulato a Firenze il 15 gennaio 1473: ma questa data, che segue lo stile fiorentino dell'incarnazione, corrisponde in realtà al 1474 (Camesecchi, p. 283): non è quindi la B. la "donna" di Luigi Niccolini morta il 17 agosto 1473, bensì la prima moglie di lui. Cade così la tesi del Ridolfi (p. 455) contraria all'identificazione dei ritratti di Ginevra eseguiti, secondo il Vasari, da Leonardo e dal Ghirlandaio.
Luigi Niccolini, nel 1478 priore e nel 1480 gonfaloniere, aveva ricevuto in eredità dal padre nel 1470, insieme con i fratelli, una drapperia (Möller, p. 198); nel 1480 egli lamentava - ma è probabile che la dichiarazione sia senza valore specifico, dato che si tratta di una denuncia al Catasto - le sue cattive condizioni economiche, ricordando anche le spese che doveva sostenere per la moglie inferma. Egli, nel testamento del 31 marzo 15o5, scritto poco prima della morte, dava ordine che venisse restituita alla moglie la dote, clausola non eseguita, se non in minima parte con un'ipoteca sulla drapperia. Della questione si ha ancora notizia fino al 1521, anno in cui Ginevra era morta (Möller, p. 199).

Una fonte ampia ed eloquente riguardo alla personalità di Ginevra è costituita da una lettera (ed. Carnesecchi, pp. 293-296), scritta da Roma in data 12 agosto 149o da un suonatore di viola che si sottoscrive "G. + H."; egli, che aveva conosciuto Ginevra molti anni prima a Firenze e che aveva mantenuto con lei una quasi regolare corrispondenza, racconta che in una conversazione con un gruppo di nobili dame, intorno a "quello che fa amare una donna", aveva portato ad esempio delle virtuose donne fiorentine proprio Ginevra, fra la generale approvazione. Ella era quindi ancora molto nota e apprezzata negli ambienti culturali e altolocati, non soltanto di Firenze, ma anche di Roma; era, oltre che bella ed attraente, notevolmente istruita, amante della musica e della poesia. Che fosse ella stessa autrice di versi, come alcuni vogliono ricavare da un passo della lettera, è dubbio; è più probabile che si faccia riferimento a versi scritti per lei (Carnesecchi, p. 286). Dalla lettera risulta che non aveva avuto figliuoli.

"Alla Ginevra Benci" sono dedicati due sonetti di Lorenzo il Magnifico, "Segui, anima devota" e "Fuggendo Lot", che trattano entrambi il tema delle sue virtù. Il Möller mette la loro composizione in rapporto alla relazione di Lorenzo con Bartolomea Benci, moglie di Donato, zio di Ginevra, motivo di scandalo per tutta la città: il Magnifico avrebbe scritto i versi per calmare lo sdegno della virtuosa dama.

Ginevra Benci fu inoltre cantata da Bernardo Bembo, al tempo della sua prima ambasceria a Firenze negli anni 1475-1476. Ella aveva allora solamente 18 anni ed era da poco tempo andata sposa a Luigi Niccolini; anche Bernardo Bembo era sposato (per la seconda volta) ed aveva condotto con sé a Firenze il figliolo Pietro, già adolescente. Ma il sentimento che legò Bernardo alla Ginevra era un tipico esempio di "amor platonico", come si legge nella dedicatoria di Cristoforo Landino alla Xandra e nelle elegie in Appendice dei suo Canzoniere, nonché nelle elegie di Alessandro Bracci, il quale dice di lei: "Pulchrior hac tota non cernitur urbe puella / altera nec maior ulla pudicitia" (Epistola IV, ed. A. Perosa).

Una Ginevra Benci, detta la Bencina, compare anche in un aneddoto del Poliziano, da riferirsi al 1478, che la ricorda presente ai giochi di Piero di Lorenzo de' Medici: l'identificazione con la nostra Ginevra, negata dal Wesselski (p. XVIII), è sostenuta dal Möller (p. 200).
Secondo questi dati, non vi sono ragioni ] "cronologiche" che contraddicano le notizie del Vasari a proposito dei ritratti eseguiti dal Ghirlandaio e da Leonardo. Del Ghirlandaio dice il Vasari (Vite, II, p. 116o) che riprodusse la B. nell'affresco della Visitazione della cappella del coro a S. Maria Novella: la sua figura non è oggi identificabileva tuttavia sottolineato che, poiché l'affresco fu eseguito dal Ghirlandaio intorno al 1488-90, è certamente inesatta la notizia del Vasari riguardo a una Ginevra "fanciulla".

Quanto al ritratto di Leonardo, il Vasari (Vite, II, p. 16: "ritrasse la Ginevra d'Amerigo Benci, cosa bellissima") trae la notizia dall'Anonimo Gaddiano, che la riprende a sua volta da Antonio Billi: lo si è voluto identificare con il ritratto femminile della galleria Liechtenstein di Vienna per il quale non è certa né 11dentificazione del personaggio né la mano di Leonardo (per le diverse attribuzioni cfr. Möller, p. 209). Oltre che per l'identificazione dell'autore e del soggetto, anche per la datazione del quadro vi è discussione fra i critici: coloro che lo attribuiscono a Leonardo lo ritengono opera giovanile e lo considerano il ritratto di nozze di Ginevra, datandolo al 1474; il Castelfranco (p. 450) sposterebbe a più tardi la datazione; in questo caso Leonardo avrebbe dipinto Ginevra al tempo della sua lunga malattia negli anni 1478-1480. Si spiegherebbe in tale modo il "pathos" malinconico che si sprigiona da questo commovente ritratto.

Taliesin, il Bardo

tratto da: enciclopediatreccani

Altea
17-03-2014, 15.54.26
Ho letto con molto interesse la storia di questa donna..Veronica..di un mondo a me quasi vicino in fatto geografico.
Venezia..era una città particolare, a sè...io la vedo come una dama capricciosa, allegra apparentemente ma dall'animo triste.

Taliesin
19-03-2014, 12.38.50
Milady Altea...
La vostra sensibilità ha colto la sfumatura della tristezza racchiusa nello sguardo di Veronica. Una tristezza comune a molte "fortunate dame" che abitavano castelli ingioiellati. Giudicate voi stessa...

Taliesin, il Bardo

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/8/8b/VeronicaFranco.jpg/220px-VeronicaFranco.jpg (http://it.wikipedia.org/wiki/File:VeronicaFranco.jpg)

Taliesin
19-03-2014, 15.39.00
STREGHE DELLE PAURE, ANIME DEL PARADISO: BISSAGA DI BRIANZA

Storia idealmente dedicata al moderno e antico pupazzo di fuoco della Giubiana, eterna rimembranza di coscienze e di paure stregate e mai assopite, nel calore di una famelicità di sangue di donna mai domo..

Attingendo al termine latino striga, ovvero uccello notturno o arpia, l'avvento del Cristianesimo battezzò, ricoprendolo di fango, un ruolo sociale fino ad allora altamente considerato, al punto che in età pagana si parlava genericamente di maghe o sibille dai grandi poteri profetici.

Nell' Europa religiosa e post-classica si assitse così ad una graduale escalation persecutoria, che raggiunge il suo climax in età medievale. La fervida immaginazione delle società contadine, attizzata sapientemente dalla Chiesa, si lanciò spesso in voli pindarici, associando alla figura della strega i peggiori tabù e vizi che le si potessero attribuire: fosse essa una vecchia dall'aspetto ripugnante o una donna attraente, ciò che la rendeva un pericolo agli occhi della comunità era la forte predilezione per le arti occulte, unita all'estrema licenziosità dei costumi sessuali.

Era credenza consolidata che al calar della sera, quando gli abitanti del villaggio si ritiravano nelle loro case, la strega uscisse di nascosto per partecipare ai sabba, eredi moderni degli antichi rituali dionisiaci, sul modello dei baccanali dell'Antica Roma.

Nel caso specifico della diocesi di Como, fu la bolla papale Summis Desiderantes di Innocenzo VIII, seguita nel giro di tre anni dal Malleus Maleficarum (1487) dei due frati domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer, a inasprire i provvedimenti contro le eresie.
Testo profondamente misogino e privo di qualsivoglia onestà intellettuale (al punto che si attibuisce al termine femina la falsa etimologia di fe + minus = meno fede), il Malleus argomentava la maggior propensione delle donne a cadere nelle trappole di Satana con una presunta inferiorità intellettiva e debolezza caratteriale. Nella seconda parte del trattato i frati tedeschi illustravano la casistica in base alla quale l'inquisitore doveva modulare i suoi provvedimenti, come si riconoscevano i segnali di stregoneria e quali tecniche di tortura dovevano essere adottate per ottenere una confessione.

Scrive Giuseppe Arrigoni in «Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe», documentando il clima di terrore che si respirò negli ultimi decenni del XV secolo lombardo:

«Contribuivano a rendere infelice quell'età le superstizioni religiose, avanzi delle credenze gentilesche. Era persuasione generale che il diavolo patteggiasse cogli uomini e singolarmente con vecchie brutte, sì che avessero sovrannaturale potere di far bene e male, si convertissero in gatti e in altri animali, menassero “danze col demonio”, calpestassero l'ostia consacrata, scavalcassero i monti e gissero per l'aria a sollazzo. Molti maliardi, lamie, sortilegi, indovini, negromanti, fattucchieri, prestigiatori, eretici e sospetti furon vittime della superstiziosa credulità , furon messi alla tortura e arsi al rogo. Le cagioni di quelle immanità e barbarie stanno principalmente nel fanatismo di quei tempi; ma in gran parte però le rimote cause motrici di tanti incomprensibili processi di maghe e di giurate testimonianze di diaboliche seduzioni non sono preanco venute in chiara luce istorica, né vi verranno se prima non si pubblichino gli atti di tali cause magiche».

Il fanatismo dei frati domenicani d'Oltralpe si scatenò sensibilmente, come attestato nel Malleus stesso, nel Nord Italia, e in particolar modo nei territori di Como, Bergamo, Brescia, Cremona, la Val Camonica, la Valtellina e il Friuli. Il ramo lecchese invece, come conferma il testo «I nostri vecchi raccontano: storie, leggende e fiabe del territorio lecchese» di Felice Bassani e Luigi Erba, era utilizzato come punto di raccolta e smistamento delle streghe provenienti dall'alto Lario e dalla Valtellina. Nel XV secolo, nel giro di un mese, ben trecento donne furono imprigionate e, dopo un processo sommario, mandate a morte; fra queste quarantuno furono rastrellate in un'unica retata, compiuta nel 1486 sulle direttive di un inquisitore locale.

Secondo la consuetudine germanica, prima di essere bruciate, le streghe comasco-lecchesi vennero rasate integralmente, anche nelle zone più intime del corpo, in quanto gli inquisitori più incalliti credevano che sotto le ascelle le vittime potessero nascondere una “stregoneria” che le tutelasse dalle fiamme.
A tal proposito il crudelissimo Sprenger era solito far rasare a zero i capelli delle vittime e in seguito versare in una tazza di acqua santa una goccia di cera benedetta, da far bere alle stesse per tre volte e a digiuno, allo scopo di liberarle dal demonio.
Dopo un periodo di relativa clemenza dell'Inquisizione, motivato dalla necessità dell'alto clero italico di far fronte a ben altri problemi, originati dalla Riforma protestante, nella seconda metà del XVI secolo l'accanimento contro la stregoneria riprese con una violenza inaudita, come documentano numerose testimonianze rinvenute nel lecchese.

Nel testo di Silvia Battistelli «Leggende e storie brianzole» si accenna a come lo stesso Carlo Borromeo, nel 1567, fu coinvolto in una feroce caccia alle streghe in risposta alle ripetute invocazioni dei parroci della zona, che credevano davvero nelle capacità di queste donne di compiere malefici e che le incolpavano di alcuni delitti perpetrati ai danni di alcuni nobili della zona.

Recita la lettera del prevosto Rattazzi, assai allarmato per la situazione ingestibile della sua parrocchia:
«E una fu presa fra le altre che confessò senza nessun mortorio, che aveva uccisi venti fanciulli col succhiare il sangue loro e come trenta ne salvasse dando al diavolo un membro di bestia in luogo di quello dei fanciulli, dato che si conveniva portarne il membro al diavolo per sacrifizio. E più ancora confessò che ella aveva morto il suo proprio figliolo facendone polvere, che dava a mangiare per tali faccende. Disse pure del modo come ella andava innanzi dì, nel rione di Acquate, con certi bossoli di unguento fatti d'erbe, che erano colte il giorno di Santo Giovanni e de la Ascensione: fattone odorare al nobile Airoldi, questi subito morì».
Carlo Borromeo intervenne spesso in modo rigoroso e intransigente non solo a Lecco ma anche in Valsassina, territorio tradizionalmente popolato da streghe e stregoni.
Al di là di coloro che, pur non avendo commesso alcun delitto, ammisero le loro colpe e giurarono un profondo pentimento, le altre vennero condotte a Milano e lì giustiziate.

La storia più famosa a livello locale è quella di una certa Bissaga, ovvero donna di biss (serpenti), originaria di Tartavalle in Valsassina: servendosi delle sue arti magiche, la donna aveva sedotto il signore del castello di Marmoro, una rocca difensiva situata nella piana di Parlasco.
Frutto del loro amore furono un ragazzo, che venne riconosciuto dal padre e andò ad abitare con lui, e una ragazza, anch'essa strega, che invece restò nella casa della madre.
I due fratelli si innamorarono l'uno dell'altra ma il matrimonio venne loro impedito; così, desiderosa di vendetta, la ragazza trasformò la strada in una bissera (si noti il gioco di parole) piena di tornanti, dalla quale il vecchio padre precipitò, finendo in uno strapiombo insieme al cavallo.
Il Borromeo fece trascinare la Bissaga a Milano e la condannò a morire bruciata nella piazza XX settembre: il rogo fu accompagnato dall'ovazione popolare.

Le persecuzioni contro le streghe, almeno parzialmente originate dalla necessità di tutelare la cultura dogmatica ufficiale della Chiesa, la quale non poteva ammettere la coesistenza di dottrine alternative basate su rituali magici, non furono tuttavia in grado di estirparle del tutto dall'immaginario popolare.

Seppur in modalità differenti, questo culto sopravvive ancora sottoforma di folclore locale, soprattutto nelle zone di campagna. I territori che lo conservano più fedelmente in Italia sono il biellese, il canavese, il Trentino, il comasco, alcuni paesi della Liguria e delle Marche e, infine, la provincia di Benevento.

La miglior rappresentazione nostrana delle streghe, quelle che popolavano le leggende e i racconti dialettali scambiati nelle serate d'inverno al tepore delle stalle, si trova nell'articolo pubblicato da Andrea Orlandi nel 1929 sulla rivista “All'ombra del Resegone”:
«Per lo più erano donne vecchie, brutte, mal in arnese, dagli sguardi e dalle mosse sospette. La maga poteva nuocere in più modi: se avesse lanciata una sentenza contro qualcuno, a quel tale incoglierebbe sventura; perché la strega si rivelasse, bastava gettare un quattrino della croce nella pila dell'acqua santa: la mala femmina si sarebbe aggirata perplessa e inquieta pel tempio, non trovando più il verso d'uscire; ma chi avesse tentata quella sorte, incorreva in molti pericoli e nelle stesse pene canoniche: ond'era preferibile astenersene.
Volete conoscere chi ha malefiziato il vostro bambino? Mettete i panni dell'infelice in un paiolo, e questo a bollire: vi comparirà la colpevole; vi sarà facile punirla e imporre a lei che sperda il sortilegio; senonché l'evocazione può causare inconvenienti gravi; e la si è sempre sconsigliata».

Strettamente legata alle terre brianzole e canturine è la figura leggendaria della Giubiana (o Gibiana), rappresentata, in tutti i racconti popolari trasmessi oralmente di generazione in generazione, come «una donna vecchia, molto grande, vestita di bianco, che faceva passi lunghissimi».

Amante delle passeggiate nei boschi, questa befana sui generis «metteva un piede su un sasso ed un altro molto più lontano, oltre le stalle»; essa appariva nella nebbia fitta e spaventava a morte i bambini del posto.
In realtà, tradizionalmente non si trattava di una strega. Ottorina Perna Bozzi precisa in «Brianza in cucina» che il termine Giubiana deriva dall'espressione brianzola Giubbiana, che significa allo stesso tempo “fantasma” e “giovedì”. Vi è dunque ragione di ritenere veritiere le ipotesi di quegli studiosi del folclore locale che videro nella festa della Giubiana la celebrazione delle donne non più giovani, che si teneva l'ultimo giovedì del mese di gennaio, in concomitanza con i giorni della merla. In quell'occasione le donne si radunavano tutte insieme, rallegrandosi per la conclusione della stagione della semina e la Giubiana, il fantasma femminile sottoforma di fantoccio, veniva bruciato sul rogo. Naturalmente, ben chiara è l'allusione ai roghi in cui persero la vita tantissime donne in carne e ossa, nel Medioevo così come in pieno Rinascimento; tuttavia è diffcile ricostruire un nesso causale e soprattutto capire in quale periodo storico la Giubiana si trasformò in strega.

E' ben noto che nel mondo della Brianza pre-industrializzata il calendario veniva plasmato sui ritmi della vita contadina, che di anno in anno scorreva ciclicamente, alternando a periodi di massimo impegno della famiglia patriarcale qualche momento di riposo, necessario per rinfrancare gli animi.
Bruciare il fantoccio della Giubiana aveva dunque un significato propiziatorio e permetteva di esorcizzare le sventure dell'anno appena trascorso.
Il calore del fuoco si portava via la strega vecchia e brutta, simbolo dell'inverno che volgeva al termine; in base a come la Giubiana bruciava, le comunità ne traevano buoni o cattivi auspici.
Attualmente, la festa della Giubiana viene celebrata in parecchi Comuni dell'Alta Brianza e del comasco, ma una delle ricostruzioni più fedeli alla tradizione è quella di Canzo, dove l'ultimo giovedì di gennaio di ogni anno la strega viene trascinata in corteo per le vie del centro storico, accompagnata da una scia di fiaccole e da una serie di personaggi allegorici: il pastore che suona il corno; il boscaiolo con gli attrezzi del mestiere; il carretto con l'asino, sul quale il boia custodisce la Giubiana prigioniera; Barbanera con i biglietti della lotteria; l’Uomo selvatico, antichissimo simbolo della cultura alpina che vive in armonia con il bosco e che conosce i segreti della natura;l'avvocato delle cause perse e i testimoni del processo; i bambini dal viso colorato di bianco e nero, a simboleggiare il bene e il male; l’Anguana, misteriosa fata benefica, simbolo dell'acqua come elemento vitale femminile; l'orso che esce dalla tana, simbolo della forza istintiva dei cicli della natura che non può essere domata.

Al termine della fiaccolata, la Giubiana viene portata nella piazza del mercato dove subisce il processo, rigorosamente in dialetto canzese. Salvo colpi di scena, la sentenza è sempre la stessa: una riconosciuta colpevolezza che viene espiata sul rogo, sotto gli occhi di tutto il paese.

Taliesin, il Bardo

tratto da: www.leccoprovincia.it (http://www.leccoprovincia.it)

Taliesin
28-05-2014, 11.25.50
CATERINA SFORZA: LA DAMA DEI GELSOMINI.

Anche se la Romagna non le diede i natali (nacque infatti a Milano nel 1463), Caterina Sforzaè storicamente considerata una delle figure femminili più importanti di quella tella erra, tanto da essere stata definita “la grande signora della Romagna”.
Di forza d’animo non comune, astuta e scaltra, seppe condurre le sue battaglie con determinazione e spirito vendicativo. Bella, intelligente, energica, fu una delle donne più note e ammirate del suo tempo.
Figlia illegittima di Galeazzo Maria Sforza e di Lucrezia Mandriani, nel 1472 il padre la diede in moglie a Girolamo Riario, nipote (o forse figlio) del Papa Sisto IV e signore di Imola, successivamente anche signore di Forlì.

Alla morte di Sisto IV, Caterina si impadronì in Roma di Castel Sant'Angelo. Il 14 aprile del 1488 Girolamo Riario venne ucciso a Forlì (http://www.sagreinromagna.it/comuni/forli.asp) da un complotto popolare; Caterina, con astuzia, forza e spregiudicatezza sconfisse i cospiratori ed il 30 aprile di quell’anno iniziò il suo governo in quanto reggente per il figlio Ottaviano, ancora piccolo.

Sposò clandestinamente Iacopo Feo, castellano di Ravaldino, ed acquisì un ruolo di grande rilievo nella politica italiana al momento della caduta di Carlo VIII, appoggiando gli aragonesi in un primo momento, e successivamente i francesi.

Nel 1495 Iacopo Feo venne ucciso crudelmente e Caterina, dopo averlo vendicato, sposò in segreto Giovanni de’ Medici. Dal matrimonio con il De' Medici nacque Giovanni, noto in seguito come Giovanni dalle Bande Nere.
Intanto Cesare Borgia, detto il Valentino, figlio di Papa Alessandro VI, portava avanti il suo intento di costruire un proprio ducato in Romagna e, nel novembre del 1499, assediò Imola. L’11 dicembre cadde la rocca, inutilmente difesa da Dionigi di Naldi. Alcuni giorni dopo il Valentino entrò in Forlì con un esercito di 15 mila uomini. Caterina, invece di fuggire, si richiuse nella rocca di Ravaldino e oppose una dura resistenza dirigendo personalmente i difensori. Di fronte alle forze prevalenti, il 12 gennaio del 1500 cadde anche la rocca di Forlì, Caterina fu fatta prigioniera da Cesare Borgia e rinchiusa in Castel Sant’Angelo, dove subì torture e umiliazioni. Il 30 giugno del 1501 Caterina fu liberata e visse gli ultimi anni della sua vita a Firenze con il figlio Giovanni. Provò, senza risultato, a recuperare la signoria e morì il 28 maggio 1509.

Caterina Sforza fu una figura di grande rilievo nella società del suo tempo, valorosa combattente, dalla personalità eclettica e sanguigna, virago e demonio femminile, esperta in alchimie erboristiche, (scrisse anche un trattato su questo argomento contenente oltre 500 procedimenti vari, dai cosmetici ai veleni mortali), violenta e risoluta con i nemici. Memorabile è rimasta la distruzione di Palazzo Orsi a seguito dell'uccisione del suo amato, o l'aneddoto che la ricorda sulla cortina di Schiavonia, assediata dai faentini che minacciavano di ucciderne il figlio, proseguire incurante il suo tentativo di riconquista del potere, alzando la gonna e indicando la sua vulva quale "strumento per fare altri figli”.

A lei è dedicata una ballata del XVI secolo, attribuita a Marsilio Compagnon, che così comincia:

Ascolta questa sconsolata
Catherina da Forlivo
Ch'io ho gran guerra nel confino
Senza aiuto abbandonata
Io non veggo alcun signore
Che a cavallo monti armato
E poi mostri il suo vigore
Per difendere il mio stato
Tutto il mondo è spaventato
Quando senton criar Franza
E d'Italia la possanza
Par che sia profundata
'Scolta questa sconsolata
Catherina da Forlivo...

Taliesin, il Bardo

tratto da:www.mitidiromagna.it (http://www.mitidiromagna.it)

Altea
28-05-2014, 21.42.28
La ballata..degna di una donna come la dama dei gelsomini.
Grazie a voi, sir Taliesin, posso sempre imparare qualcosa da queste grandi donne..non smettete mai di narrarcene.

Taliesin
29-05-2014, 11.55.04
EXPERIMENTI DELLA EXCELLENTISSIMA SIGNORA CATERINA DA FORLI'

La figura di Caterina Sforza è emblematica per la sua epoca che và inquadrata in un periodo in cui, stava per finire il Medioevo ed iniziava ad affacciarsi il Rinascimento, nascevano immortali capolavori creati dai geni di Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Macchiavelli e Cristoforo Colombo tentava la via delle Indie.

Questa figura di donna che conduceva in battaglia i suoi soldati venne ammirata in tutta l'Italia e numerose furone le canzoni e le odi che vennero scritte in suo onore che sono andate però tutte perdute tranne quelle di Marsilio Compagnon.

Gli scrittori del rinascimento raccontano che Caterina Sforza avesse superato per fama, ogni altra donna del suo tempo: era una donna tenace, determinata, molto versatile, si occupava di erboristeria, di medicina, di cosmetica e d'alchimia. Caterina Sforza era anche una donna di incredibile bellezza che spendeva tempo e denaro per preservarle e nessun consiglio veniva tralasciato indipendente da dove arrivasse: antiche ricette orientali, rimedi popolari, miscele che arrivavano da oscuri monasteri che lei cercava con estrema tenacia non esistendo all'epoca cosmetici già pronti.

Le sue ricette sono state tramandate in un libro "Experimenti della excellentissima signora Caterina da Forlì" composto da quattrocentosettantuno rimedi curativi e di bellezza del viso e del corpo con indicazioni per la preparazione di pomate, unguenti, miscele, acqua che Caterina preparava con l'aiuto degli speziali di corte.

Questi rimedi sono dei veri e propri esperimenti con i quali Caterina Sforza si dilettava e sperimentava su se stessa.

...per far la faccia bianchissima et bella et colorita
All'epoca di Caterina Sforza, una prerogativa della bellezza era avere una carnagione chiarissima pertanto Caterina inventò un impacco adatto allo scopo: mescolare dello zucchero con del bianco d'uovo e acqua di bryonia (Bryonia dioica, n.d.r.). Con questo miscuglio ci si deve bagnare il viso.
Con questa ricetta spariscono i rossori, la pelle tesa e la desquamazione che accompagna le scottature solari.

...per far crescere li capelli
Questa ricetta di Caterina Sforza è raccomandata per far diventare i capelli lunghi. E' molto semplice:
si prepara un semplice decotto con una manciata di malva, del trifoglio, del prezzemolo, con questo decotto si fanno diversi lavaggi.
Semplice, da provare per la bellezza e la cura dei capelli di tutte le donne.

...per far li capelli biondi de colore de oro
Questa ricetta di bellezza di Caterina Sforza per far diventare i "capelli biondi et belli" consiste nel far bollire delle foglie di edera e cenere ricavata dai gambi della stessa pianta.
Dopo che avrà bollito, si dovrà filtrare "et con quella acqua lavati il capo et farai li capelli belli e biondi".
Caterina però, per rendere la ricetta ancora più sicura raccomanda a tutte le donne di mettere nel decotto anche tre pezzettini di radice di rabarbaro che si lasciano in infusione per un giorno intero. Dopo di che si inzuppa un panno e con esso si avvolge il capo "et lassato stare sino a che sia quasi asciutto et senza dubbio verranuo rilucenti come oro".

...per fare diventare li denti sani e lucenti
Questa ricetta di bellezza Caterina Sforza è un po' insolita ma molto semplice da realizzare:
"Prendi dei grossi gambi di rosmarino e falli abbruciare sin che diventino cenere. Metti detta cenere in una piccola pignatta con qualche foglia di rosmarino acciocchè ne prenda l'odore. Con detta cenere sfrega spesso li denti con una pezza di lino".
Per completare l'efficacia della cenere di rosmarino "et fermare li denti e le gengive, dopo averli sfregati con la cenere lavali con bono vino".
Ogni uomo ed ogni donna sarà sorpreso dall'efficacia di questa semplice ricetta.

...per fare profumare lo fiato cattivo

Caterina Sforza, per avere un alito profumato, consigliava questa ricetta

Ingredienti
- scorza di cedro
- noce moscata
- chiodi di garofano
- cannella Preparazione
Polverizzare il tutto ed impastarlo con del vino "et fanne pallottole et pigliane ante ed cibo et de poi el cibo".
Le ultime righe della ricetta raccomandano di non mangiare aglio o cipolla per qualche giorno "et vederai et sentirai miracoli".

...per far le mani bianche et belle tanto che pareranno de avorio
Caterina Sforza, non poteva dimenticare la cura delle mani. Ecco una ricetta molto semplice da realizzare e di sicura efficacia per il benessere e la bellezza delle mani di ogni donna:
"Dai a lungo bollore ad acqua e crusca di grano finchè la mescolanza un poco si addensi. Poscia fai colar l'acqua e ancora calda metti in essa un pomo (una mela n.d.r.) tagliato in tocchi e quando essa acqua sarà fredda lavatene le mani che resteranno bianche e morbide ed belle vedersi".

tratto da www.elicriso.it (http://www.elicriso.it)

Taliesin, il Bardo

Altea
29-05-2014, 15.01.15
Tutto questo è davvero geniale..vi erano già gli antichi rimedi..allora sir Taliesin..ne trarrò vantaggio, ma la mia pelle è davvero nivea come la neve, i miei capelli biondi...il mio amato si innamorò di me per il biancore delle mie mani ..ma una donna, come insegna Caterina da Forlì, deve sempre tenersi bella soprattutto per se stessa..poichè chi vive bene se stesso potrà vivere bene pure con gli altri. :smile:

Taliesin
29-05-2014, 16.19.52
Saggezza in quel cuore rosso cinabro e candore in quelle bianche mani Milady Altea, come quell'Isotta regina dei grandi dolori, che grazie a Thomas di Britannia, solcò gli oceani dello spazio e del tempo per essersi innamorata dell'Amore, in ogni sua forma, in ogni sua sottiglietta, in ogni sua essenza di piacersi senza specchiarsi alla mera esteriorità di un tempo effimero e nauseabondo...Grazie mia cara...come sempre.

Taliesin, il Bardo

elisabeth
29-05-2014, 20.07.55
Le bianche mani......un metodo naturale per tenerle bianche.....che bella immagine di voi Lady Altea.......il candore della pelle col biondo dei vostri capelli........già ci si innamora sempre per una donna con le vostre caratteristiche.......e so che la vostra esteriorità corrisponde alla vostra anima.........


Grazie per essere tornato a scrivere Amato Bardo.....

Taliesin
29-05-2014, 21.09.32
Grazie a voi Madonna Elisabetta poichè, attraverso gli occhi del vulcano, potete leggere i miei.

Taliesin, il bardo

Taliesin
17-06-2014, 09.47.14
Nell'assordante chissso di ierinotte, tra le onde fluttuanti dell'Arno d'argento ed i moderni clown d'oltre manica e d'oltre oceano, mentre Ponte Vecchio risplendeva di luce nuova, tra la tredicesima e la quattordicesima finestra del corridoio del Vasarri, mi è sembrato affacciarsi una Venere, che dall'alto della sua Magnificienza, sembrava come sorridere al nuovo tempo che girava attorno alla sua eterna conchiglia...

Taliesin, il Bardo

LA VENNERE DEL BOTTICELLI: SIMONETTA VESPUCCI.

Simonetta Cattaneo Vespucci (Genova, 1453- Firenze, 1476) amata da Giuliano de Medici e musa ispiratrice di pittori e poeti fu ritenuta la donna più bella del suo tempo tanto da divenire l'icona della bellezza rinascimentale. La fama della ventunenne Simonetta esplose quando Giuliano, il fratello minore di Lorenzo il Magnifico le dedicò la vittoria nella Giostra del 1475. Il torneo fu disputato in piazza Santa Croce il 28 gennaio, nel giorno del compleanno di Simonetta. Giuliano si presentò con uno stendardo che riportava l'effigie della donna amata, dipinta da Botticelli, ed il motto "la senza pari".

La folla manifestò il suo entusiasmo; ma si voleva compiacere la potente casa Medici o davvero Simonetta era la donna "ineguagliabile"? Certo è che era stata scelta da Botticelli come modella per La nascita di Venere eper La Primavera. Divenne poi il soggetto dei più famosi artisti come il Verrocchio, il Ghirlandaio, Filippo Lippi e di poeti come il Poliziano (che ne fece la protagonista de Le stanze della Giostra), il Pulci e lo stesso Lorenzo il Magnifico.

Ma chi era in realtà Simonetta Cattaneo? Nacque nel 1453, probabilmente a Portovenere (una singolare coincidenza per una località che già in epoca romana si chiamava Portus Veneris) da una nobile famiglia ligure. Appena quindicenne sposò Marco Vespucci, cugino del celebre Amerigo e si trasferì a Firenze dove condusse una vita riservata, finché non incontrò Giuliano che, probabilmente, ne vide il ritratto nella bottega del Botticelli. L'esile figura, i biondi capelli (una rarità a quell'epoca in Italia) e i profondi occhi grigi, le valse il titolo di "la bella di Firenze".
Forse fu solo un amore platonico. Certo è che fu la coppia più ammirata del momento. I Medici erano i più ricchi, i più colti, i più potenti, i più fortunati, sembravano la personificazione del periodo aureo di Firenze. E se Lorenzo incarnava la gestione del potere, il bel Giuliano, colto, idealista, esprimeva la gioia di vivere rinascimentale.

Ma il clima stava per cambiare. Il primo, imprevisto, colpo a quello scenario , fu la morte di Simonetta, il 26 aprile 1476 (forse di tisi), un anno dopo la memorabile giornata della Giostra. L'intera città fu costernata e commossa. Per la sua scomparsa, Lorenzo il Magnifico scrisse il sonetto che inizia con "Olum chiara stella che co' raggi tuoi/togli alle tue vicine stelle il e...", dove la immagina salita in cielo ad arricchire il firmamento.
Una folla immensa partecipò al funerale e sfilò davanti alla sua bara che era stata lasciata scoperta perché tutti potessero ammirare la bellezza che la morte non aveva offuscato. Simonetta fu sepolta nella chiesa d'Ognissanti, nella Cappella Vespucci affrescata dal Ghirlandaio. Nella stessa Chiesa, sul pavimento c'è anche la tomba di Botticelli che aveva chiesto di essere sepolto ai suoi piedi. Esattamente due anni dopo anche Giuliano morì, assassinato nella congiura dei Pazzi, che segnò la fine del momento più splendido della Firenze medicea.

Sette anni più tardi, Piero di Cosimo dipinse una Cleopatra con le sembianze di Simonetta Cattaneo, con un aspide attorno al collo: era certamente un inquietante ricordo della fine prematura, ma il serpente è anche un simbolo erotico e tutto il quadro, del resto, ha una doppia chiave di lettura in bilico tra il rigoglio della vita e la morte in agguato.
La studiosa Paola Ventrone (Giovanna Lazzi, Paola Ventrone, Simonetta Vespucci. La nascita della Venere fiorentina, Polistampa, 2007) afferma che, nel caso della giovane Vespucci, la rapida successione degli avvenimenti ne proiettò l'immagine "in un mondo ultraterreno privandola della consistenza umana e della sua stessa personalità". Un mito che ha potuto sfidare i secoli, perché consacrato da una straordinaria convergenza di opere letterarie, dipinti e sculture che sono tra le più alte espressioni del Rinascimento.

Taliesin, il Bardo

Taliesin
17-06-2014, 10.04.58
LA PICCOLA CONTESSA: CONTESSINA DE' BARDI.

Contessina de' Bardi (Firenze,1390 circa –Firenze, ottobre 1473) è stata figlia di Alessandro de' Bardi o secondo altri autori di Giovanni de' Bardi e di Emilia Pannocchieschi del ramo dei Conti di Vernio della famiglia dei Bardi; è famosa soprattutto per essere stata la moglie di Cosimo de' Medici detto Il Vecchio.

Venne chiamata Contessina in onore della Contessa Matilde di Canossa.
La sua famiglia era stata un tempo ricchissima, ma con il fallimento del proprio banco verso la metà del Trecento avevano visto la propria importanza molto ridimensionata.

In ogni caso erano riusciti a mantenere una condizione agiata investendo soprattutto in terreni, castelli e fortilizi, dei quali erano i signori in punti strategici sui confini settentrionali della Repubblica di Firenze, come il passo di Vernio appunto, e godevano di una certa importanza come feudatari e uomini d'arme di professione, che doveva essere sembrata molto interessante per i Medici: all'occasione infatti avrebbero potuto disporre di un braccio armato di cui avvalersi nella strategia di costruzione e di mantenimento anche forzato del consenso che avrebbe portato alla loro egemonia politica. Si sposò quindi con Cosimo nel 1416.

Ebbe due figli: Pietro il Gottoso e Giovanni. Chiuse un occhio sulla scappatella di Cosimo che portò alla nascita del figlio illegittimo Carlo de' Medici che venne allevato nel palazzo di famiglia con gli altri figli.
Quando il marito venne esiliato (1433) ella si rifugiò alla Villa di Cafaggiolo nel Mugello, prima di ritornare in città a seguito del trionfo di Cosimo. Circa un decennio dopo iniziò la costruzione del grandioso Palazzo Medici in via Larga, nel quale si trasferirono quando non era ancora del tutto completato.

Sopravvisse al marito, morto nel 1464 e rimase un punto di riferimento per i nipoti, tanto che Lorenzo il Magnifico chiamò sua figlia più piccola in suo onore, Contessina de' Medici.

Di lei ci restano quattro lettere scritte ai suoi familiari Bardi.

tratto da: wikipedia

Taliesin, il Bardo

Altea
18-06-2014, 14.19.29
Sir Taliesin...sono stupita in modo positivo, nel mio salone ho il ritratto della Contessina dè Medici e messa in un una cornice antica. Possiamo vedere il ritratto proprio agli Uffizi a Firenze dove ho acquistato questa stampa in copia...questa Contessina nella sua piccola età ha lo sguardo e il volto di chi ha già in se la sicurezza di se stessa e questo mi colpì molto..."Bià de Medici".

http://i57.tinypic.com/alrrlc.jpg

Taliesin
18-06-2014, 15.03.15
Madonna Altea...
C'è del vero ancestrale nelle vostre considerazione e nelle vostre parole a proposito della fanciulla che, a suo malgrado, prigioniera di un personaggio creato ancora prima che lei nascesse, non ebbe mai da assaporare quella spensieratezza che l'estate dei suoi anni reclamavano in un tempo di intrighi, cospirazioni e stucchi d'orati tra lamine di mercurio intriso nel cuore...Grazie per la vostra costante, appassionata e squisita presenza.

Taliesin, il Bardo

Altea
18-06-2014, 19.34.15
Madonna Altea...
C'è del vero ancestrale nelle vostre considerazione e nelle vostre parole a proposito della fanciulla che, a suo malgrado, prigioniera di un personaggio creato ancora prima che lei nascesse, non ebbe mai da assaporare quella spensieratezza che l'estate dei suoi anni reclamavano in un tempo di intrighi, cospirazioni e stucchi d'orati tra lamine di mercurio intriso nel cuore...Grazie per la vostra costante, appassionata e squisita presenza.

Taliesin, il Bardo

Già purtroppo..l' Infanta morì a cinque anni..ma rimane sempre nella storia.

Taliesin
19-06-2014, 10.50.57
LA SCONOSCIUTA DELLA CASATA: CONCORDIA MALATESTA

Nacque da Giovanni (Gianciotto) e da Francesca da Polenta presumibilmente non molto tempo prima che la tragedia famigliare rievocata da D. (If V 82-138) si abbattesse sui suoi genitori così duramente da condurre a morte violenta la madre.

Di Concordia, che derivò certamente il nome da quello della nonna paterna (infatti la prima moglie del martin vecchio... da Verrucchio [XXVII 46] dalla quale nacque, assieme a Malatestino e a Paolo, il padre Giovanni, fu Concordia di Enrichetto vicario imperiale), non si ha traccia negli scritti danteschi; e, forse, le uniche sicure testimonianze superstiti che la riguardano personalmente si riducono a quel passo del testamento di Malatesta da Verucchio, in cui, il 18 febbraio 1311, questi destina alla nipote C. 100 lire ravennati, ammonendola insieme con le sorellastre Margherita e Rengarduccia e ai fratellastri Tino, Guido e Ramberto a risolvere pacificamente ogni eventuale vertenza relativa alla dote di Francesca: " Item mandavit dictis nepotibus suis Tino, Guidoni et Ramberto et heredibus eorum et dictis suis nepotibus dominabus Concordiae, Margaritae et Rengardutiae et heredibus eorum quod nullam molestiam per se nec per alium faciant vel fieri permittant heredibus seu legatariis aut comissariis suprascriptis in iuditio vel extra pro dotibus olim dominae Francischae ab eo receptis, uxoris olim Iohannis dicti sui filii et matris dictae dominae Concordiae... " (Tonini).

Non ha alcun fondamento la tradizione popolare che attribuisce a Concordia la fondazione del convento delle Clarisse in S. Arcangelo di Romagna e la permanenza negli ultimi anni della sua vita in questo luogo religioso.

Taliesin, il Bardo

Bibl. -L. Tonini, Della storia civile e sacra riminese, III, Rimini 1862, 249, 251; IV, ibid. 1880, Appendice, 28-29; P. Zama, I Malatesti, Faenza 1956; N. Matteini, Francesca da Rimini, in " Rubiconia Accademia dei Filopatridi " quad. VII, Savignano 1966, 23-24.

Taliesin
23-06-2014, 11.01.44
LA MISTICA DELLE ANIME DEL PURGATORIO: LUTGARDA DI TONGRES.

Nata a Tongres nel 1182, in Belgio, Lutgarda a dodici anni entrò fra le Benedettine di Santa Caterina a Saint-Trond. Eletta priora, nel giorno stesso della nomina lasciò il suo monastero per raggiungere la comunità cistercense di lingua francese a Aywières in Brabante dove Lutgarda si ostinò a parlare fiammingo. Appartenendo al gruppo di pie donne del XIII secolo che condussero un'intesa vita mistica, Lutgarda fu devota dal Sacro Cuore che le concesse apparizioni e incontri commoventi. Si sottopose a un regime di austerità per la conversione degli albigesi, di alcuni signori della regione e dei poveri peccatori dei dintorni. Avrebbe ottenuto guarigioni miracolose per intercessione delle anime del Purgatorio.

Divenuta cieca, visse ancora per undici anni esercitando un forte influsso sui devoti del suo tempo. Morì il 16 giugno 1246. Il 4 dicembre 1796 la comunità, per sfuggire alle conseguenze della Rivoluzione francese, si rifugiò a Ittre con le reliquie della santa. Nel 1870 le preziose spoglie divennero proprietà della chiesa parrocchiale per passare, sette anni dopo, a Bas-Ittre dove sono custodite tuttora. È patrona dei fiamminghi. (Avvenire.)

La Vita Lutgardis fu compilata in meno di due anni dopo il trapasso della santa; l'autore era uno dei suoi familiari la cui testimonianza è, quindi, importante per quanto vada considerata con prudenza e spirito critico. D'altra parte, egli modificò il suo racconto dopo il 1254, per l'intervento di un altro familiare di Lutgarda, fra Bernardo, penitenziere di Innocenzo IV.
Questa Vita ebbe un certo successo, a giudicare dalle versioni popolari, in lingua fiamminga, che fiorirono ad intervalli regolari; citiamo in proposito quelle di Guglielmo d'Afflighem e di Gerardo.

Nata a Tongres, Lutgarda a ca. dodici anni (?) entrò fra le Benedettine di s. Caterina a Saint-Trond. Eletta priora, nel giorno stesso della nomina lasciò il suo monastero per raggiungere infine, certamente dopo soste nelle comunità di Awirs (presso Liegi) e di Lillois, Aywières, comunità di lingua francese, dove Lutgarda si ostinò a parlare fiammingo.

Appartenendo a quel gruppo di pie donne del XIII sec. che condussero una vita mistica piuttosto eccezionale, come Cristina di Saint-Trond, Giuliana di Cornillon, Ida di Nivelles ecc., Lutgarda fu particolarmente privilegiata dal Sacro Cuore che le concesse apparizioni e incontri commoventi; si sottopose a un regime di eccessiva austerità per la conversione degli albigesi, di alcuni signori della regione e dei poveri peccatori dei dintorni.

Avrebbe ottenuto guarigioni miracolose per intercessione delle anime del Purgatorio e beneficiato di premonizioni specialmente relative alla duchessa di Brabante e alla propria morte. Divenuta cieca, visse ancora per undici anni esercitando un certo influsso benefico sui devoti del suo tempo.
Fu beatificata "modo antiquo" e la sua tomba, nel coro di Aywières sul lato destro, fu oggetto di viva devozione. Il 4 dicembre 1796 la comunità, per sfuggire alle conseguenze della Rivoluzione, si rifugiò a Ittre con le reliquie della santa, esumate nel sec. XVI. Nel 1870 queste preziose spoglie divennero proprietà della chiesa parrocchiale per passare, sette anni dopo, a Bas-Ittre dove sono custodite tuttora.
La festa della santa si celebra il 16 giugno.

Le non numerose rappresentazioni della santa, se si eccettua qualche figura generica, in abito monacale, con un libro e un rosario in mano, fanno riferimento alle sue mistiche visioni. Mentre scambia il suo cuore con quello di Gesú (cor mutuans corde); in atto di accogliere sulle labbra un lungo filo di sangue che parte dal costato di Gesú (una scena che riprende il motivo dell'allattamento mistico di s. Bernardo); infine mentre morente si accosta alla croce da cui Gesú stacca il braccio destro per stringersela al petto.

Tra le varie opere d'arte, tutte del sec. XVII, ricordanti questi episodi sono: il gruppo marmoreo di Matthias Brun sul ponte Carlo IV di Praga; una xilografia di Teresa Pruner; il dipinto di Pierre Bradl nella chiesa di Sedlec in Boemia;quello del Goetz nella chiesa di Birnau in Svezia.

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it)

Taliesin, il Bardo

Taliesin
23-06-2014, 11.14.21
L'AMMIRABILE MORTIFICAZIONE DEL CORPO: CRISTINA DA SAINT TROND.

La Vita di Cristina, scritta da Tommaso di Cantimpré verso il 1232, è molto contestata nel suo valore storico, malgrado certe concordanze con testimonianze di Giacomo di Vitry (ed. in Acta SS. Iulii, V, Venezia 1748, pp. 650-60).

Semplice pastorella, verso il 1182, dopo una crisi di catalessi, la santa decise di consacrarsi a Dio per una vita di penitenza. Non sembra abbia fatto parte di una comunità di beghine: era una di quelle pie donne che vivevano isolate e che si incontrano spesso all'inizio del sec. XIII.

Si ritirò dapprima nel castello di Looz, poi a Saint-Trond, dove morì nel convento di Santa Caterina. La Vita le attribuisce una serie di azioni straordinarie, specialmente casi di levitazione che superano tutti gli altri conosciuti; ma se queste azioni avessero avuto veramente luogo, testimonierebbero piuttosto di una certa morbosità. Le sue reliquie, conservate già a Nonnemielen, si trovano attualmente nella chiesa dei Redentoristi di Saint-Trond.

tratto da: www.santiebeati.com (http://www.santiebeati.com)

Taliesin, il Bardo

Taliesin
23-06-2014, 11.55.30
LA NASCITA DEL CORPUS DOMINI: GIULIANA DI CORNILLON.

Nasce al tempo in cui Liegi è la capitale (famosa per le sue scuole) di una delle signorie che poi formeranno il regno dei Belgi. Perde i genitori da piccola e viene affidata alle monache di Mont-Cornillon, lì vicino, dove c’è anche una comunità di “beghine”, donne che fanno vita comune sotto una regola, ma senza essere monache: lavorano, pregano, assistono i malati di lebbra. Giuliana si fa invece monaca (ca. 1207) e dopo qualche tempo si comincia a parlare di sue visioni, di rivelazioni.

Ne scriverà la vita un chierico di Liegi, senza però averla conosciuta, dando scarsa importanza alle date e non distinguendo bene le vicende comuni dalle soprannaturali. Però fa emergere un fatto certo: l’influenza di Giuliana sulla Chiesa del tempo (e di sempre).Ecco una delle sue visioni: di notte, vede splendere in cielo la luna, ma attraversata da una misteriosa striscia buia. Secondo lei, questa “luna incompleta” raffigura la liturgia, al cui pieno splendore manca l’essenziale: una festa che onori il Corpo di Cristo sacrificato per l’umanità. Questa visione lei la tiene vent’anni per sé, e infine la confiderà solo alla romita Eva e alla beghina Isabella, infermiera dei lebbrosi. Un’alleanza a tre, per dare forma precisa a una religiosità eucaristica già ben presente in Liegi, nei sodalizi religiosi, nella predicazione e negli scritti di sacerdoti famosi, a cominciare dal X secolo col grande Raterio, futuro vescovo di Verona.Le tre donne coinvolgono preti e frati, comunità, parrocchie. Vengono a parlare con Giuliana i vescovi di Cambrai e di Liegi. A quest’ultimo, Roberto di Thourotte, lei chiede di istituire subito in diocesi quella festa, che si chiamerà del Corpus Domini.

Molti però sono contrari, il vescovo esita. Ma Giuliana va giù per conto suo, facendo già preparare in latino l’Ufficio (preghiere, letture, canti) per la nuova celebrazione. Quando si conosce in giro quel testo (che comincia con le parole Animarum cibus) se ne appassionano un po’ tutti: è letto, spiegato, cantato. Così sospinto, nel 1246 il vescovo istituisce la festa diocesana del Corpus Domini. Sosteneva l’iniziativa anche l’arcidiacono di Liegi, Giacomo Pantaléon, di Troyes (Francia). E proprio lui nel 1261 diventa Papa, col nome di Urbano IV. Come se avesse ancora Giuliana lì a spingerlo, nel 1264, con la bolla Transiturus, egli istituisce la festa del Corpus Domini per l’intera Chiesa.

Giuliana non vedrà queste cose. Priora del monastero di Mont-Cornillon nel 1230, instaura una disciplina rigorosa che non piace a tutti: nel 1248 lascia la carica, e si ritira in clausura a Fosses, presso Namur, dove muore dieci anni dopo. Il corpo viene poi sepolto nell’abbazia cistercense di Villers. Ma lei ha fatto in tempo a sapere che, dopo Liegi, anche la Germania occidentale (1252) già festeggiava il Corpus Domini.

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it/)

Taliesin, il Bardo

Taliesin
23-06-2014, 12.02.15
FIGLIA DI SUA FIGLIA: IDA DI NIVELLES.

Il nome “Ida” compare già nella mitologia greca, ove designa un monte dell’isola di Creta nel quale secondo il mito, Gea, la dea terra, avrebbe nascosto il piccolo Giove, per sottrarlo al padre Saturno, il tempo, vorace divoratore di ogni cosa ed addirittura dei propri figli.

In realtà alla santa venerata oggi fu conferito il nome germanico “Itta”, che solamente in un secondo momento fu assimilato ad “Ida”. Itta apparteneva al popolo dei Franchi, che a quel tempo era ancora un popolo di rudi guerrieri. Figlia del conte di Aquitania, ancora alquanto giovane sposò il beato Pipino di Landen, maestro di palazzo del re Dagoberto II d’Austrasia e dunque uno dei maggiori dignitari del regno.

Dopo il primogenito Grimoldo, che successe al padre Pipino, nacquero due figlie Begga e Gertrude, che furono rispettivamente badesse di Andenne-sur-Meuse e di Nivelles e sono venerate anch’esse come sante.La cura della famiglia non distolsero però Itta dalle sue devozioni religiose e dai suoi impegni spirituali. Cresciuti i figli, Itta e Pipino, anziché investire le loro ricchezze in beni da trasmettere agli eredi, preferirono dedicarsi alla fondazione di un grande monastero benedettino investendo così le loro risorse. Vide così la luce il monastero femminile di Nivelles nel Brabante, cioè nell’attuale Belgio, tra Bruxelles e Charleroi.

Tra le prime ad entrarvi per vivere secondo la Regola di San Benedetto vi fu Gertrude, loro giovanissima figlia, che dichiarò dinnanzi alla corte franca di scegliere la vita religiosa e di preferire l’obbedienza al Creatore piuttosto che l’autorità regia. Pare infatti che il re Dagoberto stesse ipotizzando un matrimonio con lei. Entrata nel monastero, ne venne eletta badessa all’età di appena vent’anni per le sue eccezionali qualità. Alla morte di Pipino, anche sua madre Itta si congedò dalla vita del mondo e si ritirò come semplice monaca nel monastero di Nivelles.Deposte le vesti di fondatrice, Itta divenne esempio vivente di come la santità si possa trasmettere non solo con il sangue, da genitori a figli, ma anche nel verso contrario a quello naturale, dai figli ai genitori.

Così a Nivelles, in una clima di profonda spiritualità, si invertirono i normali rapporti tra genitori e figli. La madre, anziana e sapiente, si trovò a doversi sottomettere umilmente e silenziosamente alla figlia e la giovane fanciulla, investita di una autorità trascendente dalla sua giovane età, divenne guida saggia e discreta di colei che l’aveva generata nella carne.

Questo incredibile cammino le portò a santificarsi entrambe vicendevolmente.Quando Ida morì, l’8 maggio 652, il monastero di Nivelles perse non solo la sua fondatrice, ma soprattutto la più modesta tra le sue religiose e la badessa Gertrude perse, oltre che la propria madre, la più obbediente delle sue figlie spirituali.

tratto da: www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it/)

Taliesin, il Bardo

Hastatus77
24-06-2014, 13.04.55
Ricordo nuovamente il seguente punti del regolamento (http://www.camelot-irc.org/forum/showthread.php?t=326).

4a. CONTENUTI4 - E' possibile citare fonti esterne a patto di:
- mettere ben in vista i link/riferimenti.
- inserire un commento di accompagnamento a ciascun contenuto esterno.
- separare opportunamente (con quote, ecc.) i contenuti esterni dai commenti personali.

elisabeth
24-06-2014, 15.30.53
Amo leggere tutto ciò che riesco a reperire.....in questo momento di silenzio .....Ringrazio Sir Guisgard per le sue poesie e Gdr...e ringrazio il nostro Bardo che nonostante tutto...ci illumina su fatti e persornaggi storici che non conosco.....


Mi chiedo...l'ammonimento a che pro e' stato fatto se le fonti da cui sono presi gli scritti sono sempre evidenziate ?....

Se voi Sir Hastatus mi spiegaste.....eviterò in futuro di fare errori...

Grazie....

Altea
24-06-2014, 15.48.05
Mi permetto di unirmi alle perplessità di lady Elisabeth, noto che sir Taliesin cita sempre le fonti..chiedo ai Cavalieri di questo regno di poter dare una spiegazione di tale ammonimento agli abitanti di Camelot.

Guisgard
24-06-2014, 15.57.30
Sir Hastatus ha riportato il punto 4 del nostro regolamento che disciplina l'utilizzo di fonti esterne inserite nelle varie discussioni.
In realtà si tratta di una precisazione che il nostro regolamento richiede qualora si usino appunto fonti esterne al forum.
Come il mettere ben in evidenza il link della fonte e ricordarsi di inserire commenti al materiale citato, distinguendolo così nella discussione.
L'intervento di Sir Hastatus è dunque nell'interesse della stessa discussione del nostro Taliesin, così da renderla più precisa, esauriente e facilmente consultabile da chi legge.
Insomma, per rendere il più efficace possibile un lavoro così interessante ed importante come quello prodotto dal nostro bardo :smile:

Altea
24-06-2014, 16.02.44
Sir Hastatus ha riportato il punto 4 del nostro regolamento che disciplina l'utilizzo di fonti esterne inserite nelle varie discussioni.
In realtà si tratta di una precisazione che il nostro regolamento richiede qualora si usino appunto fonti esterne al forum.
Come il mettere ben in evidenza il link della fonte e ricordarsi di inserire commenti al materiale citato, distinguendolo così nella discussione.
L'intervento di Sir Hastatus è dunque nell'interesse della stessa discussione del nostro Taliesin, così da renderla più precisa, esauriente e facilmente consultabile da chi legge.
Insomma, per rendere il più efficace possibile un lavoro così interessante ed importante come quello prodotto dal nostro bardo :smile:

Milord non metto in discussione il vostro buon operato per rendere migliore ogni discussione e spunti di discussioni ma ciò che non capisco è l'ammonimento...capirei, invece, il buon consiglio...mi permetto di chiedere l'eliminazione di questo ammonimento che, a mio parere, non trovo giustificato.

elisabeth
24-06-2014, 17.43.36
concordo sul consiglio...comprendo.......ma l'ammonimento non ha alcuna fonte di collocamento....mi spiace ...ma il punto 4 nel caso specifico non vi rientra......

Hastatus77
24-06-2014, 20.50.19
Signore, vi rispondo privatamente perché siamo in OT.

Taliesin
25-06-2014, 11.02.49
Povera Sofonisba...
Nonostante la sua vita agiata nelle corti prestigiose del suo tempo e la sua arte che ha sfiorato i secoli dell'oblio, così pacata nell'animo e così minuta nel corpo, avesse solamente potuto immaginare che, attraverso piccole gocce di biografia riportate da un Bardo di passaggio, avrebbe potuto scatenare una moderna inquisizione in proposito, mi avrebbe sicuramente maledetto nei secoli dei secoli.
Chiedo dunque venia a questa gentilissima Madonna per averla trascinata, suo malgrado, dinanzi a un tribunale che non potrà mai condannarla poichè è già assolta da coloro che hanno saputo vedere "oltre".

Grazie alla mia Lady Elisabeth, appassionata adulatrice dei miei sconclusionati scritti secolari e impersonificazione stessa delle emozioni contenute in quelle vite delle mie "Donne del Medioevo".

Grazie a Lady Altea, costante, dirompente e chiassosa voce dell'anima nel rispetto e nella cordialità, in un giardino sempre più silente e distaccato dall'essenza primeva di quell'impolverata Tavola Rotonda.

Grazie al Cavaliere dell'Intelletto per la sua garbata, amorevole ed amichevole puntualizzazione, che, nonostante non sia stata recepita in pieno dalla mia oramai inevitabile mente diroccata, ha sucitato una piacevole conferma di grande altruismo e bontà d'animo, raramente riscontrabili in questo e in quell'altro mondo...

Taliesin, il Bardo

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/6/67/Sofonisba_Anguissola_002.jpg/220px-Sofonisba_Anguissola_002.jpg (http://it.wikipedia.org/wiki/File:Sofonisba_Anguissola_002.jpg)

Autoritratto, 1554, olio su tela - Vienna Kunsthistorisches Museum

Taliesin
10-07-2014, 11.26.46
UNA VOCE SQUILLANTE NEL SILENZIO: ROSVITA DI GANDERSHEIM.

Rosvita, il cui nome latinizzato, come spiega lei stessa, assume il significato di Clamor Validus (voce squillante) , deriva probabilmente dall’antico alto tedesco hruod-suind o dall’antico sassone hrot-swith.

La nostra è una canonichessa vissuta nel decimo secolo, si ritiene sia nata intorno al 935 e morta dopo il 973; data della morte di Ottone I alla quale lei stessa accenna nella prefazione di una sua opera. Rosvita non ebbe grande successo nel medioevo e per questo i manoscritti che hanno tramandato le sue opere sono molto rari. Proprio per questo problema nell’800 viene sollevata una vera e propria “questione Rosvitana”.

Alcuni studiosi sostennero che la scrittrice non fosse mai esistita realmente, ma fosse stata creata dal suo scopritore Conrad Celtis, che nel ‘500 trovò il primo manoscritto delle opere di Rosvita. Fortunatamente la disputa filologica si è conclusa nel 1922 con il ritrovamento da parte di Goswin Frenken di un altro codice contenente gli scritti di Rosvita.

Rosvita visse quindi nel cosiddetto “secolo di ferro” nel particolare monastero di Gandersheim. Il cenobio fu fondato nel 852 dal duca di Sassonia Liudolfo, trisavolo di Ottone I. Già il titolo del suo fondatore può essere una prima spia per capire che fin dall’ inizio fu un istituto altamente aristocratico; le sue badesse appartenevano infatti alla famiglia imperiale e, dal 947, divenne a tutti gli effetti un principato autonomo. Sebbene ci sia chi sostiene che Rosvita sia entrata in convento relativamente tardi, ma la maggioranza della critica ritiene che Rosvita sia entrata in convento almeno da adolescente. A favore di questa tesi sta la sua ottima preparazione; acquisibile solo in ambito monastico e in lunghi anni.

La sua formazione fu merito prima della consorella Rikkardis che l’avviò allo studio delle discipline del quadrivio (musica, astronomia, matematica e geometria), successivamente della nuova badessa Gerberga, nipote dell’imperatore Ottone I che la indirizzò allo studio della retorica, dialettica e grammatica (discipline del trivio). Ella lesse direttamente Terenzio Virgilio e Ovidio, ma conobbe anche Lucano e Orazio. Tra gli autori tardo antichi e medioevali conosciuti dalla poetessa vanno citati almeno Agostino, Boezio ed Alcuino. Le “aspirazioni intellettuali” delle suore di Gandersheim frutto dell’ottima preparazione conseguita all’interno del monastero erano soprattutto “coltivare lo spirito, studiare i maggiori autori pagani e cristiani, e avere scambi con uomini colti”. Quest’ultimo punto implicava anche un ideale sociale che per le canonichesse non era irraggiungibile.

In Gandersheim, infatti, come anche in altri cenobi del tempo, vivevano sia monache che canonichesse. Le ancillae dei canonicaeo virgines non velatae si distinguevano dalle monache esteriormente, perché non portavano il velo e sostanzialmente, perché erano meno soggette alla regola benedettina: dovevano rispettare i voti di castità e di obbedienza, e partecipare ai sette uffici di preghiera giornalieri, ma al contempo godevano di forti libertà poiché non erano tenute a prendere voti di povertà e di clausura. Questa condizione privilegiata, poco gradita alla chiesa di Roma, risultava invece una soluzione ottimale per la sistemazione delle figlie dell’alta aristocrazia. Questa precisazione risulta di notevole importanza per comprendere il personaggio Rosvita come “donna del suo tempo” e tanto più importante per comprendere la natura del suo lavoro come scrittrice. L’essere canonichessa infatti le consentiva di frequentare liberamente la corte imperiale.

Diversi indizi ci parlano della frequentazione della corte da parte di Rosvita. Primo fra tutti è il brano in cui parla delle fonti adoperate per le sue leggende, dove dice di aver ricostruito la vicenda del martirio di Pelagio grazie al racconto di un testimone oculare originario di Cordova (luogo del martirio). Testimone che presumibilmente faceva parte di un’ambasceria inviata Abd ar-Rahman III a Ottone I.

Oltre questo evento particolare c’è chisostiene la possibilità che Rosvita avesse avuto contatti anche con Raterio da Verona che avrebbe influenzato lo stile della sua prosa rimata.
Altro indice dei rapporti con la vita culturale di palazzo sono le lettere stesse che la canonichessa indirizza agli intellettuali interlocutori delle sue commedie. Queste lettere-premessa sono molto importanti per il corpus delle commedie dal punto di vista programmatico e saranno affrontate più avanti.

Le opere
Le maggiori fonti di ispirazione per la nostra autrice sono i vangeli apocrifi e le agiografie. Le vite delle vergini martiri cristiane sono per lei il modello degli ideali di vita cristiana e da essi troverà il maggiore spunto per esaltare il potere della fede delle donne nelle sue opere.
L’opera di Rosvita si divide in tre libri.
Nel I libro si trova la dedica a Gerberga e la prefazione in cui si scusa con i lettori per i numerosi difetti della sua scrittura, seguono le otto leggende sacre dette anche poemetti agiografici. Maria, Ascensione, Gongolfo, Pelagio, Teofilo, Basilio, Dionigi, Agnese, tutte scritte in esametri leonini ad eccezione del Gongolfo scritto in distici elegiaci.
Il II libro comprende le commedie in prosa ritmata precedute da una prefazione in cui motiva la composizione dei drammi e si scusa per i suoi errori. A questi seguono alcuni versi che l’autrice scrisse sull’apocalisse a commento degli affreschi che la raffiguravano.
In conclusione il III libro contiene i Gesta Ottonis e i Primordia cenobii Gandeshemensis; due poemetti storici scritti in esametri leonini. Il primo parla della vita di Ottone I fino alla sua incoronazione ad imperatore, mentre il secondo parla della storia del convento di Gandersheim, fin dai primi prodigi avvenuti sul luogo di fondazione; quest’ opera fu probabilmente scritta con l’intento di far tornare il convento in “voga” mentre il cenobio viveva quel periodo di crisi che ne precedeva il declino.

I drammi
Volendo ora analizzare più nello specifico i drammi, converrà illustrare l’opera nella sua struttura e nei suoi intenti, facendo riferimento anche alle prefazioni.
Per capire la struttura tematica dei drammi conviene introdurre prima i poemetti, poiché il raffronto dei due cicli è utile alla comprensione del progetto dell’autrice. Le leggende o poemetti agiografici sono la prima opera in cui l’autrice afferma la sua forte volontà di scrivere. Rosvita è un caso eccezionale come letterata in quanto donna e per di più religiosa. Infatti già nella prefazione ai poemetti si nota la sua estrema professione di umiltà. Lei sa di essere molto preparata e molto intelligente, ma non perde occasione per scusarsi dei suoi errori e chiedere perdono ai suoi lettori. Quasi in contrasto con le sue umili cerimonie, Rosvita sa anche difendere molto bene la sua scelta di dedicarsi alla letteratura; scrive infatti di dover scrivere per celebrare Dio attraverso il talento che egli le ha donato. L’autrice inoltre difende la particolarissima scelta di usare come fonti i vangeli apocrifi affermando in proposito che “quod videtur falsitas forsan probabitur esse veritas”. Questo atteggiamento ambivalente nella premessa sembra quasi essere una “dissimulazione onesta” dell’autrice, che con queste professioni di modestia e umiltà cerca di evitare gli attacchi dei suoi contemporanei. Rosvita infatti poteva essere criticata sia perché donna sia perché religiosa e soprattutto a causa degli argomenti da lei trattati.

Inizia così a mostrarsi a noi, una figura sempre più originale di donna decisa e sapiente, che non esita (o meglio fa finta di esitare) ma afferma validamente le sue scelte. Chissà se dietro tutte queste professioni di umiltà, non si nasconda il timore di un eccessivo autocompiacimento, unito ovviamente alla più comprensibile “captatio benevolentiae”, dovuta alla sua condizione di donna e canonichessa. Per concludere l’analisi sul personaggio che emerge da queste formule rituali nelle premesse potrebbe essere utile citare Vinay che sottolinea il tentativo di riscatto di Rosvita come donna monaca e letterata. Veicolo di questa rivalsa sono i suoi personaggi femminili vincenti nella fede e nel confronto con il sesso opposto.
Dopo le leggende agiografiche Rosvita scrive le commedie. I due cicli, se raffrontati, rivelano l’intento di formare un solo grande lavoro con elaborate simmetrie interne. Cercherò di sintetizzare le corrispondenze più importanti.

Leggende
Drammi
Maria / Ascensione
Gallicano I-II
Gongolfo
Agape, Chionia e Irene
Pelagio
Drusiana e Callimaco
Teofilo
Maria la nipote di Abramo
Basilio
La conversione di Taide
Dionigi
La passione delle sante vergini.
Agnese
Apocalisse


I parallelismi sono soprattutto tematici. Tra tutte risaltano le composizioni centrali; “Teofilo” e “Basilio” per le leggende e “la conversione di Taide” e “Maria la nipote di Abramo” per le commedie. L’importanza data alla parabola esistenziale-religiosa dei personaggi che rinunciano a Dio per poi pentirsi e redimersi, sembra stare particolarmente a cuore alla nostra autrice che tratta la questione in quattro modi diversi.
Inoltre converrà sottolineare che le prime due commedie (Gallicano I – II) e le prime due leggende (Maria e Ascensione) formano un dittico strutturato da una prima parte più lunga e un’appendice più breve. Una piccola nota sulle prime due leggende è la centralità della figura di Maria (la cui infanzia è tratta dai vangeli apocrifi). La madre di Gesù sarà un personaggio importante anche nell’ascensione di Cristo per il discorso che egli le rivolge promettendole la sua ascensione al cielo.

Il Gongolfo e Agape, Chionia e Irene sono accomunati dalla commistione di elementi tragici e comici, mentre nucleo tematico del Pelagio e di Drusiana e Callimaco è l’ amore illecito. Altre storie di martirio sono trattate nel Dionigi e nel Sapienza (detto anche La passione delle sante vergini) , con la particolarità che i martiri sono sapienti - il primo è un filosofo e la seconda è la personificazione stessa della sapienza. L’ ultimo parallelismo è il più complesso: Agnese è una santa martire che rifiuta il matrimonio per la fede; il tema della verginità e del rifiuto del matrimonio chiude il cerchio rimandando ai temi di Maria e del Gallicano ( la protagonista Costanza rifiuta di consumare il matrimonio). Il collegamento ben più sottile, avanzato dal Kuhn per chiudere il ciclo, suggerisce prima il rimando al tema della verginità con l’incipit dell’Apocalisse “Il vergine Giovanni vide il cielo aperto” e aggiunge che l’argomento dell’apocalisse chiude idealmente il doppio ciclo di opere iniziato con l’infanzia di Maria fino all’ ascensione di Cristo. Questo lavoro così strutturato ha suggerito che Rosvita possa aver tratto ispirazione da qualche modello iconografico. Era possibile infatti che nei suoi soggiorni a corte abbia potuto ammirare dei cicli di affreschi come quelli della chiesa di palazzo contenenti scene dell’antico e del nuovo testamento. Nella storia dell’arte medievale infatti questi parallelismi sono molto frequenti poiché si riteneva che nel vecchio testamento ci fossero costanti richiami profetici al vangelo.

Finora è stato analizzato il contenuto del doppio ciclo, ma non la sua “forma”. Perché Rosvita scrive drammi? Perché decide di imitare uno scrittore pagano come Terenzio? A queste domande risponde lei stessa nella prefazione. Rosvita dichiara nella lettera di presentazione del suo lavoro, indirizzata agli intellettuali di corte, di voler scrivere drammi al modo di Terenzio, ma con contenuti cristiani a causa del successo che l’autore pagano riscuoteva all’epoca. Ella infatti dichiara che “vi sono molti cattolici [..], che per la raffinata eleganza della lingua antepongono la frivolezza dei libri pagani all’utilità delle Sacre Scritture” o che anche attenendosi ad esse non, disdegnano, per il piacere della lettura la “dolcezza della sua lingua (Terenzio)”,rendendosi comunque soggetti alla contaminazione delle nefandezze pagane. Suo intento è quindi quello di usare la forma terenziana che risultava di maggior presa sul pubblico, ma modificandone i contenuti. L’ argomento dei suoi drammi sostituirà alle “oscene sconcezze di donne senza pudore […] l’ encomiabile illibatezza di sante vergini cristiane”. Rosvita quindi opera, nei confronti del commediografo pagano, una “riscrittura antifrastico – emulativa” (Cit. Giovini). Il succitato studioso inoltre analizza il rapporto tra Rosvita e il classico Terenzio attraverso il principio del “furto sacro”; un concetto diffuso nella cultura cristiana medioevale attraverso il De doctrina Christiana di Agostino. Egli si rifà ad un passo dell’ esodo che narra di come gli ebrei in fuga dall’egitto rubarono (per volere di Dio) dei vasi precedentemente prestati agli egiziani. Spiega così, in modo figurato, il comportamento da adottare dagli scrittori cristiani rispetto al sapere classico proprio per recuperare le verità contenute nei testi classici e destinarle ad un uso migliore.
In conclusione, un’altra cifra caratteristica del lavoro di Rosvita è, come precedentemente accennato, la centralità della figura positiva della donna. La donna nei drammi di Rosvita vince con la forza della fede sugli uomini e le loro debolezze, cercando così un riscatto dalla mentalità misogina medioevale.

Taliesin, il Bardo

Testi di Riferimento:
E. D'Angelo, Storia della letteratura mediolatina.
Rosvita - Dialoghi drammatici a cura di Ferruccio Bertini
Peter Dronke, Donne e cultura nel medioevo
Maria Pasqualina Pillola, Introduzione a - Gesta Ottonis imperatoris, Hrotsvitha Gandeshemensis
Gustavo Vinay - "Rosvita: una canonichessa acora da scoprire?" in Alto medioevo latino
Marco Giovini - Rosvita e l'imitari dictando Terenziano
tratto da: www.italiamedioevale.org (http://www.italiamedioevale.org/)

Taliesin
14-08-2014, 11.31.23
LA TRAGHETTATRICE DI ANIME E DI POPOLI: OLGA DI KIEV

Olga è tra i primi santi russi-slavi inseriti nel Calendario cattolico bizantino; è considerata l’anello di congiunzione tra l’epoca pagana e quella cristiana, nella storia dei popoli russi.
Le fonti che parlano di lei sono numerose e tutte di rilevanza storica, da esse apprendiamo che Olga nacque nell’890 nel villaggio Vybuti a pochi km da Pskov, sul fiume Velika.

Bellissima popolana era addetta al traghettamento delle persone sul fiume stesso; nel 903 fu vista dal principe Igor Rjurikovic che volle sposarla sebbene giovanissima. In realtà Olga o Helga era figlia di un capo variago, tribù normanna di origine scandinava, che proveniente dal Nord si occupavano di traffici e commerci lungo la via del Volga, del Mar Nero e del Caucaso; sicuramente il padre era sorvegliante e responsabile di qualche punto strategico di questo percorso.

Il loro matrimonio fu il simbolo concreto della fusione del popolo russo-slavo con quello variago, che alla fine del secolo IX cominciava ad attuarsi sotto il benefico influsso del Cristianesimo.

Nell’anno 945 il principe Igor, marito di Olga, fu ucciso dai Drevljani ed ella con un temperamento retto ma violento, vendicò con fermezza l’assassinio, mandando a morte molti capi nemici e imponendo ai superstiti tributi e tasse di ogni genere.
Divenne reggente del principato di Kiev, per il figlio Svjatoslav di tre anni, governò con saggezza politica, riuscendo a far diventare tributaria di Kiev la stessa importante provincia di Novgorod; amata dal popolo che le riconosceva il merito di essere giusta e misericordiosa, ma anche inflessibile, educò rettamente il figlio, anche se non ebbe la gioia di saperlo cristiano, dopo che lei verso il 957, si era convertita al cristianesimo.Sarà uno dei nipoti Vladimiro a darle questa soddisfazione, infatti non solo diventò cristiano e battezzato, ma diventerà "battezzatore della Rus’", "nuovo apostolo" e santo della Chiesa.

La prima conversione del popolo russo-variago fu nell’862 attraverso i bizantini, poi ci fu l’opera di apostolato dei santi Cirillo e Metodio e pur attraversando un periodo di persecuzione da parte dei refrattari Variaghi, il cristianesimo si andò affermando in tutto lo Stato, di pari passo con la diffusione della lingua slava e già al tempo del governo del principe Igor, esisteva a Kiev una chiesa dedicata al profeta Elia.

Olga con la sua conversione e con la sua opera contribuì attivamente all’evangelizzazione del regno " Rus’".
Tentò di stringere legami solidi con l’Impero di Bisanzio, desiderando di sposare il figlio Svjatoslav con una principessa bizantina; nel 957 si recò personalmente a Costantinopoli, ma il viaggio risultò infruttuoso fra la delusione dei cristiani e la soddisfazione dei pagani.
Allora i cristiani si appoggiarono all’imperatore Ottone I di Sassonia e nel 959 gli chiesero di inviare un vescovo per la Russia, che purtroppo nel 962 fu scacciato da una rivolta pagana.

Olga pregava giorno e notte per la conversione del figlio e per il bene dei sudditi, al termine della reggenza, secondo le leggi di allora, si ritirò nei suoi possedimenti privati, dove continuò nella sua opera di apostolato e missionaria, costruì alcune chiese fra cui quella in legno di S. Sofia a Kiev.
Visse piamente e morì a circa 80 anni l’11 luglio 969. Dice il suo biografo Giacomo: prima del Battesimo la sua vita fu macchiata da debolezze e peccati, crudeltà e sensualità; ella ciononostante divenne santa non certo per suo merito, ma per un disegno speciale di Dio sul popolo russo.

La venerazione per Olga cominciò sotto il governo del nipote s. Vladimiro, che nel 996 fece trasportare il corpo nella chiesa da lui fatta costruire. La festa fu fissata all’11 luglio, venerazione che fu poi confermata dal Concilio Russo del 1574.

I mongoli, nel 1240 invasero e distrussero completamente Kiev, 400 anni dopo il metropolita della città Pietro Moghila, fece restaurare le antiche chiese distrutte e le reliquie di s. Olga sembra che siano state ritrovate, ma dal 1700 non si hanno più notizie di dove siano.

Taliesin, il Bardo

tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di antonio borrelli

elisabeth
14-08-2014, 19.36.10
Amato Bardo.......la ricerca sulle Donne di un tempo.......ha il sapore di donne vissute nel mondo moderno.........vi sono grata per la vostra ricerca.....

Taliesin
18-09-2014, 10.19.30
L'ALTRA DONNA DEL RE: MARIA BOLENA.

Poco si sa della vita di Mary Boulen:la sua memoria nella storia è legata a due fattori che sono indipendenti dal suo essere donna e persona.

Il primo è che era la sorella di Anna,seconda moglie di Henrico VIII, Re d'inghilterra e donna che ,con la sua relazione con il sovrano ,portò il paese allo scisma.Il secondo fattore è che Mary,prima di Anna,fu amante del re e ,probabimente,ebbe da lui due figli mai riconosciuti.

Leggendo invece il percorso esistenziale di Mary ci si rende conto che fu donna intelligente ed abile nelle relazioni a corte e che tra le tre ragazze Bolena-Howard fu l'unica,che dopo aver condiviso il letto con il re,salvò la testa,ebbe un'ottima sistemazione matrimoniale e visse a lungo.Sia Anna che Katerina Howard,loro prima cugina e quarta moglie di Henry,furono decapitate e i loro vessili ed insegne cancellate a disperderne la memoria.

Maria nasce nel castelo di Hever da una nobile famiglia con qualche problema economic,suo padre è un Boulen,legato ai Tudore,ma la madre che appartiene ai grandi e potenti Howard,lega la famiglia anche agli York:per i tempi due alleanze di simile fatta non erano male.
Le due ragazze(c'è anche un fratello George che avrà un drammatico ruolo nella caduta di Anna),compiono il percorso di tutte le nobili giovinette inglesi del tempo,compreso un soggiorno alla raffinata corte di Francia.

La corte francese era un pò come un collegio svizzero di oggi,o un soggirno di studio negli states:dava accrediti e insegnava le buone maniere,non specifiche della rude corte Tudor,ma apprezzatissime.Indubbiamente lo scopo della famiglia era "sistemare"le due fanciulle con nobili di corte,tenendo conto solo della loro grazia,perchè la dote scrseggiava.Il destino aiutò Maria che appena tornata dalla Francia colpì il re.In quel momento Enrico era annoiato della moglie Caterina,donna severa di educazione spagnola(era figlia di Isabella d'Aragona e Ferdinando di Castiglia),ma era sopratutto deluso dal fatto che l'Aragona non riuscisse a partorire figli maschi.La regina era inoltre più vecchia di lui e non proprio una bellezza.

Maria era sposata,a quel momento,con William Cary,nobile della camera da letto del re,ma il fatto non costituì impedimento e forse il più contento fu William che si prese una serie inaspettata di benefici.
Maria Bolena diviene amante ufficiale del Tudor un anno esatto dopo il matrimonio nel 1521 e rimane al suo fianco per sei anni.Partorisce due figli,indubbiamente di Enrico,ma non ne chiede,nè ottiene il riconoscimento di bastardi del re per i suoi figli.Maria non chiede nulla,si gode quel periodo di grossi privilegi e aspetta.Da donna intelligente comprende di essere una meteora e comprende anche che il suo silenzio e la sua discrezione le consentiranno di salvarsi.Il re detesta le complicazioni e c'è inoltre una regina ed un'altra amante ufficiale con un figlio riconosciuto.

Alle complicazioni ci penserà inatti la sorella Anna.

Si sa che nel 1527 la passione del re è finita e le sue attenzioni si rivolgono ora alla capricciosa Anna.
Maria capisce di essere di imbarazzo alla famiglia(le mire con Anna sono alte)alla sorella e,più pericoloso,al sovrano.
William Carey è morto nel 1528 e Maria accetta la corte e la proposta di matrimonio di William Stafford soldato privo di ogni nobiltà.
Un buon modo per allontanarsi dalla corte e farsi dimenticare.Maria e William si ritirano nella tenuta di lei a Rochford,Essex.Non comparirà mai più a corte e non si farà vedere nè nell'apice della gloria di Anna,nè nella sua rapida caduta.

Sarà la sua salvezza:muore di morte naturale(probabilmente di influenza inglese)il19 luglio 1543.

tratto da: www.perstorie.it (http://www.perstorie.it)

Taliesin, il Bardo

Taliesin
18-09-2014, 12.06.49
LA FAVORITA DEL RE: ANNA BOLENA

Anna Bolena (italianizzazione del nome inglese di Anne Boleyn) nasce nel 1507, benché la data non sia certa, nel castello di Hever nel Kent, Inghilterra sud-orientale. La sua famiglia è di origini nobili, il padre Thomas Boleyn è conte del Wiltshire, mentre la madre è figlia di Thomas Howard, secondo duca di Norfolk. Anna ha una sorella e un fratello e cresce in una famiglia agiata ma che non ricopre ancora incarichi a corte, anche se il potente zio, il duca di Norfolk, è uno dei consiglieri del re. Thomas Boleyn è però un uomo abile e diplomatico e riesce a far educare entrambe le figlie alla corte del re di Francia, prima quella di Luigi XII e poi quella di Francesco I.


Anna in particolare manterrà per diversi anni un forte rapporto con la corte di Francesco I e così farà sua sorella. Al suo ritorno in patria, Anna Bolena diventa dama di corte della regina Caterina d'Aragona. La regina è una donna forte, dalla fede incrollabile con una forte consapevolezza del suo ruolo e del suo destino, ma ha una debolezza: non riesce a dare un figlio maschio al re, che desidera un erede più di ogni altra cosa.


Il re è Enrico VIII un uomo illuminato, dalla forte cultura umanistica e con una particolare predisposizione e predilezione per le arti e la cultura. E' un uomo giovane quando sposa Caterina, ha 18 anni e la sua responsabilità di re, da poco salito al trono dopo la morte del padre e del fratello, lo opprime come un peso enorme e tuttavia se la cava bene e probabilmente ama Caterina, che non è solo la zia di Carlo V imperatore ma anche una donna amata dal popolo e rispettata da tutti.


Enrico diventa un re a tutti gli effetti e vive le ansie di un'eredità e di una continuità della sua famiglia, i Tudor, saliti al trono grazie a suo padre che ha vinto la "guerra delle due Rose". Quando Anna Bolena giunge a corte il matrimonio con Caterina è già minato e Anna ne diviene una delle sue cortigiane, facendosi notare dal re. Quasi subito inizia una relazione fra i due, che anche se tenuta nascosta, viene conosciuta da tutti, compresa la regina.


Anche il principale consigliere del re, Thomas Wolsey, arcivescovo e uomo di stato, ne viene a conoscenza e osteggia Anna e la sua famiglia, ma nulla può di fronte all'amore del re, che perde interesse e fiducia nel suo consigliere. La figura di Anna a questo punto diventa più ambigua, perché sono molti i suoi nemici e perché il fatto di essersi infilata nel letto del re la mostra come una ruba mariti agli occhi non solo dei notabili ma anche del popolo. Sia il padre che lo zio la proteggono e la aiutano a crescere all'interno dei delicati equilibri della corte inglese.


Nel frattempo il re perde la testa completamente e decide di sposarla. Nel 1533 sposa Anna Bolena mentre i suoi consiglieri cercano tutti gli appigli legali e teologici per far invalidare il matrimonio con Caterina. Quando il matrimonio viene reso ufficiale, la sovrana lo impugna davanti alla legge ma perde la causa e cade in disgrazia e pertanto dove lasciare il palazzo reale. Anna è già incinta quando si sposa e da alla luce la futura Elisabetta I d'Inghilterra. Enrico decide di farla incoronare nel maggio del 1533 ma il popolo non le riconosce quel rispetto che aveva tributato a Caterina.


Nel frattempo il papa Clemente VII decide di scomunicare il re non riconoscendo il matrimonio e dando inizio allo scisma che porta alla nascita della Chiesa Anglicana, tutt'ora esistente.
Negli anni seguenti, questo matrimonio e lo scisma fra le due Chiese comporta una serie di conseguenze deflagranti sia nella politica che nelle istituzioni religiose.


La sua influenza nei confronti del re cresce e nei tre anni successivi al matrimonio la famiglia Bolena viene, in particolare il padre e il fratello, arricchita dal re ricevendo terreni, titoli e incarichi diplomatici. Durante questi tre anni i coniugi reali tentano di avere altri figli, ma senza successo: Anna subisce tre diversi aborti spontanei e la nascita di un bambino morto. Il re nel frattempo attraversa un periodo di forte instabilità, il suo regno ha problemi con la Francia e con la Spagna, l'economia soffre e le congiure di palazzo lo ossessionano. La mancanza di un erede diventa quindi un problema di Stato e Anna comincia a cadere in disgrazia.


Il re decide di sbarazzarsene e così fa accusare la regina di stregoneria e di averlo sottoposto a una magia per indurlo a sposarla; inoltre grazie all'astuzia di Thomas Cromwell, ex alleato di Anna e della sua famiglia, imbastisce un processo in cui cinque uomini dichiarano di aver avuto dei rapporti sessuali con la regina, fra questi anche il fratello di lei. Tutti vengono condannanti a morte, compresa Anna Bolena che per un periodo risiede nella Torre di Londra con la speranza che il re la grazi. Questo però non succede, e il 19 maggio 1536 Anna Bolena viene giustiziata con il taglio della testa e così avviene per gli altri cinque condannati. Thomas Boleyn assiste impotente alla morte della figlia e del figlio perché graziato dal re che gli intima di lasciare la corte.


La regina Anna Bolena è una figura sulla quale in anni recenti si è fatta un po' più di luce, rilevando doti che sono sempre state trascurate dalla storiografia, come ad esempio la sua attenzione per l'umanesimo e per una riforma della chiesa non in chiave eretica bensì teologica.

tratto da: www.biografieonline.it (http://www.biografieonline.it/)

Taliesin, il Bardo

Altea
18-09-2014, 14.52.07
Sir Taliesin avete narrato la storia di due sorelle che mi hanno sempre affascinato..ho letto con passione il libro "l'altra donna del re"..ho ammirato Maria..pedina della sua famiglia poi spiazzata e spodestata dal suo ruolo di..favorita..dalla stessa sorella.
A volte mi sono chiesta se Maria Bolena amasse davvero Enrico VIII..
Grazie per questo contributo.:smile:

Taliesin
18-09-2014, 16.26.16
Milady Altea...
Sapevo, visti i vostri passati interventi a proposito di questo argomento e del personaggio femminile in questione, caduti oramai in quegli scaffali polverosi e risucchiati nei silenti corridoi di un giardino appassito, che sareste accorsa in aiuto della povera Maria Bolena, ridonando lustro al suo spirito, magistralmente presentato nel libro che avete citato.
Per rispondere alla vostra domanda Milady, io credo, senza ombra di dubbio, che nonostante i tradimenti, le sofferenze, gli strazianti dolori fisici e dell'anima, Maria abbia veramente amato quel Re, come il primo uomo che abbia fisicamente incontrato, come un padre che non mai avuto, come una madre, come una sorella, come una Libertà.

Grazie Milady, anche per Lei...grazie di cuore per avere soffermato su di Lei, come sempre, il vostro cuore.

Taliesin, il Bardo

Altea
18-09-2014, 16.32.08
Milady Altea...
Sapevo, visti i vostri passati interventi a proposito di questo argomento e del personaggio femminile in questione, caduti oramai in quegli scaffali polverosi e risucchiati nei silenti corridoi di un giardino appassito, che sareste accorsa in aiuto della povera Maria Bolena, ridonando lustro al suo spirito, magistralmente presentato nel libro che avete citato.
Per rispondere alla vostra domanda Milady, io credo, senza ombra di dubbio, che nonostante i tradimenti, le sofferenze, gli strazianti dolori fisici e dell'anima, Maria abbia veramente amato quel Re, come il primo uomo che abbia fisicamente incontrato, come un padre che non mai avuto, come una madre, come una sorella, come una Libertà.

Grazie Milady, anche per Lei...grazie di cuore per avere soffermato su di Lei, come sempre, il vostro cuore.

Taliesin, il Bardo

Grazie a Voi sir Taliesin..poichè pure io nel Cuore di Maria Bolena lessi tanto amore per quel Re...e mi sono sempre chiesta se il mio fosse solo un abbaglio, e mi compiaccio di questo gradevole confronto.

Taliesin
30-12-2014, 12.45.02
LA MACCHINA DI DIO: ROSA DA VITERBO.

Nata da famiglia di modeste condizioni, a 17 anni entrò nell’ordine delle terziarie dopo aver avuto una visione. In questo periodo fece diversi pellegrinaggi e soprattutto una dura penitenza. Mentre si faceva intensa la guerra tra Guelfi e Ghibellini insieme alla famiglia fu esiliata: tornò in patria dopo la morte di Federico II, ma la sua vita fu assai breve. Sulla sua morte non si sa praticamente nulla solo che alcuni anni più tardi il suo corpo è stato ritrovato intatto.

Nel 1252 papa Innocenzo IV pensa di farla santa, e ordina un processo canonico, che forse non comincia mai. La sua fama di santità cresce ugualmente, e nel 1457 Callisto III ordina un nuovo processo, regolarmente svolto: ma nel frattempo muore, e Rosa non verrà mai canonizzata col solito rito solenne. Ma il suo nome è già elencato tra i santi nell’edizione 1583 del Martirologio romano. Via via si dedicano a lei chiese, cappelle e scuole in tutta Italia, e anche in America Latina.

Vita breve, la sua. Nasce dai coniugi Giovanni e Caterina, forse agricoltori nella contrada di Santa Maria in Poggio. Sui 16-17 anni, gravemente malata, ottiene di entrare subito fra le terziarie di san Francesco, che ne seguono la regola vivendo in famiglia. Guarita, si mette a percorrere Viterbo portando una piccola croce o un’immagine sacra: prega ad alta voce ed esorta tutti all’amore per Gesù e Maria, alla fedeltà verso la Chiesa. Nessuno le ha dato questo incarico. Viterbo intanto è coinvolta in una crisi fra la Santa Sede e Federico II imperatore. Occupata da quest’ultimo nel 1240, nel 1247 si è “data” accettandolo come sovrano.

Rosa inizia la campagna per rafforzare la fede cattolica, contro l’opera di vivaci gruppi del dissenso religioso, nella città dove comandano i ghibellini, ligi all’imperatore e nemici del papa. Un’iniziativa spirituale, ma collegata alla situazione politica. Per questo, il podestà manda Rosa e famiglia in domicilio coatto a Soriano del Cimino. Un breve esilio, perché nel 1250 muore Federico II e Viterbo passa nuovamente alla Chiesa. Ma non sentirà più la voce di Rosa nelle strade.

La giovane muore il 6 giugno probabilmente del 1251 (altri pongono gli estremi della sua vita tra il 1234 e il 1252). Viene sepolta senza cassa, nella nuda terra, presso la chiesa di Santa Maria in Poggio. Nel novembre 1252 papa Innocenzo IV promuove il primo processo canonico (quello mai visto) e fa inumare la salma dentro la chiesa. Nel 1257 papa Alessandro IV ne ordina la traslazione nel monastero delle Clarisse. E forse vi assiste di persona, perché trasferitosi a Viterbo dall’insicura Roma (a Viterbo risiederanno i suoi successori fino al 1281).

La morte di Rosa si commemora il 6 marzo. Ma le feste più note in suo onore sono quelle di settembre, che ricordano la traslazione del corpo nell’attuale santuario a lei dedicato. Notissimo è il trasporto della “macchina” per le vie cittadine: è una sorta di torre in legno e tela, rinnovata ogni anno, col simulacro della santa, portata a spalle da 62 uomini. Si ricorda nel 1868 anche l’iniziativa del conte Mario Fani che col circolo Santa Rosa, a Viterbo, anticipava la Società della Gioventù Cattolica, promossa poi dai cattolici bolognesi con Giovanni Acquaderni. Nel 1922 Benedetto XV ha proclamato Rosa patrona della Gioventù Femminile di Azione Cattolica.

A Viterbo, di cui è patrona della città e compatrona della diocesi, è ricordata il 4 settembre, giorno della traslazione.

Tratto da: www.santiebeati.it di Domenico Agasso

Taliesin, il Bardo

Taliesin
30-12-2014, 12.54.00
CONSCRATA A CRISTO: CRISTINA DA BOLSENA.

Cristina fa parte di quel gruppo di sante martiri, la cui morte o i supplizi subiti si imputano ai padri, talmente snaturati e privi di amore, da infliggere a queste loro figlie i più crudeli tormenti e dando loro la morte, essi che l’avevano generate alla vita.

Da scavi archeologici eseguiti fra il 1880 e il 1881 nella grotta situata sotto la Basilica di Santa Cristina a Bolsena, si è accertato che il culto per la martire era già esistente nel IV secolo; dal fondo della grotta-oratorio si apre l’ingresso alle catacombe, che contengono una sua statua giacente in terracotta dipinta e il sarcofago dove furono ritrovate le reliquie del corpo della santa.

Al tempo dell’imperatore Diocleziano (243-312) la fanciulla di nome Cristina, figlia del ‘magister militum’ di Bolsena, Urbano, era stata rinchiusa dal padre insieme con altre dodici fanciulle, in una torre affinché venerasse i simulacri degli dei come se fosse una vestale.
Ma l’undicenne Cristina in cuor suo aveva già conosciuto ed aderito alla fede cristiana, si rifiutò di venerare le statue e dopo una visione di angeli le spezzò. Invano supplicata di tornare alla fede tradizionale, fu arrestata e flagellata dal padre magistrato, che poi la deferì al suo tribunale che la condannò ad una serie di supplizi, tra cui quello della ruota sotto la quale ardevano le fiamme.

Dopo di ciò fu ricondotta in carcere piena di lividi e piaghe; qui la giovane Cristina venne consolata e guarita miracolosamente da tre angeli scesi dal cielo. Risultato vano anche questo tentativo, lo snaturato ed ostinato padre la condannò all’annegamento, facendola gettare nel lago di Bolsena con una mola legata al collo. Prodigiosamente la grossa pietra si mise a galleggiare invece di andare a fondo e riportò alla riva la fanciulla, la quale calpestando la pietra una volta giunta, lasciò (altro prodigio) impresse le impronte dei suoi piedi; questa pietra fu poi trasformata in mensa d’altare.

Di fronte a questo miracolo, il padre scosso e affranto morì, ma le pene di Cristina non finirono, perché il successore di Urbano, il magistrato Dione, infierì ancora di più.

La fece flagellare ma inutilmente, poi gettare in una caldaia bollente piena di pece, resina e olio, da cui Cristina uscì incolume, la fece tagliare i capelli e trascinare nuda per le strade della cittadina lagunare, infine trascinatala nel tempio di Apollo, gli intimò di adorare il dio, ma la fanciulla con uno sguardo fulminante fece cadere l’idolo riducendolo in polvere.

Anche Dione morì e fu sostituito dal magistrato Giuliano, che seguendo i suoi predecessori continuò l’ostinata opera d’intimidazione di Cristina, gettandola in una fornace da cui uscì ancora una volta illesa; questa fornace chiamata dal bolsenesi ‘Fornacella’, si trova a circa due km a sud della città; in un appezzamento di terreno situato fra la Cassia e il lago di Bolsena, nel Medioevo fu inglobata in un oratorio campestre.

Cristina fu indomabile nella sua fede, allora Giuliano la espose ai morsi dei serpenti, portati da un serparo marsicano, i quali invece di morderla, presero a leccarle il sudore, la tradizione meno realistica della leggenda, vuole che i serpenti si rivoltarono contro il serparo mordendolo, ma Cristina mossa a pietà, lo guarì.

Seguendo le ‘passio’ di martiri celebri come s. Agata, la leggendaria ‘Passio’ dice che Giuliano le fece tagliare le mammelle e mozzare la lingua, che la fanciulla scagliò contro il suo persecutore accecandolo. Infine gli arcieri, come a s. Sebastiano, la trafissero mortalmente con due frecce.

Questo il racconto leggendario della ‘Passio’ redatta non anteriore al IX secolo, il cui valore storico è quasi nullo, precedenti ‘passio’ greche sostenevano che Cristina, il cui nome latino significa “consacrata a Cristo”, fosse nata a Tiro in Fenicia, ma si tratta di un errore dovuto al fatto che la prima ‘passio’ fu redatta in Egitto e che per indicare la terra degli Etruschi chiamati Tirreni dai Greci, si usava l’abbreviazione ‘Tyr’ interpretata erroneamente come Tiro.

Le reliquie ebbero anche loro un destino avventuroso, furono ritrovate nel 1880 nel sarcofago dentro le catacombe poste sotto la basilica dei Santi Giorgio e Cristina, chiesa risalente all’XI secolo e consacrata da papa Gregorio VII nel 1077.

Le reliquie del corpo, anzi di parte di esso sono conservate in una teca, parte furono trafugate nel 1098 da due pellegrini diretti in Terrasanta, ma essi giunti a Sepino, cittadina molisana in provincia di Campobasso, non riuscirono più a lasciare la città con il loro prezioso carico, per cui le donarono agli abitanti.

Questo l’inizio del culto della santa molto vivo a Sepino, le reliquie costituite oggi solo da un braccio, sono conservate nella chiesa a lei dedicata; le altre reliquie furono traslate tra il 1154 e 1166 a Palermo, che proclamò la martire sua patrona celeste, festeggiandola il 24 luglio e il 7 maggio; la devozione durò almeno fino a quando non furono “scoperte” nel secolo XVII le reliquie di santa Rosalia, diventata poi patrona principale. A Sepino, s. Cristina viene ricordata dai fedeli ben quattro giorni durante l’anno

A Bolsena, s. Cristina viene festeggiata con una grande manifestazione religiosa, la vigilia della festa il 23 luglio sera, nella oscurata piazza antistante la basilica, viene portato in processione il simulacro della santa posto su una ‘macchina’ a forma di tempietto, contemporaneamente sulla destra del sagrato si apre il sipario di un palchetto illuminato, dove un quadro vivente rappresenta in silenzio una scena del martirio e ciò si ripete in ogni piazza e su altrettanti piccoli palchi dove giunge la processione; la manifestazione è chiamata “I Misteri di s. Cristina”.

La processione cui partecipa una folla di fedeli, si svolge per strade e piazze di Bolsena, finché arriva in cima al paese nella Chiesa del Santissimo Salvatore, lì la statua si ferma tutta la notte e la mattina del 24, giorno della festa liturgica di s. Cristina, si riprende la processione di ritorno con le stesse modalità e giungendo infine di nuovo nella Basilica a lei dedicata.
I “Misteri” sono una manifestazione religiosa che sin dal Medioevo, onora alcuni santi patroni in varie città d’Italia specie del Centro.

Bisogna infine qui ricordare che la Basilica di S. Cristina possiede l’altare che come già detto è formato dalla pietra del supplizio della martire e che proprio su quest’altare nel 1263 un sacerdote boemo, che nutriva dubbi sulla verità della presenza reale del Corpo e Sangue di Gesù nell’Eucaristia, mentre celebrava la Messa, vide delle gocce di sangue sgorgare dall’ostia consacrata, che si posarono sul corporale e sul pavimento, l’evento fu riferito al papa Urbano IV, che si trovava ad Orvieto, il quale istituì l’anno dopo la festa del Corpus Domini.

La ‘passione’ di santa Cristina ha costituito un soggetto privilegiato da parte degli artisti di ogni tempo, come Signorelli, Cranach, Veronese, Dalla Robbia, i quali non solo la rappresentarono in scene del suo martirio con i suoi simboli, la mola, i serpenti, le frecce, ma arricchirono con le loro opere di pittura, scultura e architettura, la basilica a lei dedicata, maggiormente dopo avvenuto il miracolo eucaristico.


tratto da:www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it) di Antonio Borrelli
Taliesin, il Bardo

elisabeth
30-12-2014, 17.11.31
Amato Bardo.....avete riportato tra queste mura la vita di donne che hanno cercato di donare se stesse a chi ne aveva bisogno......lo hanno fatto attraverso la sofferenza, la rinuncia...la preghiera...e il loro stesso esempio nel quotidiano.......cresce la conoscenza....

Taliesin
31-12-2014, 10.55.50
Lady Elisabeth...
Nelle vostre parole c'è il disegno preciso della Conoscenza poichè attraverso la vostra Missione quotidiana in Loro vi siete compiaciuta e rispecchiata, come un riflesso d'inverno in uno specchio d'acuqa calma. Grazie...

Taliesin, il Bardo

Altea
02-01-2015, 16.19.30
Ancora una volta ho avuto modo di conoscere donne coraggiose nel nome del Signore, essendo se stesse e mai rinnegando ciò che erano..grazie sir Taliesin

Taliesin
02-01-2015, 16.24.39
Milady Altea...
Grazie come sempre a voi, per essere transitata attraverso queste antiche teche dove sono racchiusi dipinti di cuori che, nel loro pulsare e nel loro essere, sono giunti fino alle pendici del vostro.

Taliesin, il Bardo

Galgan
21-03-2015, 03.37.13
Così, senza pretese, ho pensato di riportare all'attenzione questo angolo di Camelot così significativo, e bisognoso di essere contemplato.

Altea
22-03-2015, 18.31.27
Così, senza pretese, ho pensato di riportare all'attenzione questo angolo di Camelot così significativo, e bisognoso di essere contemplato.

Sono concorde col vostro gesto, mancano i racconti di queste donne..avrei voluto saperne di Ludovica Albertoni..raffigurata da Bernini in una bellissima scultura e di cui venni a conoscenza per uno studio personale e familiare direi. Potrei osare scrivere di lei ma vorrei sentirlo narrare da chi ha continuato questo meraviglioso topic.

Galgan
23-03-2015, 15.58.47
Potrei osare scrivere di lei ma vorrei sentirlo narrare da chi ha continuato questo meraviglioso topic.

Beh, potreste farlo, in modo che, quando il Buon Bardo farà ritorno in questi luoghi, potrà vedere, secondo me con vero piacere, che qualcuno ha portato avanti il suo messaggio.

elisabeth
24-03-2015, 14.58.06
Margherita Porete

Beghina teologa. Di Margherita Porete, originaria della contea dell’Hainaut, nelle Fiandre, vicina al Brabante e nata forse verso il 1250/1260, sappiamo molto poco: l’unico dato certo sulla sua vita è la sua condanna al rogo per eresia (pro convicta et confessa ac pro lapsa in heresim seu pro heretica), eseguita il 1° giugno 1310 in Place de Grève a Parigi. I cronisti del tempo la definiscono pseudomulier e quindi beghina, e anche beguine clergesse e beghine en clergrie mult suffissant, ovvero una beghina colta, facendo notare anche che essa aveva tradotto le Sacre Scritture in volgare, e suggerendoci in tal modo quale dovesse essere la sua cultura e la sua grande conoscenza della teologia, come del resto possiamo capire anche dal livello della sua riflessione ad un tempo mistica e spiccatamente filosofica. La storia del processo a Margherita e al suo libro, il Miroir des simples âmes, può essere scandito essenzialmente in due momenti. Una prima volta il Miroir fu bruciato a Valenciennes, in sua presenza, al termine di un processo diocesano fatto istituire da Guido da Colmieu, vescovo di Cambrai, in un anno imprecisato del suo episcopato (1296-1306). In questa occasione il vescovo diffidò inoltre Margherita dal dare pubblica lettura del suo libro in presenza di altre persone o dal farlo leggere da altri; ella invece continuò a far circolare il proprio libro dopo averlo probabilmente riscritto. Questa grande circolazione della sua opera (nonostante la condanna per eresia, il Miroir ci è giunto in tredici mss. completi, attestanti per lo meno quattro diverse traduzioni di un leggendario ma del tutto ignoto originale piccardo, forse già tradotto dalla stessa Margherita in latino), il fatto che comunque è attestata l’esistenza di proseliti della beghina, come vedremo nel secondo momento della sua avventura giudiziaria, possono far pensare che Margherita fosse un personaggio di spicco del movimento del Libero Spirito.

Il processo. Margherita non solo aveva continuato a diffondere il suo libro negli anni successivi alla prima condanna, ma addirittura aveva presentato il Miroir a Giovanni di Chateau-Villain, vescovo di Chalons-sur-Marne, forte del fatto che nel frattempo aveva ottenuto l’approbatio di tre religiosi, presente solo nelle antiche traduzioni latina e italiana. I tre religiosi sono: un certo “frater minor magni nominis, vitae et sanctitatis, qui frater Johannes vocabatur”, presumibilmente (come suggerisce R. Guarnieri) Giovanni Duns Scoto, Dom Franco di Villers, monaco cisterciense appartenente all’abbazia di Villers, della cui biblioteca Margherita era probabilmente frequentatrice; il magister in theologia Goffredo di Fontaines. Giovanni di Chateau-Villain, nonostante il Miroir avesse ottenuto l’approbatio dei tre chierici, denunciò il fatto a Filippo di Marigny, amico del re Filippo il Bello, invischiato nel processo dei Templari, il quale, nel frattempo, era divenuto vescovo di Cambrai.
Margherita venne consegnata nelle mani del Grande Inquisitore di Francia, a Parigi, nel 1308. La Porete non presta giuramento di lealtà, e addirittura l’Inquisitore tenterà per più di un anno e mezzo di far parlare Margherita che non mostra alcun segno di cedimento. Il processo di Margherita è strettamente legato a quello di Guiard de Cressonessart, un begardo della diocesi di Beauvais, che si definiva l’Angelo di Filadelfia ed era legato al movimento gioachimita. L'Inquisitore Guglielmo di Parigi tentò in ogni modo di concludere il processo con l’abiura della beghina, ma infine fu costretto a consultare ventuno teologi dell’Università di Parigi per fornire un fondamento credibile all’accusa di eresia. Fra questi ventuno teologi nove si erano già espressi nel processo ai Templari e sei saranno protagonisti del Concilio di Vienne (1311-1312), con cui si sancirà la condanna di beghine e begardi. Nella condanna è riportato il testo di due delle quindici proposizioni che i teologi estrapolarono dal testo e indicarono come eretiche. Una terza proposizione è riportata dall’anonimo continuatore del Chronicon di Guglielmo di Nangis. Dopo il giudizio dei teologi, Margherita ebbe, secondo la prassi, un anno per pentirsi, che trascorse all’interno del convento parigino di Saint-Jacques. Mentre Guiard de Cressonessart confessò e fu condannato al carcere a vita, Margherita perseverò nel suo silenzio e fu condannata al rogo il 31 maggio 1310; la sentenza fu eseguita il 1 giugno 1310. La Porete andò al rogo mostrando segni tanto grandi della propria dignità da commuovere fino alle lacrime molti dei presenti.

(Università di Siena - Manuale di Filosofia on-line)


E' una donna particolare ...che ha portato via molto del mio tempo nei miei studi medievali....Dedicato All' Amato Bardo perchè rientri a riempire queste stanze.....

Altea
24-03-2015, 18.26.46
Beh, potreste farlo, in modo che, quando il Buon Bardo farà ritorno in questi luoghi, potrà vedere, secondo me con vero piacere, che qualcuno ha portato avanti il suo messaggio.

A dire il vero..potrei metterla ma io avrei voluto il "suo" sapiente calamaio mi facesse conoscere di più di tale donna...aspetterò il suo ritorno quando vorrà.

Galgan
25-03-2015, 00.50.49
E' una donna particolare ...che ha portato via molto del mio tempo nei miei studi medievali....Dedicato All' Amato Bardo perchè rientri a riempire queste stanze.....

In effetti, è una figura complessa; grazie per averla portata alla luce.
Condivido poi la speranza di un ritorno di lord Taliesin.

Altea
26-03-2015, 16.50.49
Beata Ludovica Albertoni

Della beata Ludovica degli Albertoni, esiste una pregevolissima statua, opera tutta di sue mani, del grande scultore Gian Lorenzo Bernini, che la raffigura coricata in estasi e posta sul suo sepolcro nella chiesa di S. Francesco a Ripa in Roma; questa bellissima scultura perpetua attraverso la storia dell’arte e del flusso turistico specializzato, la figura della beata romana.
Ludovica nacque nel 1474 a Roma dalla nobile famiglia degli Albertoni, orfana del padre in tenera età, fu allevata dalla nonna materna e da alcune zie, perché la madre si era risposata.
A venti anni, contro i suoi desideri, fu data in sposa al nobile Giacomo della Cetera, che comunque amò devotamente e dal quale ebbe tre figlie. Nel 1506 a 32 anni, rimase vedova ed allora entrò nel Terz’Ordine Francescano, prendendo a vivere una vita tutta dedicata alla preghiera, meditazione, penitenza e opere di misericordia, come quelle di dare una dote per maritare le ragazze povere e la visita ai poveri ammalati nei loro miseri tuguri.
Con la sua generosità diede fondo a tutti i suoi beni, fra la contrarietà dei parenti per tanta liberalità. Il Signore le diede il dono dell’estasi, che all’epoca dovevano essere molto note, se dopo la sua morte, avvenuta il 31 gennaio 1533, lo scultore Bernini la raffigura proprio nell’atto di una estasi.
La beata Ludovica ebbe subito un culto pubblico dopo la morte, culto che fu definitivamente confermato da papa Clemente X il 28 gennaio 1671.
Una ricognizione delle reliquie fu fatta il 17 gennaio 1674 quando le sue spoglie furono deposte nel magnifico sepolcro marmoreo di S. Francesco a Ripa, dove sono tuttora.

tratto dal sito "Santi e beati"

Autore: Antonio Borrelli

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Galgan
27-03-2015, 01.05.10
L'avidità, e l'accumulare beni materiali, visti come principi da mettere completamente in discussione, a favore della generosità e del coraggio (niente affatto scontato) di aiutare il prossimo.
Davvero notevole, lady Altea.

Taliesin
03-04-2015, 16.49.22
“E' una donna particolare ...che ha portato via molto del mio tempo nei miei studi medievali....Dedicato All' Amato Bardo perchè rientri a riempire queste stanze...”.

“E qual è mai una terra così priva di Te
che Ti si debba cercare in cielo?
In pubblico li vedi che Ti guardano,
ma non Ti scorgono perché sono ciechi.”
(tratto da: “Lo Specchio delle Anime Semplici”di Margherita Porete)

Si narra che nel momento in cui il Fuoco coprì con il suo manto scarlatto le morbide spalle di Margherita, una folla mormorante nella preghiera e nella frustrazione, satura di civilissime cariche ecclesiastiche, rappresentanti reali, nobili e contadini, miseri e straccioni, si inchinasse di fronte al rogo poiché, dietro quella torcia di morte, apparve Cristo inchiodato sul legno della Croce discendere dal supplizio e prendere in braccio il corpo della sventurata per portarla fuori da quell’inferno che gli uomini avevano apparecchiato per lavarsi la coscienza dalle parole di un libro.

Grazie Madonna Elisabetta…
Per avere riportato nell’attualità di questo tempo scellerato di inquisiti ed inquisitori questa mia “Donna nel Medioevo”, già narrata nel mese delle ciliegie dell’anno di grazia duemilatredici, ma rinfrescata dalla vostra straziante umanità di Donna, Scienziata e Guerriera.
Oggi, nella Sua Passione, il Bardo è tornato.

Si narra che quando il Bernini mosse il primo colpo di scalpello sul pregiatissimo marmo bianco proveniente dal cuore delle Apuane, una luce surreale entrasse dal vicino finestrone che sovrastava il vuoto triclino e proprio sul punto in cui l’intersecazione dello strumento si abbraccia alla durezza della pietra, accidentalmente l’artista sfiorò il pollice della sua mano sinistra, procurandosi una piccola abrasione che fece sortire un piccolo rivolo di sangue rosso rubino. In quel preciso istante fu come vedere di fronte ai suoi occhi increduli vedere realizzato il momento sublime del trapasso della Santa, come se quella pietra marmorea contenesse da sempre il suo corpo e aspettasse, in rispettoso e secolare silenzio, di essere svelata al mondo intero…

Grazie Milady Altea…
per avere preservato, con amorevole cura e innata devozione, dalle intemperie di passaggio e dai furiosi elementi di questo tempo inquieto, le mie “Donne nel Medioevo”.
Oggi, nella Sua Passione, il Bardo è tornato…

Grazie Cavaliere Galgano…
per avere saputo reggere il peso del mio Seggio Periglioso, accarezzando il cuore di quelle Fanciulle e di quegli Uomini che altrimenti si sarebbero smarriti nella leggenda del mio nome, mentre altri, infanti viaggiatori di novelli viaggi, avrebbero pensato, senza i vostri scritti in mio ricordo, che il Bardo, come il suo Re d’Inverno, non fosse mai esistito…
Oggi, nella Sua Passione, il Bardo è tornato.

Taliesin, il Bardo

Altea
03-04-2015, 17.08.39
Quale mistero divino deve aver avuto quel marmo per divenire poi immagine di pura devozione...grazie Sir Taliesin.

Lady Gwen
03-04-2015, 19.58.20
Grazie per averci resi partecipi di questa sublime, seppur tangibile, epifania, caro Bardo :)

Galgan
04-04-2015, 00.10.13
Grazie principalmente di essere quello che siete, lord Taliesin.

elisabeth
04-04-2015, 20.53.03
E' un periodo di rinascita questo........stasera avverrà ancora quel Miracolo che e' la nuova vita.......

Amato Bardo....e' vero quando voi avete scritto di Margherita per uno strano legame di studi appresi di lei proprio da voi.....e ho approfondito la conoscenza di questa Donna..........Mi avete fatto perdere il sonno per Lei......

Vi ringrazio...di essere tornato ad accoglierci in queste vostre stanze.....

Taliesin
09-04-2015, 08.54.41
I VELENI DEL RINASCIMENTO FIORENTINO: LA STORIA DI BIANCA CAPPELLO.

Bianca nacque Venezia nel 1548 dal potente Bartolomeo e da Pellegrina Morosini.
A soli quindici anni sposò il fiorentino Pietro Bonaventuri, dipendente del Banco dei Salviati: le nozze riparatrici furono officiate dopo una romantica fuga, quando ella, abbagliata dalla presunta ricchezza dell’uomo, gli aveva già affidato i prestigiosi gioielli dotali.
L’ignara famiglia sollecitò il Governo della Repubblica a esigerne il rimpatrio forzato, ma il Granduca Cosimo I si oppose alla richiesta ed ella restò a Firenze.
Era già madre della piccola Virginia, quando conobbe Francesco de’ Medici, di fatto asceso al soglio ducale per abdicazione paterna.
Nel gennaio del 1565, pur avendo contratto matrimonio dinastico con la sgraziata arciDuchessa Giovanna d’Austria, figlia dell’imperatore Ferdinando I, si innamorò perdutamente della avvenente Veneziana.
Entrambi condivisero l’infelicità del reciproco disagio coniugale e, se egli visse la frustrazione d’aver avuto sei figlie femmine e non l’agognato erede, ella era delusa dalla modestia del tenore di vita offertole dal marito.
La relazione divenne importante: gioielli, abiti e l’assunzione di Bianca tra le Dame di Corte rimossero anche le remore del Bonaventuri che, assunto come dipendente del Granducato e compensato dalla raffinata dimora contigua a Palazzo Itti e donata dal Duca all’amata, nel 1572 fu assassinato a margine di una misteriosa rissa.
Francesco non fu ritenuto estraneo al fatto di sangue, ma le voci si attenuarono quando, nel 1574, morto il padre, egli s’insediò ufficialmente nella carica granducale.
Tre anni dopo, Giovanna mise al mondo l’atteso figlio maschio Filippo che, a soli otto anni, sarebbe poi mancato.
Quella nascita fece vacillare la posizione di Bianca: disprezzata dai Fiorentini e duramente osteggiata dal potente cognato Cardinale Ferdinando, ella era ben consapevole che, in mancanza di un erede e in conseguenza della eventuale morte di Francesco, sarebbe stata bandita dalla Corte.
Ricorse, pertanto ad un espediente: con una falsa gravidanza, tentò di far passare un neonato come frutto della relazione sentimentale col Duca.
Il bambino: Antonio, in effetti era stato messo al mondo proprio da una scappatella del Duca con una serva.
La sua reale origine non fu mai chiarita e fu oggetto di fitte maldicenze.
Sta di fatto che, volendolo escludere dalla successione, malgrado Francesco lo avesse legittimato come figlio il 19 ottobre del 1583, Ferdinando lo fece passare per illegittimo e gli cedette, in cambio della rinuncia a qualsiasi rivendicazione, un appannaggio mensile e numerosi possedimenti terrieri.
Nel 1578, intanto, a causa di una caduta, era deceduta Giovanna d'Austria.
Bianca ed il Duca, già segretamente sposati, ufficializzarono il loro legame il 10 giugno del 1579.
La loro storia, tuttavia, si concluse tragicamente: la sera dell’8 ottobre del 1587, dopo una battuta di caccia col Cardinale Ferdinando e una cena alla villa di Poggio a Caiano, furono entrambi colpiti da vomiti e altissime febbri.
Si volle che fossero stati avvelenati proprio dal Porporato che, amante della bella vita ed avido di potere, in quel periodo egli aveva perso la testa per Clelia Farnese e aspirava a ricoprire il ruolo di Granduca.
Francesco e Bianca morirono dopo undici giorni di agonia, a distanza di sole dieci ore l’uno dall’altra e senza che l'uno conoscesse la sorte dell'altro.
Ferdinando ascese al trono toscano e negò alla cognata, definita la pessima Bianca, la sepoltura accanto al legittimo consorte e nelle tombe medicee.
Quattro Docenti dell'Università di Firenze hanno recentemente analizzato frammenti del fegato delle vittime, custodito nella chiesa di Santa Maria a Bonistallo assieme alle loro viscere.
Sono state rinvenute tracce di arsenico in quantità letale.

Taliesin, il Bardo
Tratto da:

D. Lippi: Illacrimate sepolture. Curiosità e ricerca scientifica nella storia delle riesumazioni dei Medici

G. Fornaciari, R. Bianucci: Francesco e Bianca: non fu arsenico - Ecco le prove!

Lady Gwen
09-04-2015, 14.15.58
Intensa e struggente questa storia... come tutte le storie che si concludono in tragedia a causa del potere... grazie per questa ennesima perla, Bardo :smile: e` sempre un piacere conoscere la vita di queste fantastiche, seppur sfortunate, donne :)

Altea
09-04-2015, 14.53.53
Una storia avvincente, misteriosa e struggente...grazie sir Taliesin per avermi narrato la storia di una donna nata proprio vicino la mia terra e che approdò nella città gigliata..una città che ritengo mi abbia adottata.
E chissà se fosse stato arsenico..

Taliesin
09-04-2015, 15.54.56
Grazie Lady Altea per il vostro pensiero nei confronti di una città da me particolarmente amata, spesso come Madre, Sposa ed Amante...

Grazie Lady Gwen per il vostro sensibile pensiero nei confronti di un'altra fortunata "principesssa della storia", come una sorta di perla appesa al crepuscolo di miolioni di perle mai dimenticate...

Dovete sapere che negli anni verdi della mia vita, in un tempo sciocco e spavaldo, ho studiato a lungo la storicità della vicenda spesso infangata e riabilitata dalle convenienti ed ingombranti politiche fiorentine di passaggio...Grazie al mio Apprendista, in qauesto tempo razionale e perfettamente allineato alle tecnologie, voglio narrarvi il suo forse ultimo epilogo...

di Gino Fornaciari e Raffaella Bianucci
Straordinari risultati di una ricerca sui resti del granduca di Toscana: la presenza di Plasmodium falciparum (l’agente della malaria perniciosa) conferma le fonti secondo cui Francesco de' Medici morì di febbre malarica e manda in soffitta la lunga storia dell'avvelenamento
L’ipotesi dell'avvelenamento da arsenico di Francesco I de’ Medici (Firenze 1541 - Poggio a Caiano 1587) e della moglie Bianca Cappello da parte del fratello Ferdinando, cardinale e suo successore al Granducato di Toscana, è stata riproposta tempo fa in un articolo scientifico (Mari F. e coll., The mysterious death of Francesco I de’ Medici and Bianca Cappello: an arsenic murder? «British Medicai Journal, 2006, n. 333), ripreso trionfalmente dai media, e successivamente in ben due vo­lumi a carattere divulgativo (Ma­ri E, Bertol E., Polettini A., La mor­te di Francesco I de' Medici e della sua sposa Bianca Cappello, Le lette­re, Firenze 2007; Ferri M., Lippi D., I Medici. La dinastia dei misteri, Giunti, Firenze 2007). Del pro­blema si occupò anche Archeologia Viva con un'ampia inchiesta (Be­cattini M., Francesco e Bianca: arse­nico e vecchi merletti, AV n.123). In sintesi, i tossicologi Francesco Ma­ri, Elisabetta Berto!, 1}ldo Poletti­ni e la storica della medicina Do­natella Lippi hanno sostenuto di avere le prove dell' avvelenamento. L'ipotesi era basata su analisi con­dotte su alcune formazioni pilife­re ritrovate sull' osso mascellare di Francesco I (i cui resti sono stati riesumati nel 2004 da Gino For­naciari nell'ambito del "Progetto Medici") e su due campioni bio­logici rinvenuti all'interno di un sacello pavimentale della chiesa di S. Maria a Buonistallo, parroc­chiale della villa medicea di Pog­gio a Caiano (Po), dove - secon­do un documento di archivio - fu­rono portati dopo l'autopsia i va­si con le viscere di Francesco I e Bianca Cappello (ricordiamo qui che il corpo di Francesco fu se­polto nella basilica di San Loren­zo a Firenze, mentre il cadavere di Bianca non è mai stato ritrovato). I reperti biologici di Buonistallo, interpretati come frammenti di fegato umano appartenenti a in­dividui di sesso opposto, sono stati attribuiti ai due coniugi an­che grazie alla presenza, nella crip­ta, di frammenti ceramici e di due crocifissi bronzei ritenuti tardo­cinquecenteschi (ma risultati poi del Settecento e dell'Ottocento).
Azzardata dimostrazione di un delitto.
Una prima conside­razione a proposito di questi fortunosi ritrovamenti nella chiesa di S. Maria a Buonistallo è che la cripta, dove nei secoli sono stati collocati centinaia di corpi, non è stata scavata con tecniche ar­cheologiche; inoltre - come di­chiarano gli Autori dello studio ­il recupero dei frammenti di vasi e del materiale organico fu effet­tuato direttamente dai muratori... Ciononostante, gli stessi Autori hanno sostenuto che l’ipotesi dell’avvelenamento poteva essere non solo plausibile, ma anche dimo­strabile. L'analisi chimica ha in­fatti rivelato la presenza, in que­sti resti, di arsenico in dosi tossi­che; al tempo stesso i ricercatori fiorentini affermano - senza pe­raltro rendere nota né la metodologia né i dati molecolari ottenu­ti - che il DNA di uno dei due campioni organici sarebbe compatibile con quello delle formazioni pilifere ritrovate in corrispondenza del mascellare di Francesco I, nella cassetta di zinco dove le ossa del granduca erano state rideposte nel 1955 al termine dello studio antropologico effettuato da Gaetano Pieraccini e Giuseppe Genna. È un dato di fatto però che nella cassetta di zinco di Francesco I, riaperta nel 2004, non c'era traccia di materiali organici, né di cute né di barba, ma solo resti dei tessili che avvolgevano le ossa, peraltro accuratamente ripulite dagli antropologi degli anni Cinquanta per effettuare lo studio antropologico e per ricavare un calco in gesso del cranio del granduca. Quindi appare assai plausibile che il DNA ritrovato - e confrontato con quello dei resti organici della chiesa di Buonistallo non sia il DNA originale di Francesco l, ma sia dovuto - come succede spesso in laboratori non dedicati allo studio del DNA antico - a inquinamento da DNA moderno. Quanto alla presenza di arsenico, era consuetudine dopo l'autopsia trattare i visceri asportati con composti arsenicali, per favorirne la conservazione. In conclusione, già al momento della pubblicazione del lavoro sull'avvelenamento di Francesco I e Bianca Cappello permanevano forti dubbi sull’attendibilità dei risultati (Fornaciari G., The mystery of beard hairs, British Medical Journal, 2006, n. 333).
L’agonia dei granduchi.
La documentazione lasciataci dai medici di corte Pietro Cappelli, Giulio Cini e Baccio Baldini (gli archiatri che assistettero Francesco I) riporta il decorso della malattia. Nei giorni 6, 7 e 8 ottobre 1587 il granduca si strapazzò moltissimo andando a caccia nella tenuta circostante la sua villa di Poggio a Caiano, un’area agricola coltivata a risaia, ambiente malarico per eccellenza. La sera dell’8 Francesco si sentì male: febbre violenta accompagnata da vomito incoercibile, seguiti da insonnia e irrequietezza. La febbre persistette tutto il giorno 9 innalzandosi verso sera. Il 10 i medici diagnosticano una febbre malarica terzana, pertanto Francesco viene sottoposto a un primo salasso. Nella notte tra il 10 e l’11 il granduca si sentì meglio e riprese le sue attività. Il 12, 13 e 14 ottobre Francesco fu nuovamente in preda a violenti brividi causati da febbre elevata, cui si accompagnò un'intensa sudorazione per tutta la notte. Le sue condizioni migliorarono leggermente il giorno dopo. Il 16 e 17 ottobre il granduca si aggravò: ancora febbre alta, sudorazione profusa, vomito incoercibile, secchezza delle fauci, stitichezza e irrequietezza crescente. Miglioramento il 18 e gli vengono praticati due salassi. La mattina del 19 ottobre Francesco I si confessò e dettò le ultime volontà; nel pomeriggio la febbre s'innalzò di nuovo, accompagnata da grande irrequietezza, cui seguirono una forte astenia e la perdita di coscienza due ore prima della morte. Correva l'anno 1587 e Francesco aveva 46 anni. Quasi in contemporanea si era ammalata anche Bianca Cappello e i medici di corte, seppur in modo meno dettagliato, ne descrivono la malattia come molto simile a quella del coniuge: la stessa notte del 9 ottobre la granduchessa si sentì male, colta da un violentissimo attacco di febbre, e da allora fu febbrile con una sintomatologia uguale a quella del marito. Morì il 20 ottobre 1587 a 39 anni.
Malaria o avvelenamento? Attenti ai sintomi.
I tossicologi fiorentini hanno sostenuto che la sintomatologia manifestata da Francesco I (vomito incoercibile, secchezza delle fauci, dolori e bruciori di stomaco, continua irrequietezza, ingrossamento del fegato, lesioni polmonari ed edema diffuso) è tipica dell' avvelenamento da arsenico e ben diversa da quella dell'infezione malarica. A questo proposito è opportuno sottolineare che, nelle popolazioni dei paesi dove la malaria persiste in forma endemica, l’insieme dei sintomi riferiti per la malattia di Francesco I è invece tipico della febbre malarica da Plasmodium falciparum. Infatti, uno degli apparati maggiormente colpiti durante l'attacco malarico acuto è proprio quello gastro-intestinale. Il vomito incoercibile, sempre accompagnato da stato febbrile, è il sintomo principale, solitamente con una frequenza elevata all'insorgere della malattia. La conseguente perdita di liquidi e di elettroliti causa una disidratazione accompagnata da secchezza delle fauci e conduce, infine, al collasso cardio-circolatorio. La malaria acuta, accompagnata o meno dalla sintomatologia gastro-enterica, include anche edema polmonare nonché disturbi di tipo neurologico quali agitazione, turbe del comportamento e perdita di coscienza. Ebbene, l'ingestione orale di triossido di arsenico in elevate concentrazioni è certamente associata a sintomi gastro-intestinali (dolori gastritici acuti, salivazione abbondante, vomito, secchezza delle fauci, sete, difficoltà di parola, diarrea, tenesmo) e neurologici (convulsioni, turbe del comportamento, coma), ma attenzione: non è mai accompagnata da febbre. A parte il vomito incoercibile e la sete inestinguibile, Francesco I nella sua agonia durata undici giorni non manifestò nessun altro sintomo riconducibile ad avvelenamento acuto da arsenico.
Referti medici e voci di popolo.
Su richiesta del cardinale Ferdinando, i corpi di Francesco e Bianca furono sottoposti a esame autoptico e i medici confermarono che una forma perniciosa di malaria (terzana maligna) era stata la causa dell'improvviso e simultaneo decesso della coppia granducale. Tuttavia, subito dopo la morte dei due, cominciarono a diffondersi voci insistenti secondo cui Ferdinando avrebbe assassinato fratello e cognata con l'arsenico. Ma non mancarono altre versioni dell'accaduto. Addirittura si disse che Bianca avrebbe preparato una torta avvelenata da offrire al cognato Ferdinando: per sbaglio ne assaggiò anche Francesco e la donna, disperata, ne mangiò lei stessa per non sopravvivere al suo amato.
Fu il Plasmodium falcipamm il “killer” del granduca.
Recentemente, nel Laboratorio di Parassitologia della Facoltà di Medicina veterinaria dell'Università di Torino, estratti di campioni di osso spugnoso di Francesco I sono stati sottoposti ad analisi, per verificare la presenza di due proteine tipiche del Plasmodium falciparum, la proteina di tipo 2 ricca in istidina (P.f. HRP-2) e la lattato deidrogenasi (pLDH), usando due metodi qualitativi di determinazione tramite anticorpi a elevata sensibilità: il Malaria Antigen RAPYDTEST® e il MalariaDetect™ RAPYDTEST® (DiaSys, Connecticut, USA). Quest'ultimo test viene utilizzato per la diagnosi differenziale fra il P. falciparum e le altre tre specie di Plasmodium (P. vivax, P. ovale e P. malariae). I risultati hanno accertato la presenza della proteina di tipo 2 ricca in istidina di Plasmodium falciparum e della lattato deidrogenasi di P. falciparum non solo nel tessuto osseo spugnoso di Francesco I de’ Medici [MED11], ma anche in quello di altri tre membri della famiglia Medici, cioè il cardinale Giovanni [MED3], don Garzia [MED4] e la loro madre Eleonora di Toledo [MED5], deceduti per “febbre terzana” nel 1562 dopo un viaggio nella Maremma grossetana (Bianucci R. e coll., Immunological Identification of Plasmodium falciparum and Leishmania infantum in the skeletal remains of the Medici family, in Atti del XVIII congresso dell'Associazione Antropologica Italiana, Firenze, 1-4 ottobre 2009). Il Detect™ RAPYDTEST® non ha evidenziato la presenza d’infezioni non-falciparum o miste. Invece i campioni ossei di Cosimo I [MED6], deceduto per polmonite, e di Giovanna d'Austria [MED8], mona di parto, utilizzati come controllo interno, e due campioni esterni di controllo, di epoca medievale, provenienti da aree non malariche della Francia e della Germania, sono risultati negativi per l'infezione malarica.
Quattro secoli di falsità.
La teoria dell'avvelenamento da arsenico di Francesco I e Bianca Cappello ha suscitato un dibattito che dura da oltre quattro secoli. Due anni orsono, come abbiamo visto, lo studio effettuato dal professor Francesco Mari e colleghi aveva rilanciato !'ipotesi. I risultati della ricerca attuale, fornendo la prova sicura della presenza di proteine di Plasmodium falciparum nei resti scheletrici di Francesco I, confermano invece le fonti storiche, secondo le quali il granduca morì di malaria acuta. Ora la teoria dell'avvelenamento dovrà essere ricollocata fra le tante leggende che hanno circondato la dinastia granducale dei Medici, mentre il cardinale Ferdinando viene assolto da un'accusa infamante

Taliesin, il Bardo

elisabeth
09-04-2015, 20.33.18
Questo luogo non solo rifiorisce con questa stupenda storia nei suoi tratti piu' disparati.......Amore.....abbandono intrigo......Ma..sorpresa delle sorprese, mi ritrovo in un vero e proprio laboratorio dove la medicina ne fa da padrona.....e ancora una volta...scienza ...e storia...ne diventano il fulcro il fulcro di due anime che anno vissuto una gioia grande come una grande ed immensa sofferenza.......


Ben tornato...Amato Bardo.....

Galgan
10-04-2015, 01.28.57
Scienza, storia, amore, tradimento, infamia....Spesso sono i volti della medesima ametista, e il saperli rievocare tutti è un dono del Padre.
A voi il compito di narrare, buon Taliesin, a noi il dovere, e il piacere, di carpire, perché nulla venga condannato all'oblio.

Taliesin
23-04-2015, 13.04.21
Amata Elisabetta...
nessun fiore potrebbe rifiorire nella serra dei ricordi e delle emozioni se una mano angelica non ponesse, assieme al calore del suo sole, gocce di rugiada che cadono dagli occhi cristallizzati...

Cavaliere Galgano...
anche in voi è presente quel Padre

Taliesin, il Bardo

Taliesin
23-04-2015, 13.07.40
IL PATRONO DEI TROVATORI: MARIA DE VENTADORN

Maria era una di las tres de Torena, "tre Turenne", le tre figlie di visconte Raimondo II di Turenne e di Elise de Séverac. Questi tre, secondo Bertran de Born, possedeva tota beltat terrena, "tutte le bellezze terrene". La sua data di nascita è incerta; lei forse morì nel 1222. Il suo nome è variamente registrata come Marie de Turenne e Marguerite de Turenne. Ha sposato visconte Eble V di Ventadour; avevano un figlio, Eble, che sposò Dauphine de la Tour d'Auvergne, e una figlia, Alix o Alasia.

Il marito di Maria era la nipote di Eble III, e la pronipote di Eble Il cantante, che si ritiene sia stato tra i creatori del genere. Maria è rivolta, o almeno accennato, nel lavoro di diversi trovatori tra cui Gaucelm Faidit, il Monaco di Montaudon, Gausbert de Puicibot, Pons de Capduoill, Guiraut de Calanso, Bertran de Born e Gui d'Ussel. Secondo un commento poetico incluso nelle Biografie des Troubadours, Hugh IX di Lusignano era "cavaliere" di Maria.

Maria de Ventadorn è elencato come trobairitz nel suo pieno diritto sulla forza di un singolo Tenso o dibattito poetico, di cui versi alternativi erano apparentemente composte da lei e da Gui d'Ussel. La questione oggetto del dibattito è stato questo: una volta che un uomo è riuscito a sua richiesta per essere accettato come amante di una donna, egli torna ad essere suo pari, o se egli rimane il suo servo? Maria prende quest'ultimo punto di vista.

Taliesin, il Bardo

Taliesin
23-04-2015, 15.12.13
IL TORMENTO E L’ESTASI: CHIARA DA MONTEFALCO.

Seconda figlia di Damiano e di Giacoma, Chiara nacque a Montefalco, in provincia di Perugia, nel 1268. Presa d'amor divino, fin dall'età di quattro anni mostrò una così forte inclinazione all'esercizio della preghiera da trascorrere intere ore immersa nell'orazione, ritirata nei luoghi più riposti della casa paterna. Sin da allora ella ebbe anche una profonda devozione per la Passione di Nostro Signore e la sola vista di un Crocifisso era per lei come un monito di continua mortificazione, a cui si abbandonava volentieri infliggendo al corpo innocente le più dure macerazioni con dolorosi cilici, tanto che sembrava quasi incredibile che una bimba di sei anni potesse avere non già il pensiero, ma la forza di sopportarne il tormento.

Consacratasi interamente a Dio, Chiara volle seguire l'esempio della sorella Giovanna, chiedendo di entrare nel locale reclusorio, dove fu accolta nel 1275. La santità della piccola e le elette virtù di Giovanna fecero accorrere nel reclusorio di Montefalco sempre nuove aspiranti, per cui ben presto si dovette intraprendere la costruzione di uno più grande che, cominciata nel 1282, si protrasse per otto anni tra opposizioni, contrasti e difficoltà di varia natura. A causa delle ristrettezze finanziarie, per qualche tempo durante i lavori Chiara fu incaricata anche di andare alla questua. Nel 1290, allorchè il nuovo reclusorio fu terminato, si pensò che sarebbe stato più opportuno fosse eretto un monastero, affinché la comunità potesse entrare a far parte di qualche religione approvata. Giovanna ne interessò il vescovo Gerardo Artesino che, con decreto del 10 giugno 1290, riconobbe la nuova famiglia religiosa, dando ad essa la regola di s. Agostino e autorizzando in pari tempo l'accettazione di novizie. Il novello monastero fu chiamato "della Croce", su proposta della stessa Giovanna, che ne venne subito eletta badessa.

Alla morte della sorella (22 novembre 1291), Chiara fu chiamata immediatamente a succederle nella carica, contro la sua volontà e nonostante la giovane età. Durante il suo governo, che esercitò sempre con illuminata fermezza, seppe tenere sempre vivo nella comunità, con la parola e con l'esempio, un gran desiderio di perfezione. Ebbe da Dio singolari grazie mistiche, come visioni ed estasi, e doni soprannaturali che profuse dentro e fuori il monastero, venendo,- inoltre, favorita dal Signore col dono della scienza infusa, per cui poté offrire dotte soluzioni alle più ardue questioni propostele da teologi, filosofi e letterati. Alla sua pronta azione, si deve poi la scoperta e l'eliminazione, tra la fine del 1306 e gli inizi del 1307, di una setta eretica chiamata dello "Spirito di libertà", che andava diffondendo per tutta l'Umbria errori quietistici.


Tanta era la fama di sé e delle sue virtù suscitata in vita da Chiara che subito dopo la morte, avvenuta nel suo monastero della Croce in Montefalco il 17 agosto 1308, fu venerata come santa.


Una tradizione leggendaria, fondata su una accesa pietà e su una ingenua nozione dell'anatomia, riferisce che nel cuore di Chiara, di eccezionali dimensioni, si credette di scorgere i simboli della Passione: il Crocifisso, il flagello, la colonna, la corona di spine, i tre chiodi e la lancia, la canna con la spugna. Inoltre nella cistifellea della santa si sarebbero riconosciuti tre globi di uguali dimensioni, peso e colore, disposti in forma di triangolo, come un simbolo della S.ma Trinità.


Erano trascorsi solo dieci mesi dalla morte di Chiara, quando il vescovo di Spoleto, Pietro Paolo Trinci, ordinò il 18 giugno 1309 di iniziare il processo informativo sulla sua vita e sulle virtù; poiché, però, avvenivano sempre nuovi miracoli e aumentava la devozione per la pia suora di Montefalco, molti fecero viva istanza presso la S. Sede per la canonizzazione di Chiara; procuratore della causa fu Berengario di S. Africano, che a tal fine si recò nel 1316 ad Avignone da Giovanni XXII, il quale deputò il cardinale Napoleone Orsini, legato a Perugia, a informarsi e riferire. Il nuovo processo, cominciato il 6 settembre 1318 e dal quale sarebbe dipesa certamente la canonizzazione di Chiara, per cause del tutto esterne non poté tuttavia aver seguito. Fu solo nel 1624 che Urbano VIII concesse, dapprima all'Ordine (14 agosto), poi alla diocesi di Spoleto (28 settembre), di recitare l'Ufficio e la Messa con preghiera propria in onore di Chiara, il cui nome Clemente X fece inserire, il 19 aprile 1673, nel Martirologio Romano. Nel 1736, Clemente XII ordinò la ripresa della causa e l'anno seguente la S. Congregazione dei Riti approvò il culto ab-immemorabili; nel 1738, fu istruito il nuovo processo apostolico sulle virtù e i miracoli, ratificato dalla S. Congregazione dei Riti il 17 settembre 1743. In tal modo si poteva procedere all'approvazione delle virtù eroiche, che si ebbe, tuttavia, solo un secolo più tardi, dopo un ulteriore processo apostolico, incominciato il 22 ottobre 1850, conclusosi il 21 novembre 1851 e approvato dalla S. Congregazione dei Riti il 25 settembre 1852; solo l'8 dicembre 1881, però, la beata Chiara da Montefalco fu solennemente canonizzata da Leone XIII.
Il 17 agosto si commemora la santa, mentre il 30 ottobre si celebra la festa "Impressio Crucifixi in corde s. Clarae".

Taliesin, il Bardo

Tratto da www.santiebeati.it

elisabeth
23-04-2015, 15.42.05
E queste pagine ritornano a ricoprire le manchevolezze della mia conoscenza......molto spesso l'ignoranza ci rende ciechi......ma grazie alla Vostra costanza Amato Bardo......anche quando nessuno di noi si accorge che state facendo qualcosa per donarci attimi del vostro tempo,siete lì'......pronto a portare alla luce quelle Donne che hanno costruito la "superbia" delle Donne del nuovo secolo.......

Altea
23-04-2015, 17.49.18
Maria de Ventadorn..affascinata da questo personaggio..ora conosciuto tramite voi..e io adoro la conoscenza nuova..e sto pensando al quesito ultimo... "una volta che un uomo è riuscito a sua richiesta per essere accettato come amante di una donna, egli torna ad essere suo pari, o se egli rimane il suo servo?". La risposta di Maria de Ventadorn è audace per quei tempi..è pari un servo...io mi sento di dire..donna di oggi..egli torna ad essere suo pari.